Alba Mediterranea contro Troika e Euro
1) Un'Alba Mediterranea contro troika ed euro. Il M5S rompe gli indugi (13/3/2015)
2) Dino Greco: EU-rabbia (21/2/2015)
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Un'Alba Mediterranea contro troika ed euro. Il M5S rompe gli indugi
di Luca Fiore e Alessandro Avvisato
Venerdì, 13 Marzo 2015
Una platea composita e affollata ha seguito oggi con estrema attenzione l’iniziativa organizzata dal Movimento 5 Stelle presso l’Auditorium Sandro Pertini della Camera dei Deputati. L'incontro ha visto la partecipazione di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle come Di Stefano e Di Battista, del giornalista Gianni Minà, di alcuni intellettuali militanti – come Luciano Vasapollo e Joaquin Arriola - e di numerose rappresentanze delle ambasciate paesi dell’Alba.
Una iniziativa che a partire dal processo di rottura avvenuto in America Latina nei decenni scorsi rispetto all’asfissiante dominazione economica statunitense e alla dollarizzazione delle economie, propone un processo di rottura all’interno dell’Unione Europea che liberi i Pigs – i paesi “maiali” oggetto di quasi un decennio di politiche di austerity – dall’ormai intollerabile gabbia rappresentata da una moneta – l’Euro – e da alcune istituzioni – la Bce, la Troika – che i partecipanti all’iniziativa hanno esplicitamente contestato.
Introducendo i lavori, il parlamentare del M5S Manlio Di Stefano ha sottolineato "L'insostenibilità del sistema-euro per i paesi europei con condizioni diverse tra loro e gli effetti della globalizzazione". A questo punto si può fare altro? A questa domanda Di Stefano ha risposto citando l'esempio dei paesi dell'Alba Latino americana. "Quindi i cittadini italiani possono discutere anche di altre ipotesi possibili". Importante il passaggio nel quale ha affermato che il M5S vuole tradurre tutto questo in atti legislativi.
Ad aprire il dibattito è stato Gianni Minà, che ha attaccato e messo alla gogna una politica e una informazione continentali che a lungo ci hanno presentato le rivoluzioni latinoamericane dal punto di vista degli interessi politici ed economici dominanti, descrivendo i leader e i processi di liberazione in quel continente come folkloristici nel migliore dei casi o più spesso populisti o addirittura dittatoriali. “Sono qui per imparare” ha detto Minà, riferendosi alla proposta della creazione nell’area del Mediterraneo di una alleanza di paesi che si sganci della dominazione del capitale franco-tedesco ripetendo un processo già compiuto in America Latina ai tempi della rottura con l’Alca che gli Stati Uniti volevano imporre al tradizionale ‘cortile di casa’. Minà ha efficacemente ricordato che se nel Mediterraneo è la troika europea – Bce, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale - a dettare legge e a imporre l’interesse del più forte, prima della coraggiosa ed efficace formazione dell’Alba in America Latina era un’altra troika – costituita da Washington, dalla Banca Mondiale e dal FMI – a devastare le economie di quei paesi.
Dopo Minà è toccato a Luciano Vasapollo, docente di Economia all’Università La Sapienza ed esponente del Centro Studi Trasformazioni Economiche e Sociali. Vasapollo ha rivendicato l’inizio, ormai cinque anni fa, di un dibattito scientifico e politico su un'area euromediterranea alternativa all'Unione Europea e all'Eurozona, agganciato alle dinamiche del sindacalismo di base e dei movimenti sociali. Nel libro "Il risveglio dei maiali", scritto con Joaquin Arriola e Rita Martufi (tradotto e pubblicato ormai in diverse lingue) e insieme a pochi altri intellettuali militanti a livello europeo, hanno cominciato a proporre la rottura dell’Unione Europea e la formazione di ‘un’Alba euromediterranea’ come via d’uscita radicale ma credibile ad una crisi del modo di produzione capitalistico che ha assunto un carattere sistemico. Una proposta che considera necessaria una fuoriuscita dall’euro non di un singolo paese, la cui economia sarebbe immediatamente danneggiata dagli attacchi speculativi, e non per tornare alla vecchia moneta nazionale, il che avrebbe effetti disastrosi. Ciò che si propone è un’alleanza di paesi – quelli della sponda sud del Mediterraneo, i più indeboliti dall’euro e dalle politiche rigoriste imposte dalla Germania orientate a costruire una periferia interna all’Ue che fornisca al centro manodopera a basso costo e assorba i prodotti esportati da Berlino – che rompa con la moneta unita europea e con il meccanismo di dominazione economico-politica dell’Unione Europea per costruire un altro aggregato di paesi, con una propria moneta comune e un sistema basato sulla complementarietà e l’equilibrio. Occorre, ha spiegato Vasapollo, che le banche vengano nazionalizzate così come altri settori chiave dell’economia come le telecomunicazioni, l'energia o i trasporti, in maniera da ridare al settore pubblico e allo stato la capacità di intervenire in campo economico per contrastare gli effetti della crisi e gli interessi dei poteri forti.
Sullo stesso tema è intervenuto Joaquin Arriola, docente di economia dell’Università del Pais Vasco e coautore del saggio sui Pigs e l'Alba euromediterrranea, il quale ha ricordato che le storture economico-sociali provocate dall’introduzione dell’euro erano già note prima ancora che la moneta unica entrasse in vigore. Arriola ha citato un episodio risalente al 1996, quando il premio Nobel Modigliani nel corso di una conferenza pubblica a Bilbao lanciò un veemente allarme sulle conseguenze nefaste provocate dall’introduzione di quella che chiamò “la moneta tedesca”, cioè l’euro. In molti, anche a sinistra, pensarono che la moneta unica avrebbe accelerato un processo di creazione e rafforzamento di una Europa federale, democratica e solidale che in realtà non è mai nata, lasciando il posto a una matrigna aggressiva e autoritaria nei confronti di alcuni dei popoli che la conformano. Oggi l’Ue è un “organismo costruito sulla base degli interessi delle classi e dei paesi dominanti e dell’egoismo dei potenti” ha accusato Arriola, secondo il quale la moneta unica è stata utilizzata da Francia e Germania per rafforzare le proprie economie e il proprio potere. In particolare la Germania ha utilizzato il processo di unificazione europeo e l’introduzione della moneta unica per assorbire e socializzare i costi dell’assimilazione della Germania e della sua espansione nell’Europa orientale dopo la caduta del blocco socialista. Da anni Berlino utilizza una sfacciata politica di dumping per favorire i propri prodotti e le proprie esportazioni desertificando così le economie dei paesi della sponda meridionale del Mediterraneo finalizzate alla mera importazione di merci e di macchinari tedeschi. D’altronde la Germania è l’unico paese tra i più importanti dell’Ue che in questi anni non ha visto diminuire il suo tessuto industriale. In riferimento al duro braccio di ferro in corso tra la troika e Atene, Arriola ha affermato che Syriza sbaglia a pensare che sia possibile contrastare l’austerità e ridurre gli effetti delle politiche imposte dalla troika senza mettere in discussione la propria permanenza all’interno dell’Eurozona e senza bloccare del tutto processi di privatizzazione stoppati solo in parte dal nuovo esecutivo.
A chiudere la sessione della mattinata ci ha pensato Alessandro Di Battista, Vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera per il Movimento Cinque Stelle, che ci ha tenuto a rivendicare il carattere ‘postideologico’ dell’identità del suo movimento, sottolineando però la possibilità di portare avanti una battaglia comune su una proposta in grado di costruire nel nostro paese e nel resto dell’Europa un’alternativa alla sottomissione alla troika e all’austerity. Anche Di Battista, tra gli applausi in sala, ha esordito affermando che la pur importante vittoria di Syriza in Grecia potrebbe risolversi in un nulla di fatto se il nuovo governo non prenderà atto dell’impossibilità di rispettare il suo programma elettorale all’interno dei vincoli posti dall’Eurozona. “Stampa e politica affermano – ha ricordato Di Battista – che se i nostri paesi abbandonassero la moneta unica le nostre economie crollerebbero: la disoccupazione aumenterebbe, le esportazioni collasserebbero, il debito schizzerebbe in alto... Esattamente ciò che sta succedendo da anni nei Pigs integrati nella zona Euro”.
Secondo Di Battista, che ha attaccato il Jobs Act e il Ttip che danno mano libera alle imprese a danno dei lavoratori, l’Europa del Sud deve ‘fare cartello’ come hanno fatto a suo tempo i paesi dell’America Latina e costruire una nuova aggregazione di paesi che funzioni con parametri economici e politici completamente diversi da quelli imposti finora dall’Ue. “Dov’è Sel, dove sono le minoranze del Pd, quelle dove c’è un Fassina che prima ha fatto il consulente dell’Fmi e ora dice di essere contro la troika e a favore del governo greco?” ha chiesto Di Battista, il quale ha difeso la proposta di un reddito di cittadinanza criticando chi definisce la misura populista negando che possa esistere una copertura economica per garantirla. “Come mai quando bisogna comprare gli F35 la copertura finanziaria si trova sempre e invece quando proponiamo di dare un reddito ai precari e ai disoccupati ci accusano di essere degli assistenzialisti?”. Applausi per Di Battista anche quando ha affermato che serve «una banca pubblica nazionalizzata che emetta e stampi moneta. E' un modo per dare a un popolo, a un governo, un potere: una politica monetaria, fiscale, valutaria. Sono degli strumenti per uscire dalla crisi, giocarci, tutti lo fanno, ma oggi non abbiamo questo potere».
Nella seconda sessione del convegno hanno preso la parola le ambasciate dei paesi latinoamericani che hanno dato vita all'Alba.
Insomma, con il convegno di oggi si è aperto uno spazio politico importante e che può diventare il percorso concreto di una battaglia da giocare a tutti i livelli - dalle piazze al parlamento, dai posti di lavoro ai territori - intorno ad una ipotesi di rottura della gabbia dell'Unione Europea e dell'Eurozona e alla costruzione di una area alternativa euromediterranea. L'assunzione di responsabilità su questo del M5S non è un particolare secondario. Vogliamo dirla riproponendo un illuminante osservazione di Perry Anderson: "I movimenti di destra non hanno difficoltà a rivendicare apertamente l’uscita dall’Euro come dal giogo monetario dell’austerità che il neoliberismo ora esige. Anche i movimenti di sinistra denunciano gli effetti della moneta unica, ma sull’Euro solitamente temporeggiano, suggerendo nel migliore dei casi varie macchinazioni per alleviarne i rigori. Queste tendono tuttavia a soffrire di due svantaggi politici: sono tecnicamente troppo complicate per essere intellegibili ai più e non hanno praticamente alcuna chance di accettazione da parte di Bruxelles o Francoforte. In confronto, le risolute chiamate a disfarsi dell’Euro sono non solo prontamente comprensibili da tutti, ma, realisticamente parlando, più plausibili come scenario possibile. Dunque la sinistra è svantaggiata anche qui". Se la sinistra in Italia e in Europa non vuole rimanere eternamente svantaggiata, è tempo che acquisisca il necessario coraggio politico per diventare essa - e non la destra - il punto di riferimento popolare e generazionale della rottura con la gabbia dell'Unione Europea.
Una iniziativa che a partire dal processo di rottura avvenuto in America Latina nei decenni scorsi rispetto all’asfissiante dominazione economica statunitense e alla dollarizzazione delle economie, propone un processo di rottura all’interno dell’Unione Europea che liberi i Pigs – i paesi “maiali” oggetto di quasi un decennio di politiche di austerity – dall’ormai intollerabile gabbia rappresentata da una moneta – l’Euro – e da alcune istituzioni – la Bce, la Troika – che i partecipanti all’iniziativa hanno esplicitamente contestato.
Introducendo i lavori, il parlamentare del M5S Manlio Di Stefano ha sottolineato "L'insostenibilità del sistema-euro per i paesi europei con condizioni diverse tra loro e gli effetti della globalizzazione". A questo punto si può fare altro? A questa domanda Di Stefano ha risposto citando l'esempio dei paesi dell'Alba Latino americana. "Quindi i cittadini italiani possono discutere anche di altre ipotesi possibili". Importante il passaggio nel quale ha affermato che il M5S vuole tradurre tutto questo in atti legislativi.
Ad aprire il dibattito è stato Gianni Minà, che ha attaccato e messo alla gogna una politica e una informazione continentali che a lungo ci hanno presentato le rivoluzioni latinoamericane dal punto di vista degli interessi politici ed economici dominanti, descrivendo i leader e i processi di liberazione in quel continente come folkloristici nel migliore dei casi o più spesso populisti o addirittura dittatoriali. “Sono qui per imparare” ha detto Minà, riferendosi alla proposta della creazione nell’area del Mediterraneo di una alleanza di paesi che si sganci della dominazione del capitale franco-tedesco ripetendo un processo già compiuto in America Latina ai tempi della rottura con l’Alca che gli Stati Uniti volevano imporre al tradizionale ‘cortile di casa’. Minà ha efficacemente ricordato che se nel Mediterraneo è la troika europea – Bce, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale - a dettare legge e a imporre l’interesse del più forte, prima della coraggiosa ed efficace formazione dell’Alba in America Latina era un’altra troika – costituita da Washington, dalla Banca Mondiale e dal FMI – a devastare le economie di quei paesi.
Dopo Minà è toccato a Luciano Vasapollo, docente di Economia all’Università La Sapienza ed esponente del Centro Studi Trasformazioni Economiche e Sociali. Vasapollo ha rivendicato l’inizio, ormai cinque anni fa, di un dibattito scientifico e politico su un'area euromediterranea alternativa all'Unione Europea e all'Eurozona, agganciato alle dinamiche del sindacalismo di base e dei movimenti sociali. Nel libro "Il risveglio dei maiali", scritto con Joaquin Arriola e Rita Martufi (tradotto e pubblicato ormai in diverse lingue) e insieme a pochi altri intellettuali militanti a livello europeo, hanno cominciato a proporre la rottura dell’Unione Europea e la formazione di ‘un’Alba euromediterranea’ come via d’uscita radicale ma credibile ad una crisi del modo di produzione capitalistico che ha assunto un carattere sistemico. Una proposta che considera necessaria una fuoriuscita dall’euro non di un singolo paese, la cui economia sarebbe immediatamente danneggiata dagli attacchi speculativi, e non per tornare alla vecchia moneta nazionale, il che avrebbe effetti disastrosi. Ciò che si propone è un’alleanza di paesi – quelli della sponda sud del Mediterraneo, i più indeboliti dall’euro e dalle politiche rigoriste imposte dalla Germania orientate a costruire una periferia interna all’Ue che fornisca al centro manodopera a basso costo e assorba i prodotti esportati da Berlino – che rompa con la moneta unita europea e con il meccanismo di dominazione economico-politica dell’Unione Europea per costruire un altro aggregato di paesi, con una propria moneta comune e un sistema basato sulla complementarietà e l’equilibrio. Occorre, ha spiegato Vasapollo, che le banche vengano nazionalizzate così come altri settori chiave dell’economia come le telecomunicazioni, l'energia o i trasporti, in maniera da ridare al settore pubblico e allo stato la capacità di intervenire in campo economico per contrastare gli effetti della crisi e gli interessi dei poteri forti.
Sullo stesso tema è intervenuto Joaquin Arriola, docente di economia dell’Università del Pais Vasco e coautore del saggio sui Pigs e l'Alba euromediterrranea, il quale ha ricordato che le storture economico-sociali provocate dall’introduzione dell’euro erano già note prima ancora che la moneta unica entrasse in vigore. Arriola ha citato un episodio risalente al 1996, quando il premio Nobel Modigliani nel corso di una conferenza pubblica a Bilbao lanciò un veemente allarme sulle conseguenze nefaste provocate dall’introduzione di quella che chiamò “la moneta tedesca”, cioè l’euro. In molti, anche a sinistra, pensarono che la moneta unica avrebbe accelerato un processo di creazione e rafforzamento di una Europa federale, democratica e solidale che in realtà non è mai nata, lasciando il posto a una matrigna aggressiva e autoritaria nei confronti di alcuni dei popoli che la conformano. Oggi l’Ue è un “organismo costruito sulla base degli interessi delle classi e dei paesi dominanti e dell’egoismo dei potenti” ha accusato Arriola, secondo il quale la moneta unica è stata utilizzata da Francia e Germania per rafforzare le proprie economie e il proprio potere. In particolare la Germania ha utilizzato il processo di unificazione europeo e l’introduzione della moneta unica per assorbire e socializzare i costi dell’assimilazione della Germania e della sua espansione nell’Europa orientale dopo la caduta del blocco socialista. Da anni Berlino utilizza una sfacciata politica di dumping per favorire i propri prodotti e le proprie esportazioni desertificando così le economie dei paesi della sponda meridionale del Mediterraneo finalizzate alla mera importazione di merci e di macchinari tedeschi. D’altronde la Germania è l’unico paese tra i più importanti dell’Ue che in questi anni non ha visto diminuire il suo tessuto industriale. In riferimento al duro braccio di ferro in corso tra la troika e Atene, Arriola ha affermato che Syriza sbaglia a pensare che sia possibile contrastare l’austerità e ridurre gli effetti delle politiche imposte dalla troika senza mettere in discussione la propria permanenza all’interno dell’Eurozona e senza bloccare del tutto processi di privatizzazione stoppati solo in parte dal nuovo esecutivo.
A chiudere la sessione della mattinata ci ha pensato Alessandro Di Battista, Vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera per il Movimento Cinque Stelle, che ci ha tenuto a rivendicare il carattere ‘postideologico’ dell’identità del suo movimento, sottolineando però la possibilità di portare avanti una battaglia comune su una proposta in grado di costruire nel nostro paese e nel resto dell’Europa un’alternativa alla sottomissione alla troika e all’austerity. Anche Di Battista, tra gli applausi in sala, ha esordito affermando che la pur importante vittoria di Syriza in Grecia potrebbe risolversi in un nulla di fatto se il nuovo governo non prenderà atto dell’impossibilità di rispettare il suo programma elettorale all’interno dei vincoli posti dall’Eurozona. “Stampa e politica affermano – ha ricordato Di Battista – che se i nostri paesi abbandonassero la moneta unica le nostre economie crollerebbero: la disoccupazione aumenterebbe, le esportazioni collasserebbero, il debito schizzerebbe in alto... Esattamente ciò che sta succedendo da anni nei Pigs integrati nella zona Euro”.
Secondo Di Battista, che ha attaccato il Jobs Act e il Ttip che danno mano libera alle imprese a danno dei lavoratori, l’Europa del Sud deve ‘fare cartello’ come hanno fatto a suo tempo i paesi dell’America Latina e costruire una nuova aggregazione di paesi che funzioni con parametri economici e politici completamente diversi da quelli imposti finora dall’Ue. “Dov’è Sel, dove sono le minoranze del Pd, quelle dove c’è un Fassina che prima ha fatto il consulente dell’Fmi e ora dice di essere contro la troika e a favore del governo greco?” ha chiesto Di Battista, il quale ha difeso la proposta di un reddito di cittadinanza criticando chi definisce la misura populista negando che possa esistere una copertura economica per garantirla. “Come mai quando bisogna comprare gli F35 la copertura finanziaria si trova sempre e invece quando proponiamo di dare un reddito ai precari e ai disoccupati ci accusano di essere degli assistenzialisti?”. Applausi per Di Battista anche quando ha affermato che serve «una banca pubblica nazionalizzata che emetta e stampi moneta. E' un modo per dare a un popolo, a un governo, un potere: una politica monetaria, fiscale, valutaria. Sono degli strumenti per uscire dalla crisi, giocarci, tutti lo fanno, ma oggi non abbiamo questo potere».
Nella seconda sessione del convegno hanno preso la parola le ambasciate dei paesi latinoamericani che hanno dato vita all'Alba.
Insomma, con il convegno di oggi si è aperto uno spazio politico importante e che può diventare il percorso concreto di una battaglia da giocare a tutti i livelli - dalle piazze al parlamento, dai posti di lavoro ai territori - intorno ad una ipotesi di rottura della gabbia dell'Unione Europea e dell'Eurozona e alla costruzione di una area alternativa euromediterranea. L'assunzione di responsabilità su questo del M5S non è un particolare secondario. Vogliamo dirla riproponendo un illuminante osservazione di Perry Anderson: "I movimenti di destra non hanno difficoltà a rivendicare apertamente l’uscita dall’Euro come dal giogo monetario dell’austerità che il neoliberismo ora esige. Anche i movimenti di sinistra denunciano gli effetti della moneta unica, ma sull’Euro solitamente temporeggiano, suggerendo nel migliore dei casi varie macchinazioni per alleviarne i rigori. Queste tendono tuttavia a soffrire di due svantaggi politici: sono tecnicamente troppo complicate per essere intellegibili ai più e non hanno praticamente alcuna chance di accettazione da parte di Bruxelles o Francoforte. In confronto, le risolute chiamate a disfarsi dell’Euro sono non solo prontamente comprensibili da tutti, ma, realisticamente parlando, più plausibili come scenario possibile. Dunque la sinistra è svantaggiata anche qui". Se la sinistra in Italia e in Europa non vuole rimanere eternamente svantaggiata, è tempo che acquisisca il necessario coraggio politico per diventare essa - e non la destra - il punto di riferimento popolare e generazionale della rottura con la gabbia dell'Unione Europea.
http://www.lacittafutura.it/giornale/eurabbia.html
EDITORIALE
EU-rabbia
di Dino Greco
La Lega cerca – con preoccupante successo - di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista. Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo stesso straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche oscurandone l’imprinting radicalmente anti-liberista. Anche il M5S cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e confuso, esibendo come distintivo identitario la pura e semplice propagandistica uscita dall’euro (il referendum).
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggia, o per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali. Tutto il contrario. Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
E noi?
Noi comunisti nel congresso abbiamo detto: “disobbediamo ai trattati!”, facciamo leva sulle contraddizioni del monetarismo Ue a trazione tedesca, sottraiamoci al ricatto del moderno “Mago di Oz”, di un’Unione europea che gioca con carte truccate. Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza? Come si declina questa linea, al centro ed in periferia, vale a dire nelle regioni, nei comuni, nelle politiche di bilancio e fiscali?
Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto, col risultato che la nostra proposta rimane chiusa in quella parola, non si traduce in una politica e in una mobilitazione. Dunque “non morde”, “non si vede”, “non seduce”. E rimane in una “terra di mezzo”, priva di realtà, vaso di coccio fra vasi di ferro. L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica rivolta al liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione europea che non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico perché rimasta a metà del guado e perché diventata, via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe di costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace di mutarne l’indirizzo di fondo. Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa. La complessa impalcatura monetarista si configura cioè come la specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a egemonia tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione, dentro un quadro politico-sociale in rapida mutazione reazionaria, per riplasmare l’economia nella conservazione di rapporti capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento. Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
-il modello di accumulazione: attraverso la costruzione di un paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo; i rapporti di proprietà: attraverso la spoliazione della proprietà pubblica, la privatizzazione integrale, la messa a profitto di tutto ciò che può assumere i caratteri della merce, la reductio ad unum delle 4 forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale, privata, comunitaria, cooperativa);
-la superstruttura politica e giuridica: attraverso la sterilizzazione del parlamento e l’annichilimento della democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi; lo stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale;
-la superstruttura culturale e ideologica: sostenuta da un imponente apparato mediatico, che ha sradicato nella coscienza di larghe masse ogni anelito solidaristico per sostituirvi la concezione individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale classica.
L’Europa odierna è dunque tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale. Non è vero che lo spazio statuale più grande, quello europeo, sia il modo migliore per sviluppare la controffensiva di classe al livello del capitale; esso lo è solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale. L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa, considerato che siamo alla vigilia della sottoscrizione del devastante trattato di libero scambio transatlantico che consegnerà alle multinazionali, ai più rapaci players economici internazionali il potere – con tanto di legittimazione giuridica e tribunali al seguito – di subordinare all’attesa di profitto ogni aspetto delle legislazioni nazionali, mettendo la mordacchia ad intere Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo. La costruzione forzosa di un’unica area valutaria aumenta la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora” le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea. L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori. Il comportamento del creditore nord-europeo è solo apparentemente illogico. Perché incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord, considerato che il 70% delle esportazioni di quei paesi avvengono nell’area europea? Per due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, in buona parte terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. La logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di manodopera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe. L’Europa è oggi un meccanismo non democratizzabile perché distrugge deliberatamente, con metodo, il solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro. Non è forse superfluo ricordare la lettera a firma congiunta con cui alla fine del 2011 Draghi e Trichet intimavano all’Italia di mettere mano a pensioni, salari, diritti del lavoro e privatizzazioni e come Napolitano abbia investito poi Mario Monti del ruolo di esecutore testamentario di queste direttive; o il documento con cui J.P. Morgan, nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso concetto, con un “taglio”, per così dire, più sistemico, in cui ad essere messe all’indice erano le costituzioni antifasciste troppo venate di socialismo; o – per tornare a casa nostra – la determinazione con cui il compito demolitore del giuslavorismo moderno è stato mirabilmente interpretato da Matteo Renzi.
Uno sguardo alla situazione della Grecia
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le ricette della troika saranno ricordate come uno dei più colossali inganni nella storia della politica europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione. Rispetto al 2010 la pressione fiscale è aumentata di 8 punti percentuali rispetto al Pil e la spesa pubblica è diminuita di quasi 4 punti, corrispondenti ad un crollo di 30 mld;i salari monetari sono caduti di 12 punti percentuali e il loro potere d’acquisto è precipitato in media di 14 punti, con picchi negativi di oltre 30 punti in alcuni comparti. La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia. Ma le sue previsioni sull’andamento del Pil greco sono state totalmente smentite: per il 2011 la Commissione previde un Pil stazionario, che in realtà crollò di 7 punti; per il 2012 annunciò addirittura una crescita di un punto, e fu sconfessata da una caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013 la previsione fu di crescita zero, e invece il Pil greco precipitò di altri 4 punti. Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene. La verità, che ormai riconoscono a denti stretti persino al Fmi, è che le ricette della Troika rappresentano la causa principale del crollo della domanda e della conseguente distruzione di produzione e occupazione avvenuta in Grecia: negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti di lavoro in meno. Né si può dire che tali ricette abbiano stabilizzato i bilanci: il crollo della produzione ha implicato un'esplosione del rapporto fra debito pubblico e Pil, aumentato in 5 anni di 30 punti percentuali.
“Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio - stanno ottenendo quello che volevano: perché dovrebbero mutare la loro posizione a seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite offriranno un’austerità appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che – se accettato – condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto ai minimi termini il Pasok di Papandreu.”
Il rigetto di una parte del debito accumulato sarebbe una soluzione logicamente razionale. Un problema, tuttavia, esiste: la disapplicazione unilaterale del Memorandum, il ripudio anche solo di una parte del debito indurrebbe la Bce a bloccare le erogazioni e determinerebbe una nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo governo di sinistra sarebbero costretti ad abbandonare l’euro per tornare a stampare moneta nazionale. Ora, il Quantitative easing (Qe) varato dalla Bce è stato rappresentato come il tentativo di correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca tedesca. La Banca centrale si è sì decisa – sia pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato che gli acquisti di titoli di Stato non avverranno - a differenza di quanto avvenuto negli Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato primario, direttamente dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del Tesoro dei singoli stati. Gli acquisti saranno fatti sul mercato secondario, cioè dalle grandi banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro [1] - dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole imprese, ma rimase nelle banche”.
“Ad avvantaggiarsene – continua Moro - furono le banche stesse che guadagnarono sul differenziale tra i finanziamenti a tasso zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Il risultato fu che i bilanci delle banche, gravati dalle perdite della crisi del 2007-2008, migliorarono notevolmente, grazie alla crescita degli utili. Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di fatto, l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta la svolta? Dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a livello europeo? Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più, con sollievo della Germania.
In terzo luogo, gli acquisti verranno effettuati non selettivamente, in base alle difficoltà dei singoli stati nel finanziare il proprio debito, ma in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Dunque, la Germania, che paga già interessi reali negativi sul suo debito, verrà “beneficiata” da questa operazione in proporzione come la Grecia che paga alti tassi d’interesse”.
“Dunque – conclude Moro - l’obiettivo di Draghi non è quello di rilanciare il Pil, cioè la produzione, e l’occupazione, ma di tenere alti i profitti delle banche e delle grandi imprese soprattutto multinazionali. Il Qe ha come obiettivo il contrasto alla deflazione, perché questa riduce i profitti o ne inibisce l’aumento, in quanto il calo dei prezzi erode i margini operativi delle imprese. Una inflazione troppo forte beneficia i debitori rispetto ai creditori e questo è eresia in un ambiente capitalistico, soprattutto per le banche. Ma l’inflazione troppo bassa o peggio la deflazione erodono i profitti. Inoltre, il Qe ha già cominciato a svalutare l’euro rispetto al dollaro e altre valute, facilitando le esportazioni che sono pressoché di esclusiva pertinenza delle imprese di grandi dimensioni e multinazionali”.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi, che le misure adottate non fanno che confermare il carattere organico della crisi capitalistica e, ancora, che la diga eretta per scongiurarne il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è arduo prevedere che i suoi effetti si riveleranno del tutto modesti.
Allora, tornando al tema iniziale, attenzione a spiegare che se si mette in discussione l’euro significa essere anti-europei; attenzione a dire che la rivendicazione della sovranità popolare (che, non dimentichiamolo, è scritta nell’articolo 1 della Costituzione) significa, “necessariamente”, portare acqua ai nazionalismi xenofobi e fascistoidi; attenzione a dire che chi vuole fare saltare questo ingranaggio infernale non fa che “lavorare per il re di Prussia”, altrimenti si corre il rischio che qualcuno il re di Prussia lo invochi davvero e magari che lo scontro si concluda non con una restaurazione della democrazia ma proprio con l’avvento dei populismi reazionari. Del resto, non ci sono evidenze empiriche – come ci spiegano Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini – che l’uscita dall’euro provocherebbe una svalutazione delle proporzioni che si paventano e, soprattutto, che lo scenario sarebbe in quel caso peggiore della drammatica deriva in corso. Lo dico perché il “diavolo” capitalista fa le pentole, ma non sempre riesce a trovare i coperchi e fra non molto, potremmo trovarci di fronte alla caduta dell’euro per…autocombustione…, cioè per autonoma decisione del potere finanziario, una volta condotti a termine lo sventramento del welfare, il processo di privatizzazione integrale, la riduzione a simulacro della democrazia rappresentativa, l’annichilimento del potere di contrasto del soggetto lavoro.
Il punto, allora, è cosa fare per impedire che si intraprenda questa strada, proprio per l’incapacità delle classi dominanti di perseguire una rotta diversa. Allora tocca a noi dire in modo chiaro che all’uscita dall’euro dovrà corrispondere una nuova politica economica e sociale:
- proteggendo i salari attraverso un rilancio delle lotte e del ruolo contrattuale dei sindacati;
- reintegrando i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso;
- rilanciando l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
- ricostruendo un regime previdenziale che così com’è precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;
- riducendo su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;
- varando nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedendo una tassa strutturale sui grandi patrimoni;
- ponendo un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;
- nazionalizzando le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;
- ridefinendo le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.
Si tratta insomma di costruire le premesse per un’uscita da sinistra dalla crisi e riscattare l’Europa dal giogo della finanza e dei proprietari universali che stanno succhiando il sangue dei popoli. Certo, per fare queste cose occorrono altri rapporti di forza, e si può a buon titolo obiettare che siamo lontani dalla capacità di mettere in campo una forza d’urto quale sarebbe necessaria, ma con questa piattaforma potremo rivolgerci sul serio ai proletari di questo paese e alle forze intellettuali non compromesse con la vulgata corrente, usando argomenti, parole, programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole utilizzare. Proposte che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa. Del resto, una posizione attendista produrrebbe tre effetti massimamente negativi:
-consegnerebbe la protesta contro l’austerity alla demagogia parafascista di Matteo Salvini, consentendo alla destra più reazionaria di riscuotere la rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la dialettica politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in versione lepenista e il partito democratico organico al liberismo europeo;
-genererebbe, di fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle condizioni, perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate contromisure – rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli strati più deboli della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni devastanti;
-contribuirebbe all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di schiudere le porte di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata fra le ganasce della tenaglia dei poteri forti europei.
[1] http://www.controlacrisi.org/notizia/Economia/2015/1/26/43685-quante-troppe-mistificazioni-sul-qe-di-draghi-intervento-di/
EDITORIALE
EU-rabbia
di Dino Greco
21 Febbraio 2015
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggia, o per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali. Tutto il contrario. Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
E noi?
Noi comunisti nel congresso abbiamo detto: “disobbediamo ai trattati!”, facciamo leva sulle contraddizioni del monetarismo Ue a trazione tedesca, sottraiamoci al ricatto del moderno “Mago di Oz”, di un’Unione europea che gioca con carte truccate. Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza? Come si declina questa linea, al centro ed in periferia, vale a dire nelle regioni, nei comuni, nelle politiche di bilancio e fiscali?
Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto, col risultato che la nostra proposta rimane chiusa in quella parola, non si traduce in una politica e in una mobilitazione. Dunque “non morde”, “non si vede”, “non seduce”. E rimane in una “terra di mezzo”, priva di realtà, vaso di coccio fra vasi di ferro. L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica rivolta al liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione europea che non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico perché rimasta a metà del guado e perché diventata, via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe di costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace di mutarne l’indirizzo di fondo. Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa. La complessa impalcatura monetarista si configura cioè come la specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a egemonia tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione, dentro un quadro politico-sociale in rapida mutazione reazionaria, per riplasmare l’economia nella conservazione di rapporti capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento. Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
-il modello di accumulazione: attraverso la costruzione di un paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo; i rapporti di proprietà: attraverso la spoliazione della proprietà pubblica, la privatizzazione integrale, la messa a profitto di tutto ciò che può assumere i caratteri della merce, la reductio ad unum delle 4 forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale, privata, comunitaria, cooperativa);
-la superstruttura politica e giuridica: attraverso la sterilizzazione del parlamento e l’annichilimento della democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi; lo stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale;
-la superstruttura culturale e ideologica: sostenuta da un imponente apparato mediatico, che ha sradicato nella coscienza di larghe masse ogni anelito solidaristico per sostituirvi la concezione individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale classica.
L’Europa odierna è dunque tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale. Non è vero che lo spazio statuale più grande, quello europeo, sia il modo migliore per sviluppare la controffensiva di classe al livello del capitale; esso lo è solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale. L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa, considerato che siamo alla vigilia della sottoscrizione del devastante trattato di libero scambio transatlantico che consegnerà alle multinazionali, ai più rapaci players economici internazionali il potere – con tanto di legittimazione giuridica e tribunali al seguito – di subordinare all’attesa di profitto ogni aspetto delle legislazioni nazionali, mettendo la mordacchia ad intere Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo. La costruzione forzosa di un’unica area valutaria aumenta la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora” le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea. L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori. Il comportamento del creditore nord-europeo è solo apparentemente illogico. Perché incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord, considerato che il 70% delle esportazioni di quei paesi avvengono nell’area europea? Per due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, in buona parte terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. La logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di manodopera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe. L’Europa è oggi un meccanismo non democratizzabile perché distrugge deliberatamente, con metodo, il solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro. Non è forse superfluo ricordare la lettera a firma congiunta con cui alla fine del 2011 Draghi e Trichet intimavano all’Italia di mettere mano a pensioni, salari, diritti del lavoro e privatizzazioni e come Napolitano abbia investito poi Mario Monti del ruolo di esecutore testamentario di queste direttive; o il documento con cui J.P. Morgan, nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso concetto, con un “taglio”, per così dire, più sistemico, in cui ad essere messe all’indice erano le costituzioni antifasciste troppo venate di socialismo; o – per tornare a casa nostra – la determinazione con cui il compito demolitore del giuslavorismo moderno è stato mirabilmente interpretato da Matteo Renzi.
Uno sguardo alla situazione della Grecia
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le ricette della troika saranno ricordate come uno dei più colossali inganni nella storia della politica europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione. Rispetto al 2010 la pressione fiscale è aumentata di 8 punti percentuali rispetto al Pil e la spesa pubblica è diminuita di quasi 4 punti, corrispondenti ad un crollo di 30 mld;i salari monetari sono caduti di 12 punti percentuali e il loro potere d’acquisto è precipitato in media di 14 punti, con picchi negativi di oltre 30 punti in alcuni comparti. La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia. Ma le sue previsioni sull’andamento del Pil greco sono state totalmente smentite: per il 2011 la Commissione previde un Pil stazionario, che in realtà crollò di 7 punti; per il 2012 annunciò addirittura una crescita di un punto, e fu sconfessata da una caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013 la previsione fu di crescita zero, e invece il Pil greco precipitò di altri 4 punti. Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene. La verità, che ormai riconoscono a denti stretti persino al Fmi, è che le ricette della Troika rappresentano la causa principale del crollo della domanda e della conseguente distruzione di produzione e occupazione avvenuta in Grecia: negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti di lavoro in meno. Né si può dire che tali ricette abbiano stabilizzato i bilanci: il crollo della produzione ha implicato un'esplosione del rapporto fra debito pubblico e Pil, aumentato in 5 anni di 30 punti percentuali.
“Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio - stanno ottenendo quello che volevano: perché dovrebbero mutare la loro posizione a seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite offriranno un’austerità appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che – se accettato – condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto ai minimi termini il Pasok di Papandreu.”
Il rigetto di una parte del debito accumulato sarebbe una soluzione logicamente razionale. Un problema, tuttavia, esiste: la disapplicazione unilaterale del Memorandum, il ripudio anche solo di una parte del debito indurrebbe la Bce a bloccare le erogazioni e determinerebbe una nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo governo di sinistra sarebbero costretti ad abbandonare l’euro per tornare a stampare moneta nazionale. Ora, il Quantitative easing (Qe) varato dalla Bce è stato rappresentato come il tentativo di correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca tedesca. La Banca centrale si è sì decisa – sia pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato che gli acquisti di titoli di Stato non avverranno - a differenza di quanto avvenuto negli Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato primario, direttamente dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del Tesoro dei singoli stati. Gli acquisti saranno fatti sul mercato secondario, cioè dalle grandi banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro [1] - dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole imprese, ma rimase nelle banche”.
“Ad avvantaggiarsene – continua Moro - furono le banche stesse che guadagnarono sul differenziale tra i finanziamenti a tasso zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Il risultato fu che i bilanci delle banche, gravati dalle perdite della crisi del 2007-2008, migliorarono notevolmente, grazie alla crescita degli utili. Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di fatto, l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta la svolta? Dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a livello europeo? Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più, con sollievo della Germania.
In terzo luogo, gli acquisti verranno effettuati non selettivamente, in base alle difficoltà dei singoli stati nel finanziare il proprio debito, ma in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Dunque, la Germania, che paga già interessi reali negativi sul suo debito, verrà “beneficiata” da questa operazione in proporzione come la Grecia che paga alti tassi d’interesse”.
“Dunque – conclude Moro - l’obiettivo di Draghi non è quello di rilanciare il Pil, cioè la produzione, e l’occupazione, ma di tenere alti i profitti delle banche e delle grandi imprese soprattutto multinazionali. Il Qe ha come obiettivo il contrasto alla deflazione, perché questa riduce i profitti o ne inibisce l’aumento, in quanto il calo dei prezzi erode i margini operativi delle imprese. Una inflazione troppo forte beneficia i debitori rispetto ai creditori e questo è eresia in un ambiente capitalistico, soprattutto per le banche. Ma l’inflazione troppo bassa o peggio la deflazione erodono i profitti. Inoltre, il Qe ha già cominciato a svalutare l’euro rispetto al dollaro e altre valute, facilitando le esportazioni che sono pressoché di esclusiva pertinenza delle imprese di grandi dimensioni e multinazionali”.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi, che le misure adottate non fanno che confermare il carattere organico della crisi capitalistica e, ancora, che la diga eretta per scongiurarne il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è arduo prevedere che i suoi effetti si riveleranno del tutto modesti.
Allora, tornando al tema iniziale, attenzione a spiegare che se si mette in discussione l’euro significa essere anti-europei; attenzione a dire che la rivendicazione della sovranità popolare (che, non dimentichiamolo, è scritta nell’articolo 1 della Costituzione) significa, “necessariamente”, portare acqua ai nazionalismi xenofobi e fascistoidi; attenzione a dire che chi vuole fare saltare questo ingranaggio infernale non fa che “lavorare per il re di Prussia”, altrimenti si corre il rischio che qualcuno il re di Prussia lo invochi davvero e magari che lo scontro si concluda non con una restaurazione della democrazia ma proprio con l’avvento dei populismi reazionari. Del resto, non ci sono evidenze empiriche – come ci spiegano Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini – che l’uscita dall’euro provocherebbe una svalutazione delle proporzioni che si paventano e, soprattutto, che lo scenario sarebbe in quel caso peggiore della drammatica deriva in corso. Lo dico perché il “diavolo” capitalista fa le pentole, ma non sempre riesce a trovare i coperchi e fra non molto, potremmo trovarci di fronte alla caduta dell’euro per…autocombustione…, cioè per autonoma decisione del potere finanziario, una volta condotti a termine lo sventramento del welfare, il processo di privatizzazione integrale, la riduzione a simulacro della democrazia rappresentativa, l’annichilimento del potere di contrasto del soggetto lavoro.
Il punto, allora, è cosa fare per impedire che si intraprenda questa strada, proprio per l’incapacità delle classi dominanti di perseguire una rotta diversa. Allora tocca a noi dire in modo chiaro che all’uscita dall’euro dovrà corrispondere una nuova politica economica e sociale:
- proteggendo i salari attraverso un rilancio delle lotte e del ruolo contrattuale dei sindacati;
- reintegrando i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso;
- rilanciando l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
- ricostruendo un regime previdenziale che così com’è precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;
- riducendo su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;
- varando nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedendo una tassa strutturale sui grandi patrimoni;
- ponendo un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;
- nazionalizzando le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;
- ridefinendo le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.
Si tratta insomma di costruire le premesse per un’uscita da sinistra dalla crisi e riscattare l’Europa dal giogo della finanza e dei proprietari universali che stanno succhiando il sangue dei popoli. Certo, per fare queste cose occorrono altri rapporti di forza, e si può a buon titolo obiettare che siamo lontani dalla capacità di mettere in campo una forza d’urto quale sarebbe necessaria, ma con questa piattaforma potremo rivolgerci sul serio ai proletari di questo paese e alle forze intellettuali non compromesse con la vulgata corrente, usando argomenti, parole, programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole utilizzare. Proposte che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa. Del resto, una posizione attendista produrrebbe tre effetti massimamente negativi:
-consegnerebbe la protesta contro l’austerity alla demagogia parafascista di Matteo Salvini, consentendo alla destra più reazionaria di riscuotere la rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la dialettica politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in versione lepenista e il partito democratico organico al liberismo europeo;
-genererebbe, di fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle condizioni, perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate contromisure – rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli strati più deboli della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni devastanti;
-contribuirebbe all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di schiudere le porte di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata fra le ganasce della tenaglia dei poteri forti europei.
[1] http://www.controlacrisi.org/notizia/Economia/2015/1/26/43685-quante-troppe-mistificazioni-sul-qe-di-draghi-intervento-di/