GIORNATA DELLA MEMORIA:
IL RASTRELLAMENTO DI BORŠT.
La foto “ufficiale” della “banda Collotti” (la trovate anche nella nostra galleria fotografica), cioè quella sorta di “squadrone della morte” guidato dal vice dirigente dell’Ispettorato speciale di PS, il commissario Gaetano Collotti, è stata scattata nel gennaio 1945 nel paesino di Moccò, presso il villaggio di Boršt (S. Antonio in Bosco), in occasione di una serie di sanguinosi rastrellamenti che provocarono quattro morti, diversi feriti ed una trentina di arrestati.
In occasione della Giornata della Memoria 2009 vogliamo ricordare la storia di questo crimine di guerra, basandoci in parte su rapporti di polizia, in parte sui racconti dei protagonisti. Iniziamo con un rapporto dell’Ispettorato Speciale, datato 15/1/45.
< Si deve alla tenacia ed allo spirito di sacrificio senza limiti del V. Commissario dott. Gaetano Collotti, dirigente la Squadra Speciale di questo Ispettorato che, proseguendo egli solo con la collaborazione degli agenti componenti la Squadra Speciale, l’importante servizio riportava il successo più completo.
Dopo il più scrupoloso rastrellamento del terreno intorno alla località di S. Dorligo della Valle - Bagnoli - Moccò e S. Antonio in Bosco, nel corso della quale venivano fermate altre 10 persone responsabili di attività partigiana e favoreggiatrice a questi, venivano individuati i bunkers, che possiamo senz’altro classificare capolavori di abilità, sia per la concezione di costruzione, sia, soprattutto per la mimetizzazione, che li nasconde all’occhio più indagatore anche quando vi si è dinanzi.
In un primo bunker venivano rinvenuti armi e munizioni in abbondanza, in un secondo un considerevole quantitativo di uniformi militari ed oggetti vari di vestiario, nel terzo la sede del comando del VDV per la cosiddetta Istria Slovena.
All’ingresso di quest’ultimo bunker si accendeva un vivacissimo quanto breve conflitto nel corso del quale sono stati uccisi:
il bandito comunista Žitomir non ancora generalizzato, membro del distretto del VDV per l’Istria Slovena;
il bandito comunista Gruden Carlo - Stanko, ispettore del supremo comando partigiano presso il VDV per l’Istria;
il bandito comunista Mikau Vipavec capo del servizio informativo del VDV;
e venivano feriti e catturati.
Il bandito comunista Pettirosso Danilo - membro del comando VDV alle dipendenze dello Žitomir.
Il bandito comunista Rapotec Romano, componente la Ceta operaia.
Dall’interno del bunker veniva recuperato al completo una stazione radio trasmittente e ricevente con i relativi cifrari (...) altresì materiale di archivio (...) la cassa del VDV con un fondo di lire 214.000 nonché i documenti di molte persone aggredite, rapinate od uccise fra le quali diversi appartenenti alle forze armate ed alla polizia (...) >.
I nomi degli uccisi erano: Ivan Grzetic (Žitomir), nato nel 1922 a Podgorje (Piedimonte del Taiano), che era stato incaricato dalla VDV (Vojska Državna Varnosti - Esercito per la difesa dello stato, n.d.a.) di organizzare i collegamenti radio; Stanko Gruden (Carlo), nato a Šempolaj (San Pelagio, nel comune di Duino Aurisina) nel 1926 e Dušan Munih (Vojko, ma si trova anche come Darko), nato a Sela pri Volčah (Sella di Volce) nel 1924, il comandante dell’Ozna nella zona di Trieste; a questi bisogna aggiungere Danilo Petaros (Lisjak), nato a Boršt nel 1924, catturato dopo essere stato gravemente ferito, che risulta ucciso in Risiera il 5/4/45.
Sentiamo ora il racconto di Jordan Zahar allora sedicenne.
< A quei tempi, quando la guerra volgeva ormai alla fine, Boršt (S. Antonio in Bosco) si trovava in una posizione particolare tra Trieste e il cosiddetto Banditen Gebiet (termine usato dai nazisti che significa letteralmente territorio dei banditi, cioè dei partigiani, n.d.a.): il paese fungeva da prima base per gli attivisti provenienti dalla città e da punto di partenza per le unità partigiane nelle loro operazioni in città. Qui i combattenti trovavano ristoro e riposo, e dovevano nascondere tempestivamente durante la notte il bottino nei bunker a tale scopo predisposti dagli attivisti del paese.
Il dottor Collotti, collaborazionista al servizio della Gestapo nonché commissario del famigerato Ispettorato Speciale tentò più volte di penetrare in questa zona del territorio, ma invano. L’8 gennaio 1945, il commissario, seguendo le tracce di un partigiano ferito, che i suoi compagni dopo una fulminea azione presso San Sabba erano riusciti a trarre in salvo, giunse al mio paese. Arrestò mio padre che si stava recando al lavoro e il figlio dell’oste Petaros, Danilo, e li condusse a Trieste dove li avrebbe torturati. I suoi scagnozzi per l’intero giorno terrorizzarono i paesani e perquisirono tutte le case; appena alla sera se ne andarono, a mani vuote.
Il mattino del 10 gennaio 1945 era ancora buio e la squadra di Vojko era appena tornata dall’ultima azione, quando i Tedeschi iniziarono a circondare il paese da tutte le parti. Era necessario pertanto far uscire al più presto dal paese la posta e un pacco di documenti importanti. Al corriere Zmaga riuscì per un pelo di sgusciare dal cerchio che inesorabilmente si stava stringendo. Subito dopo entrarono in paese gli agenti del Collotti e in quel momento iniziò per me e per i miei compaesani il giorno più lungo.
La mattina era fredda, la neve ghiacciata scricchiolava sotto i piedi, il cielo era plumbeo. Mi svegliai presto quel mattino perché mia madre si doveva preparare per fare visita nelle carceri triestine a mio padre: mancava già da due giorni. Tutto era ghiacciato e mentre stavo per andare allo stagno per prendere dell’acqua nel nostro cortile fece irruzione un gruppo di uomini in borghese armati fino ai denti. Dietro di loro vidi arrivare un uomo giovane, elegante, ben vestito, con una lunga pistola in mano; i suoi capelli erano accuratamente pettinati, composti, lucidi di brillantina: era il dottor Collotti.
Già da alcuni giorni mi stava appresso facendomi un monte di domande, ora invece mi afferrò deciso per il petto trascinandomi quasi in cantina: “Dove sono i bunker? Dove sono i partigiani?” Non sentii altro dato che i suoi agenti erano alquanto impazienti e mi riempivano di manganellate. Rinvenni sentendo la neve che mi veniva strofinata in faccia: avevo perso tre denti e il sangue che mi scorreva dalla bocca scioglieva la neve bianca.
Mi portarono all’osteria di Petaros. Durante il tragitto mi accorsi che i Tedeschi avevano cinto d’assedio il paese. Ero terrorizzato; sapevo quanto i fascisti italiani sanno essere dei veri eroi quando sono ben protetti. Nel frattempo nell’osteria veniva ammassata anche altra gente da tutto il paese. Mi condussero in una stanza al primo piano proprio sopra il banco della mescita.
“Non riuscirai a nascondere nulla a questo apparecchio” mi dissero indicandomi uno strano congegno simile ad una macchina da scrivere. Sopra un tavolo infatti c’era una macchina laccata di rosso piena di tasti luminosi e di resistenze elettriche che in cima aveva sette lampadine, ciascuna di diversa forma e di diverso colore: era l’atroce macchina per la tortura con la corrente elettrica. Da essa uscivano due cavi: il primo era collegato a due catenine d’acciaio che terminavano con due morsetti, l’altro invece penzolava libero nell’aria. Mi legarono ad una sedia e la rovesciarono a terra, poi il dottore in persona iniziò a premere leggermente il cavo libero sulle mie dita, sulle mie unghie e sul mio viso. Percorso da terribili scosse elettriche vidi accendersi la prima, la seconda e la terza lampadina, poi il buio. Mi fecero rinvenire con uno straccio inzuppato d’acqua e cominciarono: “Dove sono i bunker? Dove sono i bunker?” L’insistente domanda echeggiava tra le fiammate della corrente elettrica. Tutto durò 45 minuti, facendo fede all’orologio che si trovava accanto a quel terribile marchingegno. La disumana tortura suscitò in me una sempre maggiore ribellione: queste cose sanno mettere nel sangue una avversione cieca ed istintiva: non volli rispondere più in italiano. Ma quasi subito mi pentii: temevo infatti che così sarebbero stati ancora più crudeli. Il dottor Collotti era un uomo molto garbato, possedeva un linguaggio forbito ed eccezionali doti di pazienza. Dopo ogni tortura si aggiustava con cura il vestito e la cravatta, si sistemava il fazzoletto da tasca sulla scura giacca di moderna fattura e infine si puliva le gocce di sangue sulle scarpe laccate. La mia inaspettata resistenza non lo meravigliò affatto, chiamò un giovane ufficiale della Bela Garda (“Guardia bianca”, corpo collaborazionista sloveno, n.d.a.) e gli ordinò di tradurre. L’ufficiale si chiamava Milan e proveniva da Klanec presso Kozina. Mi si avvicinò quasi irritato per il compito che gli avevano affidato; evidentemente si vergognava di parlare in sloveno davanti a Collotti, dato che di tanto in tanto mi colpiva rabbiosamente in viso con lo straccio bagnato. All’improvviso mi venne in mente che nel muro sotto la ferrovia c’era una piccola breccia dove nel settembre del 1943 avevamo nascosti alcuni fucili italiani, di cui però i partigiani non avevano mai potuto impossessarsi. “Se dirò questo” pensai “mi lasceranno in pace per un po’ e forse finirà questo inferno”. Così speravo in silenzio e mentre poi marciavamo verso quel luogo riuscii a riprendere un po’ di forza. Ma dato che quel posto non era il bunker che cercavano, mi bastonarono di nuovo finché non persi i sensi. Troppo breve la pausa per la fatica sopportata. Mi condussero di nuovo davanti a quella macchina che durante la mia assenza era servita a torturare altri miei compaesani: Pepi Piconov, Romano Rapotec e Lojze Kenda. Dovetti attendere il mio turno, stavano ancora torturando Venče Jurčkov. Così vidi come si svolgeva tutto, Collotti faceva scorrere in modo elegante e del tutto disinvolto quel cavo libero sul corpo delle sue vittime. Ad ogni tocco la corrente elettrica lasciava sulla pelle un’ustione che veniva di tanto in tanto inumidita con uno straccio bagnato. Questa operazione serviva contemporaneamente a cancellare le bruciature e a far rinvenire la povera vittima. Il sangue scorreva dal naso e dalla bocca, mentre quelle dannate lampadine indicavano l’intensità della tensione. Giunse il mio turno, ma durò poco: memore dell’esperienza precedente colsi l’attimo giusto e parlai di un altro bunker che sapevo vuoto. Così mi trascinarono fino al castello di Moccò al cui ingresso io e Giuseppina fummo collocati come ostaggi: il bunker era davvero vuoto. Per la terza volta mi ritrovai davanti alla macchina elettrica. Il pavimento era ormai tutto sporco di sangue e l’aria era satura del puzzo di carne bruciata, di capelli e di unghie carbonizzati. “Come potrà mai finire tutto ciò?” pensai. Io e Collotti ci scambiammo una fugace e fredda occhiata. Al mattino aveva avuto di fronte a sé un ragazzo di appena sedici anni, ora invece un uomo. Collotti inizia con la sua terza inesorabile missione. Ad un tratto dal centro del paese si sente scoppiare un tuono che riempie la valle, raffiche, colpi sordi ingranditi dall’eco: la battaglia! Il suo scoppio era per me come una liberazione da quell’inferno; riconobbi la raffica della mitragliatrice russa di Vojko, tutti la conoscevamo. Non poteva essere diversamente. Era la battaglia, i nostri erano scesi in azione - finalmente la vendetta contro la masnada dei fascisti. Le raffiche sembravano non finire mai, ma il silenzio che le seguì fu ancora più lungo. Poi due colpi sordi da uno Scharz tedesco: la tragedia era compiuta. Avevano scoperto i bunker che cercavano. Morirono due compagni e Vojko cadde più in là, raggiunto da una pallottola in un campo sotto il paese.
Collotti non perse la sua flemmatica calma e la compostezza: continuò la sua opera di persuasione. Poi qualcuno arrivò: “Li abbiamo scovati, abbiamo subito quattro perdite, ne abbiamo uccisi tre e feriti due”. A quel punto Collotti premette fino in fondo il tasto di quella micidiale macchina e la settima lampadina si accese, quella alla fine della fila, alla fine dell’umana sopportazione e ad un passo dall’eternità. Quando ripresi conoscenza vidi chino su di me l’ufficiale della Bela Garda. Probabilmente desiderava contribuire anche lui alla vittoria: teneva in mano quel cavo sciolto e lo premeva sulle mie dita. Dietro a lui sento Collotti che lo ammonisce di non causare un cortocircuito se non vuole avere un’altra vittima sulla coscienza. L’ufficiale incurante si abbassava ancora di più e vedevo penzolare su di me la croce d’oro sulla catenina che teneva appesa al collo. Subito dopo trascinarono dentro Danilo Petaros, che era ferito ad una guancia da una scheggia di bomba a mano e aveva il ventre crivellato dalle pallottole. Accanto a lui c’era anche Romano colpito ad una spalla e ad un braccio in più punti. Gli strapparono la manica della camicia ed un fiume di sangue si riversò per terra. Tončka tagliò un lenzuolo e lo fasciarono; il giorno dopo il sangue attraverso il soffitto gocciolò sul banco dell’oste. Alla sera presero me e altri diciassette e ci fecero salire su un camion per portarci in via Giulia (la sede dell’Ispettorato a Trieste si trovava in via Cologna, nei pressi di via Giulia).
Nel lungo corridoio della caserma di Collotti ci contarono e ci divisero; in mezzo giaceva Romano delirante di febbre, sulla sedia accanto a lui stava Danilo piegato in due per la ferita al ventre, attorno a loro sedici tra ragazze, donne e vecchi che fissavano in silenzio il vuoto accanto a sé. Ognuno pensava al proprio calvario attendendo la prossima stazione. Non ne avremmo mai più parlato.
Da lì ci trasferirono in varie prigioni triestine. Ero minorenne, perciò finii al Coroneo. Mi gettarono in una piccola cella in cui si trovavano già sette ragazzi: erano stati arrestati durante l’offensiva di Natale al IX Korpus. Due bambini dei Novak sopra Cerkno, Ivan e Konrad; gli altri invece minorenni della brigata Gregorčič. Il loro comandante era rinchiuso già da alcuni mesi nei sotterranei di piazza Oberdan. Aveva tutte le membra spezzate e perciò lo trasferirono al Coroneo. Giaceva come un mucchio di carne sulla paglia nella cella numero 100. Il nostro denominatore comune era solo la sofferenza; la barbarie fascista piegò i nostri corpi ma non spezzò la nostra fede nella vittoria e in un mondo libero. Gloria ai caduti. Quelli invece che sono sopravvissuti testimonino ai giovani come era la lotta contro il fascismo affinché non ritorni >.
Zahar raccontò poi che l’ufficiale della Bela Garda fu processato, in Jugoslavia, dopo la fine della guerra. < Mi avevano chiamato a testimoniare, c’era sua madre che piangeva perché lo volevano condannare a morte. Mi chiesero se lo riconoscessi, ed io dissi di no, perché volevo chiudere con quella storia >.
Ed ancora: < Nel dicembre del 1945 dovevo richiedere la carta d’identità. Mi dissero che l’ufficio che le rilasciava era situato in via Cologna, nell’ex sede dell’Ispettorato. Quando arrivai lì dentro e vidi che l’ufficio per le carte d’identità era stato sistemato proprio in una delle stanze in cui si torturava e che l’appendiabiti a cui era stato legato un mio compagno per essere torturato era nello stesso posto in cui si trovava otto mesi prima, mi sentii male, ero quasi deciso ad andarmene e rinunciare a richiedere i documenti. Vidi anche che due degli agenti di Collotti erano rimasti a lavorare lì, li avevano adibiti al servizio carte d’identità. Anche loro mi riconobbero, ma non ci dicemmo nulla >.
Ci fu un altro strascico di questa vicenda. Tra il 1949 ed il 1950 alcuni partigiani furono processati per avere “infoibato” nel Pozzo della miniera di Basovizza (oggi noto come “foiba” di Basovizza, monumento nazionale) un poliziotto dell’Ispettorato, Mario Fabian. Leggiamo cosa scrisse “l’Unità” del 28/6/50 di questo processo.
< Daniele Pettirosso (omonimo del Pettirosso ucciso in Risiera, n.d.a.) ha raccontato come l’8 gennaio del 1945 in seguito ad un rastrellamento effettuato dai nazisti e da agenti della Collotti a S. Antonio Moccò, egli venne arrestato e condotto all’Ispettorato di via Cologna. Quivi fu interrogato saltuariamente per ben diciassette giorni e fra i suoi aguzzini il Fabian fu quello la cui fisionomia gli restò impressa. Infatti fu proprio il Fabian che lo legò alla famosa “sedia elettrica” durante “l’interrogatorio” all’osteria di Moccò. Nei primi giorni del maggio 1945 il Pettirosso venne mobilitato dal Comitato clandestino del Fronte popolare e aggregato al IV Korpus, IV Armata, 26^ Divisione Dalmata (...) avvertì il capitano dell’esercito jugoslavo, Jelas, il quale (...) gli comunicò che il Fabian con altri agenti della Collotti era stato condannato a morte da un tribunale partigiano perché colpevole di numerosi rastrellamenti e deportazioni di antifascisti in Germania. Il capitano gli ordinò pertanto di procedere all’arresto e all’esecuzione della sentenza nei confronti del Fabian >.
< L’imputata Hrvatič ha detto: “Avevo notato il Fabian fra gli agenti che parteciparono al rastrellamento del 10 gennaio 1945 nel paese di Moccò”, fatto confermato indirettamente dalle dichiarazioni della teste Vittoria Zerial, vicina di casa della famiglia Fabian: “Conoscevo il Fabian. Un giorno (...) mi disse di avere partecipato a un rastrellamento in quel di Moccò e se avesse comandato lui, avrebbe fatto arrestare anche il parroco del paese che aveva suonato le campane per dare l’allarme agli abitanti”. (...) Nel secondo rastrellamento i delinquenti di Collotti volevano arrestare 45 persone e il parroco intervenne presso l’ufficiale tedesco il quale dichiarò che per quella volta bastavano soltanto cinque arrestati.
Nel frattempo quelli della Collotti si erano dati alla più completa razzia (...) nelle povere case dei contadini, uno dei quali ricorse al prete: “Mi hanno portato via persino l’ultimo pezzettino di lardo che avevo in casa”. Il parroco intervenne anche questa volta e il lardo venne restituito da un agente che per la rabbia gridò ai “camerati”: “Spareghe un colpo a quel porco de prete!” >.
Questa la deposizione del parroco don Francesco Malalan: < Il parroco si trovava all’osteria di Pettirosso quando esse cominciarono a suonare e i banditi fascisti gridarono di uccidere il prete che dava l’allarme, al che lo stesso don Malalan corse al campanile e trovò l’ispettore della Collotti attaccato alla fune delle campane. Si voleva far uscire tutti i paesani dalle case, per meglio scegliere la preda. Infatti poco dopo i “collottiani” sparavano addosso alla popolazione, “come alle lepri”, ha detto don Malalan >. Don Malalan descrisse anche la stanza sopra l’osteria, dove i “collottiani” avevano sistemato gli strumenti di tortura, tra cui la “sedia elettrica”. < “Quando torturavano Danilo Pettirosso, sua madre ed io piangevamo insieme” è detto nel verbale di don Malalan “poi ho visto la stanza, (molte persone erano state torturate e bastonate) tutta insanguinata sulle pareti ed una larga chiazza di sangue sul pavimento...” >.
Zahar racconta infine che sua madre andò il 10 gennaio 1945 al comando SS in piazza Oberdan a cercare il marito arrestato due giorni prima. Nel cortile vide la sua bicicletta: allora la donna si rivolse ad un ufficiale che stava passando e che seppe poi trattarsi di Dietrich Allers (il comandante del lager della Risiera di San Sabba): < questa è la bicicletta di mio marito > gli disse < e allora dov’è mio marito? >. < Signora > le rispose il comandante delle SS < io non so dove sia suo marito, però se la bicicletta è la sua, se la riporti pure a casa >.
Nel 1958 Zahar, che si trovava ad Amburgo per motivi di lavoro, ebbe modo di incontrare Allers che gli disse che si ricordava di sua madre. Allers e Zahar parlarono anche di Collotti e Allers disse: < Mi ricordo. Era il nostro più crudele (usò la parola schlimmste) collaboratore >.
Quando negli anni ‘70 Allers seppe che stava per iniziare il processo per i crimini della Risiera, si mise in contatto con Zahar, per chiedergli se la madre sarebbe stata disposta a venire a testimoniare in suo favore, dato che le aveva restituito la bicicletta del marito arrestato.
Gennaio 2009