Patria Indipendente (mensile dell'ANPI), aprile 2013, p.40
Intere divisioni del “Regio Esercito” passarono ai partigiani
Migliaia i soldati italiani morti per la libertà della Jugoslavia
La scelta nell’ottobre del 1943. La decisione del Generale Oxilia e dei suoi 12 mila soldati. Anche la divisione “Taurinense” decise di battersi contro i nazisti. Via via la scelta giusta di tanti altri. I partigiani della “Garibaldi”. La bandiera italiana a Belgrado liberata
di Giacomo Scotti
Ufficialmente, la data di nascita del nuovo Esercito Italiano, quello cioè risorto dopo la caduta del fascismo, si fa risalire all’8 dicembre 1943, giorno in cui il Primo Raggruppamento Motorizzato, con circa 6.000 uomini, venne impiegato al fianco della 36a Divisione americana nell’azione per la conquista di Monte Lungo a sud di Cassino. Cinque mesi dopo, il 18 aprile 1944, quel Raggruppamento si trasformava nel Corpo Italiano di Liberazione che raggiungeva nel periodo del suo massimo potenziamento una forza complessiva di circa 24.000 uomini. Secondo me, la vera data di nascita del nuovo esercito italiano inteso come esercito democratico, antifascista e parte integrante della coalizione antihitleriana nella seconda guerra mondiale dovrebbe essere anticipata al 9 ottobre 1943, giorno in cui il generale Giovanni Battista Oxilia, comandante della Divisione di fanteria da montagna “Venezia”, firmò a Berane, in Montenegro, un documento con il quale dichiarava che la Divisione “Venezia”, forte di 12.000 uomini, “al completo, con tutte le armi, equipaggiamenti, vettovagliamenti e magazzini di cui dispone” restava nel territorio jugoslavo per combattere contro i tedeschi al fianco dei partigiani, coordinando le azioni militari con il comando del II Korpus dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (EPLJ), i cui uomini entrarono a Barane il mattino del 10 ottobre.
Quasi contemporaneamente, nel settore di Nikšić, sempre in Montenegro, l’esempio della “Venezia” venne seguito dalla Divisione alpina “Taurinense” al comando del generale Giovanni Vivalda. Questa Divisione, nel frattempo, era stata più che dimezzata in una serie di combattimenti contro i tedeschi, contro i filofascisti cetnici e contro gli stessi partigiani, nell’inutile tentativo di raggiungere la costa per l’imbarco, ma al tempo stesso nel generoso sforzo di portare aiuto alla Divisione “Marche” in Erzegovina e alla Divisione “Emilia” nelle Bocche di Cattaro.Gli uomini della “Marche” furono quasi completamente catturati dai tedeschi; gli uomini dell’«Emilia» riuscirono in parte a raggiungere l’Italia. I superstiti della “Taurinense” – che erano stati attaccati perfino da reparti della Divisione “Ferrara” passata ai tedeschi – divennero tuttavia la punta di diamante della nuova unità di combattimento affiancatasi all’esercito di Tito.
Il 12 ottobre, quasi a inaugurare il nuovo capitolo della storia dell’esercito italiano, due aerei Macchi 205 partiti dalle Puglie raggiunsero il cielo di Berane, lanciarono il cifrario e stabilirono un collegamento radio regolare fra le due Divisioni e il Comando Italiano insediato a Brindisi. Questo nuovo esercito regolare italiano affiancatosi ai partigiani jugoslavi contava circa 14.000 uomini. Alcune altre migliaia di soldati italiani, tuttavia, inseriti direttamente in varie Brigate jugoslave, già combattevano da un mese contro i tedeschi nel vasto scacchiere del Montenegro, delle Bocche di Cattaro e del Sangiaccato, avendo compiuto autonomamente e con notevole anticipo sulle decisioni dei generali Oxilia e Vivalda, la scelta della lotta partigiana. Mi riferisco, in particolare, al Battaglione “Italia” comandato dal capitano Mario Riva della “Venezia” e alla Brigata di artiglieria alpina “Aosta”, comandata dal maggiore Carlo Ravnich, il quale diventerà poi comandante della Divisione partigiana “Garibaldi” sorta nel dicembre dalla fusione delle Divisioni “Venezia” e “Taurinense” e dalla loro ristrutturazione secondo le norme dell’esercito partigiano jugoslavo.
Erano stati proprio gli uomini di una batteria del Gruppo “Aosta”, la sesta batteria del tenente Francesco Perello, a impegnare i tedeschi nel primo scontro in terra jugoslava, alle ore 8 del mattino del 9 settembre. Una colonna autocarrata tedesca, avvistata all’inizio della piana di Nikšić mentre scendeva da Šavnik, venne fermata e costretta a ripiegare a colpi di cannone. Il maggiore Ravnich premiò i suoi uomini con un bigliettone da 500 lire e una lettera di encomio: “Bravi artiglieri!”. Sarebbe qui lungo raccontare la storia della Divisione partigiana italiana “Garibaldi”, le aspre battaglie sostenute dalle sue Brigate sulle aspre montagne del Montenegro e nei boschi della Bosnia, nei comprensori dei fiumi Piva, Tara, Drina, Lim, da Pljevlja ad Andrijevica, da Kolašin a Gacko, fino a Dubrovnik dove per i suoi uomini la guerra terminò l’8 marzo 1945. Nel mio volume “Ventimila Caduti” ho dedicato a questa Divisione circa 300 pagine e non sono riuscito che a dare una sintesi della sua dura e gloriosa odissea. L’epilogo è questo: su 19.000 soldati e ufficiali, rientrarono alle loro case soltanto 12.567 uomini. In combattimento ne caddero 3.272, altri 3.072 furono dati per dispersi, 128 morirono nella prigionia tedesca. Totale delle perdite, 6.472 uomini, un terzo degli effettivi.
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Nei giorni in cui i superstiti della Divisione “Garibaldi” s’imbarcavano a Dubrovnik diretti a Bari, nel marzo 1945, un’altra Divisione partigiana italiana, l’«Italia», inserita nel Primo Corpo d’armata, sotto il comando del generale Koča Popović, combatteva strenuamente sul fronte del Danubio, nella pianura dello Srem, avanzando verso Zagabria. La Divisione “Italia”, sia detto subito, fu l’espressione del più genuino volontarismo dei soldati antifascisti italiani sorpresi dall’armistizio in terra jugoslava. La sua genesi ci riporta a due Battaglioni; il “Garibaldi” costituitosi ufficialmente a Spalato l’11 settembre 1943 con circa 400 uomini in maggioranza carabinieri e fanti, ed il “Matteotti” inquadratosi con 250 uomini a Livno, in Bosnia, all’inizio di ottobre.
Quasi tutti venivano dalla Divisione “Bergamo” i cui uomini avevano difeso strenuamente, insieme ai partigiani, i passi montani attraverso cui, dopo circa un mese di strenui combattimenti, i tedeschi riuscirono a penetrare nel capoluogo della Dalmazia. Sia il “Garibaldi” che il “Matteotti” furono inseriti nella Prima Divisione proletaria, la più agguerrita formazione dell’esercito di Tito. Questi Battaglioni presero parte alle più epiche battaglie della guerra di liberazione jugoslava dalla Dalmazia alla Bosnia, dal Sangiaccato alla Serbia, fino alla liberazione di Belgrado avvenuta il 20 ottobre 1944.
Nella capitale jugoslava, dove gli italiani gareggiarono in eroismo con le migliori unità di Tito e con i reparti corazzati sovietici del maresciallo Tolbuhin, furono essi a innalzare la prima bandiera dell’Italia democratica sull’edificio dell’Ambasciata italiana e fu il commissario politico dell’«Italia», Innocente Cozzolino, a svolgere provvisoriamente le funzioni di console italiano nella nuova Jugoslavia. Il Maresciallo Tito volle che i due Battaglioni italiani sfilassero in prima fila nella rivista che gli passò ai reparti liberatori.
Sempre a Belgrado, in seguito alla liberazione di alcune migliaia di soldati italiani che avevano sofferto la prigionia tedesca, nacquero altri due Battaglioni, “Fratelli Bandiera” e “Goffredo Mameli”. Nacque così la Brigata “Italia”, divenuta poi Divisione con l’afflusso continuo di nuovi volontari, che sbucavano da ogni parte lungo il cammino di guerra. L’8 maggio 1945 i combattenti dell’«Italia», dopo altri duri combattimenti sostenuti a Tovarnik, a Pleternica, sul monte Slijem, entravano vittoriosi a Zagabria. Erano circa 5.000 uomini ormai, strutturati su 12 Battaglioni, al comando di Giuseppe Maras, ex sottotenente dei bersaglieri; commissario politico Carlo Cutolo, ex tenente di fanteria; vice comandante e capo di stato maggiore il tenente Aldo Parmeggiani; vice commissario Attilio Mario Ceccarelli, ex soldato semplice; capo dei servizi stampa, cultura e propaganda Innocente Cozzolino, ex sottotenente; commissario di collegamento l’ex sergente Mario Gatani Tindari, siciliano, il quale era passato ai partigiani fin dal 1942.
Nel cimitero di Zagabria, dove riposano le ossa degli ultimi caduti della Divisione “Italia”, sorge un monumento sul quale si leggono queste parole: «Compagno, quando vedrai mia madre dille di non piangere. Non sono solo. – Giace al mio fianco un compagno jugoslavo. Che nessuno ardisca gettare fango sul sangue sparso nella lotta comune. Trovammo qui fede madre pane fucile. I morti lo sanno. I vivi non lo dimenticheranno. Fiumi di sangue divisero due popoli. Li unisce oggi il sacrificio dei compagni migliori».
Quasi tutti venivano dalla Divisione “Bergamo” i cui uomini avevano difeso strenuamente, insieme ai partigiani, i passi montani attraverso cui, dopo circa un mese di strenui combattimenti, i tedeschi riuscirono a penetrare nel capoluogo della Dalmazia. Sia il “Garibaldi” che il “Matteotti” furono inseriti nella Prima Divisione proletaria, la più agguerrita formazione dell’esercito di Tito. Questi Battaglioni presero parte alle più epiche battaglie della guerra di liberazione jugoslava dalla Dalmazia alla Bosnia, dal Sangiaccato alla Serbia, fino alla liberazione di Belgrado avvenuta il 20 ottobre 1944.
Nella capitale jugoslava, dove gli italiani gareggiarono in eroismo con le migliori unità di Tito e con i reparti corazzati sovietici del maresciallo Tolbuhin, furono essi a innalzare la prima bandiera dell’Italia democratica sull’edificio dell’Ambasciata italiana e fu il commissario politico dell’«Italia», Innocente Cozzolino, a svolgere provvisoriamente le funzioni di console italiano nella nuova Jugoslavia. Il Maresciallo Tito volle che i due Battaglioni italiani sfilassero in prima fila nella rivista che gli passò ai reparti liberatori.
Sempre a Belgrado, in seguito alla liberazione di alcune migliaia di soldati italiani che avevano sofferto la prigionia tedesca, nacquero altri due Battaglioni, “Fratelli Bandiera” e “Goffredo Mameli”. Nacque così la Brigata “Italia”, divenuta poi Divisione con l’afflusso continuo di nuovi volontari, che sbucavano da ogni parte lungo il cammino di guerra. L’8 maggio 1945 i combattenti dell’«Italia», dopo altri duri combattimenti sostenuti a Tovarnik, a Pleternica, sul monte Slijem, entravano vittoriosi a Zagabria. Erano circa 5.000 uomini ormai, strutturati su 12 Battaglioni, al comando di Giuseppe Maras, ex sottotenente dei bersaglieri; commissario politico Carlo Cutolo, ex tenente di fanteria; vice comandante e capo di stato maggiore il tenente Aldo Parmeggiani; vice commissario Attilio Mario Ceccarelli, ex soldato semplice; capo dei servizi stampa, cultura e propaganda Innocente Cozzolino, ex sottotenente; commissario di collegamento l’ex sergente Mario Gatani Tindari, siciliano, il quale era passato ai partigiani fin dal 1942.
Nel cimitero di Zagabria, dove riposano le ossa degli ultimi caduti della Divisione “Italia”, sorge un monumento sul quale si leggono queste parole: «Compagno, quando vedrai mia madre dille di non piangere. Non sono solo. – Giace al mio fianco un compagno jugoslavo. Che nessuno ardisca gettare fango sul sangue sparso nella lotta comune. Trovammo qui fede madre pane fucile. I morti lo sanno. I vivi non lo dimenticheranno. Fiumi di sangue divisero due popoli. Li unisce oggi il sacrificio dei compagni migliori».
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Gli italiani per il loro numero, superarono la metà degli effettivi totali di tutte le formazioni volontarie composte da non jugoslavi. Il contributo è evidenziato anche dal fatto che ben ventimila sacrificarono la vita in terra jugoslava, praticamente la metà di tutti i combattenti. La cifra era stata evidenziata dallo stesso Tito in un messaggio agli ex combattenti italiani dell’aprile 1969. Di alcune di queste formazioni, i cosiddetti “reparti dispersi”, ho scritto nel libro “Il Battaglione degli straccioni”. Ricorderò qui, rapidamente, il Battaglione “Mameli” sorto nel retroterra di Zara nella seconda metà di settembre del 1943, e distintosi nelle file del Distaccamento “PIavi Jadran”; il “V Battaglione Italiano” della II Brigata Banjiska; il Battaglione “Ercole Ercoli” che militò nella III Brigata dalmata e poi nella IV Brigata di Spalato; varie compagnie italiane inserite nella V e nella IV Brigata Krajska della Bosnia; una compagnia “Garibaldi” che divenne il nucleo della I Brigata macedone kosovana nel Kosovo e in Macedonia; un gruppo di artiglieria composto di oltre 300 uomini nella XIII divisione croata del Gorski Kotar. E si potrebbe continuare. Ecco, fra tanti altri dati citabili quelli inerenti la composizione nazionale delle unità dell’XI Corpo d’armata della Croazia nel dicembre 1944: su 11.000 combattenti, 482 sono italiani; oppure le statistiche dell’VIII Corpo d’Armata, sempre in Croazia, alla data del 28 gennaio 1945: vi militavano 1.685 combattenti italiani (di cui 76 ufficiali), suddivisi in sei Divisioni, nelle Brigate carristi e di artiglieria.
Alcuni reparti ebbero una storia breve e drammatica, come il Battaglione “Garibaldi” formato da 800 soldati del I Battaglione di Guardie di Frontiera nel Gorski Kotar e inquadratosi il 12 settembre 1943 nel Distaccamento Fiume-Sušak. Questi uomini sostennero l’urto principale della grande offensiva tedesca sferrata in ottobre sulle posizioni partigiane che dominavano il Golfo del Quarnero e più della meta caddero in combattimento. I superstiti raggiunsero in parte l’Italia, dove continuarono a combattere nelle file della Resistenza, e in parte la Slovenia dove si inserirono nei Battaglioni e Brigate di quella regione.
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Già in precedenza, fin dall’agosto del 1942, numerosi italiani combattevano nelle file della Prima Compagnia partigiana dell’Istria, ed oltre 300 avevano varcato il vecchio confine per raggiungere i partigiani in Slovenia e in Croazia. Nel settembre 1943, l’Istria poté formare reparti partigiani con 12.000 combattenti, italiani e croati. Migliaia di operai, pescatori, contadini, studenti e intellettuali di Pola, Rovigno, Parenzo, Fiume e di altre località costituirono speciali reparti della minoranza italiana nelle Brigate e Divisioni slave della stessa regione. Il reparto più famoso di quelle terre fu e resta il Battaglione “Pino Budicin” nelle cui file passarono oltre 2.000 combattenti e che ha dato due riconosciutissimi eroi. Del suo cammino di lotta, e della lotta condotta dagli altri italiani dell’Istria nelle formazioni armate di Tito si parla diffusamente nel libro “Rossa una stella”.
Un altro aspetto del contributo italiano alla guerra popolare di liberazione della Jugoslavia è costituito dalla presenza di grosse unità partigiane italiane, della forza di Battaglioni, Brigate e alla fine di un’intera divisione, nel territorio della Slovenia. Solo parzialmente quei reparti furono formati da ex militari dello sciolto esercito di occupazione. La maggior parte degli effettivi era di civili: migliaia di volontari affluiti dalle terre d’oltre Isonzo, soprattutto dai territori di Trieste e del Friuli.
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Non a caso il primo reparto della Resistenza armata in Italia, il Distaccamento “Garibaldi” costituitosi nel Friuli nel marzo del 1943, parecchi mesi prima della caduta del fascismo e dell’armistizio, dunque, nacque dall’unione di uomini che avevano militato nell’esercito partigiano sloveno o che furono calamitati sulle montagne in quel periodo dagli appelli dell’esercito di Tito che già operava nella Venezia Giulia dal 1942, cacciando i fascisti dalla Selva di Tarnova, un vasto altipiano ad est e a nord-est di Gorizia, costituendovi una propria “Zona libera”. Allorquando i tedeschi, nel settembre-ottobre del 1943, investirono con le loro truppe di rincalzo le terre della Venezia Giulia per dilagare a Gorizia, a Trieste e verso l’Istria, furono i partigiani sloveni ad accogliere nelle loro file i combattenti partigiani italiani della “Brigata Proletaria” e della “Brigata Trieste” che si erano sbandate dopo aver sostenuto per alcune settimane l’urto tremendo delle Divisioni hitleriane. Nacquero allora, e in seguito, in territorio sloveno, i Battaglioni “Triestino d’Assalto”, “Giovanni Zol”, “Alma Vivoda”, “Mazzini” e altri, poi via via le Brigate “Garibaldi-Trieste”, “Fratelli Fontanot” e nell’estate del 1944 la gloriosa divisione “Garibaldi-Natisone” che militò nei ranghi del IX Corpo d’armata sloveno fino alla liberazione della Slovenia e dell’intera Venezia Giulia. Oltre che a entrare vittoriosi a Gorizia ed a Trieste con i reparti jugoslavi, i partigiani italiani presero parte anche alla liberazione di Lubiana, il 9 maggio 1945. Il contributo di sangue dato dagli italiani fu altissimo anche in Slovenia: soltanto nelle operazioni dell’aprile 1945 caddero un migliaio di combattenti.
Nel glorioso capitolo del volontarismo italiano in Jugoslavia, che venne a ricomporre nella seconda guerra mondiale il filo della tradizione garibaldina – per tutto l’Ottocento e gli inizi del nostro secolo, centinaia di volontari italiani si erano infatti recati in Balcania, dal Montenegro alla Macedonia, dalla Bosnia alla Serbia, a combattere al fianco di quei popoli nelle loro lotte insurrezionali contro il giogo ottomano – una pagina particolarmente luminosa fu scritta da quei combattenti che varcarono spontaneamente l’Adriatico per unirsi ai partigiani jugoslavi. Giunsero soprattutto nel periodo marzo 1944-aprile 1945 dalle regioni meridionali della penisola, arruolandosi nelle cosiddette “Brigate d’Oltremare” che andavano formandosi nelle Pugile con l’adesione di ex prigionieri e detenuti politici, deportati dalla Dalmazia, dal Montenegro e dalla Venezia Giulia. Insieme a circa 30 mila jugoslavi, si arruolarono alcune migliaia di italiani. Ci fu un Battaglione, l’«Antonio Gramsci», forte di 800 uomini, composto esclusivamente da giovani volontari italiani, in parte ex militari e in parte civili: siciliani, pugliesi, calabresi e di altre regioni del Mezzogiorno che preferirono raggiungere la Jugoslavia piuttosto che attendere le lungaggini burocratiche opposte dagli Alleati e dallo stesso Governo Badoglio alla loro volontà di combattere subito e con durezza contro i tedeschi. Di quel Battaglione, 300 uomini non tornarono.
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Nelle formazioni di Tito militarono antifascisti d’ogni regione d’Italia, umili contadini e professori universitari, medici e cappellani, antifascisti di vecchia data ed ex fascisti ravveduti e tante donne. Nelle mie ricerche ho incontrato addirittura due fanfare militari, composte in prevalenza da italiani, nella 50a Divisione partigiana serba e nella II Brigata d’assalto dalmata. Ho rintracciato italiani che fecero parte dei più delicati corpi dell’EPLJ: i reparti dell’antiterrorismo che davano la caccia alle spie e sabotatori ed ai collaborazionisti; i reparti commandos della Marina partigiana che operavano fra le isole dell’arcipelago dalmato nei compiti più rischiosi e perfino nell’aviazione. Basti per tutti il caso del tenente pilota Luigi Rugi, l’unico italiano partigiano del cielo nella seconda guerra mondiale. Fuggito nel settembre 1943 dall’aeroporto di Gorizia a bordo di un aereo-scuola che era stato catturato dai tedeschi, fece un atterraggio di fortuna in Slovenia, di lì passò in Croazia e poi in Bosnia. A Livno, dove per ordine di Tito si costituì la Prima squadriglia aerea partigiana, Rugi ne fu uno dei fondatori. Quella squadriglia ebbe 7 Caduti fino alla fine della guerra; l’ultimo a sacrificare la vita fu proprio l’italiano. Cadde il 30 aprile 1945, nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno, a pochi giorni dalla liberazione. Qualche mese prima, sull’isola di Vis, era stato insignito personalmente da Tito dell’Ordine al Valore.
[ LE FOTO:
La Brigata italiana “Fontanot” appena formata in Slovenia si dirige verso le postazioni
Il Battaglione “Garibaldi” in marcia da Valjevo verso Lajkovac nel 1944
Un reparto della Divisione “Italia” in Jugoslavia
Inverno 1944-45: la Divisione “Italia-Matteotti” in un momento di sosta
Il generale Dapcevic e i combattenti della Divisione “Garibaldi-Berane” nel dicembre 1943
Il Battaglione “Garibaldi” della Brigata “Italia” durante i combattimenti per le strade di Belgrado nell’ottobre del 1944