Si vedano anche:
Convergenza, democrazia, sovranità. Europa e politica. Intervento di Vladimiro GIACCHÈ (Pandora Rivista, 5 mar 2017)
Al convegno della rivista Pandora e dell'Istituto della Enciclopedia Italiana tenuto a Roma giovedì 26 gennaio 2017
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=Mf5zE3GGqgg
Sergio CARARO: L’eterna lotta tra il dito, la Luna e l’idiota. A “sinistra” (29 maggio 2018)
«Il deplorevole presidente italiano compie il suo ruolo con la consapevolezza rude di tutti i curatori fallimentari»
I federalisti che nell'Unione Europea avevano visto la base dei futuri Stati Uniti d'Europa, prima ancora di quanto ci si aspettasse hanno dovuto riconoscere il fallimento del loro sogno.
È chiaro infatti che una Federazione Europea per poter essere politicamente realizzata debba innanzi tutto trovare la sua attenzione nel settore economico-finanziario. Ora, fuori di tutte le assemblee interparlamentari, vere accademie inutili fatte solo per soddisfare vani esibizionismi, si constata che mai come oggi nel campo economico-finanziario vi è stato così forte contrasto fra i paesi dell'Europa Occidentale.
Uno dei presupposti per dar vita ad una Federazione Europea è sempre stato quello d'una moneta comune o di monete nazionali però convertibili l'una nell'altra a prezzo stabile, invece questo appare più che mai un segno irrealizzabile oggi di fronte alla lotta senza quartiere tra dollaro e sterlina, lotta che ha appunto come terreno e preda questa povera Europa Occidentale.. L'Inghilterra e l'America sono sotto l'incubo d'una grave crisi economica e cercano una via di salvezza nello sfruttamento dell'Europa Occidentale, che finiranno per trascinare nella loro stessa rovina. I due Paesi e le nazioni europee ad essi legate economicamente attraverso il Piano Marshall si avviano verso l'abisso di una crisi simile a quella del 1929 con tutte le gravi conseguenze che ancora si ricordano. (Non abbiamo fatto che parafrasare quanto in proposito ha scritto l' "Evening Standard").
Ormai a tutti è noto che l'Unione Europea e gli organismi derivanti dal Piano Marshall non sono l'espressione spontanea della volontà e delle esigenze dei popoli europei, bensì sono stati artificiosamente creati con lo scopo politico di fare d'un gruppo di nazioni europee uno schieramento in funzione antisovietica, e con lo scopo economico di fare dell'Europa Occidentale un campo di sfruttamento della finanza americana. Ma anche l'Inghilterra, che naviga in così cattive anque, cerca di salvarsi a spese di questa Europa Occidentale esausta. Di qui il contrasto fra dollaro e sterlina.
E i popoli, in balia di questi egoismi, hanno dinanzi a sé due spettri, la fame e la guerra. Le classi dirigenti dell'Europa Occidentale, di oltre Manica e di oltre Oceano sono troppo prese dai loro particolari interessi, per poter risolvere i problemi che angustiano giorno per giorno le masse lavoratrici. In America si è giunti ormai a quasi 6 milioni di disoccupati, nell'Europa Occidentale questo male va assumendo proporzioni preoccupanti.
È un vecchio mondo destinato a perire per le contraddizioni che porta in se stesso. E non vi sono Patto Atlantico, Unione Europea, Piano Marshall e Vaticano che possano arrestare il cammino del mondo nuovo, i cui rappresentanti sindacali sono oggi riuniti a congresso a Milano. Mentre il vecchio mondo si logora nei suoi insanabili contrasti, in queste lotte di feroci egoismi, scavandosi con le sue stesse mani la fossa; il mondo nuovo paziente, tenace e vigile fa la sua strada e perfeziona la sua opera. E dove passa sono i privilegi e la miseria che scompaiono ed è il lavoro che trionfa.
Sandro Pertini
Testo presentato al Forum «Cina e Ue. I nodi politici ed economici nell’orizzonte della “nuova via della seta” e di una “nuova mondializzazione”», Roma, 13 ottobre 2017.
Perché introdurre in questo IV forum europeo dedicato ai rapporti Cina-UE nel quadro della via della seta e della nuova globalizzazione il tema della Costituzione italiana? A prima vista può apparire fuori luogo rispetto al tema centrale.
In questo forum, gli studiosi italiani intendono fornire agli studiosi cinesi, in una pluralità di valutazioni e analisi, elementi di conoscenza critica sulla Ue, sulla sua crisi attuale e sull’origine di tale crisi. Da parte mia proverò ad individuare una possibile linea che porti ad affrontare in senso progressivo questa crisi. E in questo la Costituzione italiana può fornire una bussola fondamentale.
Che la Ue sia in crisi, che vi siano diversi elementi di criticità nella sua costruzione, credo che sia incontestabile. E credo si possa anche affermare che tale crisi non è contingente o passeggera, ma radicale, insita in profondità nelle radici stesse della costruzione europea. Gli ultimi discorsi trionfalistici sul cammino della Ue con il suo grande allargamento ad est li abbiamo ascoltati nel 2007, quando entrano a far parte della Ue, dopo il folto ingresso del 2004 di Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, repubbliche baltiche, gli altri due paesi ex socialisti, Bulgaria e Romania.
La grande crisi economica, manifestatasi come crisi dei mutui subprime nel 2007-8 e scaricatasi poi su alcuni paesi europei come crisi del debito pubblico degli stati, ha scosso la Ue molto più che gli Usa, in cui la crisi aveva avuto inizio. Le scelte di politica economica e monetaria dei vertici Ue e della sua banca centrale, legata ai dogmi antinflazionistici funzionali alla politica mercantilistica della Germania, si rivelano disastrose per i paesi meridionali (anche nella Ue c’è una questione meridionale) dell’eurozona – designati sprezzantemente con l’acronimo PIGS (maiali) – su cui si aggira lo spettro del fallimento degli stati. L’attacco della speculazione internazionale al debito pubblico dei paesi meridionali non viene ostacolato dalla Bce, che addirittura innalza nel luglio 2008 il tasso di riferimento al 4,25%. Ai paesi considerati poco virtuosi si impongono le politiche di austerity: in sostanza, decurtazione del salario diretto, indiretto e differito e smantellamento del welfare costruito nei decenni precedenti grazie alle lotte del movimento operaio e anche in risposta a un campo socialista che garantiva i diritti sociali fondamentali ai lavoratori. L’austerity deprime le economie dei paesi meridionali e provoca la peggiore recessione economica del secondo dopoguerra. La scure della “troika” (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) si abbatte su greci, spagnoli, portoghesi, italiani.
L’implementazione delle politiche antipopolari e impopolari di austerità richiede un profondo rimaneggiamento, sostanziale e formale, in senso oligarchico e antidemocratico delle istituzioni politiche e degli assetti democratici dei paesi in questione, dell’Italia in particolare, la cui Costituzione, entrata in vigore nel 1948, era stata scritta con l’apporto determinante delle forze di sinistra ed era figlia della resistenza antifascista e della lotta di liberazione. Lo scrive a chiare lettere nel 2013 un report della banca d'affari JP Morgan, che, dopo aver rilevato – come se fosse una colpa! – che “i sistemi politici della periferia europea sono stati creati in seguito alle dittature, e sono stati definiti da queste esperienze”, per cui “le Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica guadagnata dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”, indica come un limite da superare la “tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori”.
In breve, si tende ad imporre modifiche costituzionali che limitino l’esercizio della sovranità popolare. I governi dei paesi meridionali dell’eurozona, sotto il ricatto del minacciato default, devono trasformarsi da esecutivi delegati a tradurre in azione politica e amministrativa la volontà del popolo sovrano, da custodi della sovranità nazionale-popolare, in portavoce ed esecutori delle direttive del grande capitale tedesco e della Bundesbank, che ha la maggiore voce in capitolo nelle istituzioni della Ue, in quisling al servizio di potentati stranieri. Di qui i tentativi di ricorrere a modifiche costituzionali che limitano l’espressione popolare, con leggi elettorali maggioritarie che negano de jure e de facto il principio della sovranità popolare affermatosi con la rivoluzione francese del 1789. Per imporre le misure antipopolari si attaccano le costituzioni antifasciste.
Negli ultimi 10 anni il consenso e il gradimento dei cittadini dei diversi paesi verso la Ue è notevolmente diminuito, anche tra i paesi est europei che erano stati fortemente affascinati e irretiti dal sogno europeo, trasformatosi in incubo con la spada di Damocle del debito pubblico e del rischio di insolvenza degli stati, e politiche di attacco ai salari diretti, indiretti e differiti.
La causa principale di questo disamoramento per la Ue risiede fondamentalmente nel massacro sociale imposto ai popoli dai vertici Ue, dalla moneta unica. Ma non solo. La crisi è economico-sociale, ma anche crisi ideale. La Ue non è la frontiera della libertà e dei diritti civili e umani. La polarizzazione sociale si è acuita e il futuro non è affatto roseo. Inoltre, in politica estera la Ue si presenta come un’appendice degli USA, che la controllano attraverso la NATO, mentre ha approfondito, in particolare dopo il colpo di stato parafascista di Kiev del febbraio 2014 e la conseguente risposta russa, il solco con Mosca.
Questa crisi europea è anche crisi del modello politico europeo, dello stato di diritto, della democrazia rappresentativa. È crisi del rapporto governanti-governati.
L’affermarsi a livello di massa e nell’elettorato tradizionalmente di sinistra dei cosiddetti “populismi” critici della UE o antiUE è stato favorito dalle socialdemocrazie europee che, invece di porsi sul terreno della difesa degli interessi popolari colpiti dalle politiche europeiste, sono stati tra i principali portatori del progetto europeista, contribuendo ad implementare le politiche della Ue di massacro sociale.
L’attuale architettura della UE è stata sostanzialmente ridefiniti a Maastricht nel 1992. La Ue attuale è di fatto figlia del nuovo ordine mondiale seguito alla dissoluzione dell’Urss, e del nuovo assetto europeo che ne consegue. La nascita della Ue è segnata dall’Anschluss della DDR da parte della Germania di Bonn e dal nuovo ruolo europeo e mondiale che la Germania assume con tale annessione: è la fine dello status di minorità politica (pur giganteggiando in economia) impostole dalla rovinosa sconfitta nella II guerra mondiale. La Ue è figlia del pensiero unico, della vittoria USA nella guerra fredda, del trionfo del neoliberismo non solo contro il socialismo sovietico, ma anche contro ogni politica di intervento statale nell’economia che aveva caratterizzato la politica economica dei governi europei nel trentennio postbellico (1945-75). La costituzione formale e materiale della UE è scritta dai vincitori del 1989-91, che cancellano qualsiasi riferimento alla lotta antifascista e all’intervento statale in economia, e limitano la sovranità popolare, la rinchiudono in un recinto stretto. È la Ue dei nuovi poteri oligarchici del capitale finanziario.
Già nel suo atto di origine questa Ue è contro la Costituzione italiana nata dalla resistenza antifascista. Che era non solo di democrazia economico-sociale e non liberal-democratica, ma sottintendeva un percorso di ampliamento della partecipazione democratica, dove i partiti erano organizzatori di una volontà collettiva, e concorrevano con altri organismi di massa alla costruzione di una democrazia che si sviluppava progressivamente e si ampliava (negli anni 1970 con i consigli di fabbrica e di zona). La Ue di Maastricht è invece oligarchica, restringe la partecipazione, riduce i poteri popolari, compie le scelte di fondo in circoli chiusi. L’impianto liberista antistatalista fa il paio con l’antidemocraticità o l’ademocraticità delle sue commissioni e delle sue strutture portanti.
Diversi studi – e di parti politiche diverse – hanno messo in luce in modo analitico l’incompatibilità di Costituzione italiana e trattati europei [1] e le profonde ferite apportate negli ultimi anni a quest’ultima (si veda in particolare l’inserimento del pareggio di bilancio).
Nel contesto attuale la Costituzione repubblicana del 1948 può essere una bussola per un’uscita in senso progressivo e non regressivo dalla crisi europea. In primo luogo perché la sua difesa e la sua attuazione richiedono la riconquista della sovranità nazionale-popolare, tanto in campo economico-monetario, rispetto alla BCE, che politico-militare, liberandosi dalla tutela USA-NATO.
Il destino della Ue oggi è di fronte a un bivio. O continuare in questo precario equilibrio, con una duplice regressione: verso un sempre maggiore deficit di democrazia, da un lato, e derive di destra di un risorgente fascismo che si alimenta della crisi europea e della crisi delle socialdemocrazie schieratesi con le oligarchie europee. Oppure riconquistare la sovranità nazionale perduta. Ma essa deve essere nazionale popolare e non nazionale nazionalistica, la nostra idea di nazione è quella di popolo-nazione, non la nazione delle élite e delle oligarchie.
Il bivio che caratterizza la situazione mondiale oggi, tra guerra per mantenere il dominio unipolare USA e una nuova globalizzazione non imperialista di cui la proposta strategica della nuova via della seta è un’articolazione importante, può segnare anche il futuro della Ue. Si tratta di scegliere tra una politica ordoliberista senza sbocco per la Ue e al solo servizio del mercantilismo tedesco e una politica di sviluppo lungo la via della seta e le rotte dell’Eurasia, in un dialogo costruttivo e di reciproco vantaggio con la Russia, rispetto alla quale la continua espansione ad est della NATO tende ad alimentare invece tensioni e contrapposizioni.
Il modello della Costituzione italiana del 1948 di democrazia economico-sociale, in cui lo stato interviene nell’economia e in cui è indicato e prescritto il fine sociale dell’impresa, può essere una bussola per il superamento in senso progressivo della crisi europea.
E vi sono oggi condizioni che possono consentire una svolta. Se la Ue di Maastricht è figlia della sconfitta dell’Urss e del socialismo europeo e ha potuto affermare il suo indirizzo ordoliberista grazie all’eliminazione del nemico strategico, oggi quel nuovo ordine mondiale emerso a seguito del crollo del socialismo sovietico e incentrato sull’unipolarismo USA è decisamente messo in discussione dall’emergere di nuovi soggetti di portata mondiale, dalla riconquistata autonomia politica e militare della Russia – un paese ineludibile per gli equilibri mondiali – e dall’affermarsi sulla scena mondiale della Cina, che, consapevole del suo peso nell’economia mondiale, si presenta con un progetto strategico di lunga portata per sé e per il mondo. La Cina è l’unico paese che prospetti oggi una “nuova frontiera” per i popoli del mondo.
La Ue attuale, disegnata a Maastricht sulle ceneri dell’URSS e sull’Anschluss tedesco, ha fatto il suo tempo. Siamo ad un nuovo tornante della storia, verso un mondo multipolare. L’architettura europea non regge e va ridisegnata alla radice, non solo per le insostenibili contraddizioni interne che il progetto Ue sottende e che si sono manifestate apertamente nell’ultimo decennio, ma anche per i mutamenti sostanziali intervenuti nel mondo. Il progetto strategico di nuova via della seta e nuova mondializzazione offre una sponda e un’opportunità storica al mutamento della vecchia architettura europea figlia del collasso dell’Urss e dell’affermarsi dell’unipolarismo. Le ragioni per ridisegnare radicalmente l’architettura europea trovano una sponda e una base essenziale nel mutamento dei rapporti internazionali. Insostenibilità interna e quadro esterno concorrono alla esigenza di disegnare un’altra architettura per i paesi europei, di rompere con la subalternità agli USA che controllano e dirigono la politica militare della Ue attraverso la NATO, di rovesciare il mercantilismo tedesco, che – dopo una fase in cui la Germania è riuscita a schivare per i propri lavoratori i peggiori danni della crisi – è alla lunga dannoso per la condizione sociale dei lavoratori tedeschi (e l’affermarsi di formazioni neonaziste ne è un sintomo).
La Costituzione italiana si presenta come un’alternativa praticabile non utopica all’ordoliberismo e può essere un modello e una bussola per i paesi europei.. La via della seta può rappresentare per i popoli d’Europa un nuovo percorso e una prospettiva, una via lungo la quale possiamo incamminarci verso una nuova era.
NOTE
1 Cfr. tra gli altri, nella ormai notevole letteratura sull’argomento: G. Bucci, “BCE versus Costituzione italiana”, in MarxVentuno n.2/2012, ora anche in rete; Luciano Barra Caracciolo (2014), L’Unione monetaria europea e la Costituzione italiana, in http://formiche.net/2014/11/20/lunione-monetaria-europea-la-costituzione-italiana/; V. Giacché, Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile, Imprimatur, 2015; Giuseppe Palma (2015), L’incompatibilità tra costituzione italiana e trattati dell’unione europea - I principali aspetti di criticità, in https://www.diritto.it/l-incompatibilita-tra-costituzione-italiana-e-trattati-dell-unione-europea/
di Alessandro Barile
Rafael Poch-de-Feliu, Angel Ferrero, Carmela Negrete, La quinta Germania, Leg edizioni, Gorizia 2017, pp. 244, € 22,00.
A una lettura disattenta dei particolari, questo libro edito nel 2013 in Spagna e nel 2017 in Italia – in una versione aggiornata – potrebbe apparire poca cosa. Interessante quanto retorico, andrebbe a sommarsi alla ormai vasta letteratura sulla crisi dell’europeismo. Il diavolo, notoriamente, risiede però nei dettagli. Alcune specifiche rendono questo libro prezioso: in primo luogo, gli autori sono spagnoli e scrivono per il pubblico spagnolo; in secondo luogo, il loro punto di vista non è il solito “sovranismo” – di destra o di sinistra – entro cui vengono ricondotte le posizioni critiche rispetto al processo europeista e al capitalismo tedesco, quanto un eclettico “sinistrismo” liberale. Due caratteristiche notevoli, che gettano uno sguardo obliquo sulle sorti continentali e che contribuiscono ad affinare gli strumenti della critica all’attuale modello di sviluppo euro-liberista.
La «quinta Germania» nasce dalla riunificazione nazionale del 1990, con l’annessione della DDR da parte della Germania ovest. Sul tema, rimandiamo al fondamentale Anschluss di Vladimiro Giacchè. Il recupero di sovranità territoriale e potenza economica ha trasformato l’intero processo di unificazione economica europeista. Come spiega Poch-de-Feliu nell’introduzione, «la principale novità che questa quinta Germania esibisce rispetto a quella precedente si compone di due elementi. Il primo è costituito dal suo ritorno, graduale ma deciso, a un interventismo militare»: Balcani, Afghanistan, Africa, Ucraina, Lituania, sono solo alcuni dei fronti che vedono una notevole presenza dell’esercito tedesco; «l’altro elemento è costituito da una leadership europea, dogmatica e arrogante, utilizzata come uno strumento per imporre il programma di involuzione neoliberale promosso dagli anni Settanta da parte del mondo anglosassone». La riunificazione tedesca ha prodotto un terremoto economico che ha avuto inevitabili riflessi politici: da una parte, l’economia tedesca è troppo grande rispetto ai suoi partner comunitari (25% più grande della seconda economia, quella francese); dall’altra, è troppo piccola per dominare in via esclusiva il contesto europeo (il Pil tedesco è tra il 20 e il 25% del Pil della Ue). Il risultato è «un paese troppo potente per essere un paese europeo come gli altri, ma troppo debole per pretendere di ripetere un nuovo tentativo di dominio continentale». Di qui, l’esigenza di sfruttare l’Unione europea come moltiplicatore di scala, a scapito però dei suoi partner nazionali e dei lavoratori europei (compresi, come vedremo, i suoi stessi cittadini).
La percezione comune del paesaggio economico europeo è quella di uno Stato ricco con cittadini benestanti (la Germania), che ha saputo resistere meglio di altri alla crisi economica, integrato in una pletora di altri Stati poveri o impoveriti dalla crisi. La realtà è però decisamente diversa, come spiega egregiamente questo libro, in tal senso solo l’ultimo di una serie di lavori che svelano le tare del mercato del lavoro tedesco (rimandiamo al recente Ricca Germania poveri tedeschi. Il lato oscuro del benessere, di Patricia Szarvas).
«L’economia tedesca, “il motore d’Europa”, è un motore che ha bisogno di venire alimentato costantemente con una manodopera a basso costo, che subisce condizioni lavorative sempre peggiori. Nel 2012, in Germania abbiamo assistito alla massima percentuale storica di occupazione dai tempi della riunificazione». Nel vortice della più deflagrante crisi economica dell’Occidente, in Germania si raggiungeva sostanzialmente la “piena occupazione”. Le narrazioni statistiche velano una realtà materiale alquanto differente: dal 2000 ad oggi il monte ore complessivo lavorato in Germania è rimasto identico: 58 miliardi di ore (Mauro Meggiolaro, «Il fatto quotidiano», 3 dicembre 2014). I due milioni di lavoratori in più creati nel frattempo sono il risultato di un impoverimento complessivo del mercato del lavoro: «in molti casi un posto di lavoro a tempo pieno del 2000 si è trasformato in tre mini-job o in due part-time. Ci sono più occupati ma sono occupati per meno ore, meno soldi e con minori garanzie» (Cit. Meggiolaro). In Germania circa il 25% dell’intera manodopera lavorativa, circa 9 milioni di persone, è “contrattualizzata” (le virgolette sono d’obbligo) attraverso i mini-jobs, i tirocini (praktikum), e finte partite iva, cioè lavoro autonomo alle dipendenze materiali di un solo cliente (fatto questo illegale, in Germania come in Italia). Senza contare il lavoro nero, visto che per migranti e cittadini stranieri anche europei, le garanzie dello Stato sociale, necessarie ad accedere a disoccupazione e mini-jobs, non sono (più) previste. Il risultato è quello per cui «la Germania ha smesso d’essere uno dei paesi con i salari più elevati del mondo, per diventare il campione europeo dei salari bassi». I salari reali tedeschi sono infatti costantemente diminuiti in questo decennio, a fronte di un aumento dei profitti dell’11,8%: «un tedesco su quattro guadagna meno di cinque euro all’ora. Secondo l’Ocse, in Germania un bambino ogni sei vive in relativa povertà (mentre in Olanda si tratta invece di un bambino ogni 37)». La decennale stagnazione salariale ha determinato la nota crisi della domanda interna, che non ha solo impoverito i lavoratori tedeschi, ma aumentato a dismisura le disuguaglianze di reddito avvicinando la sperequazione tedesca a quella degli Usa, una delle più elevate al mondo.
La traiettoria sociale così delineata ha portato alla formazione di un mercato del lavoro duale, che prevede una quota – sempre più esigua – di lavoratori super-garantiti, sindacalizzati e dagli alti salari, alle dirette dipendenze delle aziende madri, a fronte di una percentuale sempre crescente di lavoratori senza alcuna garanzia né salariale, né contrattuale, né sociale, alle dipendenze di aziende in subappalto che però lavorano in esclusiva per le suddette grandi aziende (processo di esternalizzazione che ha creato un’aristocrazia sempre meno operaia e una massa proletarizzata). Il problema è che la valorizzazione del capitale privato tedesco avviene esattamente grazie a questo 25% di lavoratori precarizzati su cui viene caricato il costo della competitività delle aziende tedesche. E’ infatti nei settori decisivi per il surplus tedesco che avviene l’uso smodato della “de-contrattualizzazione” e della moderazione salariale: auto e grande industria.
Perché allora la Germania sarebbe “uscita meglio” dalla crisi economica? «A partire dall’introduzione della moneta europea, l’industria tedesca più che raddoppiò le sue esportazioni (che a inizio degli anni Novanta rappresentavano il 20% del suo Prodotto Nazionale Lordo e nel 2010 il 46%)». E’ l’export che ha retto le sorti produttive della Germania, un export fondato sugli elevati livelli di competitività dati dalle riforme Hartz dei primi anni Duemila e che hanno “cinesizzato” il mercato del lavoro tedesco, desertificando la produzione industriale degli altri partner europei con cui condivide una moneta unica che mantiene ultra-competitivo il tenore degli scambi commerciali con l’estero.
I contributi presenti nel libro entrano nel cuore di questa contraddizione originaria, ma il quadro è ormai chiaro: per come sono impostate le relazioni politico-economiche europee a egemonia tedesca, «ci troviamo di fronte a una situazione senza via d’uscita, nella quale ogni serio tentativo di eliminare ciò che sta distruggendo l’Unione europea passerebbe per la negazione dell’intero sistema attuale». La soluzione proposta è «un processo ordinato di decostruzione dell’Unione europea, una soluzione più efficace per uscire dal pantano rispetto al motto “più Europa” e al federalismo autoritario. […] Il primo passo è desacralizzare l’Unione europea, farla scendere dall’altare e collocarla alla portata di una critica realista».
Perché queste conclusioni, ormai accettate e condivise da una parte del dibattito politico italiano, costituiscono uno scarto interessante rispetto a questo stesso dibattito? Come detto in apertura, le posizioni di partenza dei tre autori del presente libro non sono ovviamente di destra, ma neanche “comuniste”: tutta la prima parte del libro racchiude un duro attacco al sistema autoritario sovietico e tedesco orientale. Sono al contrario espressioni di una sinistra liberale, una sinistra che però in Italia (e sempre più “solo” in Italia) è ancora protagonista della difesa a spada tratta dell’europeismo, dell’Unione europea come unico modello di relazioni politico-economiche. Altrove, segnatamente in Spagna, l’insofferenza per l’euro-liberismo a trazione tedesca sembrerebbe essersi introdotta nelle pieghe dei ragionamenti meno “compromessi” con le posizioni ideologiche più radicali. Un libro del genere difficilmente troverebbe pubblicazione in Italia, perché ne mancherebbero gli autori. Questo libro dimostra che la critica al liberismo europeista, una critica che assuma il dato di realtà dell’irriformabilità della Ue, può tracimare dai confini del radicalismo entro cui viene forzatamente ricondotta, per farsi discorso scientifico. In Italia, evidentemente, siamo ancora lontani da un risultato simile.
Il mito reazionario dei padri fondatori dell'UE
Al di là della odierna retorica smaccatamente filoeuropeista, quali sono i reali valori che si celano dietro all’origine dell’Unione Europea?
- di Francesco Delledonne
- 08/04/2017
Si fa un gran parlare in questi mesi (in particolare dopo lo smacco della Brexit) del necessario ritorno agli ideali delle origini, ai padri fondatori dell'Unione Europea, al mitico Manifesto di Ventotene, per uscire dal pantano, superare gli errori (fatti tutti in buona fede, s'intende) e ripartire verso la panacea dell'unificazione continentale, superando le anacronistiche resistenze di pensionati razzisti e giovani provinciali (a seconda dei casi).
Vale quindi la pena dare un'occhiata un po' meno superficiale alle origini del progetto comunitario e indagare, al di là della retorica, quali sarebbero questi alti ideali da riscoprire.
Partiamo dal mitico Manifesto di Ventotene, scritto tra il 1941 e il 1944 nell'isola-confino da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni.
Non è un'esagerazione affermare che questo documento rappresenta un diretto attacco polemico – scritto nel pieno della 2° guerra mondiale e pubblicato nel '44 – contro i comunisti e l'ideologia marxista.
Il principale demerito degli stati nazionali, di cui auspica un superamento coattivo, è infatti per Spinelli il fatto che “hanno infatti già così profondamente pianificato le proprie rispettive economie che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe, dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche. Con le maggiori probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto. Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare le masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paese.” [1]
Per Spinelli quindi il problema degli stati nazionali è che, ponendo immediatamente il popolo di fronte al tema del potere, favoriscono la presa di coscienza di classe e la tendenziale polarizzazione della società tra reazionari e rivoluzionari!
Ancora: “Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo.“ [1]
Vale la pena sottolineare di nuovo che queste parole vengono scritte nel pieno dello scontro europeo e mondiale con il nazi-fascismo, in cui i comunisti già in molti paesi stanno guidando i movimenti partigiani di resistenza.
Nella prospettiva di superamento coattivo degli stati nazionali indicata da Spinelli “possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica.” [1]
Qui anticipa quello che sarà un tema fondamentale della lotta ideologica nella Guerra Fredda: l'unità europea come grimaldello per scardinare l'unità del campo socialista.
La tesi fondamentale è infatti che “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire” ma lungo quella nuova della maggiore o minore disponibilità alla distruzione degli stati nazionali.
Non a caso dichiara che i gruppi sociali a cui si rivolge direttamente il Manifesto sono “la classe operaia e i ceti intellettuali”, quelli “più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani”. [1] All'interno di questo quadro vanno quindi intese le proposte sociali e gli elementi di critica al capitalismo presenti nel testo..
Per quanto riguarda il tema dell'Unione Europea come garanzia di pace, è sempre il padre fondatore Spinelli a smentire la vuota retorica di oggi e a mostrare i veri obiettivi politici e militari dell'unificazione europea, tali sin dalle origini.
Scrive infatti nel suo Diario il 12 aprile 1953: “Per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono in cui il regime poliziesco sarà marcio[...].” [2]
L'unità europea non è quindi un qualcosa di a sé stante fatta sulla Luna, ma che va inquadrata nella realtà concreta in cui viene concepita e sorge; sin dall'inizio, in particolare, non è disgiungibile dalla strategia e dagli interessi dell'imperialismo statunitense.
Negli ultimi anni di vita, è ancora Spinelli a riconoscerlo e anzi a rivendicarlo apertamente, intervenendo al congresso del Partito Radicale nel 1985: “Ci sono essenzialmente due metodi che sono contemporaneamente in opera; c'è il tentativo […] di un'Europa che sia fatta dagli europei. E c'è contemporaneamente il tentativo di un'Europa che sia fatta dagli americani. E vorrei che non ci sdegnassimo inutilmente, e in fondo non seriamente, di questa seconda alternativa. L'unità imperiale sotto l'egida americana è certo anche assai umiliante per i nostri popoli ma è superiore al nazionalismo perché contiene una risposta ai problemi delle democrazie europee, mentre il ritorno al culto delle sovranità nazionali non è una risposta. [...]
Le due forme stanno procedendo insieme e noi le vediamo sotto i nostri occhi; e guardate, non si può abolire l'una nella misura in cui si sviluppa l'altra. [...] È attraverso queste due che l'Europa va muovendosi.
[…] Ebbene, noi abbiamo una serie di eserciti apparentemente nazionali inquadrati sotto il comando americano e nel sistema imperiale americano. E la responsabilità fondamentale della difesa dell'Europa ce l'hanno oggi gli americani. Noi formiamo truppe di ausiliari.” [3]
Più chiaro di così
Non può quindi sorprendere quanto appare nero su bianco nei documenti dell'intelligence Usa venuti alla luce grazie al ricercatore della Georgetown University Joshua Paul e ripresi dal Telegraph in un articolo del 2000: nel 1948 venne creato il Comitato Americano per l'Europa Unita (ACUE), guidato dall'ex capo dell'OSS (poi CIA) William J. Donovan e da Allen Dulles, poi capo della Cia. [4]
Il Comitato, attraverso finanziamenti delle fondazioni Rockefeller e Ford, aveva il compito di sostenere e indirizzare la campagna per l'integrazione politica europea in chiave anti-comunista, in particolare finanziando il Movimento Europeo e la Campagna Giovanile Europea. [4]
Secondo questi documenti desecretati, il Comitato disponeva a metà degli anni '50 di circa 1 milione di dollari all'anno; nel 1958, per esempio, fornì il 53.5 per cento dei fondi del Movimento.
Fu ad esempio un memorandum del 26 luglio 1950 firmato dal generale Donovan a dare istruzioni per mettere in atto una campagna per promuovere la creazione del Parlamento europeo. [5]
Non si tratta quindi di complottismo, ma semplicemente della dimostrazione di una lucida e dichiarata strategia politica dell'imperialismo statunitense, accettata da gran parte delle classi dirigenti europee, che ha accompagnato sin dalle origini il mitico progetto comunitario.
Come scrive Brzezinski, “L’ Europa unita doveva fungere da strumento di colonizzazione Usa e testa di ponte verso il continente asiatico.” [6] Per caso vi suona familiare?
È del resto ancora Spinelli, con encomiabile schiettezza, a darne conferma nel suo Diario descrivendo il suo viaggio negli Usa del 1955: “Assai più interessante è stato l’incontro con Richard Bissell – Central Intelligence Agency. Ha mostrato subito un assai vivo interesse per i miei piani, ed ha promesso di intervenire presso Donovan e presso la Ford Foundation. [...] Ho visitato Donovan. Era presente anche Hovey, Executive Director dell’American Committee on United Europe [...] entrambi entusiasti del mio piano. Donovan si è impegnato formalmente a cercar fondi. Ha approvato la mia decisione di far in modo che sia io a dirigere l’operazione. […] Praticamente ho ottenuto la garanzia dell’appoggio dell’USIA, della Ford Foundation e dell’ACUE. Più di questo non potevo sperare.” [2]
È cambiato molto dai nobili ideali delle origini a cui molta sinistra europea continua a richiamarsi?
Il fatto che negli anni '70 e '80 un simile personaggio sia poi stato candidato come indipendente dal Pci al Parlamento italiano ed europeo dice molto del grado di degenerazione a cui purtroppo si era già giunti.
Se si sposta l'analisi al versante economico-sociale, la questione non cambia.
Tra i padri nobili dell'UE figura anche Von Hayek, fautore del liberismo senza freni, a suo tempo teorico di riferimento di Reagan, Thatcher e del dittatore cileno Pinochet.
Nel 1939 von Hayek delinea profeticamente come obiettivo quello di una “una federazione interstatale che faccia cessare tutti gli impedimenti come quelli al