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02-11-04


Il dolce strangolamento dell’ANPI


di Sergio Ricaldone

E’ triste, molto triste , ma potrebbe succedere che il 60°
anniversario della liberazione nel 2005, coincida con il dolce
strangolamento dell’ANPI mediante il taglio dei fondi da parte del
governo Berlusconi.
Non è difficile capirne il perché.

L’ANPI è tra le strutture di ex combattenti che nel corso di questi
decenni abbia mantenuta viva la nozione unitaria e patriottica di
antifascismo, coltivando e trasmettendo ad almeno tre generazioni di
italiani i grandi ideali che hanno sorretto la resistenza e concorso
alla formazione del moderno stato democratico e repubblicano.
Non a caso il primo pilastro in corso di demolizione è proprio la
Costituzione  repubblicana.

Nella sede storica dell’ANPI di via Mascagni, a Milano, ne discutiamo
intensamente da parecchi giorni con i vecchi compagni, scrivente
incluso, che, sebbene carichi di anni e di acciacchi, continuano a
frequentarla assiduamente: Giovanni Pesce e sua moglie Nori, Tino
Casali, Stellina Vecchio e tante altre figure leggendarie della guerra
partigiana che portano sulle spalle, senza l’ombra del rimpianto,
sessanta e più anni di milizia politica antifascista, inclusa una breve
ma intensa parentesi militare che è stata per tutti una sorta di
discesa all’inferno e ritorno.
Potrebbero tranquillamente crogiolarsi al sole della Riviera o
rigirarsi nelle poltrone di casa macerandosi tra i ricordi e i
rimpianti ed invece eccoli qui, a raccontare lo loro storie ed a
progettare iniziative per il futuro.
Ecco Nori Brambilla e Giovanni Pesce che, superati i loro primi
ottant’anni e immortalati da un bellissimo documentario presentato al
Festival di Venezia 2003, hanno trascorso gli ultimi mesi a
raccontare,  in decine di assemblee affollate da centinaia di giovani,
come le loro imprese gappiste seminassero il terrore tra i brigatisti
neri e le truppe hitleriane che opprimevano la Milano di quei giorni.

Molto severa l’atmosfera che si respira all’ANPI di Milano in queste
settimane.

Le opinioni raccolte tra i vecchi partigiani lasciano trasparire una
profonda preoccupazione.
Spesso sono accompagnate da giudizi poco indulgenti sul modo come
viene gestita e difesa la memoria antifascista e la resistenza dagli
eclettici eredi di Longo, Pertini, Secchia, Parri e Calamandrei, ma
sono tutti quanti decisi a rimettersi in gioco per impedire che cali il
sipario su una storia che oggi, più che mai, per le minacce che
incombono sulla libertà e sulla democrazia, torna ad assumere una
valenza prioritaria per il presente ed il futuro.

L’affossamento dell’ANPI potrebbe suggellare il “superamento”
dell’antifascismo, ovvero la sua liquidazione e chiudere un ciclo
storico, come chiede la destra, alle cui tesi non sono mancati
consistenti contributi del revisionismo storico, patteggiato, non
sempre alla dovuta distanza, da autorevoli esponenti della sinistra.

Gli eredi dei fucilatori di Salò hanno purtroppo trovato una sponda
morbida e disponibile: il buonismo storiografico dilagante rimuove
l’antifascismo quale chiave di lettura del ‘900 e propone  invece, a
partire dai nuovi testi scolastici, memorie simmetriche e compatibili
che, passo dopo passo, equiparano vizi e virtù di vincitori e vinti di
tutte le epoche.

Un tritacarne micidiale dal quale esce un osceno impasto bipartisan
che mette sullo stesso piano assalitori e difensori della Bastiglia,
comunardi e reazionari di Versailles, difensori ed aggressori di
Stalingrado, Gap di via Rasella e torturatori di Villa Triste,
resistenti algerini e parà francesi.
Osserviamo esterrefatti una ipocrita autocritica che per rimediare ai
presunti “eccessi” compiuti dalla Resistenza manifesta disponibilità ad
avviare un processo di speculare riconoscimento e di mutua
legittimazione tra fascisti rimasti tali ed antifascisti diventati ex.

Si accetta pertanto di intitolare  qualche piazza ai “martiri fascisti
della foibe”, si critica la cultura antifascista che avrebbe
“angelizzato” la resistenza, si addebita alla guerriglia partigiana il
culto della violenza, si accetta il teorema della “guerra civile”
anziché quello di guerra di liberazione dall’occupazione straniera.
E così gli alleati neri dei massacratori di Marzabotto, di S. Anna di
Stazzema, di Boves, delle Fosse Ardeatine, di piazzale Loreto e della
risiera di S. Sabba incassano soddisfatti un regalo inaspettato dai
loro ex nemici e rilanciano la posta.

La pratica liquidatoria della nozione di Resistenza e di antifascismo,
pur non risparmiando nessuna delle forze politiche e sociali che
l’hanno sorretta ed animata, vede settori della cosiddetta sinistra
“antagonista” accanirsi con furia demolitoria contro il soggetto
centrale che ha retto e pagato il prezzo più alto di quello scontro
epocale contro il nazifascismo: ossia il movimento operaio e comunista
del 20° secolo, la cui storia gloriosa viene ridotta ad un cumulo di
macerie.

Dalla Liberazione sono trascorsi sessant’anni, all’ingrosso tre
generazioni. Sono tante.
I cambiamenti in casa nostra e nel mondo sono stati enormi e non
sempre piacevoli.
Ultimi testimoni ancora in vita, avvertiamo, con molta amarezza, che
l’approssimarsi della nostra estinzione biologica coincide con la
distruzione delle nostre storie e dei nostri valori.

Quello che tentiamo di fare oggi, prima che cali il buio di una notte
senza fine, è un’ultima disperata sortita da quella specie di riserva
indiana in cui siamo stati rinchiusi, con molto garbo e ipocrisia, da
chi in realtà ci considera gli ultimi dei Mohicani, fautori di una
cultura della violenza che – così si dice – deve essere archiviata nel
museo degli orrori del ‘900.

Paradossale che questo avvenga in controtendenza rispetto a quanto 
accade in Francia ed in Germania, ma soprattutto rispetto al nuovo
capitolo aperto nella Spagna da Zapatero mirante a restituire onore e
dignità, finora negate dai governi postfranchisti, alle centinaia di
migliaia di combattenti repubblicani massacrati durante e dopo la
guerra civile.
Stragi sepolte nell’oblio che anticiparono e seguirono gli orrori del
nazifascismo commessi durante la seconda guerra mondiale.

E’ sicuramente vero che dobbiamo saper guardare avanti e non indugiare
troppo nel retrovisore dei ricordi di una storia marchiata con il
ferro  e con il fuoco di un’epoca terribile e violenta che ci ha
imposto scelte estreme ed inevitabili. Potevamo agire diversamente?
No, non potevamo.
Quello era il solo modo per ricostruire un mondo di pace, di libertà e
di diritti riconosciuti.

Sarebbe bene che nessuno dimenticasse che la madre di tutte le
conquiste del ‘900 in Europa che hanno permesso, dopo che cessarono gli
spari, il passaggio dalla violenza alla non violenza e dalla guerra
alla pace, è stata la lotta e la vittoria contro il nazifascismo di una
grande coalizione militare e popolare, quella degli eserciti alleati e
quella della Resistenza che dalla Bielorussia alla Manica e da Capo
Nord al Mediterraneo ha inflitto colpi mortali alla belva hitleriana.

Il mantenimento di questa memoria è un obbligo morale e politico che
abbiamo con i popoli ed i movimenti che ancora oggi lottano in più
parti del mondo contro la barbarie imperialista.
Dalla Palestina all’Iraq, alla Colombia la nozione di resistenza
mantiene intatti tutti i valori che esprime ed è un diritto pienamente
riconosciuto e legittimato dalle Nazioni Unite.

L’appello che arriva dai vecchi combattenti antifascisti in difesa
dell’ANPI non ha nulla di retorico e di celebrativo ma mira ad impedire
che si spezzi il sottile filo conduttore che ci racconta senza pietose
bugie la storia del ‘900.
Non si tratta solo di difendere il diritto di festeggiare il 25 aprile
che il governo Berlusconi vorrebbe cancellare, o di esigere il rispetto
della verità sui libri di storia.
Dobbiamo anche ricostruire il nesso, il rapporto esistente tra le
ragioni sociali, politiche e morali della lotta di allora e quella che
l’evoluzione storica e politica ci obbliga a combattere oggi e domani
contro le nuove forme di dominio e di sopraffazione.

Sergio Ricaldone

Milano, 18 ottobre 2004