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CATALOGNA, FINORA HANNO PERSO SOLO GLI ANTICAPITALISTI

1/2 – Segnalazioni in ordine cronologico inverso. In questo post:

1) ROMA 13 GENNAIO: I comunisti, l’Unione Europea e l’autodeterminazione dei popoli
2) Il feticcio dell’Indipendentismo e il suo segreto (di classe) (di Stefano Paterna  06/01/2018)
3) L’impasse dell’indipendentismo: il caso catalano (di Stefano Paterna  02/12/2017)
4) Repressione in Catalogna: l’Unione Europea si riscopre franchista (di Rete Dei Comunisti, 4 novembre 2017)
5) Il “cuneo catalano” mostra cos’è l’Unione Europea (di Dante Barontini, 4.11.2017)

Nel prossimo post:

*) ALTRI LINK
6) Donbass e Catalogna: una doverosa precisazione (di Mauro Gemma, 29 Ottobre 2017)
7) Ai compagni che non condividono il mio omaggio alla Catalogna (di Giorgio Cremaschi, 29 ottobre 2017)
8) L\'indipendenza catalana: cinque cose su cui riflettere (di Tony Cartalucci, 25 Ottobre 2017)
9) I sonnambuli europei, Orwell e la Catalogna (di Alberto Negri, 20 ottobre 2017)
10) L’intrigo catalano e la chiarezza italiana senza effetti (di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta, 4.10.2017)
11) Viva la Catalogna abbasso l’Italia (di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta, 26.9.2017)


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I comunisti, l’Unione Europea e l’autodeterminazione dei popoli


L’esplosione della vicenda catalana ha dimostrato quanto, nell’Unione Europea del XXI secolo, la questione nazionale sia ancora vigente e prioritaria, smentendo quei profeti che, superficialmente, preconizzavano il tramonto degli stati nazionali in epoca di “globalizzazione”.

La lotta per l’autodeterminazione, di nuovo, rappresenta in vari territori dell’Europa un formidabile motore di mobilitazione popolare e costituisce uno strumento attraverso il quale alcune classi sociali – in particolare la piccola borghesia e le classi subalterne colpite da anni di austerity – manifestano un disagio e un desiderio di rottura nei confronti dell’attuale assetto istituzionale dominato dallo svuotamento della democrazia formale a favore di una governance ordoliberista gestita da istituzioni sovranazionali che non prevedono la legittimazione e il consenso popolare.

In generale si può affermare che, se il processo d’integrazione ha svuotato di sovranità i governi e le istituzioni nazionali, espropriate a vantaggio delle istituzioni comunitarie (formali e informali), nel continente è in corso un processo di ricentralizzazione che accentua il carattere autoritario e reazionario degli stati amplificandone le funzioni coercitive e di controllo, sia nei confronti di eventuali ribellioni di natura sociale sia di qualunque altra contraddizione possa mettere a rischio una stabilità interna indispensabile a consentire al polo imperialista europeo di reggere una competizione internazionale sempre più feroce.

La vicenda catalana ha messo, finora, in evidenza la rigidità di una Unione Europea che di fronte al manifestarsi di un conflitto nazionale al suo interno non sa e non può fare altro che sostenere incondizionatamente lo Stato-Nazione di riferimento.

La questione nazionale si pone oggi, nel continente europeo, sia a partire dal recupero della sovranità popolare in quegli stati che fanno parte dell’Unione Europea e che ne sono stati espropriati, come i Pigs, o che pur non facendone parte sono già ingabbiati all’interno del suo spazio economico e normativo – si veda la sponda sud del Mediterraneo – sia in relazione al diritto all’autodeterminazione delle nazioni senza stato che invece proprio negli Stati trovano un muro, una barriera invalicabile sostenuta dall’Unione Europea e dalle sue istituzioni.

Non può sfuggire che uno dei momenti fondativi, costitutivi dell’Unione Europea è stata la disgregazione violenta della Jugoslavia da parte di una Germania che ha soffiato sul fuoco dei nazionalismi pur di assorbire nella sua orbita alcuni territori a spese dell’ex stato federale. Ma quel principio di autodeterminazione della Croazia, della Slovenia e della Bosnia, difeso manu militari dalla costituenda Unione Europea – oltre che dagli Stati Uniti – non è ora riconosciuto da Bruxelles ai catalani mentre rispetto agli scozzesi si dimostra una certa tolleranza dopo la Brexit decisa da Londra.
D’altra parte, l’UE non ha esitato, pur di allargare fino a Kiev la sua area di influenza, a sostenere un golpe reazionario e a sdoganare i fascisti e i neonazisti ucraini appoggiando al contempo una criminale guerra contro le popolazioni russe dell’est del paese il cui il diritto all’autodeterminazione, di nuovo, Bruxelles non vuole riconoscere. In Palestina intanto l’occupazione israeliana si fa ancora più feroce grazie anche alla complicità di un’amministrazione Trump che provocatoriamente ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale del cosiddetto ‘Stato Ebraico’.

I comunisti hanno, nel corso della loro storia, affrontato la questione nazionale in diversi modi, attraverso diverse chiavi di lettura, a seconda delle epoche, dei contesti, delle necessità concrete del momento. Non si può quindi affermare che esista, all’interno del movimento comunista, un’unica chiave di lettura su questo tema. Ci dobbiamo quindi affidare dall’analisi concreta della situazione concreta, forti dell’analisi e dell’esperienza storica di quei leader e di quei movimenti, in particolare Lenin, che con il diritto delle nazioni all’autodeterminazione si confrontarono direttamente all’interno di un contesto rivoluzionario.

Su questi temi invitiamo tutti a confrontarsi in un incontro previsto a Roma il prossimo 13 gennaio.

Nei prossimi giorni, inoltre, il nuovo numero della rivista Contropiano conterrà un documento della Rete dei Comunisti sull’analisi di fase a livello internazionale ed un altro contributo che ricostruisce l’evoluzione del pensiero di Lenin proprio sulla Questione Nazionale.

 

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I comunisti, l’Unione Europea e l’autodeterminazione dei popoli

Il caso catalano interroga i comunisti sull’attualità della questione nazionale

Sabato 13 gennaio, ore 16.30

Impact Hub Roma, via dello Scalo San Lorenzo 67

Coordina: Giampietro Simonetto – Coordinamento Nazionale Rete dei Comunisti

Relazione di Marco Santopadre – Coordinamento Nazionale Rete dei Comunisti


Interventi di:

Maurizio Vezzosi – giornalista, esperto di Donbass

Bassam Saleh – attivista palestinese

Eleonora Forenza – Europarlamentare PRC

Marco Morra – attivista Laboratorio Casamatta Napoli


All’iniziativa sono invitati a partecipare e ad intervenire: Partito Comunista Italiano, FGCI, Collettivo Genova City Strike, Collettivo Militant, Sinistra Classe Rivoluzione, Associazione Marx XXI, Fronte Popolare, Laboratorio Casamatta…


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Il feticcio dell’Indipendentismo e il suo segreto (di classe) 

In Catalogna emerge nelle urne la fragilità della sinistra e l’ambiguità dei nazionalismi.

di Stefano Paterna  06/01/2018

Parafrasando Winston Churchill si potrebbe dire, a proposito degli indipendentisti catalani di sinistra: “Tra indipendenza e socialismo avete scelto la prima. Non l’otterrete e non avrete il secondo”.

risultati elettorali delle elezioni regionali catalane del 21 dicembre mi pare si possa dire abbiano pienamente confermato i dubbi e le cautele in materia di indipendentismo e sinistra di classe. La Cup, Candidatura di Unità Popolare, quasi dimezza il suo capitale di consensi tra il 2015 e oggi, perdendo il 3,5% dei voti; mentre la sinistra non indipendentista della sindaca Ada Colau, CatComu-Podem perde anch’essa seggi nel parlamento di Barcellona. Il risultato non può rendere felici, ma spinge a comprenderne le ragioni.

L’indipendentismo e le sue radici di classe: al sud e al nord del mondo

Dietro i partiti ci sono sempre degli attori più concreti, solidi e meno formali, costituiti dalle classi sociali, dagli uomini e donne che le compongono e dai loro interessi materiali, dalle loro aspirazioni e prospettive. La regola vale anche per i processi di costruzione di uno Stato indipendente. A questo proposito diviene di fondamentale importanza la collocazione sulla cartina mondiale del processo di indipendenza di una nazione dall’altra. Ovviamente, non per un criterio meramente geografico, ma per la sua disposizione nell’arco della catena internazionale della divisione del lavoro.

Così appaiono diversi i processi di liberazione nazionale avvenuti in America Latina o nel mondo arabo (Cuba, Algeria, Egitto solo per fare alcuni esempi) da quelli che si stanno producendo attualmente nel cuore dell’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio). Nel primo caso, i processi rivoluzionari che portarono alla creazione di stati indipendenti videro tra le forze protagoniste anche le borghesie nazionali: nel caso del mondo arabo, dove si era in assenza di una forte classe operaia, queste forze espressero anche la direzione dei movimenti di liberazione. Ma nei paesi in questione la liberazione nazionale coincideva con la crescita delle forze produttive industriali, fino ad allora compresse e sacrificate sull’altare degli interessi dell’industria della metropoli coloniale o neocoloniale. Si trattava, pertanto, da un punto di vista marxista, di borghesie che avevano un oggettivo ruolo progressivo.

Di tutt’altro segno, invece, la natura e il ruolo che la borghesia (soprattutto la piccola borghesia) gioca negli attuali movimenti indipendentisti nei paesi imperialisti, ovvero nei paesi pienamente maturi dell’area capitalista. Qui non ci sono forze produttive da liberare, c’è soltanto l’effetto disgregatore sulle rispettive società delle politiche liberiste applicate dall’Unione Europea, con il loro mix letale di tagli alla spesa pubblica, aumento dello sfruttamento e della precarietà del lavoro e tensione degli apparati produttivi all’aumento delle esportazioni. In queste aree, contraddistinte da una storia e da una cultura relativamente autonome, la piccola borghesia è in enorme difficoltà: le sue micro-imprese non reggono il confronto con i grandi colossi multinazionali della produzione e soprattutto della distribuzione, si chiudono i battenti e la minaccia della proletarizzazione si staglia ben chiara dinanzi agli occhi di commercianti, piccoli imprenditori, politici regionali di professione.

Il proletariato, che non ha una precisa coscienza del suo ruolo e della sua importanza, subisce pesantemente gli effetti della crisi che in varie forme perdura dal 2008 e affida la cura dei propri interessi alla piccola borghesia, richiedendo genericamente l’aumento della spesa pubblica e del welfare. In questo contesto è forte la tentazione di fare da soli; di gestire le proprie risorse senza l’intermediazione e la ridistribuzione da parte dell’apparato statale centrale, ma di mantenere tuttavia i vantaggi della propria collocazione all’interno dell’area imperialista. Nel caso catalano è questa la posizione della maggioranza del movimento indipendentista, ovvero di JuntsperCat del fuggiasco Puigdemont e di Esquerra Republicana de Catalunyaindipendenza da Madrid, ma salda appartenenza alla Ue.

Paralisi e divisione della sinistra in Catalogna

La traduzione elettorale e politica di questa situazione sociale e di classe si è avuta lo scorso 21 dicembre, come ben chiaramente riportato nel pezzo sopra citato. Il risultato di Ciudadanos, partito politico di impronta radicalmente liberista e di destra (ma unionista e spagnolista) è indicativo e particolarmente inquietante: 25,3 per cento risucchiando la destra del Partito Popolare e sfondando nei settori operai composti da forza-lavoro immigrata dal resto del territorio dello stato spagnolo.

Ovvero: se la guida del movimento è piccolo-borghesese le richieste non sono di modificazione strutturale dei rapporti di produzione, ma di mera redistribuzione territoriale sulla base di una pur legittima e distinta storia culturale e linguistica; i proletari si dividono in base all’appartenenza nazionale e la loro rappresentazione politica (la sinistra di classe) si dividele destre si irrobustiscono e appaiono come le opzioni più concrete e realistiche.

Naturalmente, non è possibile sottacere il ruolo della repressione di Madrid nella produzione dell’esito elettorale del 21 dicembre. Una repressione neo-franchista che va condannata e che rischia di tracimare in senso puramente reazionario e antidemocratico. Tuttavia, l’alternativa ai nazionalismi e alla deriva autoritaria esiste: la sinistra spagnola nel suo complesso potrebbe rialzare la bandiera unificante della Repubblica contro il ruolo nefasto della Monarchia e l’eredità dell’accordo con il franchismo morente; del riconoscimento pieno dei diritti di autonomia di tutti i popoli presenti sul suo territorio; della ricostruzione di uno stato sociale e popolare fuori e contro l’Unione Europea. Per farlo c’è bisogno di coraggio e (da comunisti) di rinunciare ad ogni approccio ideologico, di falsa coscienza, anche quella della cosiddetta indipendenza nazionale senza contenuti di classe.



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L’impasse dell’indipendentismo: il caso catalano 

Oltre i limiti del nazionalismo, il progetto costituzionale di una Spagna nuova.

di Stefano Paterna  02/12/2017

“Bussando alle porte del Paradiso”, cantava Bob Dylan. E così hanno fatto gli indipendentisti catalani il 1° ottobre scorso con il referendum sull’indipendenza, ma le porte non si sono aperte sul Paradiso della libertà, ma solo per far passare il pugno duro della repressione del governo Rajoy, con l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione Spagnola e il conseguente commissariamento del governo regionale catalano (Generalitat), l’arresto di otto ex suoi ministri (tra i quali spicca il vicepresidente Oriol Junqueras, leader del partito di Centrosinistra Erc) e il mandato d’arresto per l’ex presidente catalano Carles Pugdemont, del partito di Centrodestra Pdecat, fuggito in Belgio. A questi arresti vanno aggiunti quelli Jordi Sanchez e Jordi Cuixart delle due associazioni indipendentiste, Anc e Omnium e la repressione da parte della Guardia Civil nella giornata del referendum per impedirne l’effettuazione.

Nel frattempo, l’Unione Europea si è completamente schierata a fianco del governo di destra di Madrid, mentre a favore degli indipendentisti si sono più o meno apertamente poste le forze della Sinistra radicale internazionale. Tuttavia, anche all’interno della Sinistra di classe si è aperto un dibattito sulle vicende catalane e in generale sugli aspetti controversi dell’indipendentismo, mentre anche in Spagna e in particolare in Catalogna il tema divide anche il campo delle classe popolari come ben evidenzia il recente e bel reportage da Barcellona pubblicato da questo giornale. L’intento di questo articolo è appunto quello di mantenere vivo il dibattito sul tema, non schiacciandosi su un acritico sostegno delle posizioni pro-indipendenza, ma ovviamente mantenendo un fermo no alla repressione spagnolista di Rajoy.

Innanzitutto un po’ di tradizione…

Lenin e Rosa Luxemburg. Due giganti del socialismo rivoluzionario avevano opinioni del tutto contrapposte sul fenomeno dell’indipendentismo nazionale. Il primo era a favore dell’autoderminazione dei popoli a tal punto da mettere in gioco la stessa esistenza della Rivoluzione d’Ottobre, pur di mantenere in piedi la possibilità di libera secessione delle nazionalità oppresse dall’ormai defunto impero russo. La Luxemburg, al contrario, giudicava reazionario il nazionalismo polacco allora sostenuto dal PPS, Partito Socialista Polacco, nonostante fosse anch’essa polacca e per questo diede vita all’internazionalista SDKP, Socialdemocrazia del Regno di Polonia. Il marxismo era, per Rosa, internazionalista per vocazione e ogni cedimento alle piccole patrie che negasse la realtà di un mercato ormai esteso a livello mondiale ne era un tradimento.

Dal punto di vista strategico, sono convinto che la ragione fosse dalla parte di Lenin: come si può proclamare il primo Stato socialista del mondo e costringervi dentro quelle che fino a ieri sono state delle nazionalità oppresse? Per conquistare la fiducia dei lavoratori delle nazionalità oppresse è necessario garantir loro la possibilità di andarsene. Quella scommessa, vinta, consentì poi all’Urss di presentarsi come alleata dei giovani popoli colonizzati in lotta per la loro indipendenza nazionale contro gli imperialismi.

Tuttavia, si dibatteva allora tra Rosa e Lenin di nazionalità oppresse da secoli di zarismo. Diverso mi pare ora il caso di nazionalità incluse in stati dell’Occidente sviluppato.

Gratta, gratta e salta fuori il piccolo borghese…

Nel 2006, il governo del Psoe guidato da Zapatero riconobbe alla Generalitat catalana maggiori poteri in ambito amministrativo e fiscale, ma quattro anni dopo il Tribunale Costituzionale Spagnolo consultato su iniziativa della Destra guidata da Rajoy ne dichiarò l’incostituzionalità. Questo è l’evento che ha dato il via all’indipendentismo con il tentato referendum del 2014 e tutto ciò che lo ha seguito. Salta agli occhi, pertanto, che una delle radici principali della questione catalana è quella relativa al trattenimento della raccolta fiscale(esattamente come per le regioni leghiste \"par excellence\" Lombardia e Veneto). L\'altra radice evidentemente è quella del taglio dello Stato Sociale in Catalogna che però è stato praticato anche dalla borghesia locale e dalle forze politiche che la rappresentano. Queste ultime (Erc, Convergencia e Uniò ora Pdecat) sono state spregiudicatamente in grado di scaricare le loro responsabilità, nascondendosi dietro la questione fiscale e nazionale. Questa “radice”, a mio giudizio, spiega l\'egemonia della piccola borghesia  e delle sue forze politiche sul movimento, nonostante la marcata presenza di forze ideologicamente anticapitaliste come la Cup che, tuttavia, nell’ultimo periodo ha dovuto affievolire le sue richieste sociali per privilegiare l’aspetto nazionale e ottenere, infine, nulla più che una formale dichiarazione di indipendenza.

I meriti e i limiti dell’indipendentismo

È necessario, però, riconoscere che la questione indipendentista catalana ha scosso lo Stato spagnolo e i comunisti debbono partire da questo dato di fatto. Non è pensabile, cioè, un ritorno alla situazione precedente al referendum del 1° di ottobre senza scadere nella più pura e “nera” reazione di stampo franchista. Da questo punto di vista, dal punto di vista delle classi popolari, dei dominati, l’indipendenza catalana è stata un potente stimolo alla trasformazione dello stato delle cose esistentiMa, fermo restando il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano da esprimere in un referendum non condizionato dalla repressione, uno stimolo oggettivamente senza sbocchi positivi.

Dati i rapporti di forza militari (perché gli Stati si creano e si abbattono generalmente in questo modo) la “palla” non è più nella disponibilità delle forze politiche catalane. Tra queste ultime, l\'ala sinistra dell\'indipendentismo, se intende ottenere qualche risultato, deve necessariamente passare dalla formale (e attualmente inutile) dichiarazione di indipendenza a una proposta politica che riunifichi il fronte proletario diviso: i lavoratori spagnoli e la sinistra di classe spagnola non possono essere attratti dalla proposta indipendentista e i primi sono facilmente manipolabili dalla Destra di Rajoy se si rimane su di un semplice piano identitario.

Un fronte della Sinistra e delle classi popolari potrebbe agglutinarsi intorno a una proposta di nuova costituzione per la Spagna di tipo federale che riconosca pieni diritti a tutte le nazionalità e superi definitivamente l\'eredità centralista del franchismo e, infine, dia ampia garanzia di diritti sociali per tutti. Una proposta del genere è già stata avanzata dai comunisti catalani, spagnoli e da Podemos, mentre altri settori della Sinistra catalana, come quelli rappresentati dalla sindaca di Barcellona Ada Colau, potrebbero convergervi. 

Di certo, il progetto di una Spagna nuova ha bisogno di un fronte anticapitalista unitooltre l’indipendenza nazionale per l’indipendenza di classe.



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Repressione in Catalogna: l’Unione Europea si riscopre franchista

di Rete Dei Comunisti, 4 novembre 2017

In tempi record, che confermano il carattere preordinato e spudoratamente politico della misura, otto ministri del governo catalano – scelto da una maggioranza parlamentare democraticamente eletta dai cittadini – sono stati arrestati per ordine di un Tribunale Speciale ereditato dal franchismo e rinchiusi in prigioni fuori dal territorio catalano.

Neanche si trattasse di serial killer o di attentatori dello Stato Islamico…
Una sollecitudine che la magistratura e il governo spagnoli si sono ben guardati dal dimostrare contro quegli esponenti politici di Madrid protagonisti di ripetuti casi di corruzione che coinvolgono anche la famiglia reale.
E’ la prima volta che dei responsabili di un governo vengono imprigionati nell’Unione Europea per degli atti politici realizzati nel corso del loro mandato e in obbedienza alla volontà popolare espressa nel corso di un referendum democratico.
Uno dei ministri, che si era dimesso il giorno precedente alla dichiarazione d’indipendenza non condividendo la decisione dei suoi colleghi, si è risparmiato la prigione in cambio di una cauzione di 50 mila euro. Quando è arrivato a Madrid per essere interrogato dai giudici è stato accolto dagli slogan di un gruppo di nazionalisti e e fascisti spagnoli che lo hanno apostrofato al grido di “frocio” e “vigliacco”.
inizia quindi con un’altra raffica di arresti la campagna elettorale che dovrebbe portare alle elezioni regionali del 21 dicembre, imposte con la forza dal governo spagnolo con la complicità di Ciudadanos e Psoe (provocando le dimissioni dal partito socialista catalano di numerosi sindaci e consiglieri comunali in polemica con il sostegno di Pedro Sanchez al governo di estrema destra) e senza alcuna mobilitazione da parte delle cosiddette sinistre federaliste che pure si dicono contrarie all’applicazione dell’articolo 155 contro l’autogoverno catalano..
Al carcere sono scampati per ora Puigdemont e altri 4 ministri, ma solo perché hanno deciso di rifugiarsi in Belgio nel tentativo di internazionalizzare la crisi e costringere l’Unione Europea, sostenitrice della repressione di Madrid, a farsi carico del problema. Quella Unione Europea che di nuovo, attraverso i suoi portavoce, ha definito gli arresti politici realizzati da Madrid – e che si sommmano a quelli dei due presidenti di due grandi associazioni di massa indipendentiste realizzati alcune settimane fa – “una questione giudiziaria interna alla Spagna”. Contrariamente a quanto affermano alcuni analisti Bruxelles “non si volta dall’altra parte” rispetto al fascismo spagnolo, ma osserva attentamente e, in nome della stabilità e della difesa a oltranza dello status quo, non esita ad avallare una vandea neofranchista che nei prossimi giorni potrebbe portare ad altri arresti e al condizionamento delle elezioni imposte in Catalogna dopo lo scioglimento coatto del Parlament e del Govern di Barcellona. Non stupisce che il sentimento europeista all’interno della base sociale indipendentista, tradizionalmente molto forte nei settori più moderati, si stia gradualmente affievolendo. Lo iato tra le altisonanti dichiarazioni di democrazia e di difesa della libertà da parte dell’Unione Europea e dei suoi rappresentanti non reggono di fronte al cinico e inaccettabile sostegno di Bruxelles ad una repressione che non ha eguali nella storia recente del continente europeo, in barba allo stato di diritto, alla volontà popolare, alla divisione dei poteri, alle più elementari garanzie democratiche.
Presto in carcere potrebbero andarci anche i dirigenti della sinistra indipendentista, dei Comitati per la Difesa dei Referendum, gli attivisti sociali e sindacali, e non più solo i ministri del governo catalano o i leader delle associazioni indipendentiste. Significativa appare, da questo punto di vista, la richiesta da parte della Confindustria Catalana – ferocemente contraria all’indipendenza – che ha chiesto a Madrid di proibire e reprimere lo sciopero generale indetto da alcuni sindacati, in particolare la CSC (aderente alla Federazione Sindacale Mondiale) per il prossimo 8 novembre, a dimostrazione che all’interno della società catalana la faglia tra indipendentisti e unionisti ha un carattere di classe e non solo ideologico.
Di fronte all’escalation in atto a Barcellona e al pieno sostegno dell’Ue alla svolta neofranchista di Madrid perde qualsiasi credibilità ogni forza di sinistra, progressista e democratica che, dentro e fuori lo Stato Spagnolo, alla propria condanna di principio della repressione non faccia seguire comportamenti reali, nelle piazze così come nelle istituzioni.
La parola d’ordine delle mobilitazioni non può non associare la richiesta di liberazione dei prigionieri politici catalani e la condanna del fascismo di Madrid, con il sostegno ad una rottura da parte del popolo catalano, sicuramente di tipo nazionale, che però la stessa repressione spagnola ed europea contribuiscono a caricare di significati sociali e di classe.



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Il “cuneo catalano” mostra cos’è l’Unione Europea

di Dante Barontini, 4.11.2017

La battuta sarebbe scontata (“uno spettro s’aggira per l’Unione Europea”), ma il soggetto andrebbe cambiato. Quel fantasma, in questo momento è l’autodeterminazione dei popoli, pilastro – nel bene e nel male – del Novecento mondiale.

Visto che ormai si preferisce designare questo principio con il termine dispregiativo di “sovranismo”, ci sembra utile riportare la definizione contenuta nell’enciclopedia Treccani, come era solito fare qualsiasi “bravo giornalista”:

Principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna). Proposto durante la Rivoluzione francese e poi sostenuto, con diverse accezioni, da statisti quali Lenin e Wilson, tale principio implica la considerazione dei diritti dei popoli, in contrapposizione a quella degli Stati intesi come apparati di governo (Stato. Diritto internazionale). In tal senso, si pone potenzialmente in conflitto con la concezione tradizionale della sovranità statale; la sua attuazione deve inoltre essere contemperata con il principio dell’integrità territoriale degli Stati.

Un principio condiviso ufficialmente da imperialisti liberisti e rivoluzionari di professione, insomma, anche se spesso e volentieri ignorato dai primi.

Nel vedere le immagini del presidente catalano destituito, Carles Puigdemont, mentre passeggia a Bruxelles sotto palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea (il “governo” dei 27 paesi membri), il fantasma è apparso in carne e ossa.

Puigdemont e i quattro ex ministri catalani rimasti con lui in Belgio – Antoni Comin, Clara Ponsatì, Meritxell Serret e Lluis Puig – sono infatti ora ufficialmente ricercati con mandato di cattura internazionale, consegnato nelle stesse ore alle autorità del Belgio per ottenerne l’estradizione.

Più che con le parole pronunciate dagli indipendentisti catalani nelle scorse settimane, insomma, è direttamente il governo spagnolo – per il tramite di una magistratura assolutamente “dipendente” – a chiamare in causa l’Unione Europea, i trattati, i “valori condivisi”. E lo fa con la stupida iattanza fascista ancora inscritta in una Costituzione franchista appena emendata (libere elezioni e diritti civili, ossia un voto ogni cinque anni e movida libera), ma mai mutata nei pilastri portanti, a cominciare dal ruolo della monarchia (niente affatto di “rappresentanza”, come ha fatto vedere Felipe). Una Costituzione accettabile dall’Unione Europea solo a patto di non guardarci dentro. 

Al di là degli incerti aspetti costituzionali, comunque, l’indefesso fascismo dello Stato spagnolo è apparso in mondovisione il 1 ottobre con la Guardia Civil impegnata nell’assaltare i seggi elettorali e nel manganellare la popolazione schierata pacificamente a loro difesa.. E ora anche nei maltrattamenti subiti – ancora in diretta tv! – dai ministri catalani arrestati. Un video diffuso dal quotidiano spagnolo La Vanguardia mostra infatti agenti spagnoli della Audiencia Nacional che insultano Junqueras augurandogli sevizie sessuali in prigione.

Nelle stesse ore la ley mordaza viene applicata estensivamente, portando persino all’arresto di alcune persone per i loro commenti sui social…

Coloro che, in Belgio, dovranno decidere se consegnare Puigdemont e gli altri allo Stato spagnolo debbono fare i conti con questo innegabile contesto “anti-democratico”, oltre che con reati contestati assai poco consueti nel diritto europeo: ribellione, sedizione, malversazione, abuso di potere e disobbedienza. Malversazione (aver speso soldi pubblici per il referendum) e abuso di potere difficilmente comportano una carcerazione preventiva, fuori dalla Spagna. Mentre sedizione, ribellione e disobbedienza sono fin troppo chiaramente “comportamenti politici” magari scomodi per qualsiasi governo, ma dall’incerto profilo penale. Specie se – come in Catalogna – manifestati con il ricorso sistematico alla totale non violenza.

Il carattere completamente politico dei “reati” è peraltro confermato dallo stesso governo spagnolo, il cui portavoce Inigo Mendez de Vigo ha spiegato che “Finché non c’è condanna definitiva chiunque abbia i diritti civili intatti può presentarsi alle elezioni”. Dunque Puigdemont, Oriol Junqueras e anche i primi due prigionieri politici del dopo-referendum – “i due Jordi”, Sanchez e Cuixart – potranno candidarsi alle elezioni del 21 dicembre per “rinnovare” il Parlament di Barcellona.

Ci sarebbe ovviamente molto da discutere sulla “libera competizione elettorale” tra candidati accompagnati dalla Guardia Civil (quelli dei partiti “sovranisti spagnoli”: popolari, “socialisti” del Psoe, e Ciudadanos) e candidati in carcere o comunque osteggiati dal potere centrale (i media catalani di proprietà pubblica sono stati “invasi” e messi sotto controllo). Ma anche in queste condizioni infami i sondaggi danno per ora in ulteriore crescita il consenso ai partiti indipendentisti (PdeCat, Esquerra Repubblicana e Cup) a scapito ovviamente del fronte avverso e del divisissimo Podemos-Podem.

A Natale, insomma, la situazione potrebbe essere questa: parlamento e governo catalani in mano agli indipendentisti, conferma della dichiarazione di indipendenza e arresto dei nuovi ministri (magari equamente divisi tra quelli ancora in carcere e i nuovi entrati dalla libertà).

Qualunque decisione prenda il Belgio in merito all’estradizione dei cinque ec ministri catalani, insomma, sarà una decisione sbagliata.

Se li riconsegna a Rajoy certifica che nell’Unione Europea sono vietate tutte le posizioni politiche, democraticamente e pacificamente espresse, che risultano inaccettabili per i governi dei singoli paesi. L’Unione Europea – che continua a trincerarsi dietro la formula “è una questione interna alla Spagna” – certificherà che questa costruzione si preoccupa solo di costruire un mercato regolato in modo diseguale, secondo i rapporti di forza economici, ma non possiede alcuna visione condivisa della democrazia politica e degli interessi non convergenti dei singoli popoli che l’abitano. Una Unione che tratta insomma i cittadini esattamente con lo stesso atteggiamento con cui tratta la composizione del “parmesan” e il suo “diritto” a finire sulle nostre tavole come spacciato per parmigiano reggiano.

Se invece non riconsegnerà Puigdemont e soci all’imbufalito Rajoy aprirà un contenzioso tra paesi membri prevedibilmente molto aspro e dalle conseguenze imprevedibili. C’è infatti da ricordare che Gerry Adams, presidente del Sinn Fein e unico parlamentare a sedere contemporaneamente nel parlamento irlandese e in quello dell’Irlanda del Nord (formalmente Gran Bretagna), ha nei giorni scorsi appoggiato la dichiarazione di indipendenza catalana ricordando che “il diritto all’autodeterminazione dei popoli è una pietra angolare del diritto internazionale e questa dichiarazione deve essere pertanto rispettata”.

Tanto più che – dal punto di vista della stessa Unione Europea – non ha alcun senso logico opporsi all’autodeterminazione di una regione che, a maggioranza, vorrebbe comunque restare dentro la Ue (e i nostri lettori sanno benissimo che questa non è la nostra posizione, né quella della Cup). Non paradossalmente, proprio il totale e cieco appoggio della Ue a Rajoy potrebbe far crescere la consapevolezza generale che la rottura della stessa Ue è premessa necessaria per qualsiasi trasformazione, sociale e politica, europea e nazionale 

Negli oliati e indifferenti meccanismi tecnocratici della Ue il “cuneo catalano” si è dunque infilato con la forza di un popolo pacifico ma determinato. Dovremmo tutti adoperarci affinché non venga stritolato, non soltanto solidarizzando, ma attivandoci sul pano politico. Perché nell’Unione Europea tutti stiamo nella stessa condizione dei catalani: siamo infatti espropriati di qualsiasi possibilità di decidere collettivamente sia del nostro futuro che del nostro presente.





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