Dal finire degli anni ’80 si andò definendo un nuovo assetto europeo: la Germania (riunita) diventava il nuovo leader che trascinava gli altri paesi in un percorso – politico ed economico – da cui lei avrebbe tratto il massimo giovamento. In questa nuova Europa sono ben definiti i ruoli: chi comanda e chi obbedisce, chi può prendere le decisioni strategiche e chi si può al più limitare al tentativo d’influenzarle. Un quadro in cui il ruolo dell’Italia è evidente, ma ancora più evidente il fatto che optando per porsi in subalternità si finisce per accettare le decisioni delle forze egemoni nella UE, anche quando queste vadano contro i propri interessi.
La Germania lanciò un progetto di ampio respiro che oggi si manifesta nella sua concretezza e che prevedeva la costruzione dell’egemonia – politica ed economica – in Europa. Forse fare dei paragoni con i vari Reich è per certi versi azzardato, ma per altri non tanto. Infatti il progetto prevedeva la propria riaffermazione su territori in cui più volte ha insistito la presenza tedesca (fino alla Prima Guerra Mondiale con l’alleanza tra Germania e Impero Austro-Ungarico e successivamente con il Terzo Reich). Anche in quest’ottica va inquadrata l’espansione ad Est avviata con il crollo dei paesi socialisti: nella ricomposizione della sfera d’influenza tedesca.
Sotto la spinta delle forze Euro-Atlantiche caddero tutti i paesi del Patto di Varsavia, che repentinamente passarono ad un sistema di libero mercato compatibile con il nuovo corso europeo. Tuttavia la Jugoslavia socialista (Stato multietnico per antonomasia) non mostrava particolari segni di cedimento. Questa infatti, non gravitando nell’orbita sovietica, non aveva eccessivamente accusato il colpo di quegli eventi. Pertanto, era evidente che per “normalizzare” la Jugoslavia si sarebbe dovuto ricorrere a differenti metodi, optando per alimentare le tensioni etniche e disarticolarla in piccoli stati. Su questa operazione convergevano gli interessi di diversi poteri forti: gli USA impegnati nella crociata contro il socialismo, la NATO in corsa verso Est, la Germania smaniosa di espandersi fino ai vecchi confini dei Reich, il Vaticano di Woytila che voleva costruire una nuova e cattolicissima Croazia.
Le forze Euro-Atantiche incendiarono i Balcani dando il via ad una terribile guerra civile, in Croazia sostennero gruppi che si ponevano in continuità con il passato fascista, compresi i ferocissimi Ustascia. Con il beneplacito delle forze Euro-Atlantiche la Croazia si macchiò di orribili crimini e fece una terribile pulizia etnica. Nel 1991 i cittadini di etnia croata nel Paese erano il 78% della popolazione complessiva, dieci anni dopo erano diventati il 90%. Con l’indipendenza, la Croazia era diventata di fatto uno Stato fascistoide, semi confessionale ed etnicamente quasi omogeneo. Ma soprattutto la Croazia diventava uno Stato davvero identitario, nell’accezione peggiore del termine.
Uno Stato in cui qualsiasi “diverso” è un nemico: altre etnie, chi abbia un pensiero politico non allineato a quello dominante, altre religioni, ecc. In Croazia i “diversi” soffrono uno stato di soggezione e marginalizzazione – si sentono sotto costante minaccia – per molti le strade percorribili sono sostanzialmente due: l’emigrazione o l’assimilazione (cioè la rinuncia della propria cultura per assumere quella dominante). Infatti, da dopo l’indipendenza, la popolazione complessiva della Croazia è in costante riduzione mentre aumenta la percentuale di croati a discapito delle altre etnie.
Un fenomeno riguardante pure la comunità italiana che dai primi anni ’90 ha subito una grave e costante riduzione. Questa comunità non fu vittima di pulizia etnica durante la guerra, sia perché l’Italia non lo avrebbe potuto permettere, sia perché è inverosimile pensare che l’aiuto offerto dall’Italia alla Croazia non avesse una contropartita nella protezione della minoranza italiana. Comunque le statistiche confermano che ancora oggi la comunità italiana in Croazia si riduce sempre di più e anche in questo caso per emigrazione o assimilazione. Molti degli italiani in Croazia si sentono stranieri e marginalizzati, incompatibili con uno Stato identitario, per ciò spesso preferiscono o andare a vivere in Italia o rinunciare alla propria identità per sposare quella croata.
Questo scenario è estremamente triste e abbastanza noto, il frutto avvelenato delle manovre geopolitiche e imperialistiche delle forze Euro-Atlantiche a cui l’Italia non si è opposta. Ovviamente esistono delle organizzazioni che curano gli interessi degli italiani in Croazia, ma qui non si vuole entrare nel merito di questi gruppi e tanto meno degli orientamenti politici loro e dei loro componenti. Qui si vuole riflettere su un aspetto che non è stato adeguatamente indagato, cioè la contraddizione che in quel frangente esplode in seno alle forze politiche europeiste italiane: hanno appoggiato un progetto geopolitico che ha leso la comunità italiana in Croazia. Nella Croazia indipendente che l’Italia ha contribuito a costruire non c’è spazio per i “diversi”, quindi neanche per gli italiani, è una comunità destinata a scomparire anche per colpa dell’Italia.
Come detto, all’inizio degli anni ’90 il mondo fu sconvolto da enormi cambiamenti, la NATO andava a ridefinire le proprie funzioni e in Europa si accelerò sul processo d’integrazione ad egemonia tedesca. In questo quadro si colloca la destabilizzazione della Jugoslavia. La ricostruzione di quegli anni necessita anche di uno sguardo alle vicende italiane. L’Italia si presentava fiaccata al tavolo di trattative europee in quanto subì una durissima speculazione finanziaria ad opera, tra gli altri, di quel George Soros che si stava impegnando nella distruzione della Jugoslavia. La cosiddetta “Prima Repubblica” era tramontata e sulla scena politica si presentarono nuovi protagonisti. Altre forze politiche si riciclarono tramite metamorfosi: il PCI diventava PDS e il MSI diventava AN. Questi ultimi partiti fecero delle svolte con cui si candidavano a divenire forze di Governo sposando ciecamente la causa europeista.
In definitiva il processo d’integrazione europea proseguiva a tappe forzate e tutta la classe di governo italiana ne era espressione. Il destino della comunità italiana in Croazia era un problema che praticamente nessuna forza politica aveva intenzione d’affrontare. Tuttavia i dati demografici erano inoppugnabili, la comunità italiana si stava riducendo e il clima nel Paese era ostile a tutte le minoranze. Per questo nel 1996 si cercò di correre ai ripari firmando un trattato bilaterale con cui si sancì che “la Repubblica di Croazia prenderà le misure necessarie per la protezione della minoranza italiana”: le persecuzioni contro gli italiani non ci furono, ma la comunità era comunque destinata a sparire; con il nuovo corso croato era inevitabile. Per le forze di Governo italiane era una contraddizione insanabile, uno scandalo che avrebbe potuto avere conseguenze politiche inimmaginabili.
In questo contesto in Italia repentinamente irruppe con vigore la questione delle Foibe: un coro trasversale di politicanti, giornalisti e “storici” di dubbia serietà iniziarono a raccontare che gli italiani in Croazia erano stati sterminati da Tito. Ovviamente anche la Slovenia venne trascinata nella vicenda, ma con minor enfasi.
Nel dibattito politico italiano la questione delle Foibe è stata assolutamente marginale per circa mezzo secolo (fino agli anni ’90), salvo poi farla diventare di forza un tema politico centrale. Per giustificare questo cambio di registro venne inventata di sana pianta una fantomatica “congiura del silenzio” basata su argomentazioni grottesche. Infatti fino agli anni ’90 la questione delle Foibe era stata nota e dibattuta, ma per quello che realmente era, verosimilmente dandogli anche una corretta quantificazione.
Successivamente c’è stato un vero e proprio impazzimento collettivo, con una sorta di macabra gara a chi raccontava la versione più tetra: senza alcun riscontro, e in spregio di ogni seria ricerca storica, venivano proposte cifre in libertà. Particolarmente interessante è stata la risposta scatenata dall’apertura del dibattito sulla bontà della “ricostruzione storica”: reazioni feroci e isteriche. Un qualcosa di smisurato e oltremodo scomposto per quelli che erano ormai – dopo tanti anni – i termini della vicenda. La questione delle Foibe, infatti, era improvvisamente diventato il più caldo tra tutti gli aspetti della Seconda Guerra Mondiale.
Dato che tutto ciò non era imputabile a novità di rilievo – non c’era stata alcuna scoperta di nuove fonti – sorse da subito il dubbio che dietro la questione delle Foibe ci potesse essere dell’altro, un qualcosa che tuttavia non si manifestava palesemente e che non si riusciva a cogliere. Ma soprattutto, risultava difficile credere che quel qualcosa di cui si sospettava l’esistenza potesse davvero essere relativo a dei fatti avvenuti negli anni ’40. Serpeggiò insomma subito il dubbio che si potesse trattare di qualcosa di più recente. A tal riguardo sono state formulate diverse ipotesi, in vario modo collegate all’evoluzione degli assetti politici interni e internazionali di quegli anni o a varie forme di opportunismo e trasformismo. Sicuramente si tratta di letture che trovano numerosi riscontri, tuttavia non riescono ad essere esaustive.
Collegando i vari eventi viene quindi da chiedersi se, da dopo gli anni ’90, la questione delle Foibe possa essere stata usata in Italia come “arma di distrazione di massa”, cioè per nascondere all’opinione pubblica un tema ben più attuale qual è la salvaguardia della comunità italiana in Croazia. Si è fatto passare il messaggio che le Foibe siano state il genocidio degli italiani nei Balcani. Si vuole far credere che gli italiani in quelle terre furono o massacrati da Tito o costretti alla fuga (con l’Esodo Giuliano Dalmata). Cioè, viene diffusa una narrazione da cui è completamente rimosso il fatto che, dopo quegli eventi, ci fosse ancora una consistente comunità italiana nei Balcani.
La rimozione potrebbe non essere casuale, ma collegata al fatto che negli anni ’90, in Italia, si era deciso di svincolarsi dalla comunità italiana in Croazia (e di voltarle le spalle, concedendo qualche mancia come “buonuscita”). Una volta cambiati i termini della questione, l’Italia non era tenuta ad intervenire, perché per l’opinione pubblica il problema non esisteva più.
Spostando artificiosamente agli anni ’40 l’estinzione della comunità italiana in Croazia, automaticamente veniva assolto chi dagli anni ’90 in poi è stato complice nel segnarne il destino: il tradimento è arrivato proprio da chi si presentava come suo paladino.
Ovviamente si tratta di vicende estremamente complesse, che è difficile poter trattare con esaustività in spazi brevi e su cui pochi sono disponibili al confronto. Abbiamo tutti il dovere morale d’indagare sul nostro passato (anche sul più recente), per rendere giustizia alla verità, alla memoria storica e alle vittime.
Certamente non si possono escludere altre concause, ma l’ipotesi di lettura della questione delle Foibe qui esposta è particolarmente innovativa e spinosa, si inserisce nel più ampio dibattito sul delicato tema del Confine Orientale. L’importanza della vicenda non è solo nell’interesse storico o politico, si tratta di un qualcosa di concreto e impellente.
Il destino della comunità italiana in Croazia è un tema estremamente serio, che non può essere risolto con qualche regalia, va affrontato politicamente. Ma è altrettanto importante fare piena luce su tutte le vicende del Confine Orientale, anche qualora – sia dal passato remoto che da quello più prossimo – emergano verità scomode. Ora la priorità è capire se la questione delle Foibe venga strumentalmente utilizzata per coprire delle scelte scellerate: il sacrificio della comunità italiana in Croazia sull’altare dell’integrazione europea.
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