Budapest 1956: l’Europa ad un passo dal conflitto nucleare. Pentimenti e ipocrisie di postcomunisti cinquanta anni dopo.

di Sergio Ricaldone

Uno dei temi (non il solo s’intende) su cui sinistra e destra hanno mostrato una significativa convergenza di giudizi storici riguarda le celebrazioni del 50° anniversario del ’56 ungherese, ossia dell’evento definito, senza tanti complimenti, “la più grande insurrezione popolare anticomunista schiacciata nel sangue dai carri sovietici”.    Su questo lapidario giudizio scolpito sui marmi di Budapest si ritrovano a riflettere, con commenti variamente modulati ma convergenti (lo dico con tutto il rispetto delle loro funzioni istituzionali), da una parte  Giorgio Napolitano, Fausto Bertinotti, Pietro Ingrao (e molti altri),  dall’altra Gianfranco Fini, Mirko Tremaglia (e molti altri). 
Mai, prima d’ora, era successo che il ceto politico, salvo pochissime eccezioni, si ritrovasse su posizioni così similari nel ripresentare le tragiche giornate di Budapest come l’apice delle infamie prodotte dal comunismo nel 20° secolo.    Il tutto con il pieno sostegno della grande stampa, della TV di stato, dell’editoria, di alcune lobbies universitarie.

In un quadro così spudoratamente manicheo l’Europa e il mondo occidentale di quei giorni lontani appaiono perciò come un tranquillo giardino fiorito di nazioni libere, democratiche e pacifiche, rispettose le une delle altre, minacciate unicamente dalla follia sanguinaria dei comunisti (sovietici e non) pronti a schiacciare chiunque sotto i cingoli dei carri armati.   Si evita di ricordare che tra le “nazioni libere” della moderna “santa alleanza” atlantica erano inclusi, all’epoca, due Stati fascisti, il Portogallo e la Spagna, paesi nei quali il massacro dei comunisti, con i plotoni e la garrota, continuò indisturbato e benedetto dal Vaticano fino all’uscita di scena di Franco e Salazar.
Singolare questo speculare accanimento revisionistico.   Fascisti incalliti da una parte e voltagabbana ex e post dall’altra, si ritrovano a celebrare con giudizi simili il memorial day del 56 ungherese, ma con i primi più che mai  orgogliosi di essere stati i più coerenti difensori dei valori e della civiltà occidentale, mentre i secondi, recitano tardivi mea culpa per i loro peccati giovanili e chiedono scusa per essersi schierati allora dalla parte sbagliata.     Ma entrambi si guardano bene dal riproporre il contesto politico reale della guerra fredda dalla quale riemergono, non solo i fatti di Budapest, ma molti altri eventi che mostrano come in quegli anni terribili il sangue avesse ripreso a scorrere in molti altri angoli del pianeta situati, si badi bene, fuori dalla sfera di intervento dei cingolati sovietici ma ben dentro quella della Nato e del Pentagono.   Interventi il cui obbiettivo principale, come documenta lo storico svizzero Daniele Ganser nel suo libro – Gli eserciti segreti della Nato – (Fazi editore, 2005, pag. 448), era quello di ristabilire il primato del comando politico e militare in Europa dopo che la guerra contro il nazifascismo aveva messo in crisi di consenso gli antichi centri di potere e aperto all’antagonista storico di quei poteri – il movimento operaio – spazi di agibilità politica  considerati intollerabili dal grande capitale monopolistico.   Il libro di Ganser ci racconta come la CIA  sia diventata in quegli anni animatrice e guida di una gigantesca organizzazione eversiva, quale è stata Gladio, che da Capo Nord al Mediterraneo e da Londra alla “cortina di ferro”, ha alimentato il terrorismo, la “strategia della tensione”, i tentativi di colpi di stato, la tortura.    In Inghilterra la stampa ha commentato la nascita di Gladio come “il segreto politico-militare meglio nascosto e più pericoloso dai tempi della seconda guerra mondiale.”

Negli anni a cavallo del 1956, benché la guerra si chiamasse fredda, gli Stati Uniti intervennero militarmente o indirettamente con colpi di stato e  appoggi diretti alle potenze imperialiste alleate, come la Francia e l’Inghilterra, per schiacciare regimi democratici e movimenti di liberazione antimperialisti, compiendo veri e propri genocidi non solo di comunisti ma di intere popolazioni.    Grecia, Filippine, Malesia, Birmania, Guatemala, Vietnam, Algeria, Nigeria, Indonesia, Libano, Cambogia, Salvador, Nicaragua, Congo belga, Angola Mozambico, Guinea Bissau, Zimbabwe, Cile...  L’elenco è, ovviamente, incompleto ma la somma delle vittime – milioni di morti -  massacrate dalle armi imperialiste, fasciste e golpiste, rigorosamente “made in USA”, è agghiacciante.   

Non è difficile intuire che in quel contesto le pur comprensibili aspirazioni ad una maggiore libertà espressa nei loro cortei dagli studenti di Budapest, nell’ottobre del ’56,  furono ben presto spazzate via dalle immagini atroci delle migliaia di comunisti massacrati come bestie e appesi per i piedi agli alberi della capitale magiara.    Questo repentino passaggio dalla protesta alla “insurrezione popolare contro il regime comunista” assunse la dimensione di una vera e propria carneficina controrivoluzionaria sostenuta apertamente dalle strutture eversive esterne della Nato: aerei che dalla Germania  trasportavano armi agli insorti, gruppi di emigrati fascisti ungheresi che rientravano in patria dall’Austria armati fino ai denti, grandi industriali e proprietari terrieri che, intervistati, annunciavano il ritorno in patria e la ripresa di tutte le loro antiche proprietà,  i fascisti, camerati di  Tremaglia, impazienti di riproporre altrove la macelleria di Budapest (a Milano e in altre città tentarono di assaltare le sedi comuniste ma furono messi in fuga a pedate),  la radio della CIA, Europa libera, che lanciava furiosi appelli all’insurrezione armata a tutti i paesi dell’est.   Ma giunsero anche notizie che gli operai di molte fabbriche di Budapest si erano barricati nelle officine e, benché disarmati e a prezzo di pesanti perdite, impedirono ai rivoltosi di occuparle.

Il clima che si respirava in quegli anni in questa parte di mondo definito “libero e democratico” viene descritto molto bene dal filosofo Ludovico Geymonat nel suo libro-intervista “Dialoghi sulla pace e la libertà” (Quaderni di Giano, 1992, pag. 223): 
La minaccia di utilizzare la bomba atomica contro l’Unione Sovietica fu in realtà una minaccia enorme e si volle tutta la durezza del governo sovietico per non cedere a questa minaccia.  Non sarà privo di interesse ricordare che lo stesso Bertrand Russel nel 1960 partecipando ad una tavola rotonda sulle questioni nucleari con la signora Eleonora Roosvelt fu scandalizzato nell’ascoltare la moglie del Presidente americano che affermava preferire che la razza umana andasse distrutta piuttosto che pensarla “preda del comunismo”.  Insomma, se per Russel poteva  anche essere accettabile lo slogan provocatorio “meglio rossi che morti” va anche ricordato che vi era però chi gli ribatteva, con non minore polemica, “meglio morti che rossi”.        

La suprema follia di quello slogan spiega come “la caccia alle streghe” imposta dalla paranoia anticomunista del maccartismo, sia stata per lunghi anni il filo conduttore che ha ispirato la politica interna ed estera degli Stati Uniti e della Nato.    Erano gli anni in cui l’FBI di Edgar Hoover spedì i Rosemberg sulla sedia elettrica e centinaia di americani, sospetti “comunisti”, nel penitenziario di Sing Sing.  Non è un caso se il grande Charlie Chaplin decise di fuggire da quel clima infernale.

Sebbene non ci siano mai state indifferenti le legittime motivazioni che accesero inizialmente la protesta degli studenti di Budapest, non possiamo non vedere come la successiva  escalation insurrezionale, sicuramente non spontanea né innocente, puntasse alla separazione dell’Ungheria dall’orbita sovietica e dal Patto di Varsavia e al suo successivo arruolamento nella Nato.   Un azzardato e irresponsabile tentativo di Washington di mettere con le spalle al muro l’URSS sottraendogli una postazione di rilevanza strategica in Europa centrale.   Dunque, un gravissimo punto di rottura degli equilibri mondiali sanciti a Yalta dalle grandi potenze, che trasformò il conflitto interno ungherese in una minacciosa contesa tra la Nato e il Patto di Varsavia che condusse l’Europa ad un passo dal conflitto nucleare.
Qui e non altrove va ricercato il prevalente politico-strategico che provocò l’intervento sovietico.  Detestabile e condannabile fin che si vuole ma inevitabile se collocato nella logica degli accordi di Yalta.   La stessa Cina di Mao sostenne apertamente l’intervento militare sovietico e fu la leadership di Pechino che consigliò l’esitante Nikita Krusciov di invadere militarmente l’Ungheria.  (Universale Feltrinelli: Tensioni e conflitti del mondo contemporaneo, pag. 348) 
Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo in Italia se il PCI, anziché attenersi alla logica di Yalta avesse trasformato lo sciopero di protesta seguito all’attentato di Togliatti in un movimento insurrezionale e in una rivoluzione socialista.   C’è qualcuno, sano di mente, convinto che gli americani avrebbero osservato impassibili un simile evento senza usare i loro cingolati?   O non avrebbero invece fatto come in Grecia dove un tentativo del genere fu soffocato nel sangue di centinaia di migliaia di comunisti?

Che nel 1956 il mondo fosse una polveriera (nucleare) pronta ad esplodere sta scritto in tante buone letture che ci raccontano con dovizia di particolari anche per colpa di chi.   Nel suo pregevole volume – Storia sociale del mondo contemporaneo – (Feltrinelli, 1982, pag. 638), Enzo Santarelli ci racconta quanto successe in quegli stessi giorni dell’ottobre ’56,  duemila km. più a sud di Budapest.    Il  presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, uno dei leaders  nazionalisti e antimperialisti protagonista dei processi di liberazione in atto contro i vecchi imperi coloniali, aveva da poco nazionalizzato il canale di Suez, sottraendolo alla compagnia anglo-francese.   Quel gesto, sicuramente audace ma moralmente e politicamente ineccepibile, scatenò un furibonda reazione imperialista.    Il 29 ottobre i cingolati di Israele dilagarono in territorio egiziano, oltre la striscia di Gaza occupando il Sinai fino alla sponda orientale del canale.   Due giorni dopo, il 31 ottobre, gli anglo-francesi bombardarono il Cairo, Alessandria, rasero al suolo Suez, Porto Said e Ismailia e occuparono con i paracadutisti il canale.     La proditoria aggressione cessò solo quando l’Unione Sovietica e la Cina minacciarono di intervenire militarmente a fianco dell’Egitto.   Quanti egiziani siano stati massacrati in quei giorni non lo sappiamo.   Quel che sappiamo è che mentre si piangono le vittime di Budapest su quegli altri morti è stato calato il sipario ed Israele continua ad occupare – 50 anni dopo! – gran parte dei territori occupati con i carri armati nel ’56.

Budapest e Suez: due eventi scoppiati simultaneamente in una certa fase, forse la più pericolosa della guerra fredda.   Varrebbe la pena di ridiscuterne senza bugie, opportunismi, ipocrisie e patetici sensi di colpa.    Gli insegnamenti della storia non si colgono raccontando ciò che fa comodo davanti a telecamere compiacenti ma partendo da quello che molti autorevoli storici ci documentano con lucido raziocinio.   Ed anche ascoltando le sincere e genuine testimonianze di chi – come Antonio Costa autore della documentata memoria che segue – quegli avvenimenti li ha vissuti in prima persona da militante del movimento operaio.


Nenni, Bertinotti e gli avvenimenti d’Ungheria del ‘56

Di Antonio Costa

Tra i regimi socialisti sorti nell’Europa dell’est sull’onda della sconfitta nazista, caratteristiche molto particolari aveva assunto quello dell’Ungheria.
La struttura sociale ungherese, all’avvento della democrazia popolare, non aveva praticamente riscontro in Europa.   Vi sopravvivevano istituti e rapporti sociali di tipo feudale (ad esempio la titolarità dei pubblici uffici era ereditaria).
Un certo sviluppo industriale, che pure era avvenuto durante la seconda guerra mondiale, rimaneva un fatto marginale all’interno di una società agricola (700.000 lavoratori circa su 10 milioni di abitanti).  E nell’agricoltura dominava il latifondo: 2000 proprietari possedevano il 56% della terra (e tra questi il più grande era la chiesa con il 6% della proprietà).   Inoltre 500.000 contadini medi e piccoli erano padroni del 35% della terra.  Poi il grosso dei piccolissimi coltivatori: 1.500.000 proprietari.
Ma la proprietà di 360.000 di questi ultimi si riduceva ad un fazzoletto di terra totalmente insufficiente al sostentamento e potevano perciò essere sommati ai 500.000 contadini senza terra.   Un totale di 800.000 persone in condizioni  miserabili, 1.140.000 estremamente poveri, 500.000 di condizione altalenante e infine 2.000 che vivevano nel lusso e nelle condizioni di privilegio le più sfrenate.
Le riforme sociali conseguenti all’avvento del potere socialista non potevano quindi non avere una duplice faccia: quella di un consenso largo, soprattutto nelle campagne, che avrebbe fatto sentire il suo peso nei momenti critici, una rabbiosa, disperata resistenza dei privilegiati, sommata a quella di una parte dei 500.000 contadini medi, unbitamente alla borghesia declassata e a quel centro di potere particolare che era la chiesa latifondista di Mindzenty.
Un altro fattore di pesante incidenza era la scelta, in una certa misura obbligata, di mantenere un sostanziale privilegio verso l’industria pesante a forte scapito della produzione dei beni di consumo.   Vi erano alle spalle lunghi anni di guerra fredda.   Era opinione diffusa che ciò fosse il preludio alla guerra calda, quindi gli investimenti militari apparivano come una scelta obbligata con ovvie, pesanti conseguenze su strutture economiche e sociali in uno stato di estrema fragilità in un paese come l’Ungheria che si avviava alla modernizzazione dopo secoli di buio clericale e borghese.   E infine, su tutto, influivano scelte politiche generali riguardanti l’assetto dei paesi socialisti dell’Europa dell’est sorti dopo la seconda guerra mondiale.
Il consolidamento e lo sviluppo dei regimi di democrazia popolare richiedevano in generale, ma particolarmente in una realtà come quella ungherese, la ricerca di una via nazionale ed autonoma nell’edificazione del socialismo, capace di utilizzare il patrimonio elaborato dall’Unione Sovietica, non per trasferirlo meccanicamente nella propria realtà, ma per elaborare una soluzione originale ai problemi del paese.    Invece, dopo i successi iniziali di sviluppo quantitativo dell’economia, si erano venuti accumulando errori di indirizzo politico che avevano portato ad una situazione davvero esplosiva: errori che potevano ravvisarsi in una insufficiente capacità di rendere trasparente e mobilitante la prospettiva della edificazione del socialismo con una politica capace di collegarsi alle strutture sociali, alla storia, alla tradizione nazionale del paese.
Grandi erano le difficoltà oggettive: la guerra fredda, la pressione offensiva dei gruppi imperialisti che si avvaleva di una forte emigrazione avvenuta contestualmente alla liberazione del paese, il pericolo della guerra calda con la richiamata necessità della difesa militare e l’impulso straordinario all’industria pesante, gravarono duramente, inasprendo quelle difficoltà.
Ma esse venivano affrontate applicando un modello uniforme, schemi e direttive che non si raccordavano con la realtà nazionale; difettò la capacità di elaborare un’analisi puntuale delle forze motrici della rivoluzione e di approfondire i legami con le grandi tradizioni patriottiche e nazionali.   Perciò erano prevalsi metodi di direzione dall’alto che avevano impedito di trasfondere nella stessa classe operaia la chiarezza della prospettiva ed un suo coinvolgimento pieno nella elaborazione della linea politica; e ciò non poteva non avere grandi conseguenze nel rapporto Stato-masse allorché sacrifici anche pesanti si imponevano per superare un passaggio vitale nella storia della nuova Repubblica Popolare.   E oltre al rapporto Stato-masse, queste condizioni avevano provocato grave nocumento alla democrazia interna di Partito, rendendo difficile il percorso di superamento delle difficoltà e degli errori, innescando una lotta interna aspra e disgregatrice - degenerata in una sterile esplosione di proteste, risentimenti, scontri di fazione – che anziché dare ai problemi una soluzione politica costruttiva, spezzava il Partito intaccando la sua egemonia tra le masse operaie e popolari, offrendo spazio e iniziativa ad altri centri di influenza e organizzazione ormai inquinati da tentazioni eversive.
Una vera sommossa nasceva dunque dal malcontento e dalle proteste popolari, deluse dai mancati aggiustamenti richiesti, ma anche confuse e disorientate al punto da non comprendere più l’esigenza di difendere comunque le basi popolari del regime come condizione per nuove conquiste sociali e civili.   In quel momento, in quella ben precisa situazione storica la protesta degenerava ed assumeva il carattere di insurrezione armata contro le organizzazioni dirigenti del potere popolare e dunque, necessariamente, essa apriva le porte ad un ritorno delle forze politiche e di classe che erano state sconfitte dal regime di democrazia popolare mettendo in pericolo la fondamentale conquista che quel regime – pur tra errori e deviazioni – aveva realizzato: l’abbattimento del dominio politico ed economico delle classi capitalistiche.
Quando nei paesi socialisti la lotta politica o la protesta popolare assumono il carattere di insurrezione armata è inevitabile che si apra la strada alla provocazione e all’avventura reazionaria.  Quali che fossero i sentimenti e i propositi di masse e strati di lavoratori che dagli errori e dalle colpe del passato erano stati trascinati nella sommossa, in quel momento la posta in gioco diveniva il ritorno o meno del vecchio regime capitalistico.
In quell’ora tragica si doveva sbarrare la strada a questo ritorno.  In caso contrario le basi fondamentali del regime di democrazia popolare sarebbero state distrutte, non si sarebbe più parlato di sviluppo di una democrazia socialista ma di restaurazione dei vecchi rapporti di classe aprendo le porte ai piani di rivincita reazionaria più folli e pericolosi.
Non va dimenticato che proprio in quelle ore, sfruttando i tragici avvenimenti ungheresi, l’imperialismo tentava una sortita, pericolosissima per la pace mondiale, contro l’Egitto (vicenda del canale di Suez), per fortuna bloccata tempestivamente dall’intervento estremamente energico dell’Unione Sovietica.
Certo, era doloroso che il governo ungherese non fosse in grado di respingere con le sue forze la minaccia di un ritorno reazionario e dovesse pertanto richiedere l’intervento delle truppe sovietiche.   Ma la realtà configurava un’alternativa netta e precisa: o difesa delle fondamenta popolari del nuovo regime o ritorno del potere latifondista.   La scelta dell’intervento era dunque una scelta obbligata, anche per ridurre al minimo i danni materiali e umani che la situazione stava producendo.
Per cinquanta anni i fatti d’Ungheria sono stati il leit-motiv anticomunista di tanti, di troppi.   Cinquanta anni dopo dobbiamo constatare invece che l’intervento, anzi il duplice intervento delle truppe sovietiche in Ungheria, non solo non ha impedito ma, con l’ascesa al potere di Janos Kadar, ha addirittura stimolato un processo di rinnovamento e sviluppo complesso ma chiaro e positivo:  sotto la guida del comunista Kadar il nuovo regime è durato più di trent’anni e ha raggiunto obbiettivi di sviluppo economico, sociale e civile inconfutabili anche da parte occidentale.   Paradossalmente ciò ha consentito che il passaggio di regime nell’89, dopo la caduta del muro, avvenisse senza traumi e violente lacerazioni.   Rimane il fatto che dopo 15 anni di ritorno al capitalismo e di “normalizzazione” liberal-democratica i conti non tornano e l’Ungheria si ritrova a sua volta immersa nelle patologie tipiche provocate da un capitalismo selvaggio e corrotto: disuguaglianze, disoccupazione, povertà, precarietà sociale.
Quanto alle conseguenze nel nostro paese di quell’intervento, va, a mio avviso, totalmente rovesciato il discorso periodicamente riemergente della “occasione storica perduta”.
Il PCI espresse allora la sua solidarietà all’intervento.  La maggioranza del PSI invece lo criticò.   I comunisti e una forte minoranza del PSI formarono in tal modo un blocco che impedì il dilagare di una socialdemocratizzazione della sinistra di classe   Quelli che rimpiangono l’occasione perduta sono costretti perciò ad ignorare il seguito della storia e cioè che il movimento operaio italiano resistendo agli inviti liquidatori dei critici dell’intervento ha saputo dar vita ad un percorso che, negli anni successivi,  ha fortemente modificato le basi della società italiana realizzando conquiste economiche e sociali che hanno eliminato differenze storiche con i paesi più avanzati d’Europa, conquiste dell’ordinamento civile e democratico, peraltro messe periodicamente in discussione dalle forze conservatrici.
Ecco perché Nenni ha sbagliato nella sua radicale condanna dell’Unione Sovietica e nella conseguente rottura del Patto di Unità d’azione con il PCI.
Ecco perché Bertinotti sbaglia due volte nella rivalutazione delle posizioni di Nenni sui fatti d’Ungheria cinquanta anni dopo.