VULCANO MITROVICA
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di Alessandro Di Meo
http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/

6 febbraio 2010

Un senso di impotenza e scoramento ci assale ad ascoltare le parole di
padre Andrej, monaco del monastero di Dečani, uno dei simboli del
Kosovo e Metohija che rischia di essere lasciato al proprio destino
dalla forte diminuzione del contingente italiano, chiamato al
sacrificio afghano dai vertici Nato e Usa. La sua preoccupazione è
pari alla tenacia con la quale il monastero verrà difeso, ci dice, fin
quando esisterà anche un solo serbo nella terra di Lazar e Miloš.
La partita si giocherà, a detta anche del capo del contingente
italiano in Kosovo, colonnello Grasso, il prossimo 25 aprile, quando
ci sarà l’intronizzazione del nuovo patriarca Irenej nel patriarcato
di Peć, a pochi chilometri da Dečani. Quello sarà il momento in cui
il Kosovo “indipendente”, il Kosovo governato da ex criminali di
guerra ora in giacca e cravatta, questi si!, ritenuti affidabili dal
mondo politico occidentale, dovrà dimostrare di essere anche
“tollerante e democratico”. Ci riuscirà, siamo pronti a
scommetterci, ma bisognerà vedere cosa accadrà quando i riflettori
saranno spenti e le delegazioni internazionali andate via.
Le parole del colonnello sono improntate a una certa tranquillità,
forte anche dell’arrivo, ci dice, di altri contingenti fra i quali
quello turco.
Nessuno sembra rendersi conto del peso che certe decisioni hanno sullo
stato d’animo delle minoranze serbe. Che siano anche i turchi a
garantire pace e sicurezza in un territorio che è stato proprio dai
turchi dominato per secoli e secoli, costringendo il popolo serbo a
sacrifici immani ancora nelle memoria di intere generazioni appare,
francamente, come l’ennesimo affronto ai serbi, che già hanno dovuto
subire, negli anni più recenti, oltre alla guerra, lo schiaffo di
vedere la propria incolumità affidata al contingente tedesco, che solo
nella II guerra mondiale, in divisa SS, ha provocato eccidi
inenarrabili. E nel marzo del 2004, quando un pogrom antiserbo fu
scatenato dagli albanesi sotto gli occhi “distratti” della Kfor
anche tedesca, questa diffidenza serba ha trovato, fatalmente, conferma!
Ma il vero termometro della situazione è Kosovska Mitrovica nord, dove
l’acqua e la corrente elettrica continuano a venire razionate per i
continui boicottaggi degli albanese a sud, che gestiscono il flusso.
“Qui siamo tutti armati!”, ci dicono nostri amici di Mitrovica
nord. Armati, in attesa che il vulcano esploda. Perché la volontà
della missione Eulex di realizzare ad ogni costo il famigerato piano
Athisaari, non sarà mai accettato dai serbi che non vogliono staccarsi
definitivamente da Belgrado. Perché se questo dovesse mai accadere,
anche per i serbi rimasti nei ghetti di tanti sperduti e dimenticati
villaggi, sarà la fine. E con loro, sarà la fine per i monasteri
ortodossi, molti dei quali patrimonio dell’Unesco, come Dečani,
Gračanica, Patriarcato di Peć e altri ancora... Forse non verranno
distrutti, ma è già partito il revisionismo che li trasformerà in
pietre fondanti, e improbabili, di culture non ortodosse, prime fra
tutte, quella albanese musulmana. Soprammobili per un business
turistico gestito dalla mafia locale e dalla letale equidistanza di
tante ong dal gippone facile!
Intanto, contraddizioni emergono ma non sembrano turbare politiche
estere ne scelte che la comunità internazionale continua a proporre a
danno dei serbi. A Kosovska Mitrovica nord, a pochi metri dal ponte
sull’Ibar che, come il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, è divenuto
testimone della storia fra i due popoli, negozi gestiti da albanesi
con tanto di bandiere Usa e Uck e vecchi manifesti elettorali
inneggianti agli “ex criminali” Haradinaj e Taqhi, in un via vai di
auto senza targa, con targa albanese, con targa serba, vedono tanti
serbi fare spesa perché tutto costa meno. E si può pagare in dinari.
Ancora a Mitrovica nord, il cimitero turco è intatto e libera è la
visita ai defunti... a Mitrovica sud, il cimitero ortodosso è
distrutto e per visitarlo si rischia la propria incolumità anche se
scortati dalla nuova polizia kosovara, formata da ex militanti
dell’Uck. Sempre a nord, un villaggio albanese vive in assoluta
tranquillità e libertà di movimento proprio vicino al monastero
ortodosso di Sokolica dove le monache non si oppongono certo alla
visita di donne albanesi che chiedono grazia di fertilità. Percorrendo
la strada che da Vranje, uno dei luoghi più bombardati dalla Nato, ti
porta in Kosovo, poco prima delle nuove frontiere imposte dall’Eulex,
un villaggio albanese mostra il profilo di minareti musulmani
intatti, senza contingenti Kfor a protezione. Siamo in Serbia! Ma a
Gračanica, i militari Kfor vigilano giorno e notte, coi loro mitra
spianati, sul monastero e sulla comunità serba ghettizzata. Siamo in
Kosovo!
Tutto questo mentre a Belgrado molti albanesi del Kosovo portano i
propri figli a curare gravi malattie, gentile regalo delle bombe
all’uranio impoverito, che non hanno fatto distinzioni. Letale
equidistanza...
La sensazione che ancora una volta volontà e scelte politiche tutte
occidentali stiano giocando sulla pelle della povera gente è forte.
Così come la sensazione che il vulcano esploderà a breve. Per questo
c’è bisogno della mobilitazione del mondo culturale e
associazionistico non colluso con queste scelte, per questo è stato
lanciato l’appello da Un Ponte per... per la protezione delle
minoranze serbe e dei monasteri ortodossi
(vedi: http://www.unponteper.it/sostienici/petizione.php)
Non è da sottovalutare il pericolo che si sta correndo in quella terra.
Il continuo ricatto a cui è sottoposto il governo serbo, al quale ora
si richiede addirittura di entrare nella Nato, e sarebbe l’ennesima
provocazione per il popolo serbo del quale molti stigmatizzano il
senso di persecuzione atavico ma che, a leggere la storia moderna e
non, sembra davvero inevitabile... questo continuo ricatto non tiene
conto dell’orgoglio di un popolo da sempre avanguardia dell’Europa
ma dall’Europa sempre trattato come merce di scambio sul mercato
dell’opportunismo occidentale.
Nel frattempo, le 15 famiglie serbe rimaste a Belo Polije,
simboleggiate dall’anziano Radomir che ci offre rakija col sorriso
sulle labbra, nonostante il tumore che lo affligge e nonostante
l’anziana moglie malata di Parkinson, non hanno nemmeno legna a
sufficienza per scaldarsi nel rigido inverno balcanico. Ma a chi
interessa il loro piccolo, lontano destino quotidiano?