Se Prodi va al governo

Fonte: http://www.lernesto.it

---

Prodi: "La politica estera la fa il premier, non Bertinotti. Resteremo
in Afghanistan"

di Franco Venturini

su Corriere della Sera del 06/10/2005

Intervista a Prodi: «La politica estera la farà il premier, non
Bertinotti» «Resteremo in Afghanistan» «Mi ispirerò alla
discontinuità, ma da quando Fini è alla Farnesina le cose sono migliorate»

Nel suo studio di Piazza Santi Apostoli il candidato premier Romano
Prodi ostenta una assoluta tranquillità. L'ultimatum di Berlusconi che
potrebbe anticipare le elezioni? «Non ci credo, e se poi accade meglio
così». Il ritorno al proporzionale? «Se vinco io si torna al
maggioritario». Ma poi non si può parlare agli italiani sempre e
soltanto delle stesse beghe, esiste il mondo, esiste la necessità di
avere una politica estera per difendere i nostri interessi e quelli
della pace. Ecco, è di questo che Prodi vuole conversare. Viene
spontaneo ricordargli che in politica estera tutti i governi italiani
usano proclamare la «continuità».
Se andrà a Palazzo Chigi, lui farà altrettanto?

«No davvero, la mia sarà una discontinuità. La linea in cui mi
riconosco è multilateralista e fortemente europea, dunque ben diversa
da quella dell'attuale governo anche se da quando Fini è alla
Farnesina le cose sono un po' migliorate. Dico subito che non si
tratta di essere filoamericano o antiamericano, questo è un dibattito
totalmente inventato. La mia politica estera certamente sarebbe una
politica estera prioritariamente europea ma questo non impedirebbe
all'Italia di essere il miglior alleato degli Usa».

Eppure sull'Iraq i problemi ci sono...

«L'Iraq rappresenta un grande punto di dissenso ma non compromette
l'insieme del rapporto con Washington. In tanti altri settori, come la
lotta al terrorismo, si può e si deve lavorare con gli Stati Uniti e
io l'ho fatto a lungo quando ero presidente della Commissione a
Bruxelles. L' Iraq è stato semplicemente un colossale errore. Del
resto da parte americana e inglese il problema oggi è come uscirne.
Certo non era infondata l'analisi che facevamo alla vigilia della
guerra: oggi più che mai si vede che lo strumento militare non
risolve, che occorre una soluzione politica».

A proposito di uscirne, se lei andrà al governo quando e come ne
usciremo noi italiani?

«Intanto diciamo che il ritiro lo ha già cominciato Berlusconi facendo
rientrare una certa quantità di truppe combattenti, non di supporto
logistico, e questo riduce fortemente la nostra capacità operativa.
Per quanto mi riguarda un giorno dopo aver vinto le elezioni io
fisserò un calendario preciso di ritiro militare, consultandomi sì con
le varie parti in causa ma senza ripensamenti. Rimarrà invece un
impegno per la ricostruzione e per gli aiuti. Anzi, con le risorse
risparmiate questo impegno potrà essere più forte».

Fausto Bertinotti la vede diversamente, lui vorrebbe il ritiro
immediato dall'Iraq e anche dall'Afghanistan e dai Balcani. Come
farete a governare insieme?

«Questo è uno dei motivi per cui ho voluto le primarie. Il che non
vuol dire che chi le vincerà potrà poi fare tutto da solo, ma le
questioni fondamentali devono essere chiare sulla base del programma
che è stato discusso e che ognuno avrà portato alle primarie. Del
resto le visioni diverse non sono rare nelle coalizioni, anzi, si
potrebbe dire che esistono sempre».

Ma Rifondazione non ha mai lasciato intendere di essere disposta a
cambiare idea...

«Ho parlato molto con Bertinotti, con reciproco rispetto. Ma certo su
temi di questo tipo le diversità esistono. Ritengo che la soluzione
stia nelle regole democratiche: anche chi non è d'accordo è chiamato
ad accettare il programma comune della coalizione. Noi andremo alle
elezioni con una linea, non con più linee».

Se capisco bene ci sarà il presidente del Consiglio e la politica
estera sarà la sua. Giusto?

«Esattamente, perché sarà la politica democraticamente decisa dall'
Unione. E io credo che Bertinotti sia un democratico. Il che non
esclude che il capo del governo tenga conto delle posizioni esistenti
nella sua coalizione. Ma quando una linea diventa patrimonio comune,
resta patrimonio comune».

Dunque in Afghanistan e nei Balcani i militari italiani resteranno?

«Certamente. Anche se, per quanto riguarda i Balcani, mi sembra ormai
giunto il momento di una riflessione profonda a dieci anni dagli
accordi di Dayton».

Dietro la questione irachena c'è il problema irrisolto dell'uso
legittimo della forza, e nel centrosinistra italiano non mancano
riflessioni nuove. Lei cosa ne pensa?

«Il punto di partenza deve essere l'articolo 11 della nostra
Costituzione che rifiuta la guerra. Stabilito questo, però, occorre
definire quali tipi di intervento armato possano essere considerati
giustificati. Stiamo parlando di genocidio, guerra civile, aggressione
a uno Stato sovrano, atti di terrorismo. In nessun modo l' uso della
forza può essere giustificato per risolvere una controversia
internazionale o determinare un cambio di regime in un altro Stato. In
alcune circostanze, pensiamo al genocidio, può essere giusto anche l'
intervento preventivo, e il metodo più ovvio è quello che fa dipendere
la legittimità dall'approvazione dell'Onu. Soltanto per il Kosovo non
è stato così, ma c'è stato il mandato della Nato. Certo, l'intervento
in Iraq non rientra in queste categorie, e va considerato tanto
ingiustificato quanto illegittimo. A differenza da quello in
Afghanistan, anche se pure lì nel post-intervento la politica ha fallito».

Quando si parla di esportazione della democrazia lei sottoscrive?

«Beninteso, purché si tratti di una esportazione pacifica. Come potrei
non essere a favore, del resto, sapendo bene che nessuno ha esportato
tanta democrazia quanto l'Unione Europea. L'allargamento della Ue è
stata l'esperienza più emozionante dei miei anni a Bruxelles.
Certamente noi avevamo a che fare con Paesi che tutti più o meno
avevano avuto una esperienza democratica, e la situazione è diversa
nella grandissima parte del mondo arabo-islamico. La difficoltà è
maggiore ma non può comunque appoggiarsi alla forza, occorre avviare
un dialogo politico e soprattutto economico, e capire che fenomeni
tanto profondi non possono che essere graduali. Ecco un terreno sul
quale europei e americani possono e devono collaborare strettamente
nell'interesse comune. Sottolineo collaborare, perché in non pochi
casi, per esempio nel "Quartetto" per il Medio Oriente, finora ha
suonato soltanto il primo violino. Anche per colpa della frantumazione
europea, beninteso».

Lei ha parlato spesso di «pari dignità» tra europei e americani. Cosa
intende, nella realtà d'oggi?

«È vero, non ho mai detto pari forza ma pari dignità sì. Oggi non
posso nascondermi che una nostra capacità di partecipare in quanto
europei a decisioni comuni con l'America è lontana nel tempo. Serve a
questo punto una intelligente politica americana, perché il mondo sta
cambiando e ridiventerà multipolare restituendo all'Europa un ruolo di
primo piano. Questo la Cina lo ha già compreso. Con Bill Clinton ne ho
parlato parecchie volte, lui aveva una visione positiva del futuro.
Non solo, la sua amministrazione ci aiutò non poco al momento
dell'introduzione dell'euro. Oggi le cose sono un po' diverse, ma
resta il fatto che all' America una Europa forte dovrebbe interessare
più di una Europa soltanto economica, debole e frammentata».

Parliamo appunto di Europa. Come si esce dalla crisi?

«Le rispondo con qualche proposta: gruppo di saggi che prepari il
rilancio sotto presidenza tedesca nel 2007; nuova conferenza
intergovernativa che adotti le necessarie modifiche al testo della
Costituzione bocciata in Francia e Olanda; nuovo referendum in
contemporanea alle elezioni europee del 2009; utilizzare da subito lo
strumento delle cooperazioni rafforzate, anche nel Consiglio di
sicurezza dell'Onu, anche nel Fondo monetario, anche nella
rappresentanza esterna dell'euro».

Da capo del governo, cosa cambierebbe nella lotta al terrorismo?

«Sulla difesa della sicurezza i metodi tradizionali sono comuni a
tutti. Metterei l'accento sulla cooperazione tra i servizi
d'informazione e sul controllo dei flussi finanziari: in entrambi
questi campi si può fare di meglio. Esiste inoltre un Islam moderato
con il quale occorre dialogare concretamente, e io riproporrei l'idea
di una Banca del Mediterraneo. Più in generale, visto che la miseria
aiuta il terrorismo, ho intenzione di creare una agenzia o un
ministero per gli aiuti allo sviluppo. E per quanto riguarda la
società italiana, gli islamici vanno trattati sulla base del rispetto
della legge come tutti gli altri immigrati. Scuola parificata
compresa, se ci sarà. In ogni caso ho intenzione di cambiare la legge
Bossi-Fini, responsabilizzando gli enti locali e creando un percorso
che deve poter portare alla cittadinanza».

Qual è il principale rimprovero che rivolge al governo Berlusconi,
l'errore che lei non ripeterebbe?

«Con Berlusconi l'Italia ha perso il suo tradizionale equilibrio tra
Usa e Europa. Oggi l'Italia è politicamente assente a Bruxelles. Io
intendo riequilibrare la posizione italiana senza per questo
rinunciare alla stretta alleanza con l'America e sperando che il
grande coraggio mostrato da Sharon abbia seguiti tali da portare la
pace tra israeliani e palestinesi. La politica estera non può essere
fatta solo di rapporti personali, e per questo, se vinceremo le
elezioni, nascerà un Consiglio per la sicurezza nazionale presso la
Presidenza del Consiglio. Un po' come in America, guarda caso».

---

Bruno Steri: "Prodi, il dominus: l'ultima parola vuole che sia la sua"

di Simone Oggionni

su redazione del 07/10/2005

L'intervista a Romano Prodi del 5 ottobre sul Corriere della Sera è
particolarmente significativa, innanzitutto per quell'apertura in cui
egli assicura che, in caso di una vittoria del centrosinistra, si
tornerebbe al maggioritario.

Sì, la prima affermazione importante di Romano Prodi è questa: «se
vinco io si torna al maggioritario». Non è più, quindi, soltanto di
D'Alema l'impostazione oltranzista dal punto di vista della opzione
bipolarista. E' anche il candidato dell'intera coalizione che dice
chiaramente che se vince il centrosinistra si torna al maggioritario.
Ma osteggiare e contrastare la proposta di riforma in senso
proporzionale avanzata dalle destre in forza dell'argomentazione di
una sua strumentalità nasconde la volontà precisa di difendere e
mantenere questa legge maggioritaria. È dunque una posizione
insostenibile dire che delle ipotesi di riforma in senso proporzionale
si tornerà a parlare dopo le elezioni con la vittoria del
centrosinistra: è una posizione che reputo ingenua, nel migliore dei
casi, ed ipocrita nel peggiore.

Il cuore dell'intervista di Prodi affronta una serie di questioni
internazionali sulle quali è bene soffermarsi.

Mi pare che una frase di Prodi sintetizzi l'intera intervista: «Noi
andremo alle elezioni con una linea, non con più linee». Se ancora ce
ne fosse il bisogno, Prodi ribadisce chi è il dominus: il dominus è
colui il quale vincerà le primarie, cioè egli stesso. È chiaro che chi
vince le primarie avrà il dovere di compattare la coalizione ma
l'ultima parola sarà la sua e dunque, sulla base della disciplina di
coalizione, anche chi è riottoso si dovrà adeguare.
Nel merito delle questioni affrontate: Prodi afferma, con ragione, che
grazie al governo Berlusconi i rapporti del nostro Paese con l'Europa
da un lato e con gli Stati Uniti dall'altro sono stati sbilanciati
nettamente a favore degli USA. Questo è vero ed ovvio. Aggiunge poi
che è necessario un riequilibrio della politica estera a favore
dell'Unione Europea. Sta di fatto che Prodi aggiunge un "però": non a
danno dei rapporti transatlantici. Questo riequilibrio è del tutto
formale, quindi, perché non se ne vede traccia concreta.
Prodi si dice, per esempio, entusiasta dell'allargamento dell'Unione
Europea a venticinque, quando, nei fatti, questo allargamento è stato
un cuneo, un cavallo di Troia dell'influenza nordamericana nel cuore
dell'Unione Europea, per non parlare della Turchia che, come ha
scritto giustamente Giulietto Chiesa su il manifesto, è il sigillo
dell'impronta del tallone USA sul progetto europeo. Anche di questo
Prodi non parla.

Come non parla del ruolo della NATO e del rapporto del nostro Paese
con la NATO…

Sì. Anche rispetto alle basi NATO e USA in Italia il silenzio di Prodi
è colpevole. Questo delle basi è un problema che sempre più sta
esplodendo: anche i nostri presidenti di Regione più illuminati
chiedono un ridimensionamento della presenza militare straniera per
invertire una tendenza che va esattamente nella direzione opposta (si
pensi al raddoppio della Maddalena e di Camp Darby e delle ingenti
dotazioni di armi non convenzionali e nucleari di cui dispongono
queste basi).
Se quando si parla di non dipendenza nei confronti degli Stati Uniti
non si entra poi nel merito si rimane, ripeto, colpevolmente reticenti.

Un'altra questione che mi pare rilevante è il passaggio in cui Prodi
affronta il tema della legittimità dell'utilizzo della forza.

Prodi dice apertamente che esistono le possibilità perché un
intervento armato possa ritenersi giustificabile, per esempio in
presenza di «atti di terrorismo» o di «genocidio», e cita il caso del
Kosovo. Non troviamo nell'intervista una sola riga di
ri-problematizzazione dell'accaduto, non dico di autocritica, anche se
quella vicenda, che ha inquinato i governi di centrosinistra,
imporrebbe quantomeno un ravvedimento.
Vorrei del resto ricordare che in Kosovo ancora oggi è in atto una
pulizia etnica ai danni di serbi e rom e le nostre truppe sono lì.
Ogni tanto qualcuno deve ricordarlo…
Anche su questo punto il riequilibrio di cui parlavamo è del tutto
formale perché non si sostanzia affatto di prese di posizioni chiare e
coraggiose, anche minime, come Zapatero in Spagna. Questo
atteggiamento pontificale di Prodi nasconde in realtà reticenze
gravissime.

Parlando di Europa, Prodi puntualizza l'esigenza di "alcune modifiche"
nella carta costituzionale…

E cosa vuol dire? Non si tratta di mettere qualche correzione qua e là
a quel testo perché è l'intero impianto ad essere inaccettabile.
Quella Costituzione è stata bocciata, insieme all'impianto generale e
all'impostazione di fondo delle politiche europee.

Un'ultima battuta sull'Iraq.

Ovviamente l'Iraq è la patata bollente. L'Italia impegna diecimila
soldati per le missioni cosiddette "umanitarie" che in realtà sono
missioni di guerra. In Iraq abbiamo tremila soldati italiani, il
movimento contro la guerra in questi anni ha espresso chiaramente,
nonostante il bombardamento mediatico, la propria contrarietà, così
come la maggioranza dei popoli.
Sull'Iraq il centrosinistra non è neanche in grado di parlare di
ritiro immediato perché traccheggia. Il quadro non è solo
insoddisfacente, è preoccupante.
A questo si aggiunge un ultimo elemento che reputo sconcertante e che
attiene all'idea che sia possibile esportare la democrazia. Prodi
rivendica questo aspetto, anche se in modo pacifico. È sconcertante
perché apre un varco enorme ad un atteggiamento di tipo neo-coloniale.
Qual è il tribunale della Storia che decide chi deve esportare il
proprio modello di organizzazione politica e come? Chi ha stabilito
che l'Occidente capitalistico è la civilizzazione? In base a quale
principio?


[Nota del CNJ: Bruno Steri è tra gli aderenti al nostro Coordinamento]