http://www.resistenze.org/sito/te/po/ro/porobm22-010021.htm
www.resistenze.org - popoli resistenti - romania - 22-11-11 - n. 386
da http://imbratisare.blogspot.com/2011/11/en-que-se-transforman-las-antiguas.html
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
In cosa si trasformano le antiche fabbriche comuniste?
di José Luis Forneo
12/11/2011
Dopo il colpo di stato del dicembre 1989 uno dei primi obiettivi dell'instaurazione del capitalismo in Romania fu la distruzione dell'industria nazionale. Infatti, secondo i dati forniti dall'Istituto di ricerca sulla Qualità della Vita dell'Accademia Rumena (ICCV), nel 1989 erano presenti 8 milioni di salariati in Romania mentre nel 2010 il numero dei posti di lavoro era sceso a 4.3 milioni: si erano cioè dimezzati.
Di quei 4 milioni di rumeni rimasti senza lavoro, 3 sono emigrati in altri paesi alla ricerca di occupazione ed il restante milione è stato assorbito sia dalla diminuzione della popolazione sia dall'aumento del numero di pensionati.
[Grafico] - La linea verde rappresenta il forte calo del numero dei posti di lavoro in Romania dal 1990, l’azzurra l'aumento dei pensionati.
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La distruzione dei posti di lavoro si è prodotta anche attraverso l'eliminazione, molte volte fisica, dei ricchi e numerosi complessi industriali che allora popolavano il paese (il primo ministro Petre Roman, che diresse il primo governo del nuovo regime capitalista, affermò senza mezzi termini che l'industria rumena doveva essere svenduta come "ferro vecchio").
Ventidue anni dopo, molti di quegli edifici giacciono abbandonati e semidistrutti come muti testimoni dell'antica ricchezza della società socialista rumena, mentre milioni dei suoi antichi lavoratori sono obbligati a fuggire dal paese a causa della mancanza di lavoro.
La distruzione della capacità produttiva rumena, che alle soglie del 1989 era arrivata ad un'autosufficienza quasi totale, aveva l’obiettivo di riconvertire il paese in una colonia per le multinazionali capitaliste, magari in un’ottica punitiva per aver osato dimostrare che si può far vivere una nazione senza dover contrarre debiti con gli organismi internazionali e senza importare quasi nessuna merce. E’ a causa di ciò che l’unico possibile destino per i pochi edifici industriali è stato quello di essere trasformati in templi del consumo, dei bisogni indotti, ma anche di prodotti di prima necessità, venuti dalle stesse potenze economiche che avevano contribuito a trasformare il paradiso produttivo rumeno in un deserto.
[Foto] - Una ex-fabbrica di Botosani, futuro Carrefour. Non è noto se il mosaico socialista sarà conservato o meno
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Nel 2011 il mercato di prossimità di 2 milioni di abitanti della capitale rumena continua ad essere attraente nonostante la crisi. Sebbene negli ultimi 10 anni siano stati inaugurati più di 20 grandi centri commerciali a Bucarest, i grandi operatori del settore continuano a programmare nuove aperture.
Negli ultimi mesi Carrefour, Kaufland ed Auchan sembrano essere giunti ad accordi con i proprietari dei terreni ove durante l’epoca comunista sorgevano le antiche fabbriche: Electroaparataje (nel quartiere di Pantelimon) Romprim (a Berceni) e Grant metal (a Crângasi), per l’apertura di nuovi supermercati delle loro reti, mentre gli irlandesi del Caelum Develpopment hanno iniziato la costruzione del nuovo centro commerciale Park Lake in Plaza din Titan.
In totale, sette nuovi ipermercati verranno inaugurati nei prossimi tre anni a Bucarest, in un mercato dove il numero di supermercati, ipermercati e magazzini cash & carry è arrivato a 150 unità. Ovviamente lo stesso fenomeno si è ripetuto in tutto il paese: le antiche industrie manifatturiere sono state sostituite da centri commerciali o, al massimo, da edifici dedicati ai servizi.
Il business dei centri commerciali è stato un successo sin dal 1990, come lo è stato l’obiettivo raggiunto dopo la restaurazione del capitalismo in Romania di rendere i rumeni un popolo dipendente dalle importazioni. Infatti, come per le altre popolazioni punite dopo la caduta dell'Unione Sovietica, non c'è nulla di più pericoloso e inaccettabile per l'imperialismo capitalista che un popolo sia in grado di produrre e controllare la propria ricchezza autonomamente, senza dover dipendere da quelle che eufemisticamente sono chiamate "leggi di mercato", e che in realtà non sono altro che l’imposizione degli interessi di una minoranza che controlla il mercato.
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