Proseguiamo con questo contributo di Gianluigi Pegolo la documentazione
sulla polemica seguita alla intitolazione della piazza di Marghera ai
"martiri delle foibe" ed alle dichiarazioni di Bertinotti su "foibe" e
"nonviolenza":
La posizione di Bertinotti sulla violenza politica
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3095
Il commento di Claudia Cernigoi sulle dichiarazioni di Bertinotti:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3088
Foibe: dalla propaganda fascista al revisionismo storico. Un opuscolo
di controinformazione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2951
Foibe e monumenti
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2855
Spunti di discussione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2852
Luca Casarini ed i suoi squadristi
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2838
I "Centri Sociali del Nord Est" di nuovo in azione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2830
---
da "Liberazione" del 28/1/2004
MA SI PUO' COSTRUIRE QUALCOSA
A PARTIRE DA UN CUMULO DI MACERIE?
E cominciamo pure dalla questione della violenza. Molti fra quanti sono
intervenuti (da Tronti, a Raniero La valle, ecc) hanno espresso
posizioni che condivido. Che senso ha oggi questa palingenesi della non
violenza? Se si vuole polemizzare con comportamenti sbagliati a
sinistra che praticano (soprattutto simbolicamente) forme di lotta
discutibili sarebbe sufficiente richiamare queste forze nei momenti
dovuti (ma, guarda caso, ce n'e voluto prima di smettere di civettare
con queste forme di protesta). Se si vuole teorizzare che la guerra
preventiva e il terrorismo esauriscono il campo della violenza
possibile bisognerebbe allora per lo meno spiegare che fine ha fatto il
concetto di resistenza. In ogni caso, che senso ha assumere la non
violenza come categoria metastorica? E se, come ha posto Ingrao
(utilizzato il più delle volte solo per le affermazioni che tornano
comodo), ci si trovasse nella necessità di reagire all'aggressione?
Marginalmente, vorrei tornare sulla vicenda delle Foibe e dei fatti di
Venezia. Da quando in qua uno degli errori fondamentali che avrebbe
commesso la sinistra sarebbe stato quello di "angelizzare" la
resistenza? Forse che il problema fondamentale che abbiamo di fronte è
di contrastare l'apologia della violenza resistenziale? Non scherziamo.
Se vi è oggi un problema è semmai quello di respingere un'iniziativa
revisionistica che punta a fare di tutta un'erba un fascio, mettendo
repubblichini e partigiani sulla stessa barca, in nome di una comune
ispirazione patriottica o del rispetto che si deve comunque alla vita
umana. Vorrei anche mi si spiegasse come mai a Venezia i nostri
rappresentanti istituzionali abbiano accettato la modifica del nome di
una piazza al fine di celebrare i martiri delle foibe.
E, da questo punto di vista, mi permetto di chiedere: da oggi in poi i
nostri amministratori in giro per l'Italia, di fronte ad iniziative
analoghe promosse spesso dai DS (il più delle volte per fare
l'occhiolino all'elettorato di destra), cosa dovranno fare? Forse
accodarsi?
Le interpretazioni date nel partito di questo dibattito sulla violenza
non mi hanno convinto. Alcuni hanno insinuato che si trattasse del
prezzo da pagare per entrare nel salotto buono della borghesia, nella
prospettiva dell'entrata al governo. A me pare che vi sia qualcosa di
più profondo, e cioè il tentativo di definire un nuovo profilo di
questo partito e del suo ruolo. Consideriamo alcune affermazioni emerse
nel dibattito. Il compagno Bertinotti su una recente intervista su Il
manifesto ha testualmente detto: "Vorrei vederlo in faccia uno che oggi
dica voglio fare un partito marxista o leninista". Come debba essere
intesa questa frase (per me sorprendente) lo s'intuisce successivamente
dove, di fronte alla domanda sul senso che a questo punto assume il
riferimento al comunismo, la risposta è assai indicativa: "la parola
comunista ha un valore, ma non dice "io vengo da li", bensì "io vado
la". Quindi, il comunismo ha un senso se fa "tabula rasa" della sua
storia. In questa storia, naturalmente, non c'è solo Stalin, c'è Lenin
e anche il nostro povero Gramsci, che ora comprendiamo come sia stato
frettolosamente cancellato dal nostro statuto.
La domanda da porsi è la seguente: ma si può costruire qualcosa a
partire da un cumulo di macerie? La risposta che ci viene è non meno
sconcertante. Essa sta nel riferirsi all'assunzione dell'esperienza
pratica dei movimenti, escludendo ogni riferimento ad alcun elemento
teorico dato, ma anche semplicemente ad ogni riflessione
sull'esperienza del passato. In questo contesto, è il movimento a farsi
soggetto d'egemonia. E' il movimento, insomma, che si assume il compito
di svolgere il ruolo di intellettuale collettivo e, in ultima analisi,
di guidare la trasformazione. Ma qui sorge una prima questione e cioè
quella della presa del potere. In che modo, insomma, questo movimento
può trasformare la società, a maggior ragione se ormai gli stati
nazionali non esistono praticamente più, se il nuovo potere imperiale è
tanto forte quanto spazialmente inafferrabile? In primo luogo, mi pare,
che a questo quesito si tenti di rispondere attraverso alcune scelte:
con l'assunzione della centralità delle nuove "moltitudini" e
considerando praticamente azzerata la dimensione della sfera
politico-istituzionale; in secondo luogo con l'assolutizzazione, come
forma di lotta, della non violenza, scelta considerata obbligata di
fronte agli enormi squilibri nei rapporti di forza con l'impero, ed
infine, col rifiuto della presa del potere come occupazione della sfera
politico istituzionale. Qui il cerchio si chiude.
A questo punto, però, il trascendimento del capitalismo non si
comprende proprio da cosa nasca. Non si giova più di una contraddizione
principale (quella fra capitale e lavoro), non è supportato più da
soggetti sociali ben definiti, non può avvalersi delle contraddizioni
interimperialistiche, non ha avversari ben riconoscibili e aggredibili.
Si capisce, allora, perché parlando di comunismo si finisce con
l'alludere ad un non meglio precisato "di la da venire", ad un
affascinante, quanto vago, '"altro mondo possibile" i cui connotati
restano, per l'appunto, ancora largamente indefiniti.
Gianluigi Pegolo
sulla polemica seguita alla intitolazione della piazza di Marghera ai
"martiri delle foibe" ed alle dichiarazioni di Bertinotti su "foibe" e
"nonviolenza":
La posizione di Bertinotti sulla violenza politica
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3095
Il commento di Claudia Cernigoi sulle dichiarazioni di Bertinotti:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3088
Foibe: dalla propaganda fascista al revisionismo storico. Un opuscolo
di controinformazione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2951
Foibe e monumenti
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2855
Spunti di discussione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2852
Luca Casarini ed i suoi squadristi
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2838
I "Centri Sociali del Nord Est" di nuovo in azione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2830
---
da "Liberazione" del 28/1/2004
MA SI PUO' COSTRUIRE QUALCOSA
A PARTIRE DA UN CUMULO DI MACERIE?
E cominciamo pure dalla questione della violenza. Molti fra quanti sono
intervenuti (da Tronti, a Raniero La valle, ecc) hanno espresso
posizioni che condivido. Che senso ha oggi questa palingenesi della non
violenza? Se si vuole polemizzare con comportamenti sbagliati a
sinistra che praticano (soprattutto simbolicamente) forme di lotta
discutibili sarebbe sufficiente richiamare queste forze nei momenti
dovuti (ma, guarda caso, ce n'e voluto prima di smettere di civettare
con queste forme di protesta). Se si vuole teorizzare che la guerra
preventiva e il terrorismo esauriscono il campo della violenza
possibile bisognerebbe allora per lo meno spiegare che fine ha fatto il
concetto di resistenza. In ogni caso, che senso ha assumere la non
violenza come categoria metastorica? E se, come ha posto Ingrao
(utilizzato il più delle volte solo per le affermazioni che tornano
comodo), ci si trovasse nella necessità di reagire all'aggressione?
Marginalmente, vorrei tornare sulla vicenda delle Foibe e dei fatti di
Venezia. Da quando in qua uno degli errori fondamentali che avrebbe
commesso la sinistra sarebbe stato quello di "angelizzare" la
resistenza? Forse che il problema fondamentale che abbiamo di fronte è
di contrastare l'apologia della violenza resistenziale? Non scherziamo.
Se vi è oggi un problema è semmai quello di respingere un'iniziativa
revisionistica che punta a fare di tutta un'erba un fascio, mettendo
repubblichini e partigiani sulla stessa barca, in nome di una comune
ispirazione patriottica o del rispetto che si deve comunque alla vita
umana. Vorrei anche mi si spiegasse come mai a Venezia i nostri
rappresentanti istituzionali abbiano accettato la modifica del nome di
una piazza al fine di celebrare i martiri delle foibe.
E, da questo punto di vista, mi permetto di chiedere: da oggi in poi i
nostri amministratori in giro per l'Italia, di fronte ad iniziative
analoghe promosse spesso dai DS (il più delle volte per fare
l'occhiolino all'elettorato di destra), cosa dovranno fare? Forse
accodarsi?
Le interpretazioni date nel partito di questo dibattito sulla violenza
non mi hanno convinto. Alcuni hanno insinuato che si trattasse del
prezzo da pagare per entrare nel salotto buono della borghesia, nella
prospettiva dell'entrata al governo. A me pare che vi sia qualcosa di
più profondo, e cioè il tentativo di definire un nuovo profilo di
questo partito e del suo ruolo. Consideriamo alcune affermazioni emerse
nel dibattito. Il compagno Bertinotti su una recente intervista su Il
manifesto ha testualmente detto: "Vorrei vederlo in faccia uno che oggi
dica voglio fare un partito marxista o leninista". Come debba essere
intesa questa frase (per me sorprendente) lo s'intuisce successivamente
dove, di fronte alla domanda sul senso che a questo punto assume il
riferimento al comunismo, la risposta è assai indicativa: "la parola
comunista ha un valore, ma non dice "io vengo da li", bensì "io vado
la". Quindi, il comunismo ha un senso se fa "tabula rasa" della sua
storia. In questa storia, naturalmente, non c'è solo Stalin, c'è Lenin
e anche il nostro povero Gramsci, che ora comprendiamo come sia stato
frettolosamente cancellato dal nostro statuto.
La domanda da porsi è la seguente: ma si può costruire qualcosa a
partire da un cumulo di macerie? La risposta che ci viene è non meno
sconcertante. Essa sta nel riferirsi all'assunzione dell'esperienza
pratica dei movimenti, escludendo ogni riferimento ad alcun elemento
teorico dato, ma anche semplicemente ad ogni riflessione
sull'esperienza del passato. In questo contesto, è il movimento a farsi
soggetto d'egemonia. E' il movimento, insomma, che si assume il compito
di svolgere il ruolo di intellettuale collettivo e, in ultima analisi,
di guidare la trasformazione. Ma qui sorge una prima questione e cioè
quella della presa del potere. In che modo, insomma, questo movimento
può trasformare la società, a maggior ragione se ormai gli stati
nazionali non esistono praticamente più, se il nuovo potere imperiale è
tanto forte quanto spazialmente inafferrabile? In primo luogo, mi pare,
che a questo quesito si tenti di rispondere attraverso alcune scelte:
con l'assunzione della centralità delle nuove "moltitudini" e
considerando praticamente azzerata la dimensione della sfera
politico-istituzionale; in secondo luogo con l'assolutizzazione, come
forma di lotta, della non violenza, scelta considerata obbligata di
fronte agli enormi squilibri nei rapporti di forza con l'impero, ed
infine, col rifiuto della presa del potere come occupazione della sfera
politico istituzionale. Qui il cerchio si chiude.
A questo punto, però, il trascendimento del capitalismo non si
comprende proprio da cosa nasca. Non si giova più di una contraddizione
principale (quella fra capitale e lavoro), non è supportato più da
soggetti sociali ben definiti, non può avvalersi delle contraddizioni
interimperialistiche, non ha avversari ben riconoscibili e aggredibili.
Si capisce, allora, perché parlando di comunismo si finisce con
l'alludere ad un non meglio precisato "di la da venire", ad un
affascinante, quanto vago, '"altro mondo possibile" i cui connotati
restano, per l'appunto, ancora largamente indefiniti.
Gianluigi Pegolo