Dalle indagini non è emerso alcun riscontro al documento del 1945 che segnalava la presenza di una fossa comune a Rosazzo
È questa la conclusione cui è giunta la Procura di Udine, dopo dieci mesi di indagini condotte a scavalco tra il Friuli, alla ricerca della presunta fossa comune, e Roma, negli archivi dei ministeri agli Esteri e alla Difesa, dello Stato Maggiore dell’Esercito e dei Servizi segreti, dove solo avrebbero potuto essere conservati documenti comprovanti la sua presenza. Il risultato è stato negativo su tutta la linea e questo ha convinto i carabinieri di Palmanova a ritenere «non più utilmente esperibile altra attività», e il procuratore aggiunto Raffaele Tito, che ha coordinato l’inchiesta, a chiedere al gip l’archiviazione del procedimento.
A mettere in moto la macchina giudiziaria erano state le parole con cui Luca Urizio, presidente della Lega Nazionale di Gorizia, nel Giorno del Ricordo del febbraio scorso, aveva raccontato del ritrovamento alla Farnesina di un documento del 12 ottobre 1945, in cui si parlava appunto dell’infoibamento di centinaia di persone. La rivelazione era stata riferita dal Messaggero Veneto e prontamente fatta oggetto di un’informativa dell’Arma.
«Da quanto ricostruito – scrive il pm – sembra di poter ritenere, seppur non con totale certezza, che l’autore del documento, forse un agente segreto di nome Ermete, abbia esagerato o ingigantito fatti, peraltro di per sè comunque gravi e tragici, effettivamente avvenuti». Il che, quindi, non significa negare che in quel periodo e in quella zona avvennero episodi di sangue. Prova ne sia la nota a firma dell’allora sindaco di Premariacco, Dante Donato, inviata il 19 maggio 1945 alla Procura di Udine per segnalare che «nel territorio di questo Comune si trovano sparse nella campagna e sepolte quasi a fior di terra le salme di circa 60 persone in parte sconosciute, uccise dai partigiani, perchè ritenute spie o collaboratrici dei tedeschi». Con quella comunicazione si chiedeva l’autorizzazione a raccogliere i cadaveri (quelli riesumati in zona Rocca Bernarda sono risultati 41) e trasportarli in cimitero «anche per motivi igienici».
Nell’aprire un fascicolo a carico di ignoti - i due presunti responsabili Sasso e Vanni, al secolo Mario Fantini e Giovanni Padoan, nel frattempo sono entrambi deceduti -, Tito aveva ritenuto di applicare astrattamente una delle ipotesi previste all’articolo 3 della cosiddetta Amnistia Togliatti (22 giugno 1946): strage o sevizie particolarmente efferate, tali da escludere l’effetto estintivo del reato di omicidio semplice. La prova certa dell’esistenza della fossa, indispensabile per formulare la correlata ipotesi accusatoria, però, non è emersa.
Nulla nè dalle ricerche sul campo, propedeutiche a una significativa attività di scavo, nè dall’esame del materiale cartaceo acquisito negli uffici ministeriali, nè dalla testimonianza di chi avrebbe potuto o dovuto sapere. E cioè del figlio dell’allora sindaco di Premariacco, che alla Polizia giudiziaria ha invece riferito di non avere mai sentito dal padre alcunchè in proposito, e degli stessi Padoan e Fantini, che in vita non è risultato abbiano mai fatto cenno alla fantomatica fossa di Bosco Romagno.
E visto che di un’indagine simile si era recentemente occupata anche la Procura di Bologna, Tito ha voluto tentare anche quella strada, nella seppure remota possibilità di un qualche «riferimento trasversale». L’esito è stato a sua volta negativo. Così come vano è stato lo sforzo di memoria chiesto al luogotenente che all’epoca lavorava alla stazione di Cormòns e che, pur ricordando di un «casolare» nel Bosco Romagno usato come base logistica dai partigiani, di un «pozzo dove venivano occultate le armi», di «alcune uccisioni in località Rosazzo-Poggiobello», nulla ha invece detto di sapere, neppure indirettamente, di così tante persone gettate in una fossa comune.
E infine i documenti e le annotazioni di polizia messi a disposizione dall’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, dove Tito si è recato personalmente il 21 ottobre. Niente neppure lì, tanto meno all’interno dei fascicoli personali di Sasso e Vanni.
Lettera aperta sul Giorno del ricordo
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Riteniamo Internazionale una rivista di qualità, nella quale il lavoro giornalistico viene eseguito con competenza, obiettività e indipendenza. L’informazione fornita da Internazionale non ci sembra condizionata da mode, ossequiosa verso i potenti di turno o allineata al pensiero mainstream.
Proprio per questo ci sembra che il modo in cui lo scorso anno è stato trattato sul sito l’argomento del Giorno del ricordo non sia all’altezza della professionalità che caratterizza il settimanale.
Il 10 febbraio 2016, sulla versione online di Internazionale è uscita una scheda sulla complessità del “Confine Orientale”, dal titolo Cosa sono le foibe, che contiene numerose inesattezze. Anziché fare chiarezza su un tema cruciale che andrebbe trattato in maniera accurata, sono state riproposte cifre sensazionalistiche e approssimazioni che fanno ormai parte dell’arsenale retorico del Giorno del ricordo pur senza essere sostanziate da basi storiografiche.
In particolare, vorremmo segnalare i seguenti punti critici (in corsivo le parti estratte dall’articolo di Internazionale del 10.2.2016).
Dove
“Alla fine della seconda guerra mondiale l’esercito jugoslavo occupò Trieste e l’Istria (fino ad allora territorio italiano) per riconquistare i territori che, alla fine della prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia”.
Trieste e l’Istria in quel momento non erano più territorio italiano: dopo l’8 settembre erano state sottoposte all’amministrazione diretta tedesca e di fatto annesse al Terzo Reich con la denominazione “Zona di Operazioni del Litorale Adriatico”.
Va inoltre ricordato che dal 1918 al 1943 la Venezia Giulia fu sì amministrativamente italiana, ma oltre la metà della sua popolazione era composta da sloveni e croati. Lo stato italiano mise in atto un’operazione di “bonifica etnica” tesa ad eliminare completamente i non italiani dal territorio, attraverso violenze, leggi che limitavano l’uso delle loro lingue in ambito pubblico e privato, lo scioglimento delle associazioni culturali, sportive e ricreative, la confisca delle proprietà e delle maggiori iniziative economiche, la chiusura delle scuole, l’italianizzazione forzata di nomi, cognomi e della toponomastica e la sistematica spinta all’emigrazione o al completo assorbimento e omologazione nella maggioranza italiana.
Inoltre anche la mappa acclusa all’articolo risulta incoerente. Basovizza è oggi in territorio italiano e sulla mappa dovrebbe avere il nome italiano. Il “punto giallo” fa pensare sia in territorio sloveno.
“In Istria sono state trovate più di 1.700 foibe”.
Questo dato, completamente inutile, ha solo l’effetto di aumentare l’enfasi sensazionalistica della propaganda irredentista. Le foibe sono fenditure carsiche: in molte di esse non vi fu alcuna “sepoltura”.
“Uno dei principali monumenti alle vittime si trova a Basovizza, alle porte di Trieste. Qui è stata trovata una foiba che in realtà era il pozzo di una miniera di carbone scavata nella roccia agli inizi del Novecento e poi abbandonata. Vi furono gettate almeno 2.500 persone nei 45 giorni dal 1° maggio al 15 giugno 1945”.
Dai documenti alleati dell’epoca emerge invece che dalla “foiba” di Basovizza, oggi eretta a monumento del Giorno del ricordo, nella seconda metà del 1945 vennero recuperati una decina di corpi, per lo più soldati tedeschi, e carcasse di cavalli (cfr. J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi 2009). Non vi è alcun riscontro documentale di numeri come quelli riportati sopra.
Quando e perché
Il fenomeno “foibe” è riferito fondamentalmente a due eventi distinti, con dinamiche e modalità diverse: il primo è successivo alla dissoluzione dell’autorità italiana con l’armistizio dell’8 settembre ’43 e riguardò principalmente l’Istria, il secondo è conseguenza della presa di potere da parte dei partigiani e dell’Esercito Popolare Jugoslavo nel maggio del ’45.
“La prima ondata di violenza esplose dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti”.
Nella presa di controllo del territorio, occupato fino a quel momento dalle forze italiane, da parte della popolazione locale (sia slovena e croata che italiana), ci furono indubitabilmente anche esecuzioni sommarie, ma va sicuramente considerato come queste furono una risposta ai crimini italiani nella regione che proseguivano da un ventennio (si noti come molti degli autori di questi atti vennero poi processati dagli stessi partigiani). Un’interpretazione in chiave esclusivamente ideologica alle violenze del settembre del 1943 (“nemici del popolo” - “italiani non comunisti”) non è storicamente corretta, né ci sono prove a riguardo. Molti studiosi invece riconoscono che nel momento di sfaldamento dell’autorità seguente all’8 settembre ’43 si verificò una “jacquerie”, una sorta di rivolta contadina, contro coloro che avevano detenuto il potere fino ad allora. L’insurrezione istriana – non dalmata – del 1943 ha poco a che fare con l’italianità o meno delle vittime, visto che erano italiani anche molti degli insorti. “La violenza insurrezionale si rivolse contro la locale classe dirigente considerata compromessa con il fascismo e contro i possidenti” (cfr. P. Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria, Kappa Vu, Udine 2014, pp. 192-193). Inoltre indicare come data di riferimento il settembre del 1943, omettendo invece le stragi e le deportazioni fasciste nella regione, induce all’impropria interpretazione che gli italiani vadano considerati semplicemente come vittime. È inoltre totalmente omesso il fatto che buona parte delle uccisioni del 1943 in Istria avvenne mentre era in corso l’occupazione nazista che portò all’eliminazione di circa 5.000 persone tra civili e partigiani (cfr. ibid.).
“La violenza aumentò nella primavera del 1945”.
Le violenze nazifasciste non furono certamente inferiori a quelle degli jugoslavi, anzi. La popolazione civile di Trieste e della Venezia Giulia subì rappresaglie pesantissime per le azioni dei partigiani sul territorio (basti pensare ai 269 abitanti del villaggio di Lipa, in maggior parte donne, arsi vivi nella primavera del 1944, ai 51 ostaggi impiccati nel Conservatorio di Trieste dell’aprile del 1944 e ai 71 fucilati al poligono di Opicina di un anno dopo). L’entrata dei partigiani a Trieste nel maggio del 1945 significò invece la liberazione dei prigionieri della Risiera di San Sabba, l’unico campo di concentramento nazista ora in territorio italiano dotato di forno crematorio, nel quale morirono circa 5.000 persone e che vide il passaggio di altre 20.000 per i campi di sterminio dell’Europa centrale.
Non intendiamo affatto minimizzare la violenza del post-liberazione, alla base della quale vi erano la rivalsa per le passate atrocità nazifasciste, i regolamenti di conti personali e la volontà di attuare una rivoluzione comunista includendo Trieste nella Jugoslavia socialista. Ma non si può lasciare intendere che la Trieste in mano ai nazisti fosse un posto “meno violento” della Trieste liberata senza offendere le vittime della Shoah e delle rappresaglie, che a differenza della violenza “titoista” erano dirette in modo indiscriminato contro comunità e “razze” intere e non contro avversari politici.
Quanti
“Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. Secondo alcune fonti le vittime furono tra le quattromila e le seimila, per altre diecimila: ex fascisti, collaborazionisti e repubblichini, ma anche partigiani che non accettavano l’invasione jugoslava e cittadini qualunque”.
Spesso nella quantificazione degli infoibati si generalizza considerando come tali anche i militari internati nei campi di prigionia. Per capire le esatte dinamiche di quel momento va invece fatta una distinzione tra le due categorie: i corpi recuperati nelle foibe ammontano a qualche centinaio. Il sottufficiale dei vigili del fuoco Arnaldo Harzarich, incaricato dei recuperi dalle autorità tedesche, scrisse: “è ormai assodato che in Istria nel ’43 le persone uccise nel corso della insurrezione successiva all’8 settembre sono fra le 250 e le 500” (Rapporto Harzarich, conservato in copia presso l’Archivio dell’IRSMLT, n. 346). Lo stesso ordine di grandezza è riportato da un articolo apparso il 19 gennaio 1944 sul Corriere della Sera. Eccone l’occhiello: “I 471 caduti nelle foibe dell’Istria e della Dalmazia saranno rievocati il 30 gennaio da tutte le federazioni fasciste”.
Inoltre durante la guerra le foibe furono talvolta usate anche come sepoltura d’urgenza da parte dei partigiani per occultare i cadaveri dei compagni ed evitare in questo modo che il ritrovamento dei corpi sepolti potesse portare a delle rappresaglie sui loro parenti da parte dei nazifascisti.
La maggior parte delle vittime, invece, morì di malattia, stenti o fu giustiziata nei campi di prigionia jugoslavi. Si trattava in larga maggioranza di uomini che avevano militato in formazioni o gruppi paramilitari direttamente o indirettamente sottoposti ai tedeschi e dunque dichiarati prigionieri di guerra. Una situazione (anche questa) molto diffusa nell’Europa del primissimo dopoguerra, basti pensare che nei campi di prigionia americani “il numero totale dei morti fra i prigionieri tedeschi nelle mani degli Americani, qualunque sia la causa della loro morte, non ha potuto superare le 56.000 unità” (Albert Cowdrey, del Servizio del Centro Storico Militare dell’Esercito, in S.E. Ambrose, Ike and the Disappearing Atrocities, New York Times Books, 24 febbraio 1991).
Sommando gli infoibati e le vittime delle deportazioni, comunque, in tutta la Venezia Giulia le vittime provocate dall’esercito jugoslavo dopo la cacciata dei tedeschi variano dalle 4-5.000 (stime di Raoul Pupo) alle 2.000 (stime di Piero Purini). Raffrontando queste cifre con il numero delle vittime delle violenze di fine guerra in altre zone d’Italia (”Nella sola Emilia Romagna si ebbero 2.000 epurazioni, a Torino più di 1.000”: M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 97 e 224-225, cit. in L. Filipaz, Foibe o Esodo? “Frequently Asked Questions” per il Giorno del ricordo, apparso sul blog Giap l’8 febbraio 2015), si nota come il numero delle vittime non si discosti troppo da quello riscontrato altrove in Italia: il fenomeno si presenta dunque molto di più come una resa dei conti di fine guerra che come una violenza mirata contro gli italiani in quanto tali.
Se poi si considerano i numeri dei morti in altri luoghi (nella stessa Slovenia le vittime collaborazionisti dei nazifascisti furono quasi 14.000, mentre in altre zone della Jugoslavia Tito usò una mano ancor più pesante) non si può più affermare che la violenza contro gli italiani fu quantitativamente maggiore, ma è invece in linea con quella del contesto generale dell’epoca (non mancarono inoltre anche violenze targate “occidente”, quale la sanguinosa repressione dei comunisti greci da parte di inglesi e monarchici).
L’esodo
“Tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani abitanti dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra”.
Il regime jugoslavo fu senza dubbio responsabile di un atteggiamento ostile nei confronti di determinati gruppi sociali considerati avversi all’edificazione del socialismo (ex funzionari dello stato italiano, sacerdoti, possidenti, insegnanti, ecc.), nonché di misure poliziesche e coercitive nei confronti della popolazione (compresi i comunisti rimasti fedeli al Cominform dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948). Inoltre molte delle misure di stampo socialista attuate in materia economica, quali l’esproprio dei latifondi, l’abolizione della mezzadria, la collettivizzazione, l’occupazione delle case sfitte, sconvolsero la società locale peggiorando la condizione di molti (soprattutto della borghesia). Per considerare obiettivamente il fenomeno dell’esodo, è necessario ricordare anche che l’Istria era comunque una delle regioni italiane più arretrate e inoltre stava entrando in un sistema socialista, mentre l’Italia era già considerata come un paese della sfera occidentale, nel quale ci sarebbe stato facile accesso agli aiuti americani. Pertanto tra coloro che se ne andarono ci fu anche chi partì sperando di migliorare la propria situazione economica in Italia.
Peraltro va ricordato come migliaia di italiani rimasero comunque in Istria, dove la minoranza italiana ebbe diritti e garanzie decisamente maggiori di quella slovena in Italia.
Non si possono inoltre tacere le responsabilità dello stato italiano e delle organizzazioni istriane finanziate dall’Italia stessa. “L’esodo di massa da Pola e Fiume fu un disastro per la Jugoslavia, sia sul piano economico che politico. Per contro i famigerati CLN ‘antislavi’ d’Istria e Fiume spinsero gli italiani ad andarsene in massa (tramite stampa e propaganda di strada), da un lato con lo specifico scopo di sabotare la Jugoslavia – una specie di sciopero di cittadinanza (un porto vuoto è un porto morto) –, dall’altro fu una tattica suicida per convincere la commissione alleata a riassegnare quelle terre all’Italia mostrando ad essi una sorta di ‘plebiscito di fatto’ a mezzo emigrazione di massa” (L. Filipaz, Foibe o Esodo? “Frequently Asked Questions” per il Giorno del ricordo, cit.). Possiamo quindi constatare che l’interesse a diffondere l’idea di un odio verso gli italiani in quanto tali fu utile tanto alla propaganda fascista del tempo, quanto a quella neoirredentista del dopoguerra.
Inoltre la Jugoslavia in più di un’occasione mostrò di non avere particolare interesse nella partenza degli italiani. Il prof. Raoul Pupo dice in un’intervista: “Tito voleva dimostrare agli Alleati, impegnati nella definizione dei nuovi confini post-bellici, la volontà ‘annessionista’ degli italiani e quindi diede istruzioni affinché fossero ‘invogliati a legarsi’ al regime e non a espatriare” (Intervista a R. Pupo a cura di V. Di Donato, in Giornale di Brescia, 9 febbraio 2006).
A lungo termine la partenza degli italiani inoltre si rivelò una catastrofe per la Jugoslavia, perché l’Istria spopolata iniziò a rappresentare un problema economico per il resto del paese: per questo dopo il 1956 agli italiani fu sempre più difficile andarsene.
Conclusioni
“Dal 2005 la giornata del 10 febbraio è dedicata alla commemorazione delle foibe e del successivo esodo forzato della popolazione italiana”.
“Dal 2005 la giornata del 10 febbraio conserva e rinnova la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, umani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” (legge 30 marzo 2004 n. 92).
A causa dell’invasione nazifascista in Jugoslavia morì un milione di persone su neppure 15 milioni di abitanti. Nella sola provincia di Lubiana 15.000 persone vennero fucilate dagli occupanti tedeschi e italiani. Nel lager italiano di Arbe/Rab morirono circa 1.500 internati su 10.000 (in massima parte donne, vecchi e bambini). Nel campo di concentramento della Risiera di San Sabba a Trieste i nazisti allestirono l’unico forno crematorio in Italia, nel quale vennero bruciati i corpi di 5.000 persone, civili e resistenti sloveni, croati, italiani ed ebrei.
Ci pare dunque doveroso ricordare come le vittime innocenti non siano state solo italiane. Denunciare gli aspetti repressivi del regime jugoslavo ha un senso, ben altro invece è mettere sullo stesso piano la violenza del movimento partigiano con quella ben più gratuita e massiccia dei nazifascisti, responsabili del tentativo di bonifica etnica durante il regime di Mussolini e della violenza durante il governatorato della Zona Operazioni del Litorale Adriatico, antecedenti e quindi alla base di quanto accadde successivamente.
Ogni 10 febbraio i mass media italiani non perdono l’occasione per raccontare una storia parziale e distorta del confine orientale, spesso basandosi su dati falsi o manipolati dalla propaganda neofascista. Il dibattito cui assistiamo ogni Giorno del ricordo sui mass media italiani appare pesantemente condizionato da omissioni e censure che possono essere lette come una spia del perdurare di un pericoloso vittimismo nazionalista all’interno della cultura e dell’informazione italiana.
Chiediamo dunque che per il prossimo 10 febbraio la rivista, coinvolgendo una pluralità di voci e firme, prepari sul sito uno speciale che dia conto della complessità del tema, in primis reinserendo nel quadro le responsabilità dello stato italiano sul confine orientale a partire dal 1915.
Nicoletta Bourbaki (gruppo di lavoro su revisionismo storico e false notizie storiche in rete)
Wu Ming (scrittori)
Kai Zen (scrittori)
Resistenze in Cirenaica (rete di collettivi, associazioni e gruppi di lavoro sul postcolonialismo italiano, Bologna)
Anpi Colle Val d’Elsa
Anpi Pavia centro “Onorina Pesce Brambilla”
Anpi Pavia Borgo Ticino “Giuseppe Pinelli”
Luca Bravi (storico)
Carlo Spartaco Capogreco (storico)
Anna Di Gianantonio (storica)
Eric Gobetti (storico)
Carlo Greppi (storico)
Piero Purini (storico)
Girolamo De Michele (scrittore)
Monica Di Barbora (insegnante)
Enrico Manera (insegnante e ricercatore)
Luca Manucci (ricercatore)
Benedetta Pierfederici (ricercatrice ed editor)
Alberto Prunetti (scrittore)