LA 'SINISTRA' E LA GUERRA
di Stefano Garroni
(apparso su: Quaderni Cestes-Proteo n. 3/1999
http://www.ppl.it/proteo/ )
Certamente è vero che le iniziative italiane contro l'aggressione alla
Jugoslavia hanno raggiunto un'ampiezza non comune in Europa, mettendoci
in grado di riscattare, almeno in parte, la vergogna d'aver partecipato,
come Stato, a quella stessa aggressione. E' altrettando indubbio, però,
che la mobilitazione della 'sinistra' italiana ha presentato limiti e
contraddizioni, su cui vale la pena di riflettere, perché
presumibilmente rivelatori di insufficienze radicali e non più
tollerabili.
Se pure è vero che, dopo molti anni, alcuni sindacati (RdB, Cub, Cobas,
ecc.) son riusciti perfino a realizzare uno sciopero politico contro
l'aggressione Nato; altrettanto è vero che, ormai, non risulta più
rinviabile l'analisi e la denuncia della sostanziale povertà e
arretratezza politico-ideologica della nostra 'sinistra'.
Ciò che mi propongo, dunque, è esattamente di individuare almeno alcuni
di tali limiti ideologici, convinto che in tal modo sarà possibile
cogliere cause effettive della inadeguatezza politica della 'sinistra'.
Ma già questo intento merita, forse, qualche precisazione.
Se è vera l'ormai inderogabile necessità di operare esplicite
differenziazioni fra 'sinistra' da un lato e 'ambiente comunista'
dall'altro (uso questa curiosa espressione, perché mi sembrerebbe
eccessivo parlare già di 'movimento comunista'), bisogna comprendere,
anche, che assumere consapevolmente tale esigenza è già di per sé prova
che qualcosa è cambiato sia nell'oggettività della situazione
politico-sociale italiana, sia nel modo in cui essa vien percepita dalla
coscienza diffusa.
Ricordiamo tutti, infatti, che la dissoluzione del campo socialista
europeo fu ambiguamente salutata dalla totalità -o quasi, se si
prescinde da ristrettissimi gruppi o singoli individui- della 'sinistra'
italiana come l'autentico aprirsi di una nuova pagina nella storia:
ormai, questo si diceva, la scena politica non sarà più dominata dalla
defunta lotta di classe, ma sì dallo scontro conclusivo tra democrazia
da un lato e totalitarismo dall'altro.
Ad oggettivo segno di quanto 'cattiva' fosse quella coscienza, basti
ricordare la falsa interpretazione, che subito si diffuse a 'sinistra'
(e proprio questa immediata diffusione è sintomale), dello scritto del
funzionario nord-americano, d'origine giapponese, Fukuiama.
Il quale acutamente aveva sostenuto non la fine della storia tout court,
ma sì che, se il comunismo è finito, allora non c'è più storia.
Il che, com'è chiaro, è del tutto vero, nel senso che se l'ordinamento
capitalistico fosse l'orizzonte ultimo dello sviluppo umano, certo
sarebbero possibili accadimenti ed eventi, ma non sarebbero più
possibili accadimenti ed eventi di carattere storico, dunque, capaci di
rappresentare momenti di svolta nel corso della vicenda umana. Ma quella
'sinistra' che salutava nel modo che sappiamo la 'caduta del muro di
Berlino', esattamente a questo si accingeva: a rinunciare alla lotta per
operare svolte radicali nella forma di vita contenporanea. Quella
'sinistra', dunque, doveva rendere inoffensivo, banalizzandolo, uno
scritto che, se compreso, avrebbe potuto contribuire a rendere almeno
equivoco l'entusiasmo che essa esibiva ed a gettare dubbi sulla
praticabilità di prospettive politiche, il cui presupposto era, appunto,
la fine della storia, dacché proprio la 'sinistra' dava per finiti lotta
di classe, rovesciamento dei rapporti di produzione, ecc.
Si aggiunga a questo un breve articolo -che forse fu effettivamente
letto più dello scritto di Fukuiama, senza però raggiungerne la
notorietà-, che pubblicò Lucio Colletti (un personaggio, dunque, non
limpidissimo, ma certo intelligente). Il senso dell'articolo, in
definitiva, era questo: se il marxismo si è rivelato fallace, allora
bisogna tremare, perché non resta più spazio per una lettura razionale
della storia, per la possibilitò di concepirla come dotata di senso.
Senonché, è facile notare come la 'sinistra post-caduta del muro'
proprio su questa strada si lanciava, priva di dubbi ed incertezze:
sulla strada dell'assunzione piena di una prospettiva irrazionalistica,
che mentre toglieva intelligibilità e senso alla storia, recuperava
l'opaca dimensione dell'immediato, del 'concreto', del desiderio, del
vissuto, insomma, dell'inconsapevolezza e dell'arbitrio soggettivo e
velleitario, nonché della riduzione dell'uomo alla sua elementare
dimensione naturale e sensibile.
Fosse calcolo o mero smarrimento (oppure una mescolanza di entrambi), in
generale la 'sinistra' ritenne, nelle nuove condizioni determinate dalla
scomparsa dell'Urss, di potersi assicurare spazi politici, assumendo la
cultura del decadente irrazionalismo borghese ed estremizzandone gli
obiettivi; questa sembrava la strada per poter continuare a <far
movimento> e, dunque, per non essere emarginata.
L'equivoco è evidente: nessuna società -neppure quella dello
Spätkapitalismus, come dice il titolo di un noto libro di Ernest Mandel-
è irrazionale, se non nella misura in cui un'oggettiva irrazionalità sia
il medio necessario, perché di quella società si affermi, invece, la
ragione propria. Il che implicita, com'è noto, la necessità di
distinguere nella dinamica di una forma di vita determinata (o, se si
vuole, di una formazione sociale) due livelli: quello del modo in cui la
forma di vita in questione si presenta e l'altro, del suo effettivo e
sostanziale funzionamento; insomma, tutto è possibile tranne che
disegnare una prospettiva politica, muovendosi nell'ottica
irrazionalistica.
Come si fa, però, a collocarsi entro il realismo della politica, avendo
rinunciato alla ragione, dunque, alla teoria, come la 'sinistra' faceva?
Ma non basta. Perché, in realtà, in quel desiderio di <far movimento>,
che tanto angustiava la 'sinistra', confluivano componenti diverse:
l'astratta volontà di ritrovare lo slancio e la vivacità del '68 (una
sorta di non casuale tardo-romantica aspirazione ad un'eterna
giovinezza); ma anche la surrettizia continuità con quella tradizione
riformista (ricca di echi irrazionalistici), secondo cui <il movimento è
tutto e il fine nulla>; si aggiunga a questo un fattore di cui poco si
parla, per quanto enorme sia la sua importanza: intendo il
parlamentarismo.
Perché questo è vero: l'esaltazione democratica, successiva alla 'caduta
del muro', per quanto si presentasse con le vesti della novità, della
scopera di una dimensione finalmente capace di superare le angustrie
della visione marxista, di fatto, si rivelava poi, banalmente,
esaltazione della democrazia parlamentare -dunque, di un ordinamento
politico-giuridico, ben precisamente datato dal punto di vista storico
ed in critica del quale mille e mille pagine son state scritte nel corso
ormai di secoli; ordinamento, per altro, proprio oggi (cioè nell'epoca
delle grandi concentrazioni economiche) vistosamente in crisi.
Non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere né a Rousseau, a Hegel o Marx
(e tanto meno a Platone) per esser consapevoli delle contraddizioni
dell'ordinamento democratico-parlamentare: sarebbe bastato riandare ad
un dibattito dei primissimi anni 60, in cui studiosi e politici
francesi, italiani, americani, inglesi avevano ampiamente dimostrato
l'inattualità dell'ordinamento democratico-parlamentare (almeno nelle
sue formulazioni ufficiali), stanti le condizioni del capitalismo
oligopolistico (o dell'imperialismo, come Lenin esplicitamente diceva e
come è ricavabile, senza eccessiva fatica, dalle pagine di Marx).
Ma qui continuava ad operare un'indubbia tradizione del movimento
operaio italiano, nonché certi equivoci, che a lungo hanno dominato lo
stesso movimento comunista: intendo la riduzione parlamentaristica della
democrazia, all'interno dell'accettazione di un modello ancora più
pericoloso, quello dell'ideologia propria della moderna società
capitalistica di massa.
Dal confluire di tutto ciò risultava l'abbarbicarsi della 'sinistra' ad
un democratismo "senza qualità" (sto pensando esattamente a Musil),
legato all'esaltazione del mero decidere, della retorica della volontà
dal basso ed all'illusione (che sarebbe, invece, facilissimo
distruggere), secondo cui l'arbitrio delle volontà è ciò su cui può (e
deve) reggersi una società ed, in particolare, la moderna società
industriale (capitalistica o socialistica che sia).
E' interessante notare che la 'sinistra post-crollo' poteva giustificare
questo suo acritico approdo al parlamentarismo richiamandosi, anche,
all'estremismo assembleare del '68, che un qualche rapporto con la
tradizione del 'comunismo critico occidentale' pur lo aveva (penso alla
Luxemburg, a Korsch, Pannekoek, Mattick, Gorter, ecc); voglio dire che
non risultava difficile dar nobili natali ad un atteggiamento di
sostanziale opportunismo politico, anche perché -riconosciamolo con
francezza- ben poco è restato, nella cultura comunista, della articolata
critica leniniana alla concezione dello Stato e della democrazia, che fu
propria di quel comunismo 'occidentale' che dicevo.
Se questo effettivamente era il clima ideologico di cui viveva la
'sinistra post-crollo', sarebbe ingeneroso dimenticare quanto quello
stesso clima avesse radici anche in altri fenomeni -culturali, dacché il
mio ragionamento si confina consapevolmente in quest'ambito-, oggettivi
e aperti potenzialmente a sviluppi di grande importanza. Per poter ben
comprendere la cosa, tiriamo una prima conclusione.
In definitiva, la 'sinistra' che qui ci interessa andava accettando (e
sviluppando) una ideologia paradossale, nel senso di essere, ad un
tempo, politica ed impolitica, ispiratrice di comportamenti politici
determinati ma, anche, rinunciataria, in quanto assumeva i propri valori
dall'immediatezza del modo di vivere tardo-capitalistico e, dunque, li
rendeva autonomi presupposti dall'operosità costruttiva della politica.
Di qui l'approdo ad una concezione (della politica), che si vuole
pragmatica e non ideologica, mentre in verità è intrisa di un'ideologia,
assunta passivamente dall'esterno (dunque, della peggiore ideologia).
Tale intricata forma di coscienza risultava, a ben vedere, consonante
con importanti posizioni culturali, riproposte (solo, riproposte)
vivacemente nel nostro secolo, secondo le quali non c'è rapporto fra
dominio filosofico e dominio delle scienze, dovendosi intendere queste
ultime strettamente come attività intellettuali -per dirla con Hegel- e,
dunque, eminentemente riferite ognuna ad un oggetto particolare,
plasmate secondo modelli empiristico-matematici e non interpretabili se
non come costruzioni pragmatiche e convenzionalistiche.
Dunque, così come l'ideologia della 'sinistra' separava valore ed azione
politica, analogamente in ambito propriamente culturale s'andava
riproponendo, in definitiva, la coppia utilitarismo pratico, da un lato,
e soggettivismo dei valori, dall'altro.
Non voglio approfondire questo aspetto della questione; mi basta
ricordare le analisi di due significativi studiosi marxisti, noti anche
in Italia -l'austriaco V. Hösle e l'ungherese A. Gedö-, i quali hanno
mostrato il nesso profondo, che lega neo-positivismo e Lebensphilosophie
(filosofia della vita), nonché il riproporsi, in questo modo, di ciò che
Hegel definiva lo stanco "scetticismo moderno", in opposizione a quel
vigoroso "scetticismo antico", che tanti meriti si è guadagnato per lo
sviluppo delle scienze e della filosofia.
Tuttavia, comprendere a fondo lo svuotamento di valenza teorica -a cui
la 'sinistra' sottoponeva l'azione politica, separandola così da morale
e scientificità (ovvero da quella Wissenschaftlichkeit, che gioca un
ruolo così essenziale nella prospettiva dialettica di Hegel e di Marx)-
non è possibile senza richiamare gli autentici guasti -sia politici che
culturali-, che son risultati da quel certo modo di organizzare e
interpretare il marxismo, che per lunghi decenni è apparso essere il
marxismo.
E' chiaro che a questo punto l'argomento si fa particolarmente
complesso, anche perché sono assai scarsi gli studi dettagliati sul
tema, che siano capaci di render conto di analogie e differenze nello
svolgersi del marxismo almeno nei principali paesi europei. Mi sembra,
tuttavia, che alcuni punti possano essere fissati. Ad esempio, questo.
E' giunta fino ai nostri giorni la curiosa tesi, secondo cui esiste un
solo marxismo e tante sue deformazioni, per cui, volta a volta, il
compito serio sarebbe quello di recuperare e svolgere quell'unico
marxismo, liberandolo dagli elementi estranei, che possono averlo
appesantito e smorzato nella sua valenza critica.
Lo sfondo religioso di tale convinzione (con la conseguente inevitabile
coppia oppositiva di ortodossia ed eterodossie) non va neppure
dimostrato; ma siccome sappiamo che elementi di mentalità religiosa son
presenti anche nel senso comune, è utile qui osservare che, al contrario
di quanto immediatamente sembra, ogni importante costruzione teorica (ed
il marxismo certo lo è) non è mai priva di polisemia. Al contrario, è
sempre disponibile a svolgimenti -dunque, ad interpretazioni-
molteplici.
Certo, si tratta di una gamma di significati possibili contenuta entro
certi limiti, superati i quali quella tradizione risulta esaurita,
distrutta, morta; ma questo conferma che un grande libro o un'importante
linea di pensiero son tali anche perché producono effetti (di nuovo,
interpretazioni -teoriche e pratiche), relativamente diverse, in
contesti sia uguali che differenti.
Insomma, la vitalità di un libro o di una tradizione di pensiero
comporta varietà di svolgimenti, molteplicità di esiti, opponendosi così
alla secca alternativa dell'autenticità o della falsificazione
interpretativa.
Senonché -e per una molteplicità di fattori-, storicamente si è
costruito il paradosso per cui un pensiero dialettico, come quello di
Marx, ha subito una tematizzazione dogmatica e scolastica. Si è giunti
perfino a cristallizzare un tale pensiero (a reificarlo), fino al punto
di inventare una pretesa "filosofia marxista-leninista", con tanto di
principi, di cui storia e natura non dovevano che esibire prove e
conferme.
L'inevitabile risultato è stato quello di ridurre il marxismo da teoria
dialettica a variante del materialismo meccanicistico, del determinismo
economico, del pragmatismo, del funzionalismo, ecc. ecc.
Proprio la dialettica, dunque, è scomparsa, perché sommersa da una
rigida costruzione sistematica, sempre di più lontana dalla vitalità
effettiva degli eventi politici e scientifici; al pensiero di Marx,
inoltre, si è così attribuita una compattezza e linearità, che in realtà
gli mancano, e che addirittura gli mancano non per caso, ma sì perché
quel pensiero è caratterizzato da un tormentato rapporto con i punti
altri della riflessione a lui contemporanea (basti pensare ad Hegel ed a
Ricardo), che è ragione non ultima della persistente sua vitalità.
Ed allora ecco che, già nella tradizione comunista, si andò costruendo
un autentico divorzio fra teoria (imbalsamata e non più dialettica) e
pratica politica (opportunista, riformista, pur se proclamantesi
comunista).
Il fatto grave è che questa versione del marxismo si è imposta al senso
comune (e non -si pensi a Popper) come il marxismo. In questo modo si
spiega come, a partire dal 1967-1968, la sinistra costruitasi fuori dai
Partiti comunisti abbia oscillato -sulla base delle variazioni del
generale quadro politico e sociale- tra un'accettazione estremistica di
tale marxismo ed il suo rifiuto, non già con la prospettiva di
recuperare la dialetticità del marxismo stesso, ma sì per rincorrere
passivamente questa o quella moda culturali, comunque sempre inscritte
entro il quadro dell'irrazionalismo.
La dissoluzione del campo socialista europeo e la tardiva vittoria di
Bucharin nei restanti Paesi socialisti hanno determinato una situazione,
per cui tutti i fattori, che ho rapidissimamente disegnato, son
precipitati nella costruzione di una 'ideologia di sinistra',
sostanzialmente incapace di intendere le dinamiche del mondo reale, ma
disponibile a sostituirle con autentiche, deliranti costruzioni
oniriche, ispirate a vaghe idealità come pacifismo, ecologismo, cultura
della differenza, ecc.
Naturalmente, tutto ciò non impedisce alle 'cose del mondo' di procedere
nel modo, in cui realmente procedono. Ed allora questa 'sinistra' si
trova a dover reagire con le sue armi ideologiche ad un complesso di
eventi, che le risultato in sostanza opachi, non compresi. E tanto più
drammatici si fanno questi eventi, tanto più drammaticamente inadeguata
si fa la reazione ad essi, di cui la 'sinistra' si dimostra capace.
Stefano Garroni
--------- COORDINAMENTO ROMANO PER LA JUGOSLAVIA -----------
RIMSKI SAVEZ ZA JUGOSLAVIJU
e-mail: crj@... - URL: http://marx2001.org/crj
http://www.egroups.com/group/crj-mailinglist/
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di Stefano Garroni
(apparso su: Quaderni Cestes-Proteo n. 3/1999
http://www.ppl.it/proteo/ )
Certamente è vero che le iniziative italiane contro l'aggressione alla
Jugoslavia hanno raggiunto un'ampiezza non comune in Europa, mettendoci
in grado di riscattare, almeno in parte, la vergogna d'aver partecipato,
come Stato, a quella stessa aggressione. E' altrettando indubbio, però,
che la mobilitazione della 'sinistra' italiana ha presentato limiti e
contraddizioni, su cui vale la pena di riflettere, perché
presumibilmente rivelatori di insufficienze radicali e non più
tollerabili.
Se pure è vero che, dopo molti anni, alcuni sindacati (RdB, Cub, Cobas,
ecc.) son riusciti perfino a realizzare uno sciopero politico contro
l'aggressione Nato; altrettanto è vero che, ormai, non risulta più
rinviabile l'analisi e la denuncia della sostanziale povertà e
arretratezza politico-ideologica della nostra 'sinistra'.
Ciò che mi propongo, dunque, è esattamente di individuare almeno alcuni
di tali limiti ideologici, convinto che in tal modo sarà possibile
cogliere cause effettive della inadeguatezza politica della 'sinistra'.
Ma già questo intento merita, forse, qualche precisazione.
Se è vera l'ormai inderogabile necessità di operare esplicite
differenziazioni fra 'sinistra' da un lato e 'ambiente comunista'
dall'altro (uso questa curiosa espressione, perché mi sembrerebbe
eccessivo parlare già di 'movimento comunista'), bisogna comprendere,
anche, che assumere consapevolmente tale esigenza è già di per sé prova
che qualcosa è cambiato sia nell'oggettività della situazione
politico-sociale italiana, sia nel modo in cui essa vien percepita dalla
coscienza diffusa.
Ricordiamo tutti, infatti, che la dissoluzione del campo socialista
europeo fu ambiguamente salutata dalla totalità -o quasi, se si
prescinde da ristrettissimi gruppi o singoli individui- della 'sinistra'
italiana come l'autentico aprirsi di una nuova pagina nella storia:
ormai, questo si diceva, la scena politica non sarà più dominata dalla
defunta lotta di classe, ma sì dallo scontro conclusivo tra democrazia
da un lato e totalitarismo dall'altro.
Ad oggettivo segno di quanto 'cattiva' fosse quella coscienza, basti
ricordare la falsa interpretazione, che subito si diffuse a 'sinistra'
(e proprio questa immediata diffusione è sintomale), dello scritto del
funzionario nord-americano, d'origine giapponese, Fukuiama.
Il quale acutamente aveva sostenuto non la fine della storia tout court,
ma sì che, se il comunismo è finito, allora non c'è più storia.
Il che, com'è chiaro, è del tutto vero, nel senso che se l'ordinamento
capitalistico fosse l'orizzonte ultimo dello sviluppo umano, certo
sarebbero possibili accadimenti ed eventi, ma non sarebbero più
possibili accadimenti ed eventi di carattere storico, dunque, capaci di
rappresentare momenti di svolta nel corso della vicenda umana. Ma quella
'sinistra' che salutava nel modo che sappiamo la 'caduta del muro di
Berlino', esattamente a questo si accingeva: a rinunciare alla lotta per
operare svolte radicali nella forma di vita contenporanea. Quella
'sinistra', dunque, doveva rendere inoffensivo, banalizzandolo, uno
scritto che, se compreso, avrebbe potuto contribuire a rendere almeno
equivoco l'entusiasmo che essa esibiva ed a gettare dubbi sulla
praticabilità di prospettive politiche, il cui presupposto era, appunto,
la fine della storia, dacché proprio la 'sinistra' dava per finiti lotta
di classe, rovesciamento dei rapporti di produzione, ecc.
Si aggiunga a questo un breve articolo -che forse fu effettivamente
letto più dello scritto di Fukuiama, senza però raggiungerne la
notorietà-, che pubblicò Lucio Colletti (un personaggio, dunque, non
limpidissimo, ma certo intelligente). Il senso dell'articolo, in
definitiva, era questo: se il marxismo si è rivelato fallace, allora
bisogna tremare, perché non resta più spazio per una lettura razionale
della storia, per la possibilitò di concepirla come dotata di senso.
Senonché, è facile notare come la 'sinistra post-caduta del muro'
proprio su questa strada si lanciava, priva di dubbi ed incertezze:
sulla strada dell'assunzione piena di una prospettiva irrazionalistica,
che mentre toglieva intelligibilità e senso alla storia, recuperava
l'opaca dimensione dell'immediato, del 'concreto', del desiderio, del
vissuto, insomma, dell'inconsapevolezza e dell'arbitrio soggettivo e
velleitario, nonché della riduzione dell'uomo alla sua elementare
dimensione naturale e sensibile.
Fosse calcolo o mero smarrimento (oppure una mescolanza di entrambi), in
generale la 'sinistra' ritenne, nelle nuove condizioni determinate dalla
scomparsa dell'Urss, di potersi assicurare spazi politici, assumendo la
cultura del decadente irrazionalismo borghese ed estremizzandone gli
obiettivi; questa sembrava la strada per poter continuare a <far
movimento> e, dunque, per non essere emarginata.
L'equivoco è evidente: nessuna società -neppure quella dello
Spätkapitalismus, come dice il titolo di un noto libro di Ernest Mandel-
è irrazionale, se non nella misura in cui un'oggettiva irrazionalità sia
il medio necessario, perché di quella società si affermi, invece, la
ragione propria. Il che implicita, com'è noto, la necessità di
distinguere nella dinamica di una forma di vita determinata (o, se si
vuole, di una formazione sociale) due livelli: quello del modo in cui la
forma di vita in questione si presenta e l'altro, del suo effettivo e
sostanziale funzionamento; insomma, tutto è possibile tranne che
disegnare una prospettiva politica, muovendosi nell'ottica
irrazionalistica.
Come si fa, però, a collocarsi entro il realismo della politica, avendo
rinunciato alla ragione, dunque, alla teoria, come la 'sinistra' faceva?
Ma non basta. Perché, in realtà, in quel desiderio di <far movimento>,
che tanto angustiava la 'sinistra', confluivano componenti diverse:
l'astratta volontà di ritrovare lo slancio e la vivacità del '68 (una
sorta di non casuale tardo-romantica aspirazione ad un'eterna
giovinezza); ma anche la surrettizia continuità con quella tradizione
riformista (ricca di echi irrazionalistici), secondo cui <il movimento è
tutto e il fine nulla>; si aggiunga a questo un fattore di cui poco si
parla, per quanto enorme sia la sua importanza: intendo il
parlamentarismo.
Perché questo è vero: l'esaltazione democratica, successiva alla 'caduta
del muro', per quanto si presentasse con le vesti della novità, della
scopera di una dimensione finalmente capace di superare le angustrie
della visione marxista, di fatto, si rivelava poi, banalmente,
esaltazione della democrazia parlamentare -dunque, di un ordinamento
politico-giuridico, ben precisamente datato dal punto di vista storico
ed in critica del quale mille e mille pagine son state scritte nel corso
ormai di secoli; ordinamento, per altro, proprio oggi (cioè nell'epoca
delle grandi concentrazioni economiche) vistosamente in crisi.
Non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere né a Rousseau, a Hegel o Marx
(e tanto meno a Platone) per esser consapevoli delle contraddizioni
dell'ordinamento democratico-parlamentare: sarebbe bastato riandare ad
un dibattito dei primissimi anni 60, in cui studiosi e politici
francesi, italiani, americani, inglesi avevano ampiamente dimostrato
l'inattualità dell'ordinamento democratico-parlamentare (almeno nelle
sue formulazioni ufficiali), stanti le condizioni del capitalismo
oligopolistico (o dell'imperialismo, come Lenin esplicitamente diceva e
come è ricavabile, senza eccessiva fatica, dalle pagine di Marx).
Ma qui continuava ad operare un'indubbia tradizione del movimento
operaio italiano, nonché certi equivoci, che a lungo hanno dominato lo
stesso movimento comunista: intendo la riduzione parlamentaristica della
democrazia, all'interno dell'accettazione di un modello ancora più
pericoloso, quello dell'ideologia propria della moderna società
capitalistica di massa.
Dal confluire di tutto ciò risultava l'abbarbicarsi della 'sinistra' ad
un democratismo "senza qualità" (sto pensando esattamente a Musil),
legato all'esaltazione del mero decidere, della retorica della volontà
dal basso ed all'illusione (che sarebbe, invece, facilissimo
distruggere), secondo cui l'arbitrio delle volontà è ciò su cui può (e
deve) reggersi una società ed, in particolare, la moderna società
industriale (capitalistica o socialistica che sia).
E' interessante notare che la 'sinistra post-crollo' poteva giustificare
questo suo acritico approdo al parlamentarismo richiamandosi, anche,
all'estremismo assembleare del '68, che un qualche rapporto con la
tradizione del 'comunismo critico occidentale' pur lo aveva (penso alla
Luxemburg, a Korsch, Pannekoek, Mattick, Gorter, ecc); voglio dire che
non risultava difficile dar nobili natali ad un atteggiamento di
sostanziale opportunismo politico, anche perché -riconosciamolo con
francezza- ben poco è restato, nella cultura comunista, della articolata
critica leniniana alla concezione dello Stato e della democrazia, che fu
propria di quel comunismo 'occidentale' che dicevo.
Se questo effettivamente era il clima ideologico di cui viveva la
'sinistra post-crollo', sarebbe ingeneroso dimenticare quanto quello
stesso clima avesse radici anche in altri fenomeni -culturali, dacché il
mio ragionamento si confina consapevolmente in quest'ambito-, oggettivi
e aperti potenzialmente a sviluppi di grande importanza. Per poter ben
comprendere la cosa, tiriamo una prima conclusione.
In definitiva, la 'sinistra' che qui ci interessa andava accettando (e
sviluppando) una ideologia paradossale, nel senso di essere, ad un
tempo, politica ed impolitica, ispiratrice di comportamenti politici
determinati ma, anche, rinunciataria, in quanto assumeva i propri valori
dall'immediatezza del modo di vivere tardo-capitalistico e, dunque, li
rendeva autonomi presupposti dall'operosità costruttiva della politica.
Di qui l'approdo ad una concezione (della politica), che si vuole
pragmatica e non ideologica, mentre in verità è intrisa di un'ideologia,
assunta passivamente dall'esterno (dunque, della peggiore ideologia).
Tale intricata forma di coscienza risultava, a ben vedere, consonante
con importanti posizioni culturali, riproposte (solo, riproposte)
vivacemente nel nostro secolo, secondo le quali non c'è rapporto fra
dominio filosofico e dominio delle scienze, dovendosi intendere queste
ultime strettamente come attività intellettuali -per dirla con Hegel- e,
dunque, eminentemente riferite ognuna ad un oggetto particolare,
plasmate secondo modelli empiristico-matematici e non interpretabili se
non come costruzioni pragmatiche e convenzionalistiche.
Dunque, così come l'ideologia della 'sinistra' separava valore ed azione
politica, analogamente in ambito propriamente culturale s'andava
riproponendo, in definitiva, la coppia utilitarismo pratico, da un lato,
e soggettivismo dei valori, dall'altro.
Non voglio approfondire questo aspetto della questione; mi basta
ricordare le analisi di due significativi studiosi marxisti, noti anche
in Italia -l'austriaco V. Hösle e l'ungherese A. Gedö-, i quali hanno
mostrato il nesso profondo, che lega neo-positivismo e Lebensphilosophie
(filosofia della vita), nonché il riproporsi, in questo modo, di ciò che
Hegel definiva lo stanco "scetticismo moderno", in opposizione a quel
vigoroso "scetticismo antico", che tanti meriti si è guadagnato per lo
sviluppo delle scienze e della filosofia.
Tuttavia, comprendere a fondo lo svuotamento di valenza teorica -a cui
la 'sinistra' sottoponeva l'azione politica, separandola così da morale
e scientificità (ovvero da quella Wissenschaftlichkeit, che gioca un
ruolo così essenziale nella prospettiva dialettica di Hegel e di Marx)-
non è possibile senza richiamare gli autentici guasti -sia politici che
culturali-, che son risultati da quel certo modo di organizzare e
interpretare il marxismo, che per lunghi decenni è apparso essere il
marxismo.
E' chiaro che a questo punto l'argomento si fa particolarmente
complesso, anche perché sono assai scarsi gli studi dettagliati sul
tema, che siano capaci di render conto di analogie e differenze nello
svolgersi del marxismo almeno nei principali paesi europei. Mi sembra,
tuttavia, che alcuni punti possano essere fissati. Ad esempio, questo.
E' giunta fino ai nostri giorni la curiosa tesi, secondo cui esiste un
solo marxismo e tante sue deformazioni, per cui, volta a volta, il
compito serio sarebbe quello di recuperare e svolgere quell'unico
marxismo, liberandolo dagli elementi estranei, che possono averlo
appesantito e smorzato nella sua valenza critica.
Lo sfondo religioso di tale convinzione (con la conseguente inevitabile
coppia oppositiva di ortodossia ed eterodossie) non va neppure
dimostrato; ma siccome sappiamo che elementi di mentalità religiosa son
presenti anche nel senso comune, è utile qui osservare che, al contrario
di quanto immediatamente sembra, ogni importante costruzione teorica (ed
il marxismo certo lo è) non è mai priva di polisemia. Al contrario, è
sempre disponibile a svolgimenti -dunque, ad interpretazioni-
molteplici.
Certo, si tratta di una gamma di significati possibili contenuta entro
certi limiti, superati i quali quella tradizione risulta esaurita,
distrutta, morta; ma questo conferma che un grande libro o un'importante
linea di pensiero son tali anche perché producono effetti (di nuovo,
interpretazioni -teoriche e pratiche), relativamente diverse, in
contesti sia uguali che differenti.
Insomma, la vitalità di un libro o di una tradizione di pensiero
comporta varietà di svolgimenti, molteplicità di esiti, opponendosi così
alla secca alternativa dell'autenticità o della falsificazione
interpretativa.
Senonché -e per una molteplicità di fattori-, storicamente si è
costruito il paradosso per cui un pensiero dialettico, come quello di
Marx, ha subito una tematizzazione dogmatica e scolastica. Si è giunti
perfino a cristallizzare un tale pensiero (a reificarlo), fino al punto
di inventare una pretesa "filosofia marxista-leninista", con tanto di
principi, di cui storia e natura non dovevano che esibire prove e
conferme.
L'inevitabile risultato è stato quello di ridurre il marxismo da teoria
dialettica a variante del materialismo meccanicistico, del determinismo
economico, del pragmatismo, del funzionalismo, ecc. ecc.
Proprio la dialettica, dunque, è scomparsa, perché sommersa da una
rigida costruzione sistematica, sempre di più lontana dalla vitalità
effettiva degli eventi politici e scientifici; al pensiero di Marx,
inoltre, si è così attribuita una compattezza e linearità, che in realtà
gli mancano, e che addirittura gli mancano non per caso, ma sì perché
quel pensiero è caratterizzato da un tormentato rapporto con i punti
altri della riflessione a lui contemporanea (basti pensare ad Hegel ed a
Ricardo), che è ragione non ultima della persistente sua vitalità.
Ed allora ecco che, già nella tradizione comunista, si andò costruendo
un autentico divorzio fra teoria (imbalsamata e non più dialettica) e
pratica politica (opportunista, riformista, pur se proclamantesi
comunista).
Il fatto grave è che questa versione del marxismo si è imposta al senso
comune (e non -si pensi a Popper) come il marxismo. In questo modo si
spiega come, a partire dal 1967-1968, la sinistra costruitasi fuori dai
Partiti comunisti abbia oscillato -sulla base delle variazioni del
generale quadro politico e sociale- tra un'accettazione estremistica di
tale marxismo ed il suo rifiuto, non già con la prospettiva di
recuperare la dialetticità del marxismo stesso, ma sì per rincorrere
passivamente questa o quella moda culturali, comunque sempre inscritte
entro il quadro dell'irrazionalismo.
La dissoluzione del campo socialista europeo e la tardiva vittoria di
Bucharin nei restanti Paesi socialisti hanno determinato una situazione,
per cui tutti i fattori, che ho rapidissimamente disegnato, son
precipitati nella costruzione di una 'ideologia di sinistra',
sostanzialmente incapace di intendere le dinamiche del mondo reale, ma
disponibile a sostituirle con autentiche, deliranti costruzioni
oniriche, ispirate a vaghe idealità come pacifismo, ecologismo, cultura
della differenza, ecc.
Naturalmente, tutto ciò non impedisce alle 'cose del mondo' di procedere
nel modo, in cui realmente procedono. Ed allora questa 'sinistra' si
trova a dover reagire con le sue armi ideologiche ad un complesso di
eventi, che le risultato in sostanza opachi, non compresi. E tanto più
drammatici si fanno questi eventi, tanto più drammaticamente inadeguata
si fa la reazione ad essi, di cui la 'sinistra' si dimostra capace.
Stefano Garroni
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