I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana

Testimonianze
Ricordi, riflessioni, poesie




Ricordi di San Ginesio

70 ANNI FA, nel gennaio del 1944, non avevo ancora compiuto 10 anni e vivevo a San Ginesio con mia madre, i miei fratelli e, nascosto, un ragazzo ebreo polacco; mio padre era stato fatto prigioniero a Milano dai fascisti...
Quel giorno il paese era stato occupato dai partigiani che numerosi giravano tra i cumuli di neve della piazza principale dove c’era la sede dell’ammasso annonario: alcuni di loro distribuivano gratuitamente il frumento alla popolazione, altri assistevano tenendo il mitra a tracolla o parlavano con la gente. Un partigiano slavo, che a noi bambini sembrava un po’ anziano, un tipo piuttosto burbero, cercava di forzare prendendola a calci la porta del campanile per salire fino alla cella campanaria.
I partigiani non avevano una propria divisa, alcuni vestivano dei capi di abiti d’origine militare, i polpacci erano ricoperti da calzettoni di lana confezionati grossolanamente e ai piedi portavano delle grosse scarpe. L’atmosfera in paese era quasi festosa e a ciò naturalmente contribuiva la inaspettata distribuzione del frumento.
Nella notte seguente, appena fuori della principale porta medievale del paese arrivarono i fascisti e ci fu una battaglia: i fascisti furono respinti ma morirono due partigiani ex prigionieri montenegrini; un partigiano del paese fu ferito gravemente (morì nell’ospedale del paese dopo alcuni giorni di agonia assistito da dei compagni).

Alla mattina dopo – una bellissima giornata senza nuvole e con il cielo azzurro – in paese non si vedevano per le strade né partigiani né fascisti, ma solo paesani (uomini e donne, ragazzi e bambini) che come in pellegrinaggio si recavano a vedere i morti. Un partigiano giovane giaceva disteso supino sotto un alto albero: un proiettile lo aveva colpito al cuore e una piccola macchia di sangue cerchiava l’orlo del foro che aveva sul petto. Aveva il viso sereno, l’espressione quasi sorpresa, gli occhi celesti di un colore intenso, aperti e fissi a guardare il cielo. Il corpo dell’altro partigiano, un uomo più anziano, era stato trasportato prima di morire sul pavimento di una stalla della casa mezzadrile che allora sorgeva fuori porta; lo donne lo avevano ripulito e ricomposto dopo la breve agonia; qualche macchia di sangue si vedeva sulle vesti. Noi bambini riconoscemmo l’uomo anziano: era quello che il giorno prima voleva salire sul campanile.
Fu la prima volta che vidi delle persone morte, e le loro espressioni, soprattutto quella del giovane, le ho ancora presenti nella mia memoria.
In seguito morì in ospedale il partigiano italiano e dopo che si erano allontanati gli ultimi partigiani, arrivarono i fascisti. Non erano ancora le otto, noi ragazzi attendevamo mia madre che era andata a procurarsi un po’ di colazione al bar: ad un tratto sentimmo a breve distanza di tempo tre spari: avemmo paura. Sapemmo dopo che i fascisti avevano ucciso il sacrestano della chiesa di San Francesco, un buon uomo, una persona semplice che aveva il difetto di camminare goffamente, col bavero del cappotto grigio rialzato, cercando di non cadere per la neve.
La giornata era grigia, e c’era in tutti un sentimento di tristezza e di paura.
I montenegrini si chiamavano Zubo (il più anziano) e Gioco; il partigiano italiano Italo mentre il sacrestano aveva nome Giulio.
Guardano l’altro giorno una vecchia cartolina di quella parte di San Ginesio, ora profondamente trasformata, mi è ritornato in mente l’episodio.

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Questa qui riprodotta è una cartolina dei primi anni Cinquanta, con la veduta della casa rurale - del mezzadro Scarficcia - nella cui stalla fu portato il partigiano slavo Zubo Banascevic ferito nella battaglia dell’11 gennaio 1944; dopo breve agonia il partigiano morì e il corpo fu ricomposto dai contadini e da altri partigiani e portato in un locale al piano terra; per tutto il giorno la casa, e il vicino viale alberato in cui fu ucciso l’altro partigiano slavo, furono meta di pellegrinaggio della popolazione ginesina.
La zona a partire dagli anni ’60 ha mutato aspetto e al posto degli edifici rurali sorgono delle residenze private.

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Questa è una immagine del luogo dove si svolse la battaglia dell'11 gennaio 1944 tra i partigiani e i fascisti; all'epoca (primi anni '50) c'era ancora l'albero ai piedi del quale giaceva il corpo del partigiano Gioco: è l'albero più alto che si trova quasi al centro della riproduzione fotografica.

In merito a quanto riportato da Mari (la cui sorella a San Ginesio è stata mia insegnante quando per la prima vota ricordai per iscritto l'avvenimento) confermo che c'era il figlio di Radovanović, Aleksa, di soli 18 anni ma già noto per il suo coraggio e la gente per questo lo indicava e ne parlava. Anche Aleksa ha partecipato alla battaglia.
Ci fu però un solo morto italiano, il ginesino Italo Starnoni appostato con la mitragliatrice a lato della porta Picena; fu colpito da una raffica di mitragliatrice al ventre, la sua agonia fu molto dolorosa.
Un secondo morto ci fu quando i fascisti occuparono giorni dopo il paese: un mio vicino di casa che nulla aveva a fare con i partigiani.
Questo almeno è quello che ricordo.


Ettore Aulisio
dicembre 2013 - marzo 2014

(fonte: pagina FB della Sezione ANPI Sarnano)


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Su quei fatti si veda al Cap.5




Incontro in montagna

Durante la guerra ho conosciuto un partigiano jugoslavo a Monte Mercole [presso Upacchi di Anghiari (AR)], dove  tutta la famiglia era scappata per sfuggire ai fascisti e ai tedeschi. Eravamo in mezzo ai partigiani, in una zona “libera”. Ma durò poco. Arrivarono i tedeschi anche lì  e ricominciammo a scappare.  I miei fratelli più grandi e lo zio Elio stravano sempre nascosti da qualche parte, invece io che ero poco più che un  bambino, andavo spesso in avanscoperta, a cercare rifugio per la notte presso contadini volenterosi, con il nonno Daniele (un signore anziano e  un bambino si sperava che non dessero nell’occhio ai tedeschi). In uno di questi giri nei boschi attorno a Monte Mercole, dal fitto del bosco uscì un giovanottone che imbracciava un mitra con quattro o cinque bombe a mano infilate nella cintura insieme a caricatori per la mitraglietta (sembrava proprio un bandito, come si vede nei film, a parte il fazzoletto rosso al collo) che ci apostrofò in un italiano approssimativo: “Italiani, italiani, visto todiezki?”. Il papà disse di no e gli spiegò in qualche modo dove i tedeschi si erano accampati,  non molto lontano da dove ci trovavamo in quel momento (in un casolare chiamato “La valle”). Ci disse che lui era jugoslavo e si accompagnò un po’ con noi. Volle sapere quanti tedeschi c’erano a “la Valle” e il nonno gli disse che ne avevamo visti cinque (in realtà non erano tedeschi, ma cecoslovacchi, arruolati con le truppe tedesche, con i quali avevamo avuto occasione di parlare, perché il loro ufficiale sapeva abbastanza bene l’italiano). Lo jugoslavo disse che aveva fame e che non trovava da mangiare.  Era aggregato a un gruppo di partigiani comunisti, che si erano dispersi, quando i tedeschi erano arrivati.  Fece un pezzetto di strada con noi, poi ci lasciò e sparì di nuovo nel bosco. Ogni tanto nel corso della vita mi sono domandato dove sarà andato a finire quel giovanottone che armato fino ai denti a me, ragazzino,  fece molta impressione. Si cerca di dare senso a tutto, ma il senso degli incontri unici ci sfugge. Una persona incontrata una sola volta nella vita, sì e no per un quarto d’ora, che senso può mai avere?  L’incontro “unico” ci dà proprio la misura della casualità della nostra vita. Forse sarà morto assieme a tutti i suoi compatrioti che sono venuti a lasciare la vita qui da noi! Ogni tanto ho cercato di immaginarmelo a casa sua, sano e salvo, che raccontava la sua avventura italiana a parenti ed amici e, forse,  anche di un signore anziano che girava per il bosco con un ragazzino per mano!

Emanuele Angeleri
ottobre 2011

Sulla Resistenza in provincia di Arezzo si veda al Cap.6



Per Radovan Bulatovic

Ci fermammo nella neve
il cielo scendeva sulla valle
come un volo di spettri,
l'anima dell'inverno
moriva boccheggiando
lungo torrenti impetuosi
con la bocca piena di detriti.

Eravamo scesi al mattino
sulle strade splendenti di gelo
per la rincorsa mortale
della guerra,
per tutto il giorno
le mani si bruciarono
sulle canne nere
dei mitra forati come flauti,
ma una colonna non traversò il passo
e scatenò su di noi l'inferno di fuoco,
da tronco a tronco i partigiani
risalirono la Serra combattendo,
gli spari franavano
tra le piante spoglie
come pietre dei calcinosi costoni.

Quando la sera indurì l'aria
che in fiati lenti saliva dai botri
i nazi sfuggirono
alla morsa nostra e della notte
discesero appoggiando odio e timore
sul sostegno delle voci gutturali.

Quando arrivammo il silenzio
era pieno e tetro
una falce di luna faceva trasparire
la neve come un velo
intriso d'acqua e di fango,
ti vedemmo col cartello appeso
alla giacca sottratta a una caserma
dottor Radovan Bulatovic
partigiano slavo
ucciso per non abbandonare
un italiano ferito.
"Questa è la morte dei banditi"
diceva il cartello. Un tordo
nella notte sfrascò con un frullo
foglia nera inventata dal vento.

Nessuno di noi potè parlare
con gli occhi ti dicemmo di aspettare
e andammo come automi di ferro
a cercarli oltre il valico a valle,
oltre il ponte a bivacco.

Portammo la sorpresa
dentro una nube che scendeva dal Catria
e la morte ancora nelle tenebre
fitte di lampi
fece perversa incetta
di giovani vite in diversa divisa.
Ma il dolore era un alto falco
che ci teneva con i suoi artigli
roteando sul tuo corpo nella neve.

Le torce fumigarono per terra
per tutto il resto della notte
nessuno pensò a far bottino
o a cambiare le nostre scarpe slabbrate
con quelle calde e forti dei morti.

Tornammo stanchi
e ti portammo a braccia
al cimitero bianco di Cantiano.


Giuseppe Mari
da: Poesie


Lapide a Cantiano
Sui caduti di Cantiano si veda al Cap.5



Incontro in piazza / Susret na trgu

A. Martocchia


- Compagno, sai che bandiera è quella che stai portando?

- Certo che lo so. E tu lo sai?
Si era avvicinato a me tra la folla per rivolgermi quella domanda, e mi guardava visibilmente emozionato e severo. Aspettava la mia risposta: - È la bandiera della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia.
- Perchè l'hai portata qui? Che cosa c'entra qui?
- Stanno bombardando la Jugoslavia... Finché c'era la federazione socialista, una cosa del genere non poteva succedere...
Non so se mi ascoltava. - Quella è la bandiera dei nostri compagni, quelli con i quali combattevamo in Appennino.
Rimasi incredulo e senza parole. - Come in Appennino? Dove esattamente?
- Nelle Marche, vicino a Visso. Ci sono cimiteri lì con decine di compagni jugoslavi morti.
- Vuoi portarla tu? Te la lascio volentieri.
Gliela porsi, non sapendo come altrimenti ricambiare l'incredibile, preziosa informazione che mi aveva dato.
- No. È meglio che la porti tu.
La sua voce si era incrinata un poco. Con commozione, ci perdemmo di vista tra la folla.

(Via Cavour, Roma, primavera 1999)



- Druže, je li ti znaš čija je to zastava koju nosiš?

- Naravno da znam. A ti, znaš li?
Probijajući se kroz gomilu ljudi, primače mi se da mi postavi to pitanje. Vidno uzbuđen, strogo me je gledao. Očekivao je moj odgovor: - To je zastava Socijalističke Federativne Republike Jugoslavije.
- Zašto si je doneo ovde? Kakve ona ima veze s ovim događanjem?
- Jugoslaviju bombarduju... Dok je postojala ona socijalistička federacija, tako nešto nije moglo da se dogodi...
Ne znam da li me je baš dobro saslušao. - To je zastava naših drugova s kojima smo se skupa borili među brdima Apenina.
Nisam verovao svojim ušima i ostadoh bez reči. - Kako to misliš, u brdima Apenina? Gde baš tačno?
- U regionu Marche, blizu mesta Visso. Na tamošnjim grobljima počiva više desetina palih jugoslovenskih drugova.
Želiš li ti da je nosiš? Drage volje ti je prepuštam.
Pružih mu je, jer nisam znao na koji drugi način bih mogao da mu uzvratim za neverovatnu i vrednu informaciju koju mi je dao.
- Neka. Bolje je nosi ti.
Glas mu zadrhta. Obojica bejasmo ganuti i likovi nam se pogubiše u masi ljudi.

(Via Cavour, Rim, proleće 1999)


 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 8 marzo 2014
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