(Sulle questioni legate al "secondo armadio della vergogna" si veda anche:
Armadio della vergogna 2, arrivano le prime prove - Franco Giustolisi

... E visto che oggi è la Giornata della memoria, pensiamo di rimanere in tema rammentando:
Il governo restaura il Memorial di Auschwitz lo affida agli ebrei e così dimentica i deportati politici

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07/08/2008

Italiani mala gente?

Scritto da: Dino Messina alle 16:34

Cari amici, vi propongo il servizio, composto di due articoli, uiscito oggi a mia firma sul Corriere. In esso ho dato notizia dell'apertura di un'inchiesta da parte della procura militare sui crimini commessi dai soldati italiani durante l'occupazione dei Balcani nel 1941-'43. Il titolo è molto forte "italiani come i nazisti", ma sono forti anche le rappresaglie contro i civili compiute dai nostri militari in evidente difficoltà. Nel primo pezzo, oltre citare alcune fonti edite e inedite, riporto i pareri del procuratore Antonino Intelisano, lo stesso che indagò sull'armadio della vergogna, e dello storico Costantino Di Sante. Nel secondo il parere del giudice Sergio Dini.

 

ALtro che brava gente! Italiani come i tedeschi, che dal 1941 al 1943, nei Balcani e in Grecia, applicarono la regola della «testa per dente», della rappresaglia contro le popolazioni, di dieci civili fucilati per ogni italiano ucciso. In altre parole si macchiarono di gravissimi crimini di guerra, che si estinguono soltanto con la morte del reo. Ora su queste verità scomode, che emergono con sempre più forza dalle inchieste giornalistiche e soprattutto dalla ricerca storica, ha deciso di intervenire la magistratura militare. Il procuratore Antonino Intelisano, lo stesso che nel 1994 istruì il processo contro il capitano delle SS Erich Priebke, e che alla ricerca di prove trovò a Palazzo Cesi, presso la procura militare generale, il famoso «armadio della vergogna», che nascondeva circa settecento pratiche contro i nazisti autori delle stragi in Italia, ha aperto un’inchiesta, per il momento «contro ignoti», sugli eccidi che i militari italiani compirono nei territori di occupazione. Come ha suggerito Franco Giustolisi in un intrigante articolo sul manifesto del 28 giugno, ci troviamo davanti a un «secondo armadio della vergogna»?


Antonino Intelisano, seduto nel suo studio di procuratore presso il tribunale militare, in viale delle Milizie a Roma, prima di rispondere ci mostra il carrello con alcuni faldoni che portano il segno degli anni. «Quella dell’armadio della vergogna numero due — taglia corto — è un’invenzione giornalistica che non corrisponde alla realtà delle cose». La verità tuttavia è che il procuratore generale ha acquisito materiale di grande interesse sia di carattere giudiziario, sia presso gli archivi che di solito sono frequentati soltanto dagli storici: ministero della Difesa, presidenza del Consiglio. In particolare, dagli archivi dello Stato maggiore dell’esercito sono arrivate le conclusioni della Commissione parlamentare presieduta da Luigi Gasparotto, politico d’altri tempi che aveva avuto il figlio Leopoldo ucciso nel campo di Fossoli e aveva lavorato con grande impegno ed equilibrio, soprattutto tra il 1946 e il 1947, alla raccolta e al vaglio delle circa ottocento denunce provenienti da tutti i territori occupati dagli italiani, e quindi alla selezione dei casi in cui non si poteva fare a meno di denunciare il reato. «La commissione — scriveva Gasparotto il 30 giugno 1951 nelle note conclusive inviate al ministro della Difesa, Randolfo Pacciardi — ha tenuto nel debito conto la complessità della situazione, ma non l’ha considerata scusante». Così non poteva farla franca il generale Mario Roatta, comandante della II armata in Jugoslavia, che nella tremenda circolare 3c del 1° dicembre 1942 aveva disposto di fucilare non soltanto tutte le persone trovate con le armi in pugno, ma anche coloro che imbrattavano le sue ordinanze, oppure sostavano nei pressi di opere d’arte. E aveva deciso espressamente di considerare «corresponsabili degli atti di sabotaggio le persone abitanti nelle case vicine». 
Le conclusioni della Commissione Gasparotto, la cui documentazione nessuno storico ha potuto finora studiare per intero, chiamavano in causa anche il generale Mario Robotti, comandante dell’XI corpo d’armata, che era riuscito a inasprire gli ordini di Roatta al punto di dire la frase che è diventata proverbiale, «qui si ammazza troppo poco», o il governatore del Montenegro, Alessandro Pirzio Biroli, che fece fucilare circa 200 ostaggi. E tutta una serie di personaggi, ufficiali o funzionari dell’amministrazione civile, che operarono soprattutto in Jugoslavia e in Grecia.


In seguito a questo tipo di informazioni, spiega Intelisano, «alla fine degli anni Quaranta fu aperto presso questo ufficio un procedimento nei confronti di 33 persone accusate di concorso in uso di mezzi di guerra vietati e concorso in rappresaglie ordinate fuori dai casi consentiti dalla legge. Il procedimento si concluse il 30 luglio 1951 con una sentenza del giudice istruttore militare. Questi stabilì che non si doveva procedere nei confronti di tutti gli imputati, perché non esistevano le condizioni per rispettare il principio di reciprocità fissato dall’articolo 165 del Codice penale militare di guerra». Secondo tale norma, un militare che aveva commesso reati in territori occupati poteva essere processato a patto che si garantisse un eguale trattamento verso i responsabili di reati commessi in quella nazione ai danni di italiani. Vale a dire, per esempio: noi processiamo i nostri militari colpevoli, voi jugoslavi condannate i responsabili delle uccisioni nelle foibe. L’articolo 165, continua Intelisano, è stato riformato, con l’abolizione della clausola di reciprocità, nel 2002. «Così quando, grazie a libri come Si ammazza troppo poco di Gianni Oliva e Italiani senza onore di Costantino Di Sante, o a trasmissioni televisive e articoli che denunciavano la strage di 150 civili uccisi per rappresaglia da militari italiani il 16 febbraio 1943 a Domenikon, in Tessaglia, si è imposto all’attenzione il problema del comportamento delle nostre truppe, ho deciso di aprire un’inchiesta. Per il momento "contro ignoti" perché noi magistrati, a differenza degli storici, non possiamo processare i morti». Nei faldoni che il procuratore sta studiando sono elencati decine di nomi, soprattutto militari che parteciparono alle rappresaglie contrarie alle leggi internazionali di guerra. Quegli elenchi, finora di interesse puramente storico, diventeranno incandescente materia penale, appena si individuerà uno dei responsabili ancora in vita. E allora avremo un nuovo caso Priebke. Ma con un italiano nelle vesti del carnefice.


L’aggravante di tutta la faccenda, ci dice lo storico Costantino Di Sante, uno dei pochi che hanno potuto consultare, seppur parzialmente, i 70 fascicoli prodotti dalla Commissione Gasparotto, è che a macchiarsi di reati non furono soltanto le camicie nere o i vertici militari politicizzati. Ma ufficiali e soldati normali. Come gli alpini dei battaglioni Ivrea e Aosta, «che rastrellarono undici villaggi in Montenegro e fucilarono venti contadini». Il famigerato prefetto del Carnaro, Temistocle Testa, racconta Di Sante, per l’eccidio di Podhum, villaggio a pochi chilometri da Fiume, «si servì di reparti normali». Dopo aver circondato il villaggio e bloccato tutte le strade di accesso, è scritto negli atti della Commissione Gasparotto, che recepì una denuncia jugoslava, il 12 luglio 1942 reparti dell’esercito italiano, coadiuvati dai carabinieri e dalle camicie nere fucilarono oltre cento uomini, catturarono tutta la rimanente parte della popolazione, circa 200 famiglie, confiscarono beni mobili e circa 2000 capi di bestiame».


La situazione era esasperata da una guerriglia partigiana efficace e crudele e dalle violente faide interetniche. Ma come giustificare le modalità dei rastrellamenti di Lubiana ordinati dal generale Taddeo Orlando, che nel dopoguerra avrebbe proseguito normalmente la sua carriera? La capitale della Slovenia fu circondata il 23 febbraio 1942 con reticolati di filo spinato. Dei quarantamila abitanti maschi, ne furono arrestati 2858. Circa tremila vennero catturati in un secondo rastrellamento. La chiusura dei centri abitati con reticolati venne applicata in altre 35 località. Oltre ai maschi adulti venivano deportati anche vecchi, donne e bambini. La maggior parte finiva nel campo dell’isola di Arbe, oggi Rab, in Croazia, dove morirono in 1500, soprattutto di stenti. 
Ogni anno una maratona attraverso il perimetro del reticolato ricorda a Lubiana il periodo dell’occupazione militare italiana. 

INTERVISTA A SERGIO DINI

Sergio Dini è oggi un pubblico ministero presso la procura di Padova, ma sino al 30 giugno è stato un giudice militare. A lui si devono alcune sollecitazioni importanti che hanno portato a chiarire perché i famosi fascicoli dell’armadio della vergogna rimasero nascosti per cinquant’anni. Anche nella vicenda dei crimini commessi dai militari italiani nei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale, Dini sta avendo un ruolo importante. Intanto è sua la lettera al Consiglio della magistratura militare (l’organo di autogoverno) in cui si chiede conto delle ragioni per cui le conclusioni della commissione Gasparotto non ebbero un esito giudiziario.
In seguito al riemergere del caso Domenikon, la trasmissione di Sky sulla strage compiuta da italiani in Grecia, alla quale ha partecipato come consulente, Dini in marzo ha anche inviato una lettera esposto al tribunale militare, che è stata messa negli atti dell’inchiesta dal procuratore Intelisano.


«Se è vero — commenta Dini — che non si procedette contro i nostri militari colpevoli di reati perché mancava la condizione di reciprocità, ci troviamo di fronte a un’aberrazione giuridica. Applicata ai crimini di guerra, la norma del vecchio articolo 165 era anticostituzionale». All’ex giudice militare oggi interessa che l’inchiesta giudiziaria arrivi sino in fondo per una serie di considerazioni di ordine morale e giuridico: «Innanzitutto — afferma con passione Dini, seduto alla scrivania del suo nuovo ufficio — dal punto di vista giuridico certi tipi di crimini sono imprescrittibili e quindi vanno perseguiti. Tanto più che il diritto penale internazionale, cui in genere competono i crimini di guerra e contro l’umanità, si basa su precedenti. Se stabiliamo dei punti fermi, sarà sempre più difficile nascondersi dietro la scusa deresponsabilizzante dell’obbedienza agli ordini. C’è poi un’altra questione di equità: se abbiamo processato dei vecchi militari tedeschi, non possiamo chiudere gli occhi davanti allo stesso tipo di reati commessi da italiani».


Dini infine pone un problema di ordine generale, che interessa molto gli storici: «Perché il ministro della Difesa non rende davvero accessibili a tutti gli studiosi i controversi documenti che mettono sotto accusa i comportamenti illegali degli italiani in Etiopia, Grecia, Jugoslavia, Francia, Russia?». Il ministro della Difesa Ignazio La Russa potrebbe riuscire laddove i suoi colleghi del centrosinistra hanno fallito.

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Postato da filippini2 | 07/08/2008

Per chi non l'avesse letto segnalo quanto si trova riportato in 
http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=17711350
che è un blog comunista con tanto di falce e martello:

Nella sede della Procura generale militare
Un secondo armadio della vergogna
L'archivio nasconde i crimini compiuti dai fascisti nei balcani
Fare piena luce e giustizia

A Roma, palazzo Cesi, dove si trova la Procura generale militare, c'è un altro archivio che nasconde gli orrori delle camicie nere mussoliniane. Il primo, rinvenuto nel 1994, conteneva i fascicoli dei massacri commessi in Italia dai nazifascisti, tra l'8 settembre del 1943 e il 25 Aprile del 1945, dove venivano enumerati 2.274 crimini contro civili disarmati, perlopiù bambini donne e vecchi, di cui solo due (strage di Marzabotto e strage delle Fosse Ardeatine) sono arrivati a processo. A quanto pare il "secondo armadio della vergogna" documenta i crimini commessi nei Balcani ma sul grosso dei fascicoli c'è il timbro "segreto", "riservato", apposto su ogni pagina.
Come si accertò, a suo tempo per il carteggio dei ministri Martino e Taviani che nel 1956 decisero di bloccare l'inchiesta sugli assassini di Cefalonia in quanto per "la costituzione dell'Alleanza atlantica", scrivono i deputati: "si ritenne politicamente inopportuno iniziare processi per crimini di guerra che avrebbero messo in crisi l'immagine della Germania". Allora, quando il Consiglio della magistratura militare (Cmm) condusse l'indagine sul ritrovamento di quei fascicoli, ci vollero ben tre anni di continue, reiterate e pressanti sollecitazioni per arrivare alla desecretazione.
La scoperta del secondo armadio la si deve al procuratore militare di Padova Sergio Dini, in collaborazione col giornalista Franco Giustolisi, i quali portarono a un'inchiesta interna del Cmm che stabilì: è stato il potere politico a imporre ai magistrati militari, allora soggetti alle varie sfere governative, il silenzio della giustizia, della storia, della memoria. Oggi la parola passa al ministro fascista della difesa La Russa, che dovrà vedersela con le storie dei militari italiani, i comandanti specialmente, che obbedendo agli ordini di Mussolini, compirono in Grecia, Albania, Jugoslavia, Unione Sovietica, gli eccidi più efferati che si conoscano, tanto da "guadagnarsi" dai fascisti di allora il titolo di "campioni del mondo", primi addirittura rispetto ai nazisti e alle SS. Basti ricordare le circolari del generale Roatta, nei Balcani, che ordinava di ripagare "testa per dente", e del generale Geloso che in Grecia imponeva di dare fuoco ai villaggi da cui partivano gli attentati e di fucilare senza tanti distinguo gli ostaggi che capitavano a tiro.
Gli archivi segretati potrebbero far luce sulle efferatezze compiute nei teatri di guerra aperti dal fascismo alla ricerca sciagurata di nuove terre, soprattutto potrebbero far luce laddove le commissioni parlamentari d'inchiesta come quella presieduta da Luigi Gasparotto non sono arrivate. Gasparotto, il cui figlio Leopoldo era stato assassinato insieme ad altri 71 antifascisti, da fascisti e nazisti nel lager di Fossoli, nei pressi di Carpi, oltre ai casi di Roatta e Geloso esaminò il comportamento del generale Robotti, quello che sbraitava con i suoi uomini: "qui se ne uccidono troppo pochi"; del generale Gambara che spiegava ai sottoposti "campo di concentramento non significa campo di ingrassamento"; del generale Pirzio Biroli che in Etiopia faceva buttare nel lago Tana i capi tribù con una pietra legata al collo. E ancora, altri generali: Magaldi, Caruso, Sorrentino, Piazzoni, Baistrocchi. Ma anche molti ufficiali di grado inferiore che andavano proclamando: "quelli", che fossero sloveni, greci, albanesi, eccetera, andavano "uccisi senza pietà".
Fu l'infame "ragion di Stato", in nome del recupero della Germania all'alleanza occidentale nel quadro della "guerra fredda'' contro l'Unione Sovietica di Stalin, che portò all'occultamento di moltissimi processi. Uno di essi è però tornato ora di attualità: la strage di Cefalonia, nel settembre 1943, per cui morirono oltre 6.500 tra soldati ed ufficiali italiani. L'istruttoria fu compiuta nel 1945, ma il processo non venne mai celebrato. L'Italia, governata dalla DC, negli anni Cinquanta evitò di perseguire molti criminali nazisti per non danneggiare i rapporti politici con la Germania, alleata in seno alla Nato. I fascicoli più scottanti finirono nell'armadio con la dicitura, assolutamente inventata, di archiviazione provvisoria.
Occorre battersi per fare piena luce sui nuovi fascicoli "ritrovati" per rendere giustizia e consegnare ai superstiti e ai parenti e vittime tutti i nomi e cognomi dei criminali in camicia nera, occorre altresì respingere risolutamente il nero disegno nazionalista, patriottardo, neofascista e interventista che mira a cancellare la memoria antifascista su quei fatti.

9 luglio 2008

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Come vede dr. Messina 'qualcuno' l'aveva preceduto ed ora il procuratore Dini di Padova ne prosegue l'opera.
Cordiali saluti
Massimo Filippini