Chi è il Dalai Lama?

Proseguiamo con gli approfondimenti sul tema "Imperialismo ed
autodeterminazione". Sullo stesso tema vedi anche le seguenti analisi,
dedicate particolarmente ai micronazionalismi in Europa:

EUROPA "BALCANIZZATA" ?
https://www.cnj.it/documentazione/hillard_liberazione_070903.pdf
DIVIDIAMO L'IRAQ COME ABBIAMO FATTO CON LA JUGOSLAVIA!
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3055
EUROPA: UNIONE E DISGREGAZIONE
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2134
FROM TERRITORY TO PEOPLE: NATIONS ADRIFT
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/1165

Sul caso specifico cinese vedi:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3013
e la nostra precedente rassegna:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2972
1. Cosa ha a che fare la CIA con il Dalai Lama?
2. Il mito del Tibet
3. Menzogne americane sul Tibet e sul Dalai Lama
4. Dalai Lama a 'Nazi Dupe Who Succumbed to Hitler'
5. Dalai Lama: "Violence needed to fight terror"

Si vedano anche gli articoli di Enrica Collotti Pischel:
http://www.lernesto.it/strutture/articolo.asp?codart=869
CINA - NATO - USA
(Giano del 15/05/2000)
http://www.lernesto.it/strutture/articolo.asp?codart=867
LA CINA, ''L'ULTIMO PAESE SOVRANO''
(Giano del 15/9/2001)

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From: "FRANCHI"

...di seguito trovate un'interessante articolo sul Dailai Lama apparso
sulla rivista L'Ernesto a firma di Domenico Losurdo.
 
Recentemente il Dailai Lama ha fatto visita in Italia, appuntamento che
ha visto tutti i principali leaders politici (da destra a sinistra)
"inchinarsi" al suo cospetto, in nome del Tibet, dei Tibetani e
dell'armonia tra i popoli.
 
Il Dailai Lama è una figura che in tanta parte del mondo è conosciuta
come figura di pace, giustizia sociale e rispetto per i più deboli
(arrivando a tutelare anche i più minuscoli insetti indifesi).
 
Per tali ragioni credo sia utile la letura di questo articolo poichè
aiuta a sollevare il velo su un lato non molto conosciuto di questa
importante figura internazionale e, più in generale, su un lato poco
conociuto del sistema economico, politico e sociale che la sua figura
incarna.
 
Tale articolo è tratto dal libro di Heinrich Harrer "Sette anni nel
Tibet" (Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), libro che ha contribuito
non poco a costruire l'immagine che tutti conosciamo del Dailai Lama.
 
Buona lettura a tutte e a tutti.
 
Franchi
 
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Domenico Losurdo

CHI E' IL DALAI LAMA?

(dalla rivista L'Ernesto - http://www.lernesto.it )


Celebrato e trasfigurato dalla cinematografia di Hollywood, il Dalai
Lama continua indubbiamente a godere di una vasta popolarità: il suo
ultimo viaggio in Italia si è concluso solennemente con una foto di
gruppo coi dirigenti dei partiti di centro-sinistra, che hanno voluto
così testimoniare la loro stima o la loro riverenza nei confronti del
campione della lotta di «liberazione del popolo tibetano».

Ma chi è realmente costui? Tanto per cominciare, egli non è nato nel
Tibet storico, ma in territorio incontestabilmente cinese, per
l’esattezza nella provincia di Amdo che nel 1935, l’anno della nascita,
era amministrata dal Kuomintang. In famiglia si parlava un dialetto
regionale cinese, sicché il nostro eroe impara il tibetano come una
lingua straniera, ed è costretto a impararla a partire dall’età di tre
anni, e cioè dal momento in cui, riconosciuto come l’incarnazione del
13° Dalai Lama, viene sottratto alla sua famiglia e segregato in un
convento, per essere sottoposto all’influenza esclusiva dei monaci che
gli insegnano a sentirsi, a pensare, a scrivere, a parlare e a
comportarsi come il Dio-Re dei tibetani ovvero come Sua Santità.


1 Un «paradiso» raccapricciante

Desumo queste notizie da un libro (Heinrich Harrer, Sette anni nel
Tibet, Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), che pure ha un carattere di
semi-ufficialità (si conclude con il «Messaggio» in cui il Dalai Lama
esprime la sua gratitudine all’autore) e che ha contribuito moltissimo
alla costruzione del mito hollywoodiano. Si tratta di un testo a suo
modo straordinario, che riesce a trasformare in capitoli di storia
sacra anche i particolari più inquietanti. Nel 1946, Harrer incontra a
Lhasa i genitori del Dalai Lama, dove si sono trasferiti ormai da molti
anni, abbandonando la natia Amdo. E, tuttavia, essi non sono ancora
divenuti tibetani: bevono il tè alla cinese, continuano a parlare un
dialetto cinese e, per intendersi con Harrer, che si esprime in
tibetano, hanno bisogno dell’aiuto di un «interprete». Certo, la loro
vita è cambiata radicalmente: «Era un grosso salto quello dalla loro
piccola casa di contadini in una lontana provincia al palazzo che ora
abitavano e ai vasti poderi che erano adesso di loro proprietà».
Avevano ceduto ai monaci un bambino di tenerissima età, che poi
riconosce nella sua autobiografia di aver molto sofferto per questa
separazione. In cambio, i genitori avevano potuto godere di una
prodigiosa ascesa sociale. Siamo in presenza di un comportamento
discutibile? Non sia mai detto. Harrer si affretta subito a
sottolineare la «nobiltà innata» di questa coppia (p. 133): come
potrebbe essere diversamente, dato che si tratta del padre e della
madre del Dio-Re?

Ma che società è quella su cui il Dalai Lama è chiamato a governare?
Sia pure a malincuore, l’autore del libro finisce col riconoscerlo: «La
supremazia dell’ordine monastico nel Tibet è assoluta, e si può
confrontare solo con una severa dittatura. I monaci diffidano di ogni
influsso che possa mettere in pericolo la loro dominazione». Ad essere
punito non è soltanto chi agisce contro il «potere» ma anche «chiunque
lo metta in dubbio» (p. 76). Diamo ora uno sguardo ai rapporti sociali.
Si direbbe che la merce più a buon mercato sia costituita dai servi (si
tratta, in ultima analisi, di schiavi). Harrer descrive giulivo
l’incontro con un alto funzionario: anche se non è un personaggio
particolarmente importante, egli può comunque disporre di un «seguito
di trenta servi e serve» (p. 56). Essi vengono sottoposti a fatiche non
solo bestiali ma persino inutili: «Circa venti uomini erano legati alla
cintura da una corda e trascinavano un immenso tronco, cantando in coro
le loro lente nenie e avanzando di pari passo. Ansanti e in un bagno di
sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato, perché il capofila
non lo permetteva. Questo lavoro massacrante rappresenta una parte
delle loro tasse, un tributo da sistema feudale». Sarebbe stato facile
far ricorso alla ruota, ma «il governo non voleva la ruota»; e, come
sappiamo, contrastare o anche solo mettere in discussione il potere
della casta dominante poteva essere assai pericoloso. Ma, secondo
Harrer, non ha senso versare lacrime sul popolo tibetano di quegli
anni: «forse così era più felice» (pp. 159-160).

Incolmabile era l’abisso che separava i servi dai padroni. Per la gente
comune, al Dio-Re non era lecito rivolgere né la parola né lo sguardo.
Ecco cosa avviene nel corso di una processione:

«Le porte della cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama
[…] Devota la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale religioso
esigerebbe che la gente si gettasse per terra, ma era impossibile farlo
a causa della mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece
la schiena, come un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava
alzare gli occhi. Lento e compassato il Dalai Lama iniziò il suo giro
intorno al Barkhor […] Le donne non osavano respirare».

Finita la processione, il quadro cambia in modo radicale:

«Come ridestata da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò
dall’ordine al caos […] I monaci-soldato entrarono subito in azione […]
All’impazzata facevano mulinare i loro bastoni sulla folla […] Ma
nonostante la gragnuola di colpi, i battuti ritornavano come fossero
posseduti da demoni […] Adesso accettavano colpi e frustate come una
benedizione. Fiaccole di pece fumosa cadevano sulle loro teste, urla di
dolore, qui un volto bruciato, là i gemiti di un calpestato!» (pp.
157-8).

Vale la pena di notare che questo spettacolo viene seguito dal nostro
autore in modo ammirato e devoto. Non a caso, il tutto è contenuto in
un paragrafo dal titolo eloquente: «Un dio alza, benedicendo, la mano».
L’unico momento in cui Harrer assume un atteggiamento critico si
verifica allorché egli descrive la condizione igienica e sanitaria del
Tibet del tempo. Infuria la mortalità infantile, la durata media della
vita è incredibilmente bassa, le medicine sono sconosciute, in compenso
circolano farmaci assai singolari: «spesso i lama ungono i loro
pazienti con la propria saliva santa; oppure tsampa e burro vengono
mescolati con l’urina degli uomini santi per ottenere una specie di
emulsione che viene somministrata ai malati» (p. 194). Qui si ritrae
perplesso anche il nostro autore devoto e bacchettone: se pure dal
«Dio-Ragazzo» è stato «persuaso a credere nella reincarnazione» (p.
248), egli tuttavia non riesce a «giustificare il fatto che si bevesse
l’urina del Buddha Vivente», e cioè del Dalai Lama. Solleva il problema
con quest’ultimo, ma con scarsi risultati: il Dio-Re «da solo non
poteva combattere tali usi e costumi, e in fondo non se ne preoccupava
troppo». Ciò nonostante, il nostro autore, che si accontenta di poco,
messe da parte le sue riserve, conclude imperturbabile: «In India, del
resto, era uno spettacolo giornaliero vedere la gente bere l’urina
delle vacche sacre» (p. 294).

A questo punto, Harrer può procedere senza più impacci nella sua opera
di trasfigurazione del Tibet pre-rivoluzionario. In realtà, esso è
carico di violenza e non conosce neppure il principio della
responsabilità individuale: le punizioni possono essere anche
trasversali e colpire i parenti del responsabile di una mancanza anche
assai lieve o persino immaginaria (p. 79). Ma cosa avviene per i
crimini considerati più gravi? «Mi raccontarono di un uomo che aveva
rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu
dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato
una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente
mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo fu avvolto in
una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in
un precipizio» (p. 75). Ma anche reati minori, ad esempio «il gioco
d’azzardo», possono essere puniti in modo spietato se commessi nei
giorni di festività solenni: «i monaci sono a tale riguardo inesorabili
e molto temuti, perché più di una volta è avvenuto che qualcuno sia
morto sotto la rigorosa flagellazione, la pena usuale» (pp. 153-3). La
violenza più selvaggia caratterizza i rapporti non solo tra «semidei» e
«esseri inferiori» ma anche tra le diverse frazioni della casta
dominante: ai responsabili delle frequenti «rivoluzioni militari» e
«guerre civili» che caratterizzano la storia del Tibet
pre-rivoluzionario (l’ultima si verifica nel 1947), vengono fatti
«cavare gli occhi con una spada» (pp. 224-5). E, tuttavia, il nostro
zelante convertito al lamaismo non si limita a dichiarare che «le
punizioni sono piuttosto drastiche, ma sembrano essere commisurate alla
mentalità della popolazione» (p. 75). No, il Tibet pre-rivoluzionario è
ai suoi occhi un’oasi incantata di non violenza: «Dopo un po’ che si è
nel paese, a nessuno è più possibile uccidere una mosca senza pensarci.
Io stesso, in presenza di un tibetano, non avrei mai osato schiacciare
un insetto soltanto perché mi infastidiva» (p. 183). In conclusione,
siamo in presenza di un «paradiso» (p. 77). Oltre che di Harrer, questa
è l’opinione anche del Dalai Lama che nel suo «Messaggio» finale si
abbandona ad una struggente nostalgia degli anni vissuti da Dio-Re:
«ricordiamo quei giorni felici che trascorremmo assieme in un paese
felice» (happy) ovvero, secondo la traduzione italiana, in «un paese
libero».

 
2. «Invasione» del Tibet e tentativo di smembramento della Cina

Questo paese «felice» e «libero», questo «paradiso» viene trasformato
in un inferno dall’«invasione» cinese. Le mistificazioni non hanno mai
fine. Ha realmente senso parlare di «invasione»? Quale paese aveva
riconosciuto l’«indipendenza» del Tibet e intratteneva con esso
relazioni diplomatiche? In realtà, ancora nel 1949, nel pubblicare un
libro sulle relazioni Usa-Cina, il dipartimento di Stato americano
accludeva una mappa di per sé eloquente: con tutta chiarezza sia il
Tibet che Taiwan vi figuravano quali parti integranti del grande paese
asiatico, impegnato a porre fine una volta per sempre alle amputazioni
territoriali imposte da un secolo di aggressioni colonialiste e
imperialiste. Naturalmente, con l’avvento dei comunisti al potere,
cambia tutto, comprese le carte geografiche: ogni falsificazione
storica e geografica è lecita se essa consente di ridare slancio alla
politica a suo tempo iniziata con la guerra dell’oppio e di avanzare
cioè in direzione dello smembramento della Cina comunista.

E’ un obiettivo che sembra sul punto di realizzarsi nel 1959. Con un
cambiamento radicale rispetto alla politica seguita sino a quel
momento, che l’aveva visto collaborare col nuovo potere insediatosi a
Pechino, il Dalai Lama sceglie la via dell’esilio e comincia ad agitare
la bandiera dell’indipendenza del Tibet. Si tratta realmente di una
rivendicazione nazionale? Abbiamo visto che il Dalai Lama stesso non è
di origine tibetana ed è costretto ad imparare una lingua che non è la
sua lingua materna. Ma concentriamo pure la nostra attenzione sulla
casta dominante autoctona. Per un verso questa, nonostante la generale
ed estrema miseria del popolo, può coltivare i suoi raffinati gusti
cosmopoliti: ai suoi banchetti si scialacquano «squisitezze di tutte le
parti del mondo» (pp. 174-5). A degustarle sono raffinati parassiti
che, nell’ostentare il loro sfarzo, non danno certo prova di
ristrettezza provinciale: «le volpi azzurre vengono da Amburgo, le
perle coltivate dal Giappone, le turchesi via Bombay dalla Persia, i
coralli dall’Italia e l’ambra da Berlino e Königsberg» (p. 166). Ma
mentre si sente affine all’aristocrazia parassitaria di ogni angolo del
mondo, la casta dominante tibetana guarda ai suoi servi come ad una
razza diversa e inferiore; sì, «la nobiltà ha le sue leggi severe: è
permesso sposare soltanto chi è dello stesso rango» (p. 191). Che senso
ha allora parlare di lotta di indipendenza nazionale? Come possono
esserci una nazione e una comunità nazionale se, per riconoscimento
dello stesso candido cantore del Tibet pre-rivoluzionario, i «semidei»
nobiliari, lungi dal considerare concittadini i loro servi, li bollano
e li trattano quali «esseri inferiori» (pp. 170 e 168)?

D’altro canto, a quale Tibet pensa il Dalai Lama, allorché comincia ad
agitare la bandiera dell’indipendenza? E’ il Grande Tibet, che avrebbe
dovuto abbracciare vaste aree al di fuori del Tibet propriamente detto,
annettendo anche le popolazioni di origine tibetana residenti in
regioni come lo Yunnan e il Sichuan, da secoli parte integrante del
territorio della Cina e talvolta culla storica di questa civiltà
multisecolare e multinazionale. Chiaramente, il Grande Tibet costituiva
e costituisce un elemento essenziale del progetto di smembramento di un
paese che, a partire dalla sua rinascita nel 1949, non cessa di turbare
i sogni di dominio mondiale accarezzati a Washington.

Ma cosa sarebbe successo nel Tibet propriamente detto se le ambizioni
del Dalai Lama si fossero realizzate? Lasciamo pure da parte i servi e
gli «esseri inferiori» a cui chiaramente non prestano molta attenzione
i seguaci e i devoti di Sua Santità. In ogni caso, il Tibet
pre-rivoluzionario è una «teocrazia» (p. 169): «un europeo
difficilmente è in grado di capire quale importanza si annetta al più
piccolo capriccio del Dio-Re» (p. 270). Sì, «il potere della gerarchia
era illimitato» (p. 148), ed esso si esercitava su qualunque aspetto
dell’esistenza: «la vita delle persone è regolata dalla volontà divina,
i cui unici interpreti sono i lama» (p. 182). Ovviamente, non c’è
distinzione tra sfera religiosa e sfera politica: i monaci permettevano
«alle tibetane le nozze con un mussulmano solo alla condizione di non
abiurare» (p. 169); non era consentito convertirsi dal lamaismo
all’Islam. Assieme ai rapporti matrimoniali anche la vita sessuale
conosce una regolamentazione occhiuta: «per gli adulteri vigono pene
molto drastiche, ad esempio il taglio del naso» (p. 191). E’ chiaro:
pur di smembrare la Cina, Washington non esitava a montare in sella al
cavallo fondamentalista del lamaismo integralista e del Dalai Lama.

Ora, anche Sua Santità è costretto a prenderne atto: il progetto
secessionista è sostanzialmente fallito. Ed ecco allora le
dichiarazioni per cui ci si accontenterebbe dell’«autonomia». In
realtà, il Tibet è da un pezzo una regione autonoma. E non si tratta di
parole. Già, nel 1998, pur formulando critiche, Foreign Affairs, la
rivista americana vicina al Dipartimento di Stato, con un articolo di
Melvyn C. Goldstein, si è lasciata sfuggire riconoscimenti importanti:
nella Regione Autonoma Tibetana il 60-70% dei funzionari sono di etnia
tibetana e vige la pratica del bilinguismo. Naturalmente, c’è sempre
spazio per miglioramenti; resta il fatto che, in seguito alla
diffusione dell’istruzione, la lingua tibetana è oggi parlata e scritta
da un numero di persone ben più elevato che nel Tibet
pre-rivoluzionario. E’ da aggiungere che solo la distruzione
dell’ordinamento castale e delle barriere che separavano i «semidei»
dagli «esseri inferiori» ha reso possibile l’emergere su larga base di
un’identità culturale e nazionale tibetana. La propaganda corrente è il
rovesciamento della verità.

Mentre gode di un’ampia autonomia, il Tibet, grazie anche agli sforzi
massicci del governo centrale, conosce un periodo di straordinario
sviluppo economico e sociale. Assieme al livello di istruzione, al
tenore di vita e alla durata media della vita cresce anche la coesione
tra i diversi gruppi etnici, come è confermato fra l’altro dall’aumento
dei matrimoni misti tra han (cinesi) e tibetani. Ma proprio ciò diventa
il nuovo cavallo di battaglia della campagna anticinese. Ne è un
esempio clamoroso l’articolo di Bernardo Valli su la Repubblica del 29
novembre. Mi limito qui a citare il sommario: «L’integrazione tra
questi due popoli è l’ultima arma per annullare la cultura millenaria
del paese sul tetto del mondo». Chiaramente, il giornalista si è
lasciato abbagliare dall’immagine di un Tibet all’insegna della purezza
etnica e religiosa che è il sogno dei gruppi fondamentalisti e
secessionisti. Per comprenderne il carattere regressivo, basta ridare
la parola al cronista che ha ispirato Hollywood. Nel Tibet
pre-rivoluzionario, oltre ai tibetani e ai cinesi «si possono
incontrare anche lhadaki, bhutanesi, mongoli, sikkimesi, kazaki e via
dicendo». Sono ben presenti anche i nepalesi: «Le loro famiglie
rimangono quasi sempre nel Nepal, dove anche loro ritornano di tanto in
tanto. In questo differiscono dai cinesi, che sposano volentieri donne
tibetane, conducendo una vita coniugale esemplare» (pp. 168-9). La
maggiore «autonomia» che si rivendica, non si sa bene se per il Tibet
propriamente detto ovvero per il Grande Tibet, dovrebbe comportare
anche la possibilità per il governo regionale di vietare i matrimoni
misti e di realizzare una purezza etnica e culturale che non esisteva
neppure prima del 1949?

 
3. La cooptazione del Dalai Lama nell’Occidente e nella razza bianca e
la denuncia del pericolo giallo

L’articolo di Repubblica è prezioso perché ci permette di cogliere la
sottile vena razzista che attraversa la campagna anticinese in corso.
Com’è noto, nel ricercare le origini della razza «ariana» o «nordica» o
«bianca», la mitologia razzista e il Terzo Reich hanno spesso guardato
con interesse all’India e al Tibet: è di qui che avrebbe preso le mosse
la marcia trionfale della razza superiore. Nel 1939, al seguito di una
spedizione delle SS l’austriaco Harrer giunge nell’India del nord (oggi
Pakistan) e di qui poi penetra nel Tibet. Allorché incontra il Dalai
Lama, subito lo riconosce e lo celebra come membro della superiore
razza bianca: «La sua carnagione era molto più chiara di quella del
tibetano medio, e in qualche sfumatura anche più bianca di quella
dell’aristocrazia tibetana» (p. 280). Del tutto estranei alla razza
bianca sono invece i cinesi. Ecco perché è un evento straordinario la
prima conversazione che Sua Santità ha con Harrer: egli si trovava «per
la prima volta solo con un uomo bianco» (p. 277). In quanto
sostanzialmente bianco il Dalai Lama non era certo inferiore agli
«europei» ed era comunque «aperto a tutte le idee occidentali» (pp. 292
e 294). Ben diversamente si atteggiano i cinesi, nemici mortali
dell’Occidente. Lo conferma ad Harrer un «ministro-monaco» del Tibet
sacro: «nelle antiche scritture, ci disse, si leggeva una profezia: una
grande potenza del Nord muoverà guerra al Tibet, distruggerà la
religione e imporrà la sua egemonia al mondo» (p. 141). Non c’è dubbio:
la denuncia del pericolo giallo è il filo conduttore del libro che ha
ispirato la leggenda hollywoodiana del Dalai Lama.

Torniamo alla foto di gruppo che ha concluso il suo recente viaggio in
Italia. Fisicamente assenti ma idealmente ben presenti si possono
considerare Richard Gere e gli altri divi di Hollywood, inondati di
dollari per celebrare la leggenda del Dio-Re venuto dall’Oriente
misterioso. E’ doloroso ammetterlo ma bisogna prenderne atto: è ormai
da qualche tempo che, volte le spalle alla storia e alla geografia, una
certa sinistra si rivela in grado di alimentarsi solo di miti teosofici
e cinematografici, senza prendere le distanze neppure dai miti
cinematografici più torbidi.