Da: ICDSM Italia
Data: Mar 30 Mar 2004 11:14:48 Europe/Rome
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Oggetto: [icdsm-italia] M. Parenti : La demonizzazione di Slobodan
Milosevic
[ for the original english text see here:
http://globalresearch.ca/articles/PAR312A.html
or here:
http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/message/18 ]
www.resistenze.org - popoli resistenti - jugoslavia - 27-03-04
fonte
http://www.rebelion.org/internacional/040206milosevic.htm
traduzione dallo spagnolo a cura del Ccdp
La demonizzazione di Slobodan Milosevic
Di Michel Parenti
Tradotto dall’inglese da Beatriz Morales Bastos per Rebelión
Il ceto dirigente statunitense professa dedizione alla democrazia. Ciò
nonostante, durante gli ultimi 50 anni, governi eletti democraticamente
- colpevoli di aver introdotto programmi economici “redistributivi” o
di rivendicare percorsi indipendenti che mal si conciliavano col
sistema del libero mercato globale patrocinato dagli Stati Uniti - si
sono visti nel mirino dell’apparato di sicurezza nazionale
statunitense. In questo modo, governi democratici in Argentina,
Bolivia, Brasile, Cile, Cipro, Repubblica Dominicana, Grecia,
Guatemala, Haiti, Siria, Uruguay ed in molte altre nazioni, sono stati
rovesciati dalle rispettive forze armate, finanziate ed assistite dagli
Stati Uniti. I dirigenti militari subentrati hanno quindi cancellato le
riforme egualitarie e spalancato le porte dei loro paesi agli
investitori ed alle imprese straniere.
L’apparato di sicurezza nazionale statunitense ha anche partecipato
segretamente ad azioni destabilizzanti, guerre di potere mercenarie ed
attacchi militari diretti contro governi rivoluzionari o nazionalisti
in Afghanistan (a metà degli anni ’80), Angola, Cambogia, Cuba, Timor
Est, Egitto, Etiopia, Isole Figi, Grenada, Haiti, Indonesia (sotto
Sukarno), Iran, Giamaica, Libano, Libia, Mozambico, Nicaragua, Panama,
Perù, Portogallo, Siria, Yemen del Sud, Venezuela (sotto Hugo Chavez),
Sahara Occidentale ed Iraq (sotto Saddam Hussein, autocratico ed
appoggiato dalla CIA, fintanto che non emerse la sua politica economica
di nazionalizzazione e non cercò di ottenere prezzi migliori dalla
vendita del petrolio).
Il metodo propagandistico utilizzato per screditare molti di questi
governi non è particolarmente originale, anzi, a questo punto, risulta
facilmente prevedibile. Si denunciano i dirigenti come magniloquenti,
ostili e psicologicamente tarati. Vengono catalogati come demagoghi
assetati di potere, uomini forti e volubili e della peggior razza di
dittatori, assimilati allo stesso Hitler. I paesi in questione vengono
tacciati come Stati “canaglia” o “terroristi”, colpevoli di essere
“anti-statunitensi” o “anti-occidentali”. Una minoranza selezionata è
anche condannata come appartenente all’“asse del male”. Quando i
dirigenti statunitensi prendono di mira un paese o demonizzano il suo
dirigente, vengono appoggiati da pubblicisti ideologicamente
sintonizzati, esperti, accademici, ex-funzionari di governo. Insieme
creano, nell’opinione pubblica, un clima tale da consentire a
Washington di compiere quanto necessario per arrecare gravi danni
all’infrastruttura ed alla popolazione della nazione designata, il
tutto in nome dei diritti umani, della lotta contro il terrorismo e per
la sicurezza nazionale.
A tal proposito non esiste esempio migliore che l’infaticabile
demonizzazione del presidente democraticamente eletto Slobodan
Milosevic e la guerra contro la Yugoslavia appoggiata dagli USA. Louis
Sell - funzionario degli Affari Esteri statunitense - ha scritto un
libro (“Slobodan Milosevic and the Destruction of Yugoslavia”, Duke
University Press, 2002), che rappresenta un’opera somma su Milosevic,
piena delle abituali immagini prefabbricate e delle presunzioni
politiche dello stato di sicurezza nazionale statunitense. Il Milosevic
di Sell è una caricatura, una persona astuta, avida di potere, un pazzo
furioso che attacca compagni fidati ed approfitta delle divisioni
interne al partito.
Questo Milosevic è, al tempo stesso, un “socialista ortodosso” ed un
“opportunista nazionalista serbo”, un demagogico “secondo Tito”
assetato di potere, che vuole un potere dittatoriale su tutta la
Yugoslavia e contemporaneamente porta ansiosamente avanti politiche che
“distruggono lo Stato che Tito creò”. L’autore non dimostra attraverso
riferimenti a politiche e specifici programmi che Milosevic è
responsabile dello smembramento della Yugoslavia, semplicemente ce lo
ripete, più e più volte. Si potrebbe pensare che forse abbiano a che
fare con questo i secessionisti sloveni, croati, bosniaci mussulmani,
macedoni ed albanesi del Kosovo, e gli interventisti degli Stati Uniti
e della NATO.
Secondo la mia opinione, il vero peccato commesso da Milosevic fu
resistere allo smembramento della Yugoslavia ed opporsi all’imposizione
dell’egemonia USA. Cercò inoltre di evitare alla Yugoslavia il peggio
delle spietate privatizzazioni e restrizioni che già avevano afflitto
altri vecchi paesi comunisti. La Yugoslavia fu l’unica nazione d’Europa
che non richiese di entrare nell’Unione Europea o nella NATO o
nell’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea).
Secondo alcuni intellettuali di sinistra la vecchia Yugoslavia non
poteva definirsi stato socialista, poiché aveva permesso un’eccessiva
penetrazione da parte di imprese private e FMI. Ma i politici
statunitensi sono ben noti per non avere la stessa visione del mondo
degli intellettuali puristi della sinistra. Per loro la Yugoslavia era
sufficientemente socialista con il suo sviluppato sistema di servizi
sociali ed un’economia pubblica per oltre il 75%. Sell chiarisce bene
che in Yugoslavia la proprietà pubblica e la difesa di tale sistema
economico da parte di Milosevic, furono considerazioni centrali nella
guerra di Washington contro la Yugoslavia. Milosevic, lamenta Sell, era
“compromesso con il socialismo ortodosso”. “Descriveva con continua
enfasi la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e la produzione
statale delle merci come le migliori garanzie di prosperità”. Dovette
andarsene.
Per esporre le sua argomentazioni contro Milosevic, Sell ricorre
spesso all’abituale argomento “ad hominem”. Così leggiamo che nella sua
infanzia Milosevic era “un tantino bigotto” e, pertanto, “un solitario
per natura”, un tipo di bambino strano, giacché “non gl’interessavano
gli sport né altre attività fisiche” e “disdegnò le monellerie
infantili a favore dei libri”. L’autore cita un anonimo compagno di
classe, il quale riferisce che la madre di Slobodan “lo vestiva in modo
grazioso e lo crebbe mite”. Ancor peggio, Slobodan non si univa mai a
loro quando gli altri bambini rubavano negli orti - senza dubbio un
segno indiscutibile di patologia infantile.
Più avanti Sell descrive Milosevic come “taciturno”, “incline ad un
vita appartata” e dedito ad un “caparbio fatalismo”. Ma i dati stessi
di Sell - quando fa una pausa nella sua caratterizzazione negativa e
passa ai dettagli - contraddicono lo stereotipo di disadattato
“solitario taciturno”. Riconosce che il giovane Milosevic lavorò bene
coi colleghi quando iniziò l’attività politica. Niente affatto incapace
di stabilire relazioni strette, Slobodan conobbe una ragazza, sua
futura moglie, ed insieme godettero di un vincolo duraturo per la vita.
All’inizio della sua carriera, quando era a capo della Banca di
Belgrado, si dice che Milosevic era “comunicativo, si preoccupava per
il personale della banca ed era molto popolare tra i dipendenti”. Altri
amici lo descrivono come una persona che andava d’accordo con la gente,
“disteso ed alla mano”, sposo fedele con sua moglie e padre orgoglioso
e devoto con i figli. Sell ammette che Milosevic era a volte “sicuro di
se stesso”, “estroverso” e “carismatico”. Ma lo stereotipo negativo è
talmente fermamente radicato a causa delle asserzioni ripetitive (e di
anni di propaganda da parte dei media occidentali e dei circuiti
ufficiali) che Sell può limitarsi a passar sopra alle prove che lo
contraddicono - anche quando è lui stesso ad offrirle.
Sell fa riferimento ad un anonimo “psichiatra statunitense che ha
studiato Milosevic da vicino”. Leggasi “da lontano”, dal momento che
nessuno psichiatra statunitense ha mai trattato, e nemmeno
intervistato, Milosevic. Tale innominato psichiatra si suppone abbia
diagnosticato al dirigente Yugoslavo una personalità “malignamente
narcisistica”. Sell ci dice che questo narcisismo maligno riempie
Milosevic di autodelusione, lasciandogli una “personalità tediosa” che
è una “farsa”. “Le persone con il tipo di personalità di Milosevic
spesso non possono o non vogliono riconoscere la realtà dei fatti che
divergono dalla loro personale percezione del modo in cui il mondo è o
dovrebbe essere”. Come fa a sapere tutte queste cose il Dott. Sigmund
Sell? Sembra trovare la prova nel fatto che Milosevic osò tracciare un
percorso divergente da quello emanato da Washington. Senza dubbio
solamente una patologia personale può spiegare cotanta ostinazione
“anti-occidentale”. Inoltre ci viene detto che Milosevic aveva il suo
“punto debole” nel fatto di non essersi mai sentito a suo agio con la
nozione di proprietà privata. Se non è una prova questa di narcisismo
maligno, che cos’è dunque? Sell non prende mai in considerazione la
possibilità che lui stesso e gli interventisti globali che la pensano
al par suo, non possano o non vogliano “riconoscere la realtà dei fatti
che divergono dalla loro personale percezione del modo in cui il mondo
è o dovrebbe essere”.
Milosevic, ci viene detto ripetutamente, cadde sotto la crescente
influenza di sua moglie, Mirjana Markovic, “l’autentico potere dietro
il trono”; in un’occasione la definisce anche “Lady Macbeth”. La ritrae
come una vera maniaca, posseduta da un’ira incontrollabile, i suoi
occhi “vibravano come un animale spaventato”; “soffre di schizofrenia
profonda” con un’“inconsistente discernimento della realtà” ed è
un’”ipocondriaca” incurabile. Inoltre, non simula “gran che” ed ha una
personalità “fantasiosa” e “traumatizzata”. Come suo marito, col quale
condivide “una relazione molto anomala”, ha un “rapporto autistico col
mondo”. Peggio ancora, ha un’”ideologia marxista dura”.
Ci resta da chiederci in qual modo il Milosevic disadattato ed
autistico fu capace di lavorare come un popolare professore
universitario, organizzare e dirigere un nuovo partito politico e
svolgere un ruolo attivo nella resistenza popolare contro
l’interventismo occidentale.
In questo libro, ogni volta che si citano le parole di Milosevic o di
qualsiasi altro della sua cerchia, questi “grugniscono”, “parlano in
fretta e furia”, “parlano tra i denti” o “si vantano”.
Al contrario i politici che si sono meritati l’approvazione di Sell
“osservano”, “espongono”, fanno notare” e “concludono”. Quando uno dei
superiori di Milosevic esprime la sua inquietudine circa i “rumorosi
serbi del Kosovo” (come li chiama Sell) che manifestavano contro i
maltrattamenti patiti per mano degli albanesi kosovari secessionisti,
Milosevic “dice a denti stretti”: “Perché avete tanta paura della
strada e del popolo?” Qualcuno di noi potrebbe pensare che questa sia
un’ottima domanda da fare a denti stretti ad un dirigente di governo,
ma Sell la considera una prova della demagogia di Milosevic.
Ogni volta che Milosevic faceva qualcosa a favore del comune
cittadino, come quando tassò gli interessi dei conti in valuta
straniera, una politica impopolare tra l’elite serba, ma apprezzata
dagli strati più poveri della popolazione, viene tacciato di manipolare
il favore popolare. Così dobbiamo accettare la parola di Sell, secondo
cui Milosevic non volle mai il potere per evitare la fame, viceversa
era semplicemente affamato di potere. Sell opera con un paradigma non
falso-credibile. Se il leader in questione è irresponsabile nei
confronti del popolo, ciò costituisce una prova della sua propensione
dittatoriale; se è responsabile verso il popolo, ciò dimostra il suo
demagogico opportunismo. Fedele alla visione ufficiale statunitense del
mondo, Sell etichetta “Milosevic ed i suoi subalterni” come “partigiani
della linea dura”, “conservatori” ed “ideologi”, “anti-occidentali”
rinchiusi nel “dogma socialista”. Al contrario i secessionisti croati,
bosniaci ed albanesi kosovari, che lavorarono tenacemente per smembrare
la Yugoslavia e consegnare le rispettive repubbliche alle tenere
benedizioni del neocapitalismo, sono definiti “riformatori
dell’economia”, “dirigenti neoliberali” e “filo-occidentali” (leggi:
capitalisti a favore delle imprese transnazionali). Sell considera la
“democrazia stile occidentale” e la “moderna economia di mercato” come
necessariamente correlati.
Non ha nulla da dire sulle tremende difficoltà dei paesi dell’Europa
dell’Est che hanno abbandonato le loro deficitarie ma sopportabili
economie pianificate per le spietate estorsioni del laisser-faire
capitalistico.
La sensibilità di Sell di fronte alla demagogia non si estende a
Franjo Tudjman, il croata cripto-fascista ed antisemita che parla bene
di Hitler e che ha imposto il suo severo governo autocratico alla
Croazia da poco indipendente. Tudjman sminuì l’olocausto considerandolo
un’esagerazione ed acclamò apertamente all’organizzazione nazi-croata
degli Ustascia della seconda guerra mondiale. Arrivò perfino ad
includere nel suo governo alcuni veterani dirigenti ustascia. Sell non
dice parola alcuna di tutto ciò e considera Tudjman semplicemente come
buon veterano nazionalista croato. Allo stesso modo non ha parole
critiche per il dirigente bosniaco mussulmano Alija Izetbegovic.
Commenta laconicamente che nel 1946 Izetbegovic “fu condannato a tre
anni di carcere per appartenenza ad un gruppo chiamato i Giovani
Mussulmani”. Si resta con l’impressione che il governo comunista di
Yugoslavia avesse oppresso un devoto mussulmano. Ciò che Sell non
menziona è che durante la seconda guerra mondiale il giovane mussulmano
reclutò attivamente unità mussulmane per le SS naziste; queste unità
perpetrarono orribili atrocità contro il movimento di resistenza e la
popolazione ebrea della Yugoslavia. Izetbegovic se la cavò con una
sentenza di soli tre anni.
In questo libro si dice pochissimo della pulizia etnica perpetrata
contro i serbi da parte dei dirigenti appoggiati dagli USA, come
Tudjman ed Izetbegovic, durante e dopo le guerre contro la Yugoslavia
sostenute dagli USA. Al contrario, non si fa menzione della diversità e
tolleranza etnica esistenti nella Yugoslavia del presidente Milosevic.
Tutto ciò che restava della Yugoslavia nel 1999 erano la Serbia ed il
Montenegro. Ai lettori non si dice mai che questa nazione era l’unica
residua società multietnica che rimaneva delle ex-repubbliche
yugoslave, l’unico luogo in cui serbi, albanesi, croati, gorani, ebrei,
egiziani, ungheresi, zingari, e molti altri gruppi etnici potevano
convivere con misure certe di sicurezza e tolleranza.
L’implacabile demonizzazione di Milosevic si estende al popolo serbo
in generale. Nel libro di Sell i serbi sono nazionalisti esasperati. I
serbi del Kosovo, che manifestano contro i maltrattamenti ricevuti dai
nazionalisti albanesi, sono descritti come persone che hanno un
“crescente desiderio di sangue”. I lavoratori serbi, che manifestano
per difendere i loro diritti e le conquiste faticosamente acquisite,
sono sminuiti da Sell come “gli strumenti più bassi della banda”. I
serbi che per secoli hanno vissuto nella Krajina ed in altre zone della
Croazia sono denigrati e etichettati come occupanti coloniali.
All’opposto, i secessionisti nazionalisti sloveni, croati e bosniaci
mussulmani e gli irredentisti albanesi kosovari sono semplicemente alla
ricerca di “indipendenza”, “autodeterminazione”, “sovranità e
differenziazione culturale”. In questo libro, i pistoleri albanesi
dell’UCK non sono trafficanti di prima linea, terroristi ed esecutori
di pulizie etniche, ma combattenti e patrioti.
Le presunte azioni militari dei serbi, descritte nei termini più
vaghi, sono ripetutamente definite “brutali”, mentre gli assalti e le
atrocità commesse contro i serbi da parte di altri gruppi nazionalisti
sono generalmente accettate come rappresaglie ed atti difensivi, o sono
sminuite da Sell che le considera “false”, “molto esagerate”, ed
“oltremodo sbandierate”. Milosevic, afferma Sell, disseminò “propaganda
maliziosa” contro i croati, ma non ne riporta alcuna in concreto. Sell
offre uno o due esempi di come i villaggi serbi furono saccheggiati ed
i loro abitanti violentati ed assassinati da parte dei secessionisti
albanesi. In funzione di ciò riconosce, malvolentieri, che “qualcuna
delle accuse dei serbi… ha un fondo di verità”. Ma non fa nulla di più
al riguardo.
La storia, comoda e ben ordita, circa il massacro serbo degli albanesi
disarmati nel villaggio di Racak, strombazzata in modo grossolano dal
diplomatico statunitense e disinformatore di lunga data, William
Walker, è accettata incondizionatamente da Sell, che ignora tutte le
prove contrarie. Una squadra televisiva dell’Associated Press aveva
filmato la battaglia che ebbe luogo a Racak il giorno prima che la
polizia serba ammazzasse vari membri dell’UCK. Un giornalista francese
che era stato a Racak più tardi in quello stesso giorno, trovò prove di
una battaglia, ma non prove di un massacro di civili disarmati; tanto
meno le trovarono gli stessi osservatori della missione di verifica del
Kosovo di Walker. Tutte le relazioni dei periti rivelarono che, in
pratica, le 44 persone uccise avevano usato armi da fuoco e tutte erano
morte in combattimento. Sell semplicemente ignora queste prove.
La storia molto mediatizzata del modo in cui i serbi, presumibilmente,
avrebbero ammazzato 7000 mussulmani a Srebrenica, è accettata senza
alcuna critica anche quando le indagini più esaustive non hanno
dissotterrato più di 2000 corpi di nazionalità indeterminata.
S’ignorano i precedenti massacri portati invece a termine dai
mussulmani, che rasero al suolo una cinquantina di villaggi serbi
intorno a Srebrenica, secondo le informazioni di due corrispondenti
della BBC e di altri giornalisti. Allo stesso modo passa sotto
silenzio la totale incapacità del gruppo di periti occidentali di
localizzare i 250.000 o 100.000 o 50.000 corpi di albanesi (il numero
continua a cambiare) che si dicono assassinati dai serbi in Kosovo.
L’interpretazione di Sell di ciò che accadde a Rambouillet lascia
molto a desiderare. Secondo le condizioni di Rambouillet, il Kosovo
sarebbe diventato una colonia della NATO. Milosevic avrebbe potuto
anche accettarlo, seppure a malincuore, disperato per non poter evitare
un attacco totale della NATO al resto della Yugoslavia. Ma, per essere
sicura che la guerra fosse inevitabile, la delegazione statunitense
aggiunse una sorprendente condizione, chiedendo che le forze ed il
personale della NATO avessero libero accesso a tutta la Yugoslavia, uso
senza restrizioni dei suoi aeroporti, treni, porti, servizi di
comunicazione e radiotelevisione, senza costi ed immuni da qualsiasi
giurisdizione delle autorità yugoslave.
La NATO avrebbe anche avuto la possibilità di modificare a proprio uso
tutte le infrastrutture della Yugoslavia, incluse strade, ponti,
gallerie, edifici e strutture pubbliche. In effetti non solo il Kosovo,
ma tutta la Yugoslavia, si sarebbe vista sottomessa allo straordinario
equivalente di un’occupazione coloniale assoluta.
Sell non menziona questi dettagli. In cambio ci assicura che le
esigenze della NATO di accesso senza restrizioni alla Yugoslavia non
erano nulla più che una forma di protocollo introdotta “in gran parte
per ragioni legali”. Un’idea simile di accordo, ma meno radicale -
afferma - faceva parte del pacchetto di Dayton. In più, l’accordo di
Dayton riduce la Bosnia ad una colonia occidentale. Ma, se non c’era
nulla di male nell’ultimatum di Rambouillet, allora perché Milosevic lo
rifiutò? Sell attribuisce la resistenza di Milosevic alla sua perversa
“mentalità da bunker” ed alla sua necessità di sfidare il mondo.
Non vi è una sola parola in questo libro che descriva i 78 giorni di
bombardamenti massicci, per 24 ore al giorno, della NATO sulla
Yugoslavia; nessun accenno al fatto che tali bombardamenti causarono la
perdita di migliaia di vite, ferirono e mutilarono altrettante
migliaia, contaminarono gran parte delle terre e dell’acqua con uranio
impoverito e distrussero la maggior parte del settore industriale
pubblico e delle infrastrutture del paese, mentre lasciarono
perfettamente intatte tutte le strutture delle imprese private
occidentali.
Le fonti di Sell si basano sulla condivisione della versione ufficiale
statunitense della battaglia dei Balcani. Non sfiorano né citano
osservatori che offrono una prospettiva critica più indipendente, come
Sean Gervassi, Diana Johnstone, Gregory Elich, Nicholas Stavrous,
Michel Collon, Raju Thomas e Michel Chossudovsky. Importanti fonti
occidentali, che segnalo nel mio libro sulla Yugoslavia, offrono prove,
testimonianze e documentazione che discordano dalle conclusioni di
Sell, incluse fonti degli Interni dell’Unione Europea, della
Commissione della Comunità Europea per i Diritti delle Donne, dell’OSCE
e della sua Missione di Verifica in Kosovo, della Commissione delle
Nazioni Unite sui Crimini di Guerra e di altre Commissioni delle
Nazioni Unite, varie relazioni dei Dipartimenti di Stato, relazioni
dei ministeri tedeschi degli Affari Esteri e della Difesa, e della
Croce Rossa Internazionale. Sell non si avvale di queste fonti.
Ignora anche testimonianze e dichiarazioni di congressisti
statunitensi che visitarono i Balcani, un ex-funzionario del
Dipartimento di Stato sotto l’amministrazione Bush, un ex-sottufficiale
del comando statunitense europeo, diversi generali delle Nazioni Unite
e della NATO e negoziatori internazionali, piloti spagnoli, squadre di
periti di differenti paesi ed osservatori delle Nazioni Unite, i quali
hanno fornito rivelazioni in contraddizione col quadro dipinto da Sell
e da altri difensori della versione ufficiale USA.
Riassumendo, il libro di Sell è pieno zeppo d’incongruenze su
informazioni riservate, accuse senza fondamento, supposizioni senza
indagine e stereotipi zavorrati ideologicamente.
Si tratta di un buon lavoro, fintanto che la disinformazione continua
ad essere la tendenza dominante.
Note.
Ustascia: Organizzazione che nel 1941 i paesi dell’Asse - Germania,
Italia e Giappone - incaricarono della cosiddetta operazione
“Indipendenza croata” e che nel 1945 fu espulsa dai partigiani
yugoslavi e dall’Esercito Rosso (N.d.t.)
Gli ultimi libri di Michel Parenti sono “To Kill a Nation: the Attack
on Yugoslavia” (Verso), e “Terrorism Trap: September 11 and Beyond”
(City Lights). Il suo ultimo lavoro, “The Assesination of Julius
Caesar: A People History of Ancient Rome”, è stato candidato al Premio
Pulitzer.
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00043 Ciampino (Roma)
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intestato ad Adolfo Amoroso, ROMA
causale: DIFESA MILOSEVIC
Data: Mar 30 Mar 2004 11:14:48 Europe/Rome
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La demonizzazione di Slobodan Milosevic
Di Michel Parenti
Tradotto dall’inglese da Beatriz Morales Bastos per Rebelión
Il ceto dirigente statunitense professa dedizione alla democrazia. Ciò
nonostante, durante gli ultimi 50 anni, governi eletti democraticamente
- colpevoli di aver introdotto programmi economici “redistributivi” o
di rivendicare percorsi indipendenti che mal si conciliavano col
sistema del libero mercato globale patrocinato dagli Stati Uniti - si
sono visti nel mirino dell’apparato di sicurezza nazionale
statunitense. In questo modo, governi democratici in Argentina,
Bolivia, Brasile, Cile, Cipro, Repubblica Dominicana, Grecia,
Guatemala, Haiti, Siria, Uruguay ed in molte altre nazioni, sono stati
rovesciati dalle rispettive forze armate, finanziate ed assistite dagli
Stati Uniti. I dirigenti militari subentrati hanno quindi cancellato le
riforme egualitarie e spalancato le porte dei loro paesi agli
investitori ed alle imprese straniere.
L’apparato di sicurezza nazionale statunitense ha anche partecipato
segretamente ad azioni destabilizzanti, guerre di potere mercenarie ed
attacchi militari diretti contro governi rivoluzionari o nazionalisti
in Afghanistan (a metà degli anni ’80), Angola, Cambogia, Cuba, Timor
Est, Egitto, Etiopia, Isole Figi, Grenada, Haiti, Indonesia (sotto
Sukarno), Iran, Giamaica, Libano, Libia, Mozambico, Nicaragua, Panama,
Perù, Portogallo, Siria, Yemen del Sud, Venezuela (sotto Hugo Chavez),
Sahara Occidentale ed Iraq (sotto Saddam Hussein, autocratico ed
appoggiato dalla CIA, fintanto che non emerse la sua politica economica
di nazionalizzazione e non cercò di ottenere prezzi migliori dalla
vendita del petrolio).
Il metodo propagandistico utilizzato per screditare molti di questi
governi non è particolarmente originale, anzi, a questo punto, risulta
facilmente prevedibile. Si denunciano i dirigenti come magniloquenti,
ostili e psicologicamente tarati. Vengono catalogati come demagoghi
assetati di potere, uomini forti e volubili e della peggior razza di
dittatori, assimilati allo stesso Hitler. I paesi in questione vengono
tacciati come Stati “canaglia” o “terroristi”, colpevoli di essere
“anti-statunitensi” o “anti-occidentali”. Una minoranza selezionata è
anche condannata come appartenente all’“asse del male”. Quando i
dirigenti statunitensi prendono di mira un paese o demonizzano il suo
dirigente, vengono appoggiati da pubblicisti ideologicamente
sintonizzati, esperti, accademici, ex-funzionari di governo. Insieme
creano, nell’opinione pubblica, un clima tale da consentire a
Washington di compiere quanto necessario per arrecare gravi danni
all’infrastruttura ed alla popolazione della nazione designata, il
tutto in nome dei diritti umani, della lotta contro il terrorismo e per
la sicurezza nazionale.
A tal proposito non esiste esempio migliore che l’infaticabile
demonizzazione del presidente democraticamente eletto Slobodan
Milosevic e la guerra contro la Yugoslavia appoggiata dagli USA. Louis
Sell - funzionario degli Affari Esteri statunitense - ha scritto un
libro (“Slobodan Milosevic and the Destruction of Yugoslavia”, Duke
University Press, 2002), che rappresenta un’opera somma su Milosevic,
piena delle abituali immagini prefabbricate e delle presunzioni
politiche dello stato di sicurezza nazionale statunitense. Il Milosevic
di Sell è una caricatura, una persona astuta, avida di potere, un pazzo
furioso che attacca compagni fidati ed approfitta delle divisioni
interne al partito.
Questo Milosevic è, al tempo stesso, un “socialista ortodosso” ed un
“opportunista nazionalista serbo”, un demagogico “secondo Tito”
assetato di potere, che vuole un potere dittatoriale su tutta la
Yugoslavia e contemporaneamente porta ansiosamente avanti politiche che
“distruggono lo Stato che Tito creò”. L’autore non dimostra attraverso
riferimenti a politiche e specifici programmi che Milosevic è
responsabile dello smembramento della Yugoslavia, semplicemente ce lo
ripete, più e più volte. Si potrebbe pensare che forse abbiano a che
fare con questo i secessionisti sloveni, croati, bosniaci mussulmani,
macedoni ed albanesi del Kosovo, e gli interventisti degli Stati Uniti
e della NATO.
Secondo la mia opinione, il vero peccato commesso da Milosevic fu
resistere allo smembramento della Yugoslavia ed opporsi all’imposizione
dell’egemonia USA. Cercò inoltre di evitare alla Yugoslavia il peggio
delle spietate privatizzazioni e restrizioni che già avevano afflitto
altri vecchi paesi comunisti. La Yugoslavia fu l’unica nazione d’Europa
che non richiese di entrare nell’Unione Europea o nella NATO o
nell’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea).
Secondo alcuni intellettuali di sinistra la vecchia Yugoslavia non
poteva definirsi stato socialista, poiché aveva permesso un’eccessiva
penetrazione da parte di imprese private e FMI. Ma i politici
statunitensi sono ben noti per non avere la stessa visione del mondo
degli intellettuali puristi della sinistra. Per loro la Yugoslavia era
sufficientemente socialista con il suo sviluppato sistema di servizi
sociali ed un’economia pubblica per oltre il 75%. Sell chiarisce bene
che in Yugoslavia la proprietà pubblica e la difesa di tale sistema
economico da parte di Milosevic, furono considerazioni centrali nella
guerra di Washington contro la Yugoslavia. Milosevic, lamenta Sell, era
“compromesso con il socialismo ortodosso”. “Descriveva con continua
enfasi la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e la produzione
statale delle merci come le migliori garanzie di prosperità”. Dovette
andarsene.
Per esporre le sua argomentazioni contro Milosevic, Sell ricorre
spesso all’abituale argomento “ad hominem”. Così leggiamo che nella sua
infanzia Milosevic era “un tantino bigotto” e, pertanto, “un solitario
per natura”, un tipo di bambino strano, giacché “non gl’interessavano
gli sport né altre attività fisiche” e “disdegnò le monellerie
infantili a favore dei libri”. L’autore cita un anonimo compagno di
classe, il quale riferisce che la madre di Slobodan “lo vestiva in modo
grazioso e lo crebbe mite”. Ancor peggio, Slobodan non si univa mai a
loro quando gli altri bambini rubavano negli orti - senza dubbio un
segno indiscutibile di patologia infantile.
Più avanti Sell descrive Milosevic come “taciturno”, “incline ad un
vita appartata” e dedito ad un “caparbio fatalismo”. Ma i dati stessi
di Sell - quando fa una pausa nella sua caratterizzazione negativa e
passa ai dettagli - contraddicono lo stereotipo di disadattato
“solitario taciturno”. Riconosce che il giovane Milosevic lavorò bene
coi colleghi quando iniziò l’attività politica. Niente affatto incapace
di stabilire relazioni strette, Slobodan conobbe una ragazza, sua
futura moglie, ed insieme godettero di un vincolo duraturo per la vita.
All’inizio della sua carriera, quando era a capo della Banca di
Belgrado, si dice che Milosevic era “comunicativo, si preoccupava per
il personale della banca ed era molto popolare tra i dipendenti”. Altri
amici lo descrivono come una persona che andava d’accordo con la gente,
“disteso ed alla mano”, sposo fedele con sua moglie e padre orgoglioso
e devoto con i figli. Sell ammette che Milosevic era a volte “sicuro di
se stesso”, “estroverso” e “carismatico”. Ma lo stereotipo negativo è
talmente fermamente radicato a causa delle asserzioni ripetitive (e di
anni di propaganda da parte dei media occidentali e dei circuiti
ufficiali) che Sell può limitarsi a passar sopra alle prove che lo
contraddicono - anche quando è lui stesso ad offrirle.
Sell fa riferimento ad un anonimo “psichiatra statunitense che ha
studiato Milosevic da vicino”. Leggasi “da lontano”, dal momento che
nessuno psichiatra statunitense ha mai trattato, e nemmeno
intervistato, Milosevic. Tale innominato psichiatra si suppone abbia
diagnosticato al dirigente Yugoslavo una personalità “malignamente
narcisistica”. Sell ci dice che questo narcisismo maligno riempie
Milosevic di autodelusione, lasciandogli una “personalità tediosa” che
è una “farsa”. “Le persone con il tipo di personalità di Milosevic
spesso non possono o non vogliono riconoscere la realtà dei fatti che
divergono dalla loro personale percezione del modo in cui il mondo è o
dovrebbe essere”. Come fa a sapere tutte queste cose il Dott. Sigmund
Sell? Sembra trovare la prova nel fatto che Milosevic osò tracciare un
percorso divergente da quello emanato da Washington. Senza dubbio
solamente una patologia personale può spiegare cotanta ostinazione
“anti-occidentale”. Inoltre ci viene detto che Milosevic aveva il suo
“punto debole” nel fatto di non essersi mai sentito a suo agio con la
nozione di proprietà privata. Se non è una prova questa di narcisismo
maligno, che cos’è dunque? Sell non prende mai in considerazione la
possibilità che lui stesso e gli interventisti globali che la pensano
al par suo, non possano o non vogliano “riconoscere la realtà dei fatti
che divergono dalla loro personale percezione del modo in cui il mondo
è o dovrebbe essere”.
Milosevic, ci viene detto ripetutamente, cadde sotto la crescente
influenza di sua moglie, Mirjana Markovic, “l’autentico potere dietro
il trono”; in un’occasione la definisce anche “Lady Macbeth”. La ritrae
come una vera maniaca, posseduta da un’ira incontrollabile, i suoi
occhi “vibravano come un animale spaventato”; “soffre di schizofrenia
profonda” con un’“inconsistente discernimento della realtà” ed è
un’”ipocondriaca” incurabile. Inoltre, non simula “gran che” ed ha una
personalità “fantasiosa” e “traumatizzata”. Come suo marito, col quale
condivide “una relazione molto anomala”, ha un “rapporto autistico col
mondo”. Peggio ancora, ha un’”ideologia marxista dura”.
Ci resta da chiederci in qual modo il Milosevic disadattato ed
autistico fu capace di lavorare come un popolare professore
universitario, organizzare e dirigere un nuovo partito politico e
svolgere un ruolo attivo nella resistenza popolare contro
l’interventismo occidentale.
In questo libro, ogni volta che si citano le parole di Milosevic o di
qualsiasi altro della sua cerchia, questi “grugniscono”, “parlano in
fretta e furia”, “parlano tra i denti” o “si vantano”.
Al contrario i politici che si sono meritati l’approvazione di Sell
“osservano”, “espongono”, fanno notare” e “concludono”. Quando uno dei
superiori di Milosevic esprime la sua inquietudine circa i “rumorosi
serbi del Kosovo” (come li chiama Sell) che manifestavano contro i
maltrattamenti patiti per mano degli albanesi kosovari secessionisti,
Milosevic “dice a denti stretti”: “Perché avete tanta paura della
strada e del popolo?” Qualcuno di noi potrebbe pensare che questa sia
un’ottima domanda da fare a denti stretti ad un dirigente di governo,
ma Sell la considera una prova della demagogia di Milosevic.
Ogni volta che Milosevic faceva qualcosa a favore del comune
cittadino, come quando tassò gli interessi dei conti in valuta
straniera, una politica impopolare tra l’elite serba, ma apprezzata
dagli strati più poveri della popolazione, viene tacciato di manipolare
il favore popolare. Così dobbiamo accettare la parola di Sell, secondo
cui Milosevic non volle mai il potere per evitare la fame, viceversa
era semplicemente affamato di potere. Sell opera con un paradigma non
falso-credibile. Se il leader in questione è irresponsabile nei
confronti del popolo, ciò costituisce una prova della sua propensione
dittatoriale; se è responsabile verso il popolo, ciò dimostra il suo
demagogico opportunismo. Fedele alla visione ufficiale statunitense del
mondo, Sell etichetta “Milosevic ed i suoi subalterni” come “partigiani
della linea dura”, “conservatori” ed “ideologi”, “anti-occidentali”
rinchiusi nel “dogma socialista”. Al contrario i secessionisti croati,
bosniaci ed albanesi kosovari, che lavorarono tenacemente per smembrare
la Yugoslavia e consegnare le rispettive repubbliche alle tenere
benedizioni del neocapitalismo, sono definiti “riformatori
dell’economia”, “dirigenti neoliberali” e “filo-occidentali” (leggi:
capitalisti a favore delle imprese transnazionali). Sell considera la
“democrazia stile occidentale” e la “moderna economia di mercato” come
necessariamente correlati.
Non ha nulla da dire sulle tremende difficoltà dei paesi dell’Europa
dell’Est che hanno abbandonato le loro deficitarie ma sopportabili
economie pianificate per le spietate estorsioni del laisser-faire
capitalistico.
La sensibilità di Sell di fronte alla demagogia non si estende a
Franjo Tudjman, il croata cripto-fascista ed antisemita che parla bene
di Hitler e che ha imposto il suo severo governo autocratico alla
Croazia da poco indipendente. Tudjman sminuì l’olocausto considerandolo
un’esagerazione ed acclamò apertamente all’organizzazione nazi-croata
degli Ustascia della seconda guerra mondiale. Arrivò perfino ad
includere nel suo governo alcuni veterani dirigenti ustascia. Sell non
dice parola alcuna di tutto ciò e considera Tudjman semplicemente come
buon veterano nazionalista croato. Allo stesso modo non ha parole
critiche per il dirigente bosniaco mussulmano Alija Izetbegovic.
Commenta laconicamente che nel 1946 Izetbegovic “fu condannato a tre
anni di carcere per appartenenza ad un gruppo chiamato i Giovani
Mussulmani”. Si resta con l’impressione che il governo comunista di
Yugoslavia avesse oppresso un devoto mussulmano. Ciò che Sell non
menziona è che durante la seconda guerra mondiale il giovane mussulmano
reclutò attivamente unità mussulmane per le SS naziste; queste unità
perpetrarono orribili atrocità contro il movimento di resistenza e la
popolazione ebrea della Yugoslavia. Izetbegovic se la cavò con una
sentenza di soli tre anni.
In questo libro si dice pochissimo della pulizia etnica perpetrata
contro i serbi da parte dei dirigenti appoggiati dagli USA, come
Tudjman ed Izetbegovic, durante e dopo le guerre contro la Yugoslavia
sostenute dagli USA. Al contrario, non si fa menzione della diversità e
tolleranza etnica esistenti nella Yugoslavia del presidente Milosevic.
Tutto ciò che restava della Yugoslavia nel 1999 erano la Serbia ed il
Montenegro. Ai lettori non si dice mai che questa nazione era l’unica
residua società multietnica che rimaneva delle ex-repubbliche
yugoslave, l’unico luogo in cui serbi, albanesi, croati, gorani, ebrei,
egiziani, ungheresi, zingari, e molti altri gruppi etnici potevano
convivere con misure certe di sicurezza e tolleranza.
L’implacabile demonizzazione di Milosevic si estende al popolo serbo
in generale. Nel libro di Sell i serbi sono nazionalisti esasperati. I
serbi del Kosovo, che manifestano contro i maltrattamenti ricevuti dai
nazionalisti albanesi, sono descritti come persone che hanno un
“crescente desiderio di sangue”. I lavoratori serbi, che manifestano
per difendere i loro diritti e le conquiste faticosamente acquisite,
sono sminuiti da Sell come “gli strumenti più bassi della banda”. I
serbi che per secoli hanno vissuto nella Krajina ed in altre zone della
Croazia sono denigrati e etichettati come occupanti coloniali.
All’opposto, i secessionisti nazionalisti sloveni, croati e bosniaci
mussulmani e gli irredentisti albanesi kosovari sono semplicemente alla
ricerca di “indipendenza”, “autodeterminazione”, “sovranità e
differenziazione culturale”. In questo libro, i pistoleri albanesi
dell’UCK non sono trafficanti di prima linea, terroristi ed esecutori
di pulizie etniche, ma combattenti e patrioti.
Le presunte azioni militari dei serbi, descritte nei termini più
vaghi, sono ripetutamente definite “brutali”, mentre gli assalti e le
atrocità commesse contro i serbi da parte di altri gruppi nazionalisti
sono generalmente accettate come rappresaglie ed atti difensivi, o sono
sminuite da Sell che le considera “false”, “molto esagerate”, ed
“oltremodo sbandierate”. Milosevic, afferma Sell, disseminò “propaganda
maliziosa” contro i croati, ma non ne riporta alcuna in concreto. Sell
offre uno o due esempi di come i villaggi serbi furono saccheggiati ed
i loro abitanti violentati ed assassinati da parte dei secessionisti
albanesi. In funzione di ciò riconosce, malvolentieri, che “qualcuna
delle accuse dei serbi… ha un fondo di verità”. Ma non fa nulla di più
al riguardo.
La storia, comoda e ben ordita, circa il massacro serbo degli albanesi
disarmati nel villaggio di Racak, strombazzata in modo grossolano dal
diplomatico statunitense e disinformatore di lunga data, William
Walker, è accettata incondizionatamente da Sell, che ignora tutte le
prove contrarie. Una squadra televisiva dell’Associated Press aveva
filmato la battaglia che ebbe luogo a Racak il giorno prima che la
polizia serba ammazzasse vari membri dell’UCK. Un giornalista francese
che era stato a Racak più tardi in quello stesso giorno, trovò prove di
una battaglia, ma non prove di un massacro di civili disarmati; tanto
meno le trovarono gli stessi osservatori della missione di verifica del
Kosovo di Walker. Tutte le relazioni dei periti rivelarono che, in
pratica, le 44 persone uccise avevano usato armi da fuoco e tutte erano
morte in combattimento. Sell semplicemente ignora queste prove.
La storia molto mediatizzata del modo in cui i serbi, presumibilmente,
avrebbero ammazzato 7000 mussulmani a Srebrenica, è accettata senza
alcuna critica anche quando le indagini più esaustive non hanno
dissotterrato più di 2000 corpi di nazionalità indeterminata.
S’ignorano i precedenti massacri portati invece a termine dai
mussulmani, che rasero al suolo una cinquantina di villaggi serbi
intorno a Srebrenica, secondo le informazioni di due corrispondenti
della BBC e di altri giornalisti. Allo stesso modo passa sotto
silenzio la totale incapacità del gruppo di periti occidentali di
localizzare i 250.000 o 100.000 o 50.000 corpi di albanesi (il numero
continua a cambiare) che si dicono assassinati dai serbi in Kosovo.
L’interpretazione di Sell di ciò che accadde a Rambouillet lascia
molto a desiderare. Secondo le condizioni di Rambouillet, il Kosovo
sarebbe diventato una colonia della NATO. Milosevic avrebbe potuto
anche accettarlo, seppure a malincuore, disperato per non poter evitare
un attacco totale della NATO al resto della Yugoslavia. Ma, per essere
sicura che la guerra fosse inevitabile, la delegazione statunitense
aggiunse una sorprendente condizione, chiedendo che le forze ed il
personale della NATO avessero libero accesso a tutta la Yugoslavia, uso
senza restrizioni dei suoi aeroporti, treni, porti, servizi di
comunicazione e radiotelevisione, senza costi ed immuni da qualsiasi
giurisdizione delle autorità yugoslave.
La NATO avrebbe anche avuto la possibilità di modificare a proprio uso
tutte le infrastrutture della Yugoslavia, incluse strade, ponti,
gallerie, edifici e strutture pubbliche. In effetti non solo il Kosovo,
ma tutta la Yugoslavia, si sarebbe vista sottomessa allo straordinario
equivalente di un’occupazione coloniale assoluta.
Sell non menziona questi dettagli. In cambio ci assicura che le
esigenze della NATO di accesso senza restrizioni alla Yugoslavia non
erano nulla più che una forma di protocollo introdotta “in gran parte
per ragioni legali”. Un’idea simile di accordo, ma meno radicale -
afferma - faceva parte del pacchetto di Dayton. In più, l’accordo di
Dayton riduce la Bosnia ad una colonia occidentale. Ma, se non c’era
nulla di male nell’ultimatum di Rambouillet, allora perché Milosevic lo
rifiutò? Sell attribuisce la resistenza di Milosevic alla sua perversa
“mentalità da bunker” ed alla sua necessità di sfidare il mondo.
Non vi è una sola parola in questo libro che descriva i 78 giorni di
bombardamenti massicci, per 24 ore al giorno, della NATO sulla
Yugoslavia; nessun accenno al fatto che tali bombardamenti causarono la
perdita di migliaia di vite, ferirono e mutilarono altrettante
migliaia, contaminarono gran parte delle terre e dell’acqua con uranio
impoverito e distrussero la maggior parte del settore industriale
pubblico e delle infrastrutture del paese, mentre lasciarono
perfettamente intatte tutte le strutture delle imprese private
occidentali.
Le fonti di Sell si basano sulla condivisione della versione ufficiale
statunitense della battaglia dei Balcani. Non sfiorano né citano
osservatori che offrono una prospettiva critica più indipendente, come
Sean Gervassi, Diana Johnstone, Gregory Elich, Nicholas Stavrous,
Michel Collon, Raju Thomas e Michel Chossudovsky. Importanti fonti
occidentali, che segnalo nel mio libro sulla Yugoslavia, offrono prove,
testimonianze e documentazione che discordano dalle conclusioni di
Sell, incluse fonti degli Interni dell’Unione Europea, della
Commissione della Comunità Europea per i Diritti delle Donne, dell’OSCE
e della sua Missione di Verifica in Kosovo, della Commissione delle
Nazioni Unite sui Crimini di Guerra e di altre Commissioni delle
Nazioni Unite, varie relazioni dei Dipartimenti di Stato, relazioni
dei ministeri tedeschi degli Affari Esteri e della Difesa, e della
Croce Rossa Internazionale. Sell non si avvale di queste fonti.
Ignora anche testimonianze e dichiarazioni di congressisti
statunitensi che visitarono i Balcani, un ex-funzionario del
Dipartimento di Stato sotto l’amministrazione Bush, un ex-sottufficiale
del comando statunitense europeo, diversi generali delle Nazioni Unite
e della NATO e negoziatori internazionali, piloti spagnoli, squadre di
periti di differenti paesi ed osservatori delle Nazioni Unite, i quali
hanno fornito rivelazioni in contraddizione col quadro dipinto da Sell
e da altri difensori della versione ufficiale USA.
Riassumendo, il libro di Sell è pieno zeppo d’incongruenze su
informazioni riservate, accuse senza fondamento, supposizioni senza
indagine e stereotipi zavorrati ideologicamente.
Si tratta di un buon lavoro, fintanto che la disinformazione continua
ad essere la tendenza dominante.
Note.
Ustascia: Organizzazione che nel 1941 i paesi dell’Asse - Germania,
Italia e Giappone - incaricarono della cosiddetta operazione
“Indipendenza croata” e che nel 1945 fu espulsa dai partigiani
yugoslavi e dall’Esercito Rosso (N.d.t.)
Gli ultimi libri di Michel Parenti sono “To Kill a Nation: the Attack
on Yugoslavia” (Verso), e “Terrorism Trap: September 11 and Beyond”
(City Lights). Il suo ultimo lavoro, “The Assesination of Julius
Caesar: A People History of Ancient Rome”, è stato candidato al Premio
Pulitzer.
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