L'articolo che segue è apparso sul periodico triestino "La Nuova
Alabarda", n. 204 (3/2006) -
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-in_merito_agli_elenchi_dei_'deportati'_da_gorizia.php

In merito agli elenchi dei 'deportati' da Gorizia

STORIA O PROPAGANDA?

Ha fatto scalpore nei primi giorni di marzo (in curiosa coincidenza
con l'apertura ufficiale della campagna elettorale in Italia), la
notizia che la Slovenia avrebbe finalmente consegnato all'Italia un
elenco di nominativi di "deportati" dalla città di Gorizia nel maggio
1945 ad opera delle truppe jugoslave. L'ANSA si è subito distinta
nello scrivere, a proposito dei "deportati da Gorizia", che "di loro
non si è mai saputo nulla, ma si ritiene che la maggioranza vennero
uccisi nelle foibe carsiche", anche se, a leggere la documentazione
che è stata pubblicata sui quotidiani regionali, appare proprio il
contrario di tutto questo.
Facciamo quindi una breve analisi, per il momento ancora generica (ci
ripromettiamo di produrre un'analisi più dettagliata nei prossimi
tempi) di quanto è apparso sulla stampa. Innanzitutto vi indichiamo
una gustosa "bufala": sul "Messaggero Veneto" dell'8/3/06, tra le
varie foto di repertorio di recuperi di corpi dalle "foibe" (nessuna
della zona del Goriziano, da quanto possiamo vedere dalle nostre
conoscenze), c'è anche una foto che viene presentata come una
"immagine d'epoca che testimonia i rastrellamenti delle truppe
titine". Peccato che questa "foto d'epoca" sia invece un fotogramma
della (pessima) fiction prodotta l'anno scorso dalla RAI, "Il cuore
nel pozzo". Ma andiamo avanti.
Innanzitutto vediamo come sarebbe giunta in Italia questa
documentazione sui goriziani deportati. Il ministro sloveno Rupel
avrebbe consegnato uno studio della storica slovena Nataša Nemec al
sindaco di Nova Gorica, che lo avrebbe consegnato a sua volta, due
mesi or sono, al suo omologo goriziano, Vittorio Brancati. Il quale
avrebbe consegnato la documentazione non ad un istituto storico, non
ad un organismo ufficiale, ma alla rappresentante del Comitato dei
congiunti dei deportati goriziani, la signora Clara Morassi Stanta,
che è figlia di Giovanni Luigi Morassi (indicato nell'articolo come
"presidente della provincia di Gorizia, vicepodestà" e nell'elenco
prodotto dalla storica Nemec anche "PNF, gerarca, nemico degli
sloveni, collaborazionista dei tedeschi"), che fu arrestato e non fece
rientro, nonché vedova di Luigi Stanta, che il sedicente ricercatore
storico Marco Pirina, in "Genocidio…" indica come "Prof." e "Vice
Comandante" di una non meglio identificata "Divisione Gorizia", che
gli avrebbe dato le foto, pubblicate nel libro, relative ad un
"eccidio" di 20 militari inquadrati nel XIV Battaglione Costiero (in
linguaggio tecnico il "freiwillige Polizei bataillon", direttamente
sottoposto agli ordini del Reich).
Il primo interrogativo che ci viene in mente è questo: perché lo
"studio" è stato consegnato alla signora Morassi? Il secondo: perché
la signora Morassi lo ha consegnato alla Prefettura e quindi reso di
pubblico dominio proprio in questo particolare momento? Non avrebbe
avuto più senso, da un punto di vista logico, parlarne nel corso del
giorno del ricordo del 10 febbraio e non all'inizio della campagna
elettorale?
Ma questi sono interrogativi che alla fine non hanno molta importanza:
ciò che conta in effetti è la documentazione pubblicata. Dicevamo che
questo sarebbe uno "studio" curato dalla dottoressa Nemec: noi
pensiamo che qualunque storico dovrebbe, prima di rendere pubblico un
proprio studio, cercare di dargli una forma concreta e comprensibile,
e non limitarsi a ricopiare degli appunti, lasciando in piedi
contraddizioni non chiarite e via di seguito.
Per entrare nel merito, diciamo che può essere un criterio valido
dividere le persone a seconda delle proprie qualifiche (militari,
bersaglieri, polizia…), però quantomeno all'interno di uno stesso
elenco dovrebbe essere rispettato l'ordine alfabetico, cosa che non
abbiamo riscontrato; né la numerazione progressiva è corretta. Né
comprendiamo il motivo di fare un elenco a parte per chi fu internato
a Borovnica, un altro per chi morì a Borovnica o a Skofja Loka, e non
inserire questi nominativi nei singoli elenchi per qualifica, ma
questi al limite sono particolari di relativa importanza. Ciò che non
troviamo accettabile è che in questo elenco vengano compresi anche
"149 scomparsi prima del maggio 1945", tra i quali troviamo, al n. 17,
Coos Alfredo, morto in Corsica il 15/10/43; al n. 53 Iach Giuseppe,
partigiano e al n. 86 PUERI Giorgio, partigiano brigata Kosovel,
caduto presso Trnova nel 1944. A che scopo inserire questi nomi (od
anche gli altri nomi di persone che, comunque, sono morte nel corso
della guerra per i più svariati motivi e nei più svariati luoghi), se
non per aumentare la cifra totale dell'elenco e creare più scalpore
intorno al fatto? Lo stesso discorso per l'elenco dei 110 rientrati
dalla prigionia: se sono rientrati, perché comprenderli nell'elenco
che viene spacciato per quello dei "deportati e dispersi"?
Inoltre non è dignitoso, per una ricerca storica, che a fianco di
diversi di questi nominativi (come il già citato partigiano Iach)
appaiono annotazioni di questo tipo: "arrestato a Gorizia 9/5/45
disperso 1943-45". Se esistono dubbi sulla scomparsa o l'uccisione di
una persona, lo storico serio deve spiegare queste contraddizioni,
possibilmente indicando la fonte di ciascuna delle ipotesi (a parte
che nel caso specifico di Iach egli risulta negli studi più recenti
solo come partigiano caduto in combattimento).
Queste le brevi constatazioni in merito alla qualità dello studio che
è stato reso pubblico, uno studio che oltretutto non aggiunge nulla di
nuovo, come ha sostenuto anche Piero Delbello (direttore dell'Istituto
per la cultura istriano fiumano dalmata di Trieste, che comunque non
si vede cosa c'entri con questione relative a Gorizia, che non è né
Istria, né Fiume, né Dalmazia), rispetto agli elenchi di arrestati che
già si conoscevano da tempo. Ma a prescindere da questo, ciò che a
parer nostro invece è fondamentale da rilevare, è che questi elenchi,
lungi dal dimostrare "infoibamenti" e massacri indiscriminati da parte
dell'esercito jugoslavo o dei partigiani nei confronti degli abitanti
di Gorizia, evidenziano invece tutta un'altra serie di cose.
Innanzitutto, come abbiamo già accennato, in questo elenco di circa
1100 persone sono 110 i nominativi di rientrati dalla prigionia e 149
le persone morte prima del 1/5/45; circa 500 sono nominativi non di
"deportati" goriziani, ma di militari (provenienti da tutta Italia)
appartenenti a formazioni che erano di stanza nella ex provincia di
Gorizia (i bersaglieri ad esempio sono stati fatti prigionieri nella
zona di Tolmino, mentre il battaglione costiero nella zona di Cal di
Canale), compresi 33 domobranzi, che non erano una formazione
italiana, ma di sloveni inquadrati nell'esercito nazista; ed erano
inquadrati come "freiwillige" (cioè volontari") nell'esercito del
Reich sia il XIV Battaglione costiero, sia i bersaglieri del
battaglione "Mussolini". Andando avanti, troviamo anche 38 nominativi
di arrestati nella zona di Monfalcone, ed alla fine, dei "deportati
civili" da Gorizia ci rimane solo un elenco di circa 200 nomi, dei
quali, se leggiamo le qualifiche indicate, scopriamo che molti erano
squadristi, molti erano funzionari del Fascio e gerarchi, alcune donne
erano ausiliarie della contraerea (quindi militari da ogni punto di
vista), altri ancora collaborazionisti con la polizia nazista e via di
seguito.
Un discorso a parte va fatto per i carabinieri indicati nell'elenco:
ricordiamo che l'Arma dei Carabinieri fu sciolta, nell'Adriatisches
Küstenland, per ordine dei comandi germanici, con decorrenza 25 luglio
1944. I carabinieri furono quindi inquadrati in altre formazioni
collaborazioniste: generalmente nella Milizia Difesa Territoriale,
cioè il corrispettivo della Guardia Nazionale Repubblicana nel
territorio direttamente soggetto al Reich che non accettava la
presenza di organizzazioni militari "italiane". Altri carabinieri
furono inquadrati negli organismi di polizia (sempre soggetta al
comando germanico); i carabinieri che si rifiutarono di venire
inquadrati nelle formazioni militari soggette al Reich, perché
ritenevano ancora valido il proprio giuramento di fedeltà al Regno
d'Italia, furono deportati nei lager germanici dove molti persero la
vita. Soltanto pochissimi carabinieri rimasero in organico come tali,
quelli che curavano gli uffici stralcio dell'Arma, ma quelli che
furono arrestati, a Gorizia come a Trieste, nei primi giorni di maggio
del 1945 non potevano essere stati arrestati in quanto carabinieri, ma
in quanto ex carabinieri che erano stati inquadrati nelle formazioni
collaborazioniste (e difatti secondo altri elenchi di arrestati, la
maggior parte dei carabinieri dell'elenco di Nemec risultano essere
stati inquadrati nella MDT).
Un'altra cosa importante che appare da questo elenco, è che nessuno di
questi arrestati risulta essere stato "gettato nelle foibe",
nonostante quanto scritto dall'ANSA: gli arresti risultano essere
stati fatti in quanto le persone erano state coinvolte con il passato
regime (per alcuni nominativi troviamo l'indicazione "arrestato per
errore"), mentre la maggior parte, come abbiamo spiegato prima, è
composta da militari catturati ed internati nei campi di prigionia,
come previsto dai regolamenti di guerra. Non "foibe", quindi: arresti
sì, morti anche, ma non "infoibati".
Perché dunque continua questa strumentalizzazione dei morti, che ci si
ostina a definire "infoibati" anche se sono morti altrimenti?
Ricordiamo qui quanto scrivono Pupo e Spazzali (in "Foibe", Bruno
Mondatori 2003): "Quando si parla di foibe ci si riferisce alle
violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza
italiani, scatenatesi nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945
in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme
procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine
consolidatosi ormai oltre che nel linguaggio comune, anche in quello
storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo
significato simbolico e non letterale". Questo concetto è stato
ripreso, negli ultimi anni, da storiografi e divulgatori vari, da
Oliva a Rumici, al più recente Girardo.
Per capire questa mistificazione facciamo un passo indietro nel tempo.
Nel 1976, all'epoca del processo per i crimini della Risiera di San
Sabba (un campo di concentramento e sterminio per ebrei e partigiani
rastrellati nei territori occupati dai nazifascisti, dove si calcola
furono uccise tra le 4.000 e le 5.000 persone), ci fu una campagna
stampa che chiedeva, oggi si direbbe come "par condicio", che si
procedesse in via giudiziaria anche per le "foibe". In quell'occasione
lo storico triestino Giovanni Miccoli sostenne che l'accostamento tra
foibe e Risiera fosse "aberrante", in quanto la Risiera era "il frutto
razionale e scientificamente impostato dall'ideologia nazista, che
come ha prodotto Belsec e Treblinka, e Auschwitz e Mauthausen, e
Sobibor e Dachau, così ha prodotto la Risiera, e l'ha prodotta qui, ha
potuto produrla qui perché, per i fini ai quali doveva rispondere, ha
trovato compiacenti servizi in ambienti largamente predisposti dal
fascismo"; mentre le foibe "sono la risposta che può essere sbagliata,
irrazionale e crudele, ma pure sempre risposta alla persecuzione e
alla repressione violenta e sistematica cui per più di vent'anni lo
Stato italiano (…) aveva sottoposto le popolazioni slovene e croate di
queste zone. È assurdo parlare, riferendosi ad esse, di genocidio o di
programmazione sistematica di streminio, ma sì di scoppio improvviso
di odii e rancori collettivi a lungo repressi".
Miccoli conclude asserendo che un eventuale processo per "le foibe"
sarebbe un "accostamento storicamente e moralmente infondato se non,
ancora una volta, da un punto di vista nazionalista e fascista, un
processo non ad un'ideologia e a un sistema, e quindi occasione di
crescita e di consapevolezza civile, ma un processo ad una reazione
irrazionale e violenta che trovava rispondenza in tensioni e
lacerazioni di interi gruppi sociali, e perciò inevitabilmente aperto,
per gli equivoci gravi da cui nascerebbe, alla strumentalizzazione
fascista e nazionalista".
Nello scritto appare chiaramente come Miccoli considerasse le "foibe"
nel loro significato letterale e non "simbolico", volendo tenere conto
del linguaggio di Pupo e Spazzali. In effetti, stante che le varie
modalità di morte dei cosiddetti "infoibati" (così definiti appunto
secondo l'interpretazione "allargata") non hanno di per se stesse un
minimo comune denominatore, perché si tratta di episodi diversi tra di
loro che vanno inseriti tutti nell'enorme, abominevole, fenomeno che
fu la seconda guerra mondiale, non sarebbe possibile poter parlare di
un fenomeno "comune" per le "foibe", come invece si può parlare dei
"lager", che furono appunto il risultato di un programma politico
studiato e pianificato a tavolino da un regime autoritario. Mentre, se
si "accoglie" (sia pure nel suo significato "simbolico e non
letterale") l'uso del termine "infoibati", allargandolo anche a coloro
che morirono altrimenti (di tifo nei campi di internamento per
militari, fucilati dopo processo, in esecuzioni sommarie da
regolamenti di conti post-bellici e via di seguito), in base
all'analisi del professor Miccoli prima esposta, questo
"allargamento", che porta a considerare fenomeni diversi tra di loro
come componenti di uno stesso progetto (un non mai dimostrato
storicamente disegno politico del nascente stato jugoslavo di
"eliminazione" degli italiani per la conquista dei territori da essi
abitati) può avere un unico effetto: quello di paragonare il "fenomeno
delle foibe" (che è un "non-fenomeno") al disegno nazifascista di
eliminazione delle "vite zavorra", delle "razze inferiori" e degli
oppositori politici, realizzando in questo modo quell'accostamento
aberrante che era stato denunciato come pericolo da Miccoli ancora nel
1976.

Viene quindi da pensare che sia questo il motivo per cui tanti
divulgatori e storiografi si accaniscono nella propaganda a parlare di
"foibe" nel concetto "allargato" di Pupo e Spazzali,; viene il
sospetto che dietro queste interpretazioni storiografiche ci sia un
movente politico, lo scopo sia quello di criminalizzare e denigrare la
Jugoslavia di Tito, e con essa la lotta di liberazione compiuta a
prezzo di immani sacrifici assieme agli antifascisti di tutte le
nazioni che con essa hanno combattuto, ed infine anche il progetto
politico che fu di Tito e della sua Jugoslavia, il cercare di
costruire un tipo diverso di socialismo, autogestionario e non allineato.

Marzo 2006