Da: Roberto Pignoni
Data: Mar 22 Mar 2005 17:02:14 Europe/Rome
Oggetto: Il mercato chiede foibe, Repubblica risponde

Il mercato chiede foibe, ''Repubblica'' risponde.

L'ultimo numero del ''Venerdi' '', in edicola il 18 marzo,
contiene un ampio servizio che trae spunto
da un'iniziativa dal titolo ''Resistenze'',
che si terra' in Friuli, alla Villa Manin di Passariano
dal 16 aprile al 2 giugno. Essa avra' per fulcro
un'esposizione di ritratti fotografici di partigiani
di ieri e di oggi, allestita con la consueta
professionalita' e dedizione da Danilo De Marco.

Nelle immagini pubblicate dal Venerdi'
i lineamenti dei partigiani fotografati
da Danilo De Marco sono tesi e sofferti.
Chi conosce la loro odissea personale,
la persecuzione sistematica di cui furono oggetto
negli anni successivi alla guerra,
quando per lavorare era indispensabile il benservito del prete
e i comunisti erano condannati a emigrare
mentre le posizioni di potere venivano rioccupate
da chi le aveva tenute durante il ventennio,
non puo' non provare un senso di rispetto
per la purezza dei loro sguardi,
per la geometria incavata e solenne delle loro fisionomie.
Un volto puo' dire quello che non si trova sui giornali,
in televisione, sui manuali delle scuole.

Ora, come la vede Repubblica?
Il titolo dell'articolo ci introduce alle loro immagini in questi
termini:

''Noi, partigiani al confine slavo (sic!) al tempo delle foibe''.

Come se non bastasse, il sommario insinua
che l'espressione intensa e dolente di quei volti si deve al fatto

''... di aver saputo. E di avere taciuto.''

Segue, nel corpo dell'articolo, una serie di considerazioni
piuttosto rozze, perfettamente in linea
con le direttrici dell'offensiva di disinformazione
che ha investito i media negli ultimi mesi.
I luoghi comuni ci sono tutti, senza indulgere in sfumature:
il ''cinismo di Tito'',
il suo ''tradimento'' della Resistenza,
la sua determinazione ad annettersi buona parte del Friuli
come ''bottino di guerra'',
la scia di sangue che ne sarebbe seguita,
a partire dall'eccidio di Porzus
ordinato, si sostiene, dal IX Corpus
(l'organizzazione militare dei partigiani sloveni)
allo scopo di togliere di mezzo i patrioti che si opponevano
alle mire espansionistiche jugoslave.

Conosco abbastanza bene alcune delle persone
che vengono raffigurate sul ''Venerdi' '' di Repubblica
e so che la loro visione di quanto accadde
in quegli anni e' sensibilmente diversa.
Uno di essi ha pagato di persona, con un lungo
periodo di internamento nel carcere militare di Gaeta,
il coraggio con cui smaschero' una provocazione contro la Jugoslavia
imbastita lungo il confine da un gruppo di militari anticomunisti
(erano le prime avvisaglie della Gladio),
nei mesi successivi alla conclusione della guerra.

Dubito fortemente che, quando imbracciarono le armi,
Attila, Cinccènt, Cino da Monte e il Cid
si preoccupassero di trovarsi ''al confine slavo''.
Quello di cui erano dolorosamente, fisicamente consapevoli
era di abitare in una regione ceduta al Terzo Reich dai fascisti:
l'Adriatisches Kustenland, istituita per decreto
del Furher il 10 settembre del 1943,
e comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Pola,
oltre a una porzione consistente dell'attuale Slovenia.

Ci teneva, Hitler, a quei territori, e si affretto'
a inviarvi uno dei suoi fedelissimi:
l'Hoherer SS und Polizeifuhrer Odilo Globocknik
con la sua squadra di specialisti, l'Einsatzkommando Reinhard,
che si era gia' occupata con successo
dello sterminio degli ebrei polacchi.
Le conseguenze di tanta attenzione,
a partire dalla Risiera di S. Sabba, sono tristemente note.

Tale, il contesto.
Con queste premesse, lo scontro fu durissimo,
e non ebbe nulla di ''locale'', dal punto di vista partigiano.
In quegli anni, nelle stesse formazioni di Attila, Cinccènt,
Cino da Monte e del Cid combattevano italiani, sloveni, rom, spagnoli,
e un buon numero di disertori austriaci, tedeschi e cosacchi.
Il loro sacrificio ci ha permesso di liberarci dal Terzo Reich
e riconquistare una sovranita' che ci era stata tolta
da quei fascisti, collaboratori di Kesserling e Globocknik,
che oggi si vorrebbe definitivamente riabilitare.

Non cercate lumi su questo, sulle pagine di Repubblica.
Non vi troverete la storia di Fulmine, partigiano friulano,
liberato dalle carceri di Udine grazie a un'azione perfetta
portata a termine da un distaccamento della G.A.P.
(i ''Diavoli Rossi'' di Romano il Mancino)
di cui facevano parte, fra gli altri, combattenti russi e ungheresi.

Esiste una foto terribile, ripescata negli archivi
dell'A.N.P.I. da Danilo De Marco.
E' trascorso qualche mese dall'azione alle carceri.
Il corpo di Fulmine e' quasi segato in due
dalla raffica del plotone d'esecuzione.
In primo piano, legata a un altro palo,
la sagoma di un uomo piegato su se stesso.
Non sappiamo se il partigiano senegalese trucidato
insieme a Fulmine fosse consapevole di morire
nelle vicinanze di quello che Repubblica chiama ''il confine slavo''.

Il suo corpo e' un nero, doloroso arco
che segna un altro confine, che separa due umanita',
due sentimenti della vita e del mondo.
L'universo di rapporti, l'idea di convivenza
per cui si sacrificarono Fulmine e il suo anonimo compagno
sono ancora da realizzare.

La curvatura amara degli zigomi dei partigiani,
sulle pagine di Repubblica, ci ricorda questo.
Nel loro sguardo, si riflette la stessa luce
che illuminava le marce lungo i crinali ''del confine slavo''.
Frequentandoli, lavorando con loro, ho potuto prendere coscienza
della ricchezza di un mondo, di una cultura,
di una dimensione etica da cui dovremmo ripartire,
non solo per comprendere quello che e' successo sessant'anni fa,
ma soprattutto per dotarci di strumenti adeguati
ad affrontare le minacce cui e' esposto oggi
quel fragile tessuto che chiamiamo ''democrazia''.

Roberto Pignoni