Annamaria Rivera*

Razzisti in doppiopetto: dov’è la differenza dai colleghi di destra?

“Liberazione”, 16 nov. 2007, p. 5
 
L’avevo definito razzismo “democratico” o “rispettabile”, quel razzismo subdolo e ipocrita che sorge dalle viscere dell’area un tempo detta di sinistra. Mi sembrava che fosse utile collocarlo in una categoria specifica, non priva d’ironia, per distinguerlo sia dal razzismo istituzionale (che ne è una delle componenti), sia dal razzismo dichiarato e disinibito, se non esibizionista, che caratterizza settori della destra, estrema e non. Oggi che si dispiegano gli effetti della campagna inaugurata dai sindaci “democratici” con il Patto per la sicurezza, devo ricredermi: dal punto di vista fenomenologico, il ciclo del razzismo avviato dagli apprendisti stregoni democratici ben poco si differenzia dalle classiche campagne razziste, se non per l’irresponsabilità con la quale si è scoperchiato il vaso di Pandora facendone uscire mostri incontrollabili. Ciò che si va squadernando sotto i nostri occhi è un fenomeno vetusto, descritto dagli storici ripetute volte: un’isteria collettiva, alimentata dal potere e dalle agenzie comunicative al suo servizio, che finisce per sfuggire al loro stesso controllo e per incanalarsi nella direzione della caccia alle streghe o del pogrom.
Anche sul versante delle retoriche cui fa ricorso, il razzismo rispettabile poco s’allontana dal razzismo tout court, se non per contorsioni verbali e sfumature d’accento dovute a qualche pretesa finezza intellettuale. Un certo ministro, davvero persuaso d’essere sottile, ha dichiarato che le misure sicuritarie servono proprio a bloccare il dilagare dell’intolleranza fra la gente comune. Insomma, secondo il principio dell’omeopatia, per prevenire il razzismo ordinario conviene somministrare qualche buona dose di razzismo istituzionale.
Ancora più sottili si credono i tanti soloni democratici che, non potendo esibire dati statistici, discettano di “insicurezza percepita”: un’altra insopportabile litania, che nasconde la convinzione che la plebe sia naturalmente portata ad attribuire a qualche capro espiatorio le ragioni del proprio disagio sociale. Ne discende l’idea, classicamente populista per non dir peggio, per la quale al grido di dolore che si leva dalla plebe in cerca di capri espiatori si debba rispondere con la punizione o l’allontanamento del capro espiatorio
Ho abitato per molti anni in una città del Sud che aveva guadagnato il titolo di capitale dello scippo: la microcriminalità era parte della vita sociale quotidiana, il borseggio e lo scippo erano incidenti considerati banali dalla maggioranza della popolazione, l’eventualità d’essere depredata del magro salario mentre salivi sull’autobus o andavi al mercato era realisticamente contemplata e talvolta si realizzava. L’insicurezza era dunque un dato reale, non solo percepito, e la qualità della vita collettiva ne era condizionata. Ma né a me né ad altri è mai passato per la mente di additare capri espiatori, di reclamare una legge d’emergenza contro i giovani sottoproletari di quella città, squisitamente “autoctoni”, di auspicare la distruzione del CEP, il quartiere a più alta densità di microcriminalità giovanile.
Voglio dire che oggi sembrano ormai dimenticati i principi elementari che distinguevano non dico la sinistra ma qualsiasi cultura liberale: per esempio,  che il sociale si spiega col sociale, non con la criminologia o con qualche rabberciata teoria razzialista; che mali, iniquità e contraddizioni sociali si affrontano e si risolvono con politiche sociali, non con la sospensione delle garanzie democratiche, con speciali misure repressive, con deportazioni di massa. Ormai morto per i più sembra essere perfino il principio basilare per cui, se è vero che il sociale si spiega con il sociale, nondimeno ciascuno, in ultima istanza, è responsabile, personalmente, dei propri discorsi e delle proprie azioni. E’ innegabile: per una molteplicità di fattori materiali e culturali, oggi i ceti popolari si sentono abbandonati, ingannati, insicuri, e ne hanno ben ragione. Altrettanto innegabile è che nel nostro paese –come altrove, del resto- v’è un progressivo scadimento della qualità della vita collettiva, che in parte è il riflesso dello scadimento della vita politica. Ma il salto fra un vissuto d’insicurezza e di anomia sociali nonché d’incertezza del futuro e la xenofobia detta e praticata non è ineluttabile. Chi lo sostiene fa del positivismo d’accatto e mostra, appunto, d’aver gettato alle ortiche, insieme a tutti gli altri, anche il principio della responsabilità personale.
Di questo principio fa strame il decreto sicurezza, che reintroduce il criterio barbarico della colpa e della punizione collettive, che sospende le garanzie democratiche per una specifica categoria di persone connotata etnicamente, se non razzialmente, che, prima ancora d’essere approvato, incita, almeno simbolicamente, alla vendetta istituzionale e popolare contro quella categoria, con la distruzione perfino degli insediamenti rom autorizzati e attrezzati a spese dei Comuni (i cittadini non avrebbero forse ragione di protestare per l’ingiustificata distruzione di beni pubblici che essi stessi hanno contribuito a sovvenzionare?).              
Ciò che colpisce è che pochi (questo giornale è una delle rare eccezioni positive) osino dire che il re è nudo: cioè che, se oggi in certi settori popolari serpeggiano odio, disprezzo e aggressività verso i “diversi”, non è per qualche legge naturale ma perché lorsignori non solo non hanno fatto niente per attenuare le concrete ragioni sociali dell’insicurezza, ma hanno sollecitato, eccitato e legittimato quei sentimenti con una ben orchestrata campagna; che, se tali pulsioni si esprimono in discorsi ed atti razzisti, di essi sono responsabili personalmente coloro che li pronunciano o li compiono, che siano signori o plebei; che, infine, discorsi ed atti razzisti sono da sanzionare anche con gli strumenti che la legge mette a disposizione. Avete sentito qualcuno, in questo infausto periodo, invocare una severa applicazione delle leggi per coloro che istigano all’odio razziale? A tal proposito e per inciso, conviene ricordare che ben dieci mesi fa il consiglio dei ministri ha approvato il ddl che reintroduce le norme della legge Mancino depenalizzate nella precedente legislatura: non è pochino chiedere un semplice atto dovuto in cambio del consenso ad un decreto che si configura come una legge d’eccezione? Chiunque abbia cultura democratica non dovrebbe rifiutare una misura legislativa speciale, qualunque sia il suo contenuto, che è stata concepita sull’onda di una campagna razzista?   
In un tempo lontano August Bebel definì “socialismo degli imbecilli” il fenomeno della presenza di pregiudizi antiebraici nelle organizzazioni socialiste e democratiche. Come possiamo definire l’attitudine odierna di quei democratici che cinicamente lanciano o aderiscono a campagne sicuritarie ed eterofobiche (non volendo dire “razziste”) per mediocri ragioni di bottega e di consenso, per quel mimetismo autolesionistico che li spinge a scimmiottare goffamente gli avversari? Lorsignori si offenderebbero se li definissimo socialisti, quindi non ci resta che l’aggettivo “imbecilli”. Sì, giocare col fuoco del razzismo è da perfetti imbecilli, non solo perché questo gioco la destra sa condurlo meglio di loro, non solo perché le pulsioni più oscure, che essi hanno sollecitato e incoraggiato, già stanno diventando pogrom, ma anche perché quelle pulsioni, ben lontane dal tramutarsi in consenso in loro favore, prima o poi gli si rivolteranno contro.
Almeno dalla metà dell’Ottocento, le campagne razziste muovono, in modo esplicito o implicito, dalla paura della decadenza, dall’ossessione della degenerazione, biologica o sociale. L’elaborazione di dottrine e ideologie razziste, conviene ricordare, non è appannaggio esclusivo del pensiero reazionario: v’è un filone interno alle correnti di riforma sociale che è interno alla stessa storia del razzismo. Basterebbe ricordare due figure centrali nella storia delle teorie razzialiste: Cesare Lombroso, socialista animato dall’intento della redenzione delle “classi pericolose”, e George Vacher de Lapouge, uno dei grandi teorici del razzismo scientista e dell’eugenismo, il quale si dichiarava socialista, ateo e libertario. L’ansia di purificarsi dal disordine, l’utopia di città, società, umanità perfettamente ordinate, razionali, libere da difetti fisici e da patologie sociali è trascesa facilmente nel progetto di annientare i soggetti sociali deboli, indocili, anomali, che con la loro stessa esistenza testimoniano del disordine. Oggi quest’ansia s’incarna in governanti e politici, gazzettieri e imbonitori televisivi che condividono un mediocre senso comune conformista, perbenista e repressivo: piccoloborghese, si potrebbe dire, se non fosse che tanti piccoloborghesi sono ben più umani e capaci di razionalità politica. L’ossessione paranoide dell’ordine e della sicurezza, della bonifica sociale e della reductio ad unum non ha mai annunciato alcunché di buono.

 

*Antropologa dell’Università di Bari, autrice de: La guerra dei simboli, Dedalo, Bari 2005; Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia. DeriveApprodi, Roma 2003; coautrice de L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001.