da il manifesto - 27 Marzo 2004

Kosovo, i serbi nella prigione a cielo aperto

REPORTAGE DALLE ENCLAVES
Dopo l'ultima pulizia etnica, niente traccia di
serbi e rom nel corridoio Mitrovica nord-Pristina. Tra i rifugiati di
Plemetina, Goradzevac, Priluzje e Gracanica
STEFANO LIBERTI INVIATO A GRACANICA (KOSOVO)

Stravaccati su una jeep, i soldati della Kfor-Nato rivolgono uno sguardo
svogliato ai documenti e ci fanno segno di passare: al di là del check
point, dietro la nube alzata dalla macchina, compare Plemetina, un
insieme
di casupole malmesse le cui strade polverose non hanno mai conosciuto
l'asfalto. Con le sue settanta famiglie serbe e il vicino campo rom,
questo
villaggio è una delle poche enclaves ancora abitate da minoranze nel
Kosovo
centrale. E' una specie di minuscolo scoglio circondato da un mare
albanese,
la cui popolazione sembra vivere su un altro pianeta: qui si parla il
serbo
e le transazioni non si concludono in euro, ma in dinari jugoslavi. Gli
abitanti votano per le elezioni parlamentari serbe e i più piccoli
seguono
gli stessi programmi di scuola dei loro coetanei a Belgrado. Misera e
ripiegata su se stessa, Plemetina è oggi sovraffollata: l'ondata di
violenza
scatenata dieci giorni fa dagli estremisti albanesi ha spinto diversi
serbi
scacciati dalle proprie case a trovare riparo in questo paesino. A poche
centinaia di metri da lì il villaggio di Obelic, abitato fino alla
settimana
scorsa dalle due comunità, è oggi etnicamente puro. Qui, nel corso di
una
singola giornata, è stata cancellata ogni traccia della presenza serba:
bruciate le case; incendiata e saccheggiata la chiesa ortodossa;
devastato
persino l'ufficio municipale dell'Unmik (l'amministrazione delle Nazioni
unite in Kosovo), simbolo di una presenza internazionale che neanche
più gli
albanesi percepiscono in modo tanto amichevole. Darko, gestore di un
centro
multiculturale a Plemetina, ricorda ogni particolare di quel giorno:
l'arrivo degli abitanti di Obelic in fuga, il fumo che si alzava
all'orizzonte e una folla di facinorosi albanesi che si andava
accalcando
minacciosa verso l'entrata del suo villaggio. «Alla fine hanno
desistito, ma
noi viviamo continuamente nella paura», sospira Darko. «Di certo non ci
sentiamo protetti dai soldati della Kfor». Difficile dargli torto:
l'ingresso dell'enclave è presidiato da uno striminzito manipolo di
truppe
slovacche, che sembrano pronte a fuggire al primo segno di tensione.

Un'oasi nel deserto

Plemetina è uno dei pochi luoghi in cui c'è ancora traccia di qualche
serbo
nel corridoio di 45 chilometri che va da Mitrovica nord a Pristina, che
a
sua volta è ormai una città albanese al 100 per cento. Quasi tutti gli
altri
villaggi sono stati svuotati sistematicamente dalle minoranze, con
incendi
mirati di case e saccheggi. Un'operazione nel corso della quale sono
state
distrutte più di duecento case e quattordici chiese e monasteri
ortodossi.
Evacuati dalla Kfor, i rifugiati di questa ultima ondata di violenza si
sono
diretti a Nord (a Mitrovica o all'interno dei confini della Serbia), o
verso
le poche enclaves del Kosovo centrale: Plemetina, Goradzevac, Priluzje
e,
soprattutto, Gracanica.

A pochi chilometri da Pristina, Gracanica è l'enclave per eccellenza.
Raggomitolata intorno a uno splendido monastero del XV secolo, conta una
popolazione di circa 10mila serbi e 600 rom. Lontano anni luce dalla
miseria
di Plemetina, questo villaggio ha l'aspetto di un'oasi nel deserto:
nelle
due strade che ne costituiscono la colonna vertebrale, si susseguono
alimentari, bar, negozi di vestiti e di dischi. C'è persino uno
sportello
della Western Union. Ma le violenze della settimana scorsa hanno mutato
in
parte la situazione di parziale benessere di cui godeva quest'isola
serba:
gli attacchi degli albanesi hanno fatto affluire qui centinaia di
rifugiati
e hanno portato all'interruzione dei collegamenti con l'esterno. Oggi
nessuno si arrischia a mettere il naso fuori dal paese; l'autobus che
collegava l'enclave a Pristina ha interrotto le corse; ai due check
point
posti agli ingressi del villaggio si percepisce un silenzio spettrale,
rotto
solo dal passaggio sporadico dei veicoli Unmik.

Raccolti nell'ospedale cittadino e nel monastero, che ha ritrovato la
sua
antica funzione di luogo d'asilo, i rifugiati sono a loro volta una
bomba a
orologeria. Molti non vogliono rimanere qui, intrappolati in questo
fortino
poco protetto. Temono nuovi attacchi e chiedono a gran voce di andare a
nord. Gli autoctoni, da parte loro, per il momento esprimono piena
solidarietà, ma non è escluso che tra breve non vedranno più i profughi
tanto di buon occhio.

Girando per le strade poco affollate del paese, si percepisce un certo
palpabile sconforto. Molti lamentano la carenza di viveri e medicine,
oltre
alla totale mancanza di libertà di movimento. «Siamo in una prigione a
cielo
aperto», afferma sconsolato Gozmen Salijevic, un ragazzo di 22 anni che
lavora in una Ong locale. «Gli albanesi sono riusciti a intimorirci e a
costringerci a rimanere rinchiusi in questo ghetto. Ma quello che è
accaduto
la settimana passata è solo l'inizio. Il loro obiettivo è eliminare
tutte le
minoranze per ottenere un Kosovo etnicamente puro».

Rapporti burrascosi con l'Unmik

Gozmen si sente sfiduciato, ha paura, vuole andare via. Racconta il
terrore
provato giovedì scorso, quando in televisione scorrevano le immagini
dell'assalto al vicino villaggio di Caglavica, messo a ferro e fuoco da
un
migliaio di esaltati albanesi. «Stavamo qui e aspettavamo solo che
venisse
il nostro turno». Una situazione, confida, peggiore anche dei
bombardamenti
della Nato nel 1999: «Lì era un terno a lotto; qui invece sapevamo che
eravamo proprio noi il bersaglio degli attacchi». Gozmen, che per il suo
lavoro andava spesso nella capitale, confessa che ora «non andrebbe a
Pristina neanche per un milione di euro». Oltre al governo ufficiale
dell'Unmik, Gracanica ha proprie istituzioni parallele finanziate
direttamente da Belgrado, soprattutto nel campo della scuola e della
sanità.
Le due amministrazioni hanno scarsissimi rapporti ma, in casi di
emergenza
come quello attuale, collaborano: la gestione dei profughi viene
coordinata
insieme, così come la distribuzione degli aiuti umanitari. Il che non
toglie
che la Unmik non gode di grande popolarità da queste parti. Una
mancanza di
fiducia che è ulteriormente aumentata nel corso dei pogrom, quando le
truppe
dell'Alleanza atlantica si sono limitate a facilitare la partenza dai
villaggi degli abitanti presi d'assalto, invece di proteggerne le case.

L'inazione dei soldati della Kfor durante gli attacchi della settimana
scorsa è, secondo molti, solo l'ultima conferma della volontà della
comunità
internazionale di abbandonare il Kosovo agli albanesi. Una convinzione
espressa senza sfumature da Mirce, un ragazzo sulla trentina che lavora
in
un piccolo spaccio di alimentari nel mezzo di Gracanica. Per lui, tutto
quanto è accaduto, non è frutto del caso ma fa parte di un disegno più
vasto: «La Kfor ha lasciato fare, perché la pulizia etnica ha permesso
di
semplificare la geografia della regione. Quando tutti i serbi saranno
scomparsi dalla riva sud dell'Ibar [il fiume che attraversa Mitrovica
ndr],
sarà più facile applicare la soluzione della spartizione, lasciando ai
serbi
solo il Kosovo del nord. A quel punto l'enclave di Gracanica non sarà
altro
che un lontano ricordo».