Continua la rassegna , a cura di Mauro Gemma, sui paesi dell’Europa
centro-orientale e balcanica. Mauro Gemma, esperto di questioni
dell'Europa centro-orientale, e' collaboratore della rivista
"L'Ernesto" - http://www.lernesto.it


BIELORUSSIA

La Bielorussia (Russia Bianca) è uno stato con un’estensione di 207.600
Kmq e una popolazione di oltre 10 milioni di abitanti, costituita per
il 78% da bielorussi, che parlano una lingua slava orientale come il
russo e che praticano per oltre l’80% la religione cristiana ortodossa,
e per la parte restante da oltre un milione di russi, 400.000 ucraini e
alcune centinaia di migliaia di polacchi. C’è da aggiungere che il 48%
delle famiglie è composto da russi e bielorussi. Il bielorusso e il
russo sono considerati entrambi lingua di stato. Gli elementi che
accomunano storicamente e culturalmente i due popoli sono talmente
solidi, da aver impedito in questi ultimi anni che le tendenze
nazionaliste (su cui ha puntato l’Occidente dopo il 1991) riuscissero a
consolidare un reale sostegno di massa. C’è da osservare, tra l’altro,
che la Bielorussia, che ha tributato milioni di vittime alla guerra
contro il nazifascismo, era, tra le repubbliche sovietiche, quella in
cui più radicato appariva il consenso attorno al partito comunista.
Anche oggi, persino tra la stessa opposizione all’attuale governo del
presidente Aleksandr Lukashenko, è presente una forza (uno dei due
partiti comunisti) che non nasconde un atteggiamento completamente
acritico nei confronti dell’intera esperienza sovietica.    

Ecco la ragione per cui, quando il 25 agosto 1991, a pochi giorni dal
fallito golpe di Mosca, la “Repubblica Socialista Sovietica di
Bielorussia”, per impulso delle manifestazioni organizzate dal
movimento separatista “Adradzennie” (Rinascita), proclamò, al pari
delle altre repubbliche dell’URSS, la propria indipendenza, già allora
a molti tale avvenimento apparve come una forzatura.

La presidenza fu assunta da Stanislau Suskievic, speaker del locale
Soviet Supremo, e lo stato assunse il nome di “Repubblica di Belarus”.
Egli intraprese una politica tesa a costruire nel paese una “coscienza
nazionale”, in grado di spezzare i legami storici con la Russia, ma i
tentativi apparvero grotteschi alla maggior parte della popolazione. Se
si aggiunge che l’estremismo nazionalista si accompagnava all’avvio di
un corso economico, improntato alle ricette, suggerite dai protettori
occidentali, improntate all’ultraliberismo e accompagnate da ambiziosi
progetti di privatizzazione, ben presto il malcontento, generato dal
rapido deteriorarsi delle protezioni sociali, si manifestò in forme di
quasi plebiscitaria disaffezione nei confronti del “nuovo corso”. In
tal modo, alle elezioni presidenziali dell’estate del 1994, Aleksandr
Lukashenko, ex istruttore politico del KGB, tra i pochi coraggiosi
parlamentari che, nel dicembre 1991, si erano pronunciati contro la
dissoluzione dell’URSS, e noto per il suo rigore nella lotta contro la
corruzione, sbaragliava, ottenendo l’81,7% dei voti, il suo avversario,
il primo ministro Viaceslau Kiebic, che rassegnava immediatamente le
sue dimissioni dalla carica. Lukashenko, che si pronunciava subito per
l’avvio di un processo di ricomposizione dell’unità politica ed
economica almeno delle repubbliche europee dell’ex URSS, proponeva nel
1995 alcuni quesiti referendari con proposte di modifica
costituzionale, tese a rafforzare tale processo. Nello stesso tempo,
Lukashenko, non solo si pronunciava apertamente contro l’ipotesi
dell’allargamento ulteriore ad Est della NATO, ma ne denunciava il
carattere di alleanza aggressiva e prevaricatrice della volontà degli
stati e dei popoli che non intendono assoggettarsi al “nuovo ordine
mondiale”. A questo punto, le opposizioni nazionaliste cominciavano una
violenta (seppur molto minoritaria) campagna tesa a dimostrare
l’involuzione autoritaria della nuova amministrazione e, soprattutto, a
richiamare l’attenzione dell’Occidente (in particolare degli USA) sulla
presunta precarietà della situazione dei “diritti dell’uomo” in
Bielorussia. L’assalto propagandistico contro il presidente bielorusso
è stato naturalmente accompagnato dalle abituali menzogne che
caratterizzano tutte le campagne denigratorie che partono
dall’Occidente: ad esempio, è stata dimostrata l’assoluta infondatezza
delle accuse rivolte a Lukashenko di aver commissionato l’assassinio di
alcuni oppositori politici, quando un osservatore inglese di “Human
Right Watch” ha scoperto che i personaggi in questione vivevano
tranquillamente a Londra. E’ da quel momento che ha inizio il processo
di delegittimazione internazionale di Lukashenko e di inserimento della
Bielorussia nella lista dei cosiddetti “stati canaglia”, fino alla
decisione, maturata negli ultimi anni dal Congresso USA e dalla
maggioranza dei paesi della Commissione Europea, di dichiarare il
presidente “persona non gradita” in Occidente. Il referendum, voluto da
Lukashenko, si svolse ugualmente e oltre l’80% dei cittadini si
pronunciò positivamente sulle richieste di unione economica con la
Russia, di ripristino dei simboli sovietici, di adozione del russo
quale seconda lingua ufficiale. Da quel momento la politica del
presidente, favorevole all’adozione di un modello di “economia mista”
che, pur non rinunciando a sostenere il settore privato, fosse in grado
di garantire, al contrario di quanto è avvenuto negli altri paesi ex
sovietici, il controllo pubblico dei settori strategici, la difesa
dell’apparato produttivo e di livelli adeguati di occupazione e uno
standard minimo di protezione sociale dei settori meno privilegiati
della popolazione, ha tenacemente perseguito il progetto di
unificazione dello spazio ex sovietico, prendendo spesso l’iniziativa
anche nei confronti della Russia. Il 2 aprile 1996, gli sforzi
bielorussi ottenevano un primo successo, con la stipula da parte di
Mosca e di Minsk del “Trattato di Unione Russo-Bielorussa”, primo passo
verso la realizzazione dell’unificazione politica, economica e militare
tra i due paesi, che dovrebbe completarsi nei prossimi anni, anche
attraverso l’elezione di un parlamento comune. Pur tra le resistenze
dei settori filoccidentali russi e bielorussi, le continue minacce
degli USA (che non hanno esitato a trasferire alcune basi militari in
Polonia, a ridosso della frontiera bielorussa) e gli inevitabili
contrasti tra i due partner nella definizione delle procedure di
unificazione, oggi il cammino verso l’unità con la Russia (a cui ha
dichiarato l’intenzione di associarsi anche la Moldavia, dopo l’avvento
dei comunisti al governo) sembra procedere, anche se in modo graduale,
verso il suo completamento. La politica del presidente è stata
confortata finora da una massiccio sostegno elettorale: nel marzo del
2000 il blocco cosiddetto degli “indipendenti”, creato a sostegno di
Lukashenko, ha raccolto ben l’82,3% dei voti nelle elezioni legislative
(che hanno registrato una partecipazione di circa il 60% degli
elettori, dopo il boicottaggio proclamato da alcune delle forze
nazionaliste, a cominciare dal “Fronte Popolare Bielorusso”), a cui va
aggiunto il 6,1% del Partito Comunista di Belarus (KPB) e il 4,4% del
Partito Agrario (vicino ai comunisti). C’è da rilevare che il Partito
Comunista, nel 1996, aveva subito una grave scissione dopo la decisione
delle sue componenti più settarie di collocarsi all’opposizione, in
nome di un richiamo puramente nostalgico al passato sovietico, non
disdegnando, in compenso, di partecipare alle violente manifestazioni
organizzate da settori finanziati dagli USA, comprendenti forze che non
nascondono di riferirsi a quell’ultranazionalismo che, durante la
sanguinosa occupazione nazista, collaborò con le SS. Questo “Partito
bielorusso dei comunisti” (PKB), a differenza della maggior parte delle
altre componenti dell’opposizione, si è presentato alle elezioni,
raccogliendo il 6,6% dei suffragi. L’attuale governo è composto da
rappresentanti degli “indipendenti”, del KPB e del Partito Agrario, ed
è presieduto da Serghey Sidorsky. Precedute da una violenta campagna
diretta dall’estero, con l’attiva partecipazione alle manifestazioni
elettorali di cittadini statunitensi, la consultazione presidenziale
del 9 settembre 2001 ha visto la schiacciante vittoria di Lukashenko
che, con il 75,6% dei voti, ha sconfitto il sindacalista Vladimir
Goncharik, rappresentante del fronte delle opposizioni, che, in tale
occasione, non ha rinunciato alla competizione. C’è anche da rilevare
che la grande maggioranza delle migliaia di osservatori esteri ha
dovuto riconoscere la piena correttezza dello svolgimento del voto (che
è stato espresso dall’83,9% degli aventi diritto) e che negli stessi
USA si sono levate voci che hanno espresso dubbi circa la reale
influenza dell’opposizione.               

 
MOLDAVIA

La Moldavia (Repubblica di Moldova) è un piccolo stato (34.000
chilometri quadrati e 4 milioni e mezzo di abitanti) facente parte
della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), situato nell’Europa sud
orientale e confinante con Romania e Ucraina. La sua popolazione è
costituita per quasi due terzi da moldavi di lingua romena e, per il
resto, da una forte minoranza russofona di russi, ucraini e bielorussi.
Nel territorio della repubblica (Gagauzia) abitano anche circa 200.000
turchi cristianizzati. La Moldavia, che fino al 1917 faceva parte
dell’impero zarista, si costituì, durante la rivoluzione, in
“Repubblica Democratica Moldava” indipendente. Nel 1918, fu proclamata
l’unione con la Romania, che non venne mai riconosciuta dall’Unione
Sovietica, la quale, nel 1940, in seguito al patto russo-tedesco,
riprese il controllo della regione, almeno fino all’inizio
dell’aggressione nazifascista. Con la vittoria dell’Armata Rossa, la
Moldavia fu definitivamente incorporata nell’URSS. Venne così
inaugurato un periodo di sviluppo economico, sociale e culturale, mai
conseguito in precedenza, che ha assicurato alla popolazione un livello
di relativo benessere. E’ con la “perestrojka”, dopo il 1985, che
comincia a manifestarsi una massiccia agitazione nazionalista romena,
che si organizza nel cosiddetto “Fronte popolare”. Nel 1990 le autorità
locali, dietro pressione dei nazionalisti, approvano una serie di
misure che influenzeranno in modo decisivo lo sviluppo della situazione
nel paese: si decide di adottare l’alfabeto latino al posto di quello
cirillico e si avvia quella politica di “derussificazione” e di
“pulizia etnica”, che costituirà il pretesto per lo scatenamento dello
scontro con le minoranze nazionali. Il 27 agosto 1991, alla vigilia
del dissolvimento dell’URSS, è proclamata l’indipendenza. Come
reazione, viene avanzata la richiesta di indipendenza della cosiddetta
“Repubblica della Transdnistria” (con capitale Tiraspol), abitata in
grande maggioranza da russi e ucraini. I nazionalisti romeni rispondono
con durezza a tali rivendicazioni, procedendo alla quasi totale
liquidazione dell’istruzione in lingua russa e cercando di risolvere
con la forza la questione della Transdnistria, attraverso lo
scatenamento di un sanguinoso conflitto, che si protrae fino al 1992,
quando l’indipendenza viene congelata e considerata operante solo in
caso di riunificazione della Moldavia alla Romania.   

Il decennio che ha visto avvicendarsi al governo le forze di
ispirazione nazionalista borghese, ha avuto conseguenze che non è
azzardato definire catastrofiche sulle condizioni economiche e sociali
della repubblica. Il susseguirsi di dissennate “riforme”, all’insegna
del liberismo più sfrenato e della dipendenza dagli interessi dei nuovi
alleati occidentali, ha fatto della Moldavia il paese più povero
d’Europa, con il non invidiabile record del più elevato tasso di
emigrazione a livello continentale.

Il malcontento, generato da questo autentico disastro, è sfociato in
una clamorosa manifestazione di ripulsa popolare, in occasione delle
elezioni politiche svoltesi il 25 febbraio 2001, con la travolgente
vittoria (maggioranza assoluta dei voti e 70% dei seggi) del Partito
dei Comunisti della Repubblica di Moldova (PCRM). Per la prima volta,
dalla fine dell’URSS, in Europa orientale (fatto di straordinario
valore simbolico) i comunisti tornavano, in modo assolutamente
democratico, alla direzione dello stato. Il parlamento, poco tempo
dopo, procedeva all’elezione alla presidenza della repubblica del
leader del PCRM Vladimir Voronin. L’affermazione dei comunisti veniva
confermata anche dalle elezioni amministrative svoltesi nel 2003, con
la conquista di quasi il 50% dei voti e dei due terzi delle
amministrazioni locali.

Dal momento dell’arrivo al governo, i comunisti, pur tra enormi
difficoltà e in un contesto internazionale non certo favorevole alle
forze di progresso dopo la caduta del contrappeso socialista, hanno
cercato di trovare una soluzione alla terribile crisi ereditata.

Si sono introdotte misure tese ad assicurare una maggiore presenza
regolatrice dello stato. Si è cercato di frenare la corruzione
dilagante. I mezzi finanziari a disposizione sono stati indirizzati
allo sviluppo della produzione industriale (che ha visto un netto
aumento degli ordini da parte di partner del mercato ex sovietico) e
dell’agricoltura. Per la prima volta, come ha dovuto riconoscere lo
stesso FMI, il PIL ha registrato un incremento del 6%. Successi sono
stati registrati nella sfera sociale, a cominciare dalla corresponsione
di salari e pensioni non pagati in precedenza.

Gli attuali dirigenti si sono poi sforzati di ricercare l’integrazione
nel mercato ex sovietico - tradizionale partner della Moldavia -,
sapendo bene che questo è l’unico modo per garantire una ragionevole
ripresa della dissanguata economia nazionale. Il conseguente
riavvicinamento alla Russia, favorito dall’atteggiamento costruttivo
del presidente Putin, e la richiesta di partecipare a diverse forme di
cooperazione nell’ambito della CSI, con l’intenzione di associarsi al
processo di unione in corso tra Russia e Bielorussia, hanno prodotto
non solo un incremento della collaborazione economica con Mosca, ma
anche la decisione russa di concedere alla Moldavia forniture
energetiche a condizioni convenienti, inserendola in un sistema
integrato con Federazione Russa e Ucraina.  

Tale “disgelo” nella politica verso la Russia, ha comportato
significative aperture sul piano del rispetto dei diritti della
minoranza russa, la proposta di reintroduzione del russo quale lingua
ufficiale di pari dignità con il romeno (concretizzatasi alla fine del
2003) e la ricerca tenace di un’intesa negoziata della questione della
Transdnistria, 

La Moldavia sta anche cercando di diversificare la sua iniziativa
internazionale, intessendo nuove relazioni: ne è prova l’interessamento
manifestato verso l’attività della poderosa “Organizzazione per la
cooperazione di Shanghai” (che raccoglie Russia, Cina e alcune
repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale) e la realizzazione di
accordi commerciali con la Repubblica Popolare Cinese.

Era scontato che il cambiamento avvenuto in Moldavia dovesse provocare
reazioni in ambito occidentale, dove si trovano i principali
interlocutori dei precedenti governi, e soprattutto da parte della
Romania (oggi in procinto di entrare nella NATO), che ha manifestato in
diverse occasioni il suo dissenso rispetto alle scelte di
riavvicinamento alla Russia. Con l’appoggio esplicito della Romania,
nei mesi scorsi sono venute allo scoperto le manovre dell’opposizione
nazionalista (massicciamente finanziata oltreoceano, con un
significativo contributo del solito Soros) alla presidenza Voronin.
Violente manifestazioni hanno così sconvolto la capitale Kishinev,
rivendicando la discriminazione della lingua russa, inneggiando alla
“Grande Romania” e invocando l’aiuto della NATO, per “rovesciare il
regime comunista asservito a Mosca”. L’opposizione di destra, guidata
“Partito Popolare Cristiano Democratico” del fanatico ultranazionalista
Jurije Roshka, ha anche invocato l’allontanamento della Russia dal
tavolo negoziale sulla Transdnitria e l’intervento diretto della NATO a
Tiraspol, provocando in tal modo una durissima reazione di Mosca. Di
fronte al crescere delle provocazioni nazionaliste, il presidente
Voronin e il governo hanno saputo dar prova di grande senso di
responsabilità, accettando le raccomandazioni a stemperare la tensione
fatte dagli organismi internazionali e addirittura estendendo le
garanzie democratiche di manifestazione. All’inizio del 2004 le
manifestazioni dell’opposizione (a cui, per la verità, prendono parte
poche centinaia di persone) sono proseguite. A metà gennaio, Jurije
Roshka ha esplicitamente minacciato di accingersi alla preparazione di
un vero e proprio colpo di stato, citando, quale modello da seguire, il
corso degli avvenimenti che in Georgia hanno portato recentemente
al potere un regime appoggiato da Washington e che sembra puntare a una
completa e pericolosa rottura con la Russia.

 
L’UCRAINA

L’Ucraina, con i suoi 603.700 Kmq e circa 50 milioni di abitanti, ha
fatto parte, fin dal 1654 (attraverso un’unione volontaria in funzione
antipolacca), dell’impero zarista e, in seguito, è diventata la più
importante (dopo la Russia) delle repubbliche europee che costituivano
l’ Unione Sovietica. La popolazione è costituita per circa il 70% da
ucraini, che parlano una lingua slava orientale (che alcuni linguisti
russi, con una forzatura, considerano addirittura una variante
dialettale del russo) e praticano in maggioranza la religione cristiana
ortodossa, attraversata da una lacerante scissione tra fedeli al
patriarcato di Kiev e a quello di Mosca. Nella parte occidentale, dove
le manifestazioni nazionalistiche appaiono più esasperate, circa 5
milioni di abitanti si professano cattolici di rito greco (uniate).
Circa un quarto della popolazione è rappresentata da russi, concentrati
nei centri urbani, nelle regioni orientali e soprattutto nella penisola
di Crimea (dove rappresentano il 67% e fortissime sono le spinte al
ricongiungimento con la Russia, da cui la Crimea fu staccata, in epoca
sovietica, nel 1954), mentre una parte consistente degli stessi
ucraini, abitanti in queste zone del paese, considera il russo come
propria “lingua madre”. Gli ebrei, molto numerosi prima dello sterminio
nazista, sono ridotti a 500.000 circa.         

Nell’agosto del 1991, violando la volontà popolare espressa nel corso
del referendum “sull’Unione” svoltosi nel marzo dello stesso anno, la
“nomenklatura” del partito comunista ucraino, che fino ad allora aveva
mantenuto un atteggiamento molto prudente (tanto da essere inclusa nel
fronte dei cosiddetti “conservatori” ostili alla “perestrojka” di
Gorbaciov), prendeva la testa delle posizioni separatiste più
oltranziste e dichiarava la sua indipendenza da Mosca. L’ex comunista
Leonid Kravciuk veniva eletto presidente nel dicembre del 1991 e,
insieme a Eltsin e a Suskievic (leader bielorusso), siglava lo
scioglimento dell’URSS. Da quel momento il regime al potere,
allineatosi alle raccomandazioni che venivano dall’Occidente, ha
condotto una politica ispirata ideologicamente al più esasperato
nazionalismo, manifestatosi, soprattutto nell’emarginazione e nella
discriminazione della minoranza russa. Sul piano delle scelte
economiche, il paese ha subito la continua pesante pressione degli
organismi internazionali, che aveva lo scopo di costringerlo ad
adottare piani di riforma improntati ai modelli neoliberisti. Gli
effetti della subalternità a tale politica sono stati devastanti: il
discreto sistema di infrastrutture che stava alla base dello “stato
sociale” sovietico è stato smantellato e oggi l’Ucraina è uno dei paesi
più poveri d’Europa, dove secondo dati ufficiali, 100 persone
abbandonano quotidianamente il paese in cerca di condizioni migliori di
vita all’estero. In Ucraina sono venuti emergendo, in maniera
impressionante, fenomeni di “economia criminale”, attraverso il
diffondersi di “clan” strutturati a livello regionale, che
rappresentano la base materiale dell’esistenza di molte delle strutture
di potere, a cominciare dai partiti che, di volta in volta, si sono
succeduti al governo. L’allentamento dei legami con la Russia e con gli
altri componenti del mercato ex sovietico, da cui l’Ucraina dipendeva
per il rifornimento delle risorse energetiche, ha avuto inevitabili
conseguenze nel drastico ridimensionamento dell’apparato produttivo.
Nel 1994, l’avvento alla presidenza della repubblica di Leonid Kuchma
(riconfermato nel 1999), uomo legato ai potentati della regione
mineraria del Donetsk (i più dipendenti dai legami economici con la
Russia), con la confluenza dei voti delle sinistre e dell’elettorato
“russofono” al secondo turno, ha fatto sperare in un relativo
ammorbidimento delle forme più intransigenti di nazionalismo. E ciò,
almeno in parte, è avvenuto. Ma, nel complesso, il processo di
“ucrainizzazione” è proseguito, trovando il più prezioso supporto
nell’atteggiamento dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti,
che, dal momento dell’implosione dell’URSS, non solo considerano
l’Ucraina uno “stato cuscinetto”, ma nutrono l’ambizione di inglobarla
nel sistema di alleanze politiche, economiche e militari da essi
controllato, spingendo per l’ingresso formale di Kiev nella NATO. Gli
USA, nella loro politica di pesante ingerenza nella politica interna,
di cui hanno cercato di condizionare tutti i passaggi fondamentali,
hanno fatto affidamento soprattutto sugli ambienti economici e sulle
“elite” intellettuali dell’Ucraina occidentale. E, grazie al massiccio
sostegno ottenuto oltreoceano, sono proprio le forze di orientamento
nazionalista e filoccidentale (comprendenti anche gli eredi del
collaborazionismo con l’occupazione nazista), che, nel corso delle
ultime elezioni politiche del marzo 2002, hanno ottenuto un
significativo successo (il blocco “Nostra Ucraina” di Viktor Juschenko
è al primo posto, con il 23,6%, mentre i suoi alleati del blocco
elettorale di Julija Timoshenko raggiungono il 7,2%). Il partito del
presidente, “Per l’Ucraina Unita”, non supera l’11,8%, pur ottenendo
molti deputati nei collegi uninominali, che gli permettono comunque di
governare insieme a raggruppamenti elettorali minori e a numerosi
deputati “indipendenti”. Ma dopo le elezioni del 2002, il corso
politico del paese, che, con l’avvento del nuovo secolo, sembrava aver
imboccato la strada del riavvicinamento alla Russia, soprattutto sul
piano della collaborazione economica e attraverso la progressiva
integrazione nei meccanismi comunitari che sono stati creati
nell’ambito della Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI),
premuto dalla massiccia agitazione dello schieramento
nazional-liberista, che punta direttamente al controllo del potere (in
vista delle imminenti elezioni presidenziali), è andato gradatamente
riorientandosi verso l’Occidente, annunciando nel maggio 2002
l’intenzione di abbandonare la neutralità, attraverso la richiesta
formale di ingresso nella NATO. In seguito l’Ucraina ha inviato un
contingente di ben 1.600 uomini (sotto comando polacco) in Iraq,
prendendo parte attiva alle operazioni di repressione della resistenza.
Anche con la Russia si sono manifestate nuovamente frizioni, con
l’apertura di un contenzioso territoriale in Crimea. Allo stesso tempo,
sul piano interno, è andata accentuandosi la stretta repressiva nei
confronti del forte movimento operaio e antimperialista presente nel
paese, attraverso gli imprigionamenti e l’uso della tortura, fino a
provocare la morte di militanti dell’estrema sinistra, accusati
addirittura di “cospirazione”. Oggi in Ucraina è presente un forte
“Partito Comunista di Ucraina” (KPU), che raccoglie il 20% dei suffragi
elettorali, concentrati nelle regioni centro-orientali del paese e in
Crimea (dove ottiene la maggioranza assoluta), in particolare tra la
minoranza russa. Se poi al KPU aggiungiamo i voti del “Partito
Progressista Socialista di Ucraina” (PSPU) di Natalija Vitrenko e di
alcune altre formazioni (che però non hanno superato lo sbarramento del
4%, previsto per accedere alla Rada), possiamo affermare che le forze
comuniste rappresentano oltre un quarto dell’elettorato. Il KPU,
presieduto da Piotr Simonenko, si batte con energia, nel Parlamento
(Rada) e nel paese, sia contro i metodi autoritari e le pratiche di
devastazione sociale, di corruzione dilagante e di collusione con le
mafie regionali che caratterizzano il regime di Kuchma, che contro le
ingerenze imperialiste e le forze che rappresentano più coerentemente
gli interessi occidentali. Il KPU e’ infatti il partito che più preme
per un’accelerazione dei processi di integrazione con la Russia e con
gli altri paesi dello spazio postsovietico. Non è escluso che la
consapevolezza della minaccia incombente di definitivo assoggettamento
del paese all’egemonia americana possa indurre il partito, con
l’approssimarsi delle elezioni presidenziali previste nel 2004, a
ricercare una convergenza con i settori “filorussi” presenti nello
schieramento centrista al governo. Ad esempio, potrebbe essere raccolta
l’offerta fatta recentemente da settori dell’amministrazione
presidenziale ai comunisti e ai socialisti di una riforma elettorale,
con l’adozione del sistema proporzionale puro e la trasformazione
dell’Ucraina in “repubblica parlamentare”. Tra le forze di sinistra c’è
da annoverare anche il Partito Socialista di Ucraina (SPU) di Aleksandr
Moroz, che, al momento della proclamazione dell’indipendenza aveva
offerto copertura legale ai comunisti posti temporaneamente fuorilegge,
e che, con il 6,9% dei voti, si proclama oggi
“socialdemocratico”.