Elena Romanello: Ricordata per la prima volta (2010) la rivolta degli zingari nei lager
Tatiana Sirbu: The Deportation of Roma to Transnistria
Giovanna Boursier: La persecuzione degli zingari da parte del Fascismo
Sinti survivor Karl Stojka on his arrival in Auschwitz-Birkenau (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO / DEUTSCH)
Sinti survivor Karl Stojka describes his arrival in Auschwitz-Birkenau in 1943...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zWYg5Uk0VHk
Piero Terracina on the Zigeunerlager (Gypsy camp) in Auschwitz-Birkenau (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO)
Holocaust survivor Piero Terracina talks about the Gypsy family camp known as the Zigeunerlager (Gypsy camp) in Auschwitz-Birkenau and describes the night of the camp liquidation...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=f_poSK-a8hs
Roma survivor Tulo Reinhart on deportations of Roma in Italy during WWII (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO)
Roma survivor Tulo Reinhart talks about deportations of Roma in Italy during WWII...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=L0Us9oSjtEI
REPORTAGE
Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos
In fuga perenne
Fu suo zio a soprannominarlo Glazo, «da glas, bicchiere, perché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle persone il nome delle cose che li circondano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Galliano, classe 1949, di Prato ma milanese di nascita, per salvarsi la vita hanno dovuto prendersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liutaio Nello Lehmann, scegliendo il nome di un violino di origine napoletana e sfuggendo così al Porrajmos, la «Devastazione», lo sterminio delle minoranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludovico Lehmann, anch’egli liutaio, all’inizio del ’900 lasciò Berlino con i suoi cinque figli per sfuggire alla repressione della polizia tedesca. Discendente della numerosa famiglia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 persone in tutta Italia e alcune centinaia in giro per l’Europa», Paolo Galliano è cresciuto girovago tra artisti, artigiani e musicisti, e si è stabilizzato a Prato solo una trentina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascoltato le storie dei suoi parenti dai nomi tedeschi — anche Rosenfeld, Winter, Hoffmann — imprigionati nei campi di concentramento per zingari di Agnone o di Bolzano e poi spediti a Mathausen o direttamente ad Auschwitz. «Non è tornato nessuno, solo una volta ho conosciuto una cugina di mio padre che aveva sul braccio il numero degli internati e mi raccontava di aver visto tutta la sua famiglia in fila verso i forni crematori». La parente del signor Galliano è una dei rari testimoni diretti del “genocidio degli zingari”, miracolosamente scampata e liberata dai sovietici nel giorno di cui ricorre domani il settantesimo anniversario.
Lo sterminio
Una storia quasi sconosciuta, quella del Porrajmos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricercatore di Storia presso l’Università di Chieti che ha accompagnato in viaggio gli studenti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popolazione presente nei territori occupati dal Reich in quel periodo». E «non è un conteggio preciso perché all’inizio del 1942, prima dei campi di sterminio veri e propri, come gli ebrei, gli zingari venivano fucilati sul posto, appena arrestati». Solo «ad Auschwitz sono morti in 23 mila e lo sappiamo perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro dove venivano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager di Birkenau prima della sua liquidazione totale, che avvenne nella notte del 2 agosto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».
La «razza pericolosa»
Abomini commessi in nome dell’«igiene razziale» garantita in Germania dalle unità del Reich dirette dallo psichiatra infantile Robert Ritter che, racconta ancora Bravi, «dedicò anni a studiare la pericolosità sociale di queste popolazioni, individuata in una caratteristica ereditaria che era l’istinto al nomadismo e l’asocialità». Stesse tesi sostenute in Italia dall’antropologo Guido Landra, i cui “studi” sostenevano le leggi razziali di Mussolini. Tra il 1940 e il ’43 il regime fascista emana l’ordine di arresto di tutti i Rom e Sinti italiani e non, e il loro trasferimento in specifici campi di concentramento. «Se non fosse arrivato l’8 settembre quelle persone sarebbero sicuramente transitate verso i campi di sterminio tedeschi, i collegamenti c’erano e i documenti provano questa linearità — spiega Bravi — Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fascisti salta completamente, riescono a fuggire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di competenza della Repubblica sociale, vengono arrestati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathausen». Qualcuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai partigiani, come dimostrano le storie del piemontese sinto Amilcare Debar o di Walter Vampa Catter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre circensi, giostrai e teatranti trucidati dalle Ss tra i dieci martiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».
Una memoria taciuta
Eppure del Porrajmos restano poche tracce nella memoria collettiva. Perché, fa notare Bravi, «la memoria ha bisogno di un contesto sociale disposto ad ascoltare». In Germania, «lo sterminio razziale degli zingari è stato riconosciuto solo negli anni ’90 e il primo memoriale è stato inaugurato alla presenza di Angela Merkel vicino al Reichstag di Berlino solo due anni fa». In Italia invece «la permanenza dello stereotipo dei Rom come nomadi, e quindi come pericolosi, alimenta la politica dei campi che continua a tenere queste persone distanti, ad escluderle, anche dai diritti di cittadinanza. I pregiudizi di oggi sono esattamente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca storica è «partita in ritardissimo»: «Da noi i documenti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, grazie al progetto Memors finanziato dall’Unione europea che ha permesso anche l’apertura del primo museo virtuale italiano sul tema, www.porrajmos.it».
Eppure, conclude Bravi, «il racconto del genocidio dei Sinti e dei Rom c’è sempre stato all’interno delle comunità ma difficilmente viene riportato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di questa memoria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che questa nostra storia possa essere trattata come spazzatura, come trattano noi”».
Rita e gli esperimenti nazisti sui bimbi Rom
Questa è una delle foto più note della follia nazifascista nei lager.
[FOTO: http://lacittanuova.milano.corriere.it/files/2015/01/Maria-Bihari-500x346.jpg ]
Scattata nel 1941, ritrae Maria Bihari, una «zigeunerin» (zingara) di cinque anni. Conosciamo il volto di Maria – Miezi il nome con cui la chiamavano in famiglia – grazie ai cataloghi del Centro di Ricerca di Igiene Razziale del Ministero della salute nazista. Non sappiamo come sia morta, se gasata e cremata, o vittima degli esperimenti eugenetici.
Anche di Rita Prigmore, una sinti tedesca di Würzburg, non conoscevamo la storia.. La sua vita cambiò improvvisamente una sera qualsiasi mentre guidava in una stradina dello Stato di Washington. Un forte mal di testa, l’improvvisa perdita dei sensi, giusto il tempo di accendere le luci di emergenza e poi lo scontro con un palo della luce. All’ospedale i medici scrutarono le lastre, non capivano il motivo di quelle strane cicatrici sulle tempie. Rita chiamò sua madre in Germania e in un paio di giorni l’anziana donna arrivò al suo fianco e le raccontò della sua dolorosa infanzia nelle mani dei medici nazisti.
«Vivevamo in Germania da 600 anni – racconta – ed eravamo ben inseriti nella società». I nonni costruivano cesti per i viticoltori, il padre suonava il violino in una banda musicale molto affermata, la madre Theresia di giorno lavorava in una fabbrica di dolci mentre la sera era cantante e ballerina in uno dei teatri più prestigiosi della città. Racconta:«Mio zio Kurt, il fratello maggiore di mia madre, era militare e faceva parte della squadra di motociclisti a cui spesso era chiesto di scortare il Führer. Per le sue qualità di soldato avevano deciso di promuoverlo, fu proprio nel corso delle ricerche sulla sua storia familiare che scoprirono che i genitori erano zingari: fu subito richiamato a Würzburg e venne sterilizzato. Aveva appena 25 anni».
Poco dopo, per evitare la deportazione nei lager, anche Theresia accettò la sterilizzazione:
«All’ospedale universitario – racconta Rita – si resero conto che aspettava due gemelli, me e mia sorella». Per evitare l’aborto, la costrinsero a firmare che avrebbero messo a disposizione i suoi bambini ai mdici del Reich. «Mia sorella Rolanda ed io siamo nate il 3 marzo 1943 e ci presero immediatamente».
Erano momenti terribili per i rom e sinti nei territori controllati dai nazisti: con un telespresso del 9 aprile 1942, l’Ambasciata italiana a Berlino informava Roma che «con recente provvedimento, gli zingari residenti nel Reich sono stati parificati agli ebrei e quindi anche nei loro confronti varranno le leggi antisemite attualmente in vigore». A Würzburg operava l’équipe del dottor Heyde, seguace di Mengele, specializzato negli esperimenti sui gemelli e in seguito capo del programma di eutanasia di Stato.
Alle neonate volevano cambiare il colore degli occhi e farli diventare azzurri. Dopo vari giorni, la madre riuscì a convincere un’infermiera che le mostrò Rita con un grosso cerotto sulla testa.
«Quando insistette per vedere anche mia sorella – racconta – la portò in bagno e le indicò Rolanda, con la testa fasciata. Era morta, le avevano fatto delle iniezioni di inchiostro negli occhi».
Grazie alla complicità di quell’infermiera, riuscì a scappare con la piccola sopravvissuta: «Si nascose nella cappella di Santa Rita, dove fui battezzata. Due giorni dopo, a casa ci attendeva la Gestapo. Per oltre un anno, mia madre non seppe più niente di me, finché ricevette una lettera della Croce Rossa in cui si diceva che poteva venirmi a prendere».
Dopo la guerra, la famiglia tornò a vivere nelle baracche insieme ad altri tedeschi che non erano sinti o rom, semplicemente avevano perso la casa con la guerra. L’ostilità verso il suo popolo non era finita; Rita lo racconta parlando di Erica: «Aveva la mia stessa età, andavamo insieme a scuola. Un giorno vennero a trovarci dei parenti dalla Francia: la sera ci sedemmo attorno al fuoco a prendere il caffè. Parlammo nella nostra lingua, il romanes. Il giorno dopo mi sono accorta che la mia migliore amica non parlava più con me; le chiesi perché e mi disse: “I vostri ospiti erano zingari, abbiamo sentito la vostra lingua e i miei genitori mi hanno detto che non devo aver più niente a che fare con voi”».
Cresciuta, Rita si sposò e andò a vivere negli Stati Uniti. Anni dopo, da quell’incidente ha riscoperto la storia della sua famiglia e con la Comunità di Sant’Egidio ha iniziato a girare l’Europa per testimoniare il genocidio dei rom e sinti (chiamato Porrajmos o Samudaripen). Lo sguardo della donna, che ha conservato gli occhi color verde smeraldo, è sul presente: «Sono sconvolta quando noi rom e sinti veniamo insultati con le stesse parole di allora, capita di sentirsi dire: “Nel Terzo Reich hanno dimenticato di gasarvi”».Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria, il giorno della liberazione di Auschwitz. Nel lager nazista, c’era lo Zigeunerlager, la sezione per famiglie zingare composta da 32 baracche circondate da filo elettrico. Dobbiamo soprattutto ad alcuni testimoni ebrei, come Piero Terracina, il racconto della sua liquidazione totale, avvenuta la notte del 2 agosto 1944, quando i violini non suonarono più e, dopo grida disperate, le camere a gas zittirono quella zona del campo. Quante furono le vittime? Le stime variano, di solito si afferma siano almeno 500mila. Probabilmente è una sottostima, ma risulta impossibile conteggiare individui non segnalati all’anagrafe e spesso uccisi per strada o nelle esecuzioni sommarie all’Est. Ma la difficoltà a stabilire il numero delle vittime testimonia anche l’oblio e il disinteresse: subito dopo la guerra, su questo genocidio calò il silenzio.