A Vukovar e ritorno
Giovedì 14 novembre 1991, Giovanni Minoli mi chiede di andare a Belgrado. Vorrebbe un pezzo sul conflitto serbo-croato visto dalla parte dei serbi. "Vanno tutti a Zagabria", mi dice "perché non tentiamo di vedere cosa succede sull'altro fronte?". Faccio un rapido conto di tutti i cronisti che in pochi mesi sono stati direttamente rimpatriati per degna sepoltura e mi chiedo "ma perché proprio io?", poi la risposta che mi do è quella che più mi conviene, cioè quella di avergli dimostrato di sapermi destreggiare rapidamente in Paesi a regime comunista e in situazioni piuttosto complesse, come la Cina, il Vietnam e la Cambogia. Mi invita ad essere cauta e a non espormi troppo "raccogli materiale alla TV di Belgrado e se valuti di avere sufficienti garanzie di protezione, raccogli qualche testimonianza dal fronte". La partenza è prevista per sabato 16. Verso l'est europeo non ho mai nutrito particolare curiosità e le faccende della Jugoslavia non erano il mio punto di interesse. Semplicemente non le capivo. Tutto quello che sapevo proveniva dalla cronaca dei giornali o dai servizi televisivi: pochi, confusi, con un dato chiaro — la Comunità europea permette la frammentazione della Federazione jugoslava, la Croazia vuole l'indipendenza, e la Serbia ha attaccato. Con la riluttanza di chi deve bussare alla porta dell'aggressore, mi leggo 240 pagine di rassegna stampa. Cronache e analisi troppo ravvicinate per capire l'insieme. Passo un pomeriggio a conversare con un professore di origine polacca dell'Università di Udine, esperto di storia dei popoli slavi, Richard Lewanski. Lui è filo-niente, semplicemente uno storico puro e ne ricavo una grande lezione sulla composizione etnica di quello strano Paese, con origini, conseguenze, fatti e dati.
Quando sbarco a Belgrado mi intoppo nella burocrazia comunista: niente permessi, tempi lunghissimi per accedere agli archivi della TV, problemi per avere una troupe. Aggiro l'ostacolo facendo un salto nel bar dove vengono reclutati i volontari. Belgrado è una città tranquilla che non dà segni di tensione, e i ragazzotti in tuta mimetica, che si aggirano fra le coppiette sedute ai tavolini del famoso bar, con mitragliatore e corredo di pistole infilati nel cinturone, mi sembrano francamente degli esaltati che giocano alla guerra. In mezzo a loro c'è il comandante Arkan, un tipo con la faccia più da barista che da guerriero, nonostante il suo torbido passato. Gli chiedo notizie su Vukovar (secondo la stampa italiana del giorno era caduta in mano ai serbi), lui mi dice che ci sono 2000 civili in ostaggio degli "ustascia" dentro una fabbrica di scarpe e che la situazione laggiù andrebbe vista per essere capita. Mi offrono un passaggio per il campo base di Erdut (20 Km. da Vukovar). E' mezzanotte e parto così come sono, con una video8 male equipaggiata (solo un paio di batterie e cassette) e una giacca a vento bianca (!), ma è meglio di niente. Mentre la jeep con il suo carico di soldati e un prete ortodosso viaggia verso Vukovar, mi compiaccio della mia rapida scelta: all'indomani girerò qualcosa mentre partono per il fronte, un paio di interviste ai soldati, altre due in un campo profughi, in serata di ritorno a Belgrado e la faccenda è chiusa. Quando imbocchiamo la statale in direzione di Vukovar, nei villaggi non c'è più luce e cominciano i posti di blocco; i federali vogliono vedere il mio permesso, ma la parola di Arkan sembra valere come un timbro ufficiale. Alle 3 mi dà un cuscino e una coperta. I tonfi sordi dei cannoni, a poca distanza dal campo base, non hanno su di me un effetto rilassante e quando alle 5 Arkan mi sveglia, l'occhio era ancora sbarrato. "Si va al fronte, se non hai paura puoi venire, a patto che tu stia dove c'è il centro di raccolta profughi e non ti metta a girare da sola come un'idiota". Tira un'aria decisamente diversa da quella di Belgrado e non mi entusiasma l'idea di muovermi di lì, ma l'orgoglio professionale supera la ragionevolezza. La strada taglia in due la pianura infinita della Krajina, ora seminata a cannoni e cani armati.
"Lo sai che da 10 anni è in corso una trattativa con la Germania per la costruzione di una centrale nucleare tedesca proprio qui" mi dice Arkan. "No, non lo so". "Allora informati!". Quando compaiono le prime case mi sembra di entrare nella memoria dei racconti di mia madre dei bombardamenti a Milano. "Voi avete fatto tutto questo?" chiedo ad Arkan. E lui mi risponde "Chi ha distrutto Anzio? Categoria infame, pensate sempre che la guerra si combatta su un fronte solo?". Mi scarica alle 6 del mattino in un quartiere di Vukovar (Borovo) e lì passo tutta la giornata su una strada fangosa, al freddo, insieme a una quarantina di soldati. Ogni tanto un camion scarica vecchi, 20, 30 per volta. Sono serbi e croati. Si ammassano in una delle tante case sulla quale si è abbattuta una punizione troppo grande per essere umana. Quando ci piombano addosso i colpi di mortaio, i soldati mi trascinano in un scantinato che normalmente usano come latrina. Ci rimaniamo 4 ore. Nel pomeriggio arriva l'autobus della stampa, scendono i cronisti, si mescolano ai profughi, registrano il loro "stand-up" e 10 minuti dopo se ne vanno. Vorrei andarmene anche io, ma senza il famoso permesso non si sale; così non posso fare altro che aspettare la sera, quando Arkan mi riporterà al campo base. Non ho mangiato, non ho bevuto, ho contato 25 camion che caricavano e scaricavano un'umanità trovata nascosta in qualche scantinato chissà da quanto tempo. Gente che non aveva nessuna voglia di schierarsi da una parte o dall'altra. Qualcuno mi mostra la sua vita: tutta dentro un sacchetto di plastica, un maglione, un cappotto, una mela. Come un indumento delicato passato attraverso l'alta temperatura di una centrifuga. Attorno alla fabbrica di scarpe si continua a sparare ferocemente, mentre dentro ci sono ostaggi sia serbi che croati. Quella sera nessuno torna a Belgrado, e il giorno dopo, replica. Un uomo viene accompagnato dentro un'ambulanza militare. Bisogna identificare un corpo decapitato e mutilato. E' suo figlio. Penso che mi infilerò a tutti i costi nell'autobus della stampa, che corromperò qualcuno, che me ne voglio andare. Ma quel giorno l'autobus non arriva. E di nuovo nessuna jeep va a Belgrado. Il 19 non è giornata di fronte. Seguo Arkan in un giro di routine: visite in ospedale ai suoi soldati feriti, torturati e a civili senza più famiglia che mi raccontano di essere sopravvissuti ai più efferati massacri. In un paese fra Novi Sad e Vukovar, Arkan si ferma ad una stazione radio; è considerato un idolo, ed ha un collegamento diretto con gli ascoltatori. Non mi pare che quel genere di "fan" meriti particolare attenzione, e vado a farmi un giro per le strade. Entro in uno stanzone dove una lunga coda di persone attende qualcosa, l'assistente sociale mostra un elenco: "Solo nomi, niente cognomi; non vogliamo sapere se siano serbi o croati, ma solo trovargli una sistemazione, perché non hanno più nulla!". Verso le 4 del pomeriggio si ritorna ad Erdut, e da lì finalmente a Belgrado. Ad un posto di blocco Arkan viene informato di un massacro di bambini a Borovo Naselje. Mi chiede se me la sento di filmarli. Durante il tragitto gli dico che preferirei parlare con qualche prigioniero, poiché scene di massacri ne abbiamo viste già troppe. In realtà vorrei evitare di vedere. Chissà quanti cronisti durante la giornata saranno già passati di là e le immagini saranno comunque reperibili. Durante il tragitto, interrotto da controlli di prigionieri, posti di blocco, cambi di jeep il mio pensiero è paralizzato. Non sto guardando la guerra da una prospettiva ampia, ci sono dentro e non posso allontanarmi. Un gruppo di volontari non ha cambiato la fascia di riconoscimento sulla divisa e si sono sparati addosso con i soldati federali. Arkan urla come un pazzo. Troppi profughi nelle strade, troppi arresti. Bisogna uscire rapidamente dalla jeep perché ci stanno sparando addosso dalle case. I soldati si riparano correndo da un muro all'altro, da un camion a un carro armato, loro mi spingono e io li seguo di corsa con la faccia a terra; dalle finestre delle case sventrate sparano in tutte le direzioni e noi stiamo in mezzo. Loro hanno il giubbotto antiproiettile e io una giacca a vento bianca che con il buio sembra un bersaglio. Do una cassetta ad un militare con la telecamera a tracolla e gli chiedo di girare qualcosa per me. Non sono un cameraman di guerra io, e la sola cosa che mi interessa è di riportarmi a casa la pelle e ho paura di doverla lasciare li per terra, dove i tre che tentano di farmi scudo mi buttano. Faccia contro il muro. Uno di loro mi indica di seguirlo strisciando lungo la parete. Qualche metro e un piccolo volto mi balza negli occhi. Accanto a lui altri, buttati lì come cose senza significato. I piccoli senza vita sembrano ancora più piccoli. Lo stomaco si ribella e le gambe si piegano sotto al terrore dei proiettili che bucano il muro sopra la mia testa. Devo filmare. Tre operazioni: togliere il tappo, camera, standby, pulsante rosso. Impiego troppo tempo e delle braccia mi trascinano via, dentro un trasporto truppe pieno di prigionieri. Vedo Arkan, che mi dice: "Devi andare con loro, perché poi li consegnamo ai federali " ma non c'è posto e i soldati mi spingono fuori. Lui mi pigia dentro e il portellone si chiude.
Il trasporto blindato parte velocemente, sbandando sul fango e io non ho appoggi e sbatto la testa e le ginocchia contro il ferro. Un tragitto di un'ora senza un pensiero, solamente l'attesa di un'esplosione improvvisa e una vampata di fuoco. Al campo base dei soldati mi dicono che ogni notte pregano Dio perché non li risvegli più. lo penso a mia figlia di 7 anni e a quelle madri a cui la pietà divina ha forse risparmiato l'orrore portandosele via prima. Non ho avuto il tempo di mettere nessuna protezione su quella parte fragile che vive candidamente in tutti gli uomini e così l'insopportabile è penetrato senza ostacoli. Piango come solo una madre può fare. Vorrei parlare con mio marito, ma mi sembra una crudeltà inutile. Telefono a Minoli, gli racconto la giornata e mi scuso per non essere stata in grado di fare il mio Iavoro, per aver scelto male stavolta il suo inviato. Al contrario di quel che si pensa di lui, mi ha pregato di non tornare più a Vukovar, che non gliene importava nulla e che un altro forse si sarebbe fermato a Belgrado. All'alba del giorno 20 chiedo se mi danno una scorta per ritornare sul luogo della sera prima. Arriva una jeep con una prigioniera, mi dicono che ha ammazzato una decina di persone con l'aiuto del fidanzato. Le chiedo perché, e lei mi risponde che il prete della sua parrocchia, durante la messa diceva sempre che appena la guerra sarebbe esplosa bisognava fare fuori i serbi. Sul luogo della sera prima non c'è più traccia dei bambini, l'esercito federale li ha portati via durante la notte. La storia di Vukovar è finita e quello che ha lasciato nei cortili, dentro ai forni delle cucine o attaccato ai pali della luce non è altro che l'impronta della guerra: una condizione nella quale nessuno si fa del bene. Anche se i nostri focolari si spaventano e ci persuadono della barbarie dell'Altro. Il 19/20/21 novembre l'Ufficio Informazione del Ministero della Difesa di Belgrado aveva bloccato i permessi di accesso a Vukovar e Borovo a tutti i cronisti. Il 21 novembre leggo in aeroporto la notizia del massacro. La fonte è l'agenzia Reuters. Qualche ora dopo, quando arrivo a Roma, è già stata diramata la smentita. Quale comportamento occorre adottare quando hai visto qualcosa che le fonti ufficiali smentiscono? Quando non hai prove e neppure autorevolezza? Io ho seguito, con convinzione, le indicazioni del Direttore della testata per cui stavo lavorando. Minoli non ha appreso la notizia dai giornali, ma due giorni prima da me, e il mio rapporto di collaborazione con Mixer non è mai sconfinato in eccessi. Ho fatto la cronaca del mio viaggio "casuale" (Mixer 2/12/91) e montato le interviste raccolte senza l'asetticità dell'inviato che morde e fugge, poiché la mia condizione era diversa. Il mio compito era chiaro e dichiarato in apertura di trasmissione "dalla parte dei serbi". Ero con i volontari serbi perché era il solo modo di arrivare in quei luoghi in quei giorni. Ho vissuto il loro odio, le loro paure, ho visto lo strazio di civili che hanno subito scelte senza condividerle, e ho cercato di esprimere tutto questo. In guerra anche i bambini muoiono, ma su quei corpi si era accanita una volontà precisa. Con quale coscienza avrei potuto ignorarlo? Ho avuto la percezione, solo la percezione, mai la certezza, che si trattasse di bambini serbi e ho lasciato che si intuisse. Non ho sposato nessuna causa, e credo che sia onestamente azzardato farlo in una guerra civile; ho solo seguito la linea editoriale che, in quel caso, proponeva il racconto di un'esperienza personale.
Da allora, e per lungo tempo, sconosciuti hanno subdolamente minacciato me e Minoli al telefono, mentre in forma ufficiale le Associazioni, e il Comitato Pro-Croazia, hanno iniziato una campagna di protesta indirizzata al Direttore e al Presidente della Rai e presentato un esposto alla Commissione Parlamentare di vigilanza sottolineando quanto segue:
"... mai una volta la Vostra "inviata" ha evidenziato la verità dei fatti e cioè che Vukovar è stata attaccata e distrutta e le popolazioni uccise e deportate dall'esercito serbo e dai sanguinari cetnici, violando la Convenzione di Ginevra. Neanche il sig. Goebbels avrebbe effettuato una così sfacciata manipolazione delle notizie come invece avete inteso fare Voi utilizzando una TV di Stato".
"... Dal punto di vista dell'etica giornalistica la Gabanelli ha fatto un pessimo servizio alla verità e alla sua rete Tv. La giornalista afferma di aver visto molti bambini sgozzati, ma non li ha filmati, non li ha contati e soprattutto non ha potuto verificare se si tratta di bambini croati o serbi. Tuttavia ha lasciato l'impressione che si tratti di bambini serbi. Non si è premurata di verificare chi sia in realtà il comandante "Arkan", un criminale. I bambini di Borovo Naselje erano tutti croati.... Disgustoso poi l'interrogatorio della povera ragazza, dai cui occhi traspariva il terrore di una prigioniera che attende dì essere scannata e che recita una parte che le è stata imposta. Dalla diocesi di Djakovo ci giunge la conferma che non esiste alcun sacerdote cattolico che risponde al nome detto dalla prigioniera. Chiediamo rettifica a nome dell'obiettività e dell'imparzialità".
"... per oltre 20 minuti mai una volta la Signora Milena Gabanelli ha riferito il vero, Vukovar è una città croata, attaccata e distrutta dai guerriglieri serbi, e la popolazione uccisa e deportata è di nazionalità croata".
Le suddette contestazioni, il cui obbiettivo era quello di ottenere una rettifica da pare del garante per l'editoria, hanno certamente una legittimità. Le persone che, in Italia, sostengono la causa croata, difficilmente accettano che venga messa in discussione l'innocenza del popolo croato, cioè di tutti i croati, nessuno escluso. Mi sembra inevitabile però fare un paio di precisazioni: Vukovar è una città a popolazione mista (secondo i croati a maggioranza croata e per i serbi a maggioranza serba), e tutto quello che ne consegue (distruzioni, omicidi e deportazioni) ha toccato entrambe le etnie. Io ero da parte serba e quindi parlavo di loro, né più né meno come i miei colleghi fanno quando si trovano da parte croata (cosa che succede molto più spesso). Non ho filmato il massacro. E a questo punto è legittimo il dubbio, ma la certezza mi sembra un po' azzardata, poiché io ero là, mentre chi mi accusa si trovava in Italia. Non li ho contati e non ho controllato i documenti per verificarne la nazionalità, è vero. Vorrei solo un altro esempio di collega diligente che in una situazione analoga abbia agito diversamente. Mi sembra opportuno ricordare che la paternità degli eccidi viene addebitata solamente al fronte opposto rispetto a quello in cui l'inviato si trova. Trattandosi di un terreno sul quale non è facile muoversi da soli, è evidente che in qualche modo la verità è sempre deformata. Io ho parlato di "percezione" e non di certezza. In altri casi (dal fronte croato) si parla sempre di certezze. Non esistendo in Italia un Comitato pro-Serbia, queste certezze non vengono mai contestate. Per quel che riguarda la prigioniera, io mi sono limitata a fare "un'intervista", avvenuta senza essere concordata con nessuno. La traduzione si è rivelata fedele alle mie domande, quindi non ho ragione di pensare che siano state fatte delle pressioni in quella circostanza. Comunque durante la trasmissione, dopo la testimonianza della prigioniera, il filmato è stato interrotto dalla seguente precisazione di Minoli: "La signora fa affermazioni molto pesanti, ma ricordiamoci di Moro, Cocciolone ecc. Si tratta di una prigioniera e quindi potrebbe sentirsi costretta a fare queste affermazioni per tentare di salvarsi". E a questo intervento io ho ribadito dicendo "la sola cosa che si può dire è che in una condizione di non libertà la prigioniera sostiene che il prete Borislav Petrovic incitava all'omicidio. Non possiamo dire che questa sia in assoluto la verità".
La cronaca ci ha mostrato in seguito e in varie occasioni un serbo prigioniero dei musulmani, che dichiarava di essersi a lungo allenato a sgozzare maiali, prima di eseguire la pratica su qualche decina di "nemici". Si è gridato all'orrore, senza valutare la sua condizione dì prigioniero.
Il 13 gennaio 1991, il garante per l'Editoria, Giuseppe Santaniello, con una pronuncia di 13 pagine, ordina alla Concessionaria per il servizio radiotelevisivo la rettifica adducendo le seguenti motivazioni:
"Appare accoglibile la richiesta a che venga rettificata l'affermazione che nell'ambito delle ostilità del conflitto jugoslavo vi sarebbe stata una strage di bambini, lasciando intendere, dal contesto della trasmissione, che i bambini fossero serbi e gli autori dell'eccidio croati. La verità appare smentita dalle deduzioni del Comitato Pro-Croazia e dalle risultanze documentali, ivi comprese notizie di cronaca di testate giornalistiche".
Però nell'ordinanza del garante c'è un riscontro interessante:
"Con riferimento alla notizia secondo cui tal sacerdote Borislav Petrovic avrebbe incitato dal pulpito eccetera,... la Sacra Congregazione per il Clero ha evidenziato le seguenti circostanze: nello schematismo della chiesa cattolica esiste un sacerdote di nome Borislav Petrovic [1], ma a giudizio dei suoi diretti Superiori, si tratta di un sacerdote assai pio e assolutamente alieno da ogni forma di fanatismo e nazionalismo. La notizia quindi riportata dalla rubrica Mixer va rettificata nel senso che non sussistono elementi oggettivi, idonei a dimostrare le circostanze dell'incitamento al massacro di serbi da parte di tal sacerdote Borislav Petrovic".
Sul piatto della bilancia pesano di più le deduzioni del Comitato Pro-Croazia della mia testimonianza, peraltro non supportata da alcunché. E' evidente. Per quel che riguarda le notizie di cronaca di testate giornalistiche, si basano essenzialmente sulla notizia diffusa dalla Reuters secondo la quale un fotografo jugoslavo ha prima denunciato il massacro e in seguito ha precisato: " Ho visto solo qualche corpo di bambino che veniva messo nei sacchi di plastica ".
Nessuno si è preoccupato di andare a verificare sul posto, tranne l'inviato del settimanale "Oggi", Andrea Biavardi. Ma il suo pezzo, nel quale venivano riportate testimonianze di sopravvissuti che dichiaravano di essere a conoscenza dell'eccidio, non è stato tenuto in considerazione. Invece Andrea Biavardi mi ha in seguito riferito di essere stato oggetto di pesanti diffamazioni.
Per quel che riguarda la testimonianza della prigioniera, ho già detto che è stata fatta una precisazione durante la trasmissione. Che altro si pretendeva? Che l'intervista venisse censurata perché alcuni argomenti infastidiscono? E' sufficiente l'opinione dei diretti Superiori del sacerdote per ordinare una rettifica? Evidentemente sì. I colleghi, ad esclusione del Corriere della Sera e di Repubblica non hanno perso l'opportunità di spargere un po' di facile veleno (poteva essere un'ottima occasione per smentirmi coi fatti, ma era un tantino rischioso e forse anche un po' complicato). Sul fronte dei quotidiani mi limito a citare l'Avvenire del 4 dicembre 1991: "Milena Gabanelli, serba, regista di professione, coniugata con un italiano, inviata a Vukovar da "Mixer'' come giornalista (sic!) ... è stata condotta in tarda serata in uno scantinato buio per farle intravedere cadaverini inesistenti di bimbi massacrati dai croati ... Quanto è stata disgustosa quell'intervista che la nostra "giornalista" ha effettuato a una povera donna croata prigioniera, con evidenti segni di violenza sul volto, torturata e costretta ad accusarsi di crimini non commessi. Quella di Milena Gabanelli è stata una sporca propaganda serba ...". L'articolo è firmato da Giovanna Sopianac e Maja Snajder. Io non ho pregiudizi verso i loro cognomi, ma sembrano indicare una origine diversa dalla mia, italiana da sempre, e che metteva piede in Jugoslavia per la prima volta nella sua vita [2]. Ma non è questo il punto, pare invece che essere serbi significhi "non diritto alla parola". Può darsi che le due signore abbiano ragione, ma forse non è il pulpito più adatto per calare una simile sentenza. Per quel che riguarda la mia professione, sempre messa in dubbio con virgolette o (sic!), sarebbe stato più corretto verificarla presso l'Ordine dei Giornalisti, visto che nello stesso articolo si accusa me di non aver verificato cose inverificabili. Il resto non merita commento.
Purtroppo la storia non si ferma qui. Continuo a fare il mio mestiere e oltre alla striscia di Gaza, il Nagorno Karabah, c'è anche un ritorno a Vukovar. In quell'occasione pubblico un pezzo su un settimanale nel quale non cito mai serbi o croati, ma descrivo semplicemente quello che rimane dopo una guerra. Al direttore di quel settimanale viene inviato il seguente telegramma: "... Protestiamo vivamente che sia consentito a questa signora, sotto accusa presso ordine professionale su nostra iniziativa per clamorose falsità... di poter aprire la bocca sui tragici avvenimenti di Vukovar obliando proprie gravissime responsabilità e sottacendo quanto compiuto in vile collaborazione con la politica di inganno difformativo promossa dai servizi segreti serbi. Ove trattasi di una Maddalena pentita bene sarebbe stato prima di tutto come la Maddalena evangelica confessare le colpe trascorse. Sicuri che non pubblicherete ma tanto per mettervi di fronte alle Vostre responsabilità e alla Vostra coscienza inviamo non cordiali saluti. Comitato Pro-Croazia. Professor Vittorio Menesini". In tutte le guerre ci sono sempre stati gli schieramenti, durante la guerra del Vietnam, nessun inviato è stato processato per aver raccontato le atrocità che compivano i vietnamiti ai danni degli americani. Sappiamo che è successo, e sappiamo anche che gli americani avevano torto. Nel caso della guerra in Jugoslavia la verità "deve" stare da una sola parte, altrimenti sei un "collaboratore dei servizi segreti serbi".
E la storia continua, e si ridiscute di fronte al Consiglio del mio Ordine Regionale. C'è l'esposto dell'Avvocato Menesini e quindi si avvia la procedura. "Signora Gabanelli, ci racconti cosa è successo quel giorno a Vukovar" mi chiede il presidente della Commissione, Luca Goldoni. La sottoscritta racconta, ancora una volta. E' umiliante, ma è la procedura. "Era mai stata precedentemente inviata su un fronte di guerra?".
"Ero stata in zone di guerriglia. La mia esperienza riguarda pezzi di approfondimento di politica estera. Doveva essere così anche stavolta, poi le cose sono andate diversamente. Con l'esperienza dell'inviato di guerra sarei stata più cauta e certamente testimone di nulla". "Signora Gabanelli, io non ho ragione di non credere a una sola parola di quello che ci ha raccontato. Purtroppo non possiamo sottovalutare l'esistenza di una pronuncia del Garante" mi dice Luca Goldoni.
Il mese dopo una raccomandata mi informa sulla decisione dell'Ordine. Nessuna sanzione disciplinare (come chiedeva l'esposto del Comitato Pro-Croazia facendo appello al codice di deontologia professionale), ma un innocuo "avvertimento". Dopo avermi concesso il beneficio della buona fede e l'oggettiva difficoltà del lavoro, il Consiglio dell'ordine concludeva così la propria sentenza "... inquadrando il caso nel clima di quanto sta accadendo nel vicino territorio, e dunque in un contesto stravolto da rivalse etniche, politiche, religiose, Mixer, forse con eccessiva precipitazione, ha calato Milena Gabanelli, giornalista senza una specifica scorza da inviato, in una realtà bellica 'anomala e confusa' che pertanto ha avuto come relatrice televisiva 'una cronista altrettanto anomala e sicuramente occasionale'"
Avrebbero potuto darmi una sospensione, (e poi saremmo finiti in tribunale) e invece mi hanno detto "attenta, non lo fare più". Infinitamente ringrazio. "Anomala e occasionale"? Considerando la piattezza che mi circonda non posso nemmeno offendermi. Come non mi offendono Riva e Ventura quando nel loro pregiatissimo libro "Jugoslavia, il Nuovo Medio Evo", scrivono: "... Mixer rilancia il massacro, ospitando la testimonianza ambigua di una collaboratrice da Belgrado" [3]. La grande accusa che in tutta questa faccenda mi è stata rivolta, è quella di non aver "verificato"; eppure coloro che hanno riempito pagine non si sono neppure degnati di controllare la mia nazionalità. Non mi risulta che un'informazione del genere rischi di essere sulle traiettorie delle pallottole. Per il resto, vorrei solo sottolineare che non ho speculato sulle disgrazie altrui affinché il mio nome emergesse. Era un'ottima occasione, eppure ho rifiutato il bombardamento della stampa e della televisione che è seguito alla trasmissione. Soprattutto ho voluto evitare di cadere nella facile trappola dalla quale si sarebbe a tutti i costi voluto far emergere una persona filo-serba. Avevo un compito, ho cercato di svolgerlo nel migliore dei modi. Poi, sono passata ad altro.
[1] Una posizione parecchio divergente da quella del Comitato Pro-Croazia, che, come abbiamo visto, dichiarava: “non esiste alcun sacerdote cattolico che risponde al nome ...”.
Tratto da: Marco Guidi, "La sconfitta dei media" (Bologna, Baskerville, 1993), pp.125-135.
IL DRAMMA BELLICO DI VUKOVAR
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