Nuova produzione RAI di propaganda fascista
dinanzi alla Stazione Ferroviaria
PRESIDIO contro l'allestimento revanscista e slavofobo denominato "Treno del Ricordo"
Il 6 febbraio scorso è andata in onda in prima serata la fiction RAI "La rosa dell'Istria". È la terza pellicola prodotta dalla tv pubblica negli ultimi venti anni dedicata al tema del confine orientale, alle foibe e all'esodo. Il commento dello storico Eric Gobetti
“Presto il mondo farà di tutto per dimenticare la nostra storia”. Con queste parole, ripetute due volte nelle scene finali, si chiude simbolicamente la recente fiction Rai La rosa dell’Istria, andata in onda in prima serata il 6 febbraio 2024. Il dovere del ricordo dunque, il “non dimenticare” sembra essere la spinta che ha mosso la dirigenza della televisione pubblica italiana.
Eppure i numeri parlano chiaro: questa è la terza pellicola prodotta dalla Rai in vent’anni, dopo la fiction in due puntate Il cuore nel pozzo, del 2005, e la coproduzione Rosso Istria, del 2018. Se aggiungiamo i documentari, le graphic novel, i programmi televisivi, gli articoli di giornali, i siti e i podcast nessun altro tema storico ha mai avuto una tale sovraesposizione mediatica in tutta la storia italiana.
Si può obiettare che si tratta di una grande tragedia, che ha coinvolto molti italiani, ma allora perché non dedicare uguali risorse economiche e politiche per rendere meno sconosciute altre vicende altrettanto tragiche della stessa epoca? Gli IMI, gli Internati Militari Italiani, sono stati almeno il doppio degli esuli e ne sono morti 25.000, cinque volte tanto le vittime delle foibe; per non parlare dei morti sotto i bombardamenti o di altre centinaia di migliaia di profughi di fine guerra, quelli sì totalmente dimenticati dalla nostra collettività nazionale.
Pare evidente dunque che lo scopo di questo tipo di produzioni non sia rimuovere l’oblio, quanto piuttosto offrire una nuova interpretazione politica a fatti ampiamente conosciuti dall’opinione pubblica. In sostanza questo film non va giudicato come prodotto artistico, ma per il suo contenuto “formativo”, per la sua funzione educativa nei confronti della cittadinanza. Anche la verosimiglianza della trama o le incongruenze storiche (la più ridicola riguarda i carabinieri regi vestiti come negli anni Ottanta!) sono poco rilevanti: ciò che più conta è il messaggio veicolato dal film.
La trama in ogni caso è molto semplice: nel 1943 una famiglia istriana è aggredita dai partigiani jugoslavi e decide di emigrare in Friuli e poi in Veneto, dove si stabilisce definitivamente. Il film si concentra quindi sull’esodo e sulle difficoltà di integrazione in Italia. In questo senso può essere considerato l’ultimo tassello di una trilogia composta da Rosso Istria, incentrato sulle foibe del 1943, e Il cuore nel pozzo, dedicato alla fine della guerra nell’area di confine.
In comune con i film precedenti c’è lo scenario geografico, la violenza che giunge improvvisa con l’arrivo dei partigiani (senza alcuna relazione con l’oppressione fascista e i crimini commessi dall’esercito italiano in precedenza) e la netta contrapposizione dicotomica tra vittime innocenti e aggressori brutali.
La storia si svolge interamente negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale, ma il conflitto sembra non esistere, se non per gli effetti indiretti che produce sui protagonisti. Tutti i personaggi, anche i giovani uomini in età di leva, vivono in piena guerra mondiale come se niente fosse, talvolta soggetti a bombardamenti o controlli di documenti, ma sempre senza schierarsi né sentire il bisogno di dichiarare la propria adesione a uno dei due fronti in guerra. Nessuna scelta, nessuna appartenenza; della guerra sono solamente e totalmente vittime, e quando termina (in maniera apparentemente casuale) ne festeggiano la fine come fosse la guarigione da una malattia contro la quale non c’è medicina.
“La guerra è uno schifo”, viene ripetuto più volte, la guerra è un male inevitabile, al quale bisogna abituarsi. Sembra qui risuonare un oscuro riferimento alle guerre attuali, ai sacrifici che ci vengono richiesti oggi dallo stato di conflitto globale. L’unico comportamento “giusto”, pare comunicare il film, è l’attesa paziente. E quando si subisce una persecuzione immotivata non resta che scappare, rimboccarsi le maniche, lavorare e attendere. L’importante è non ribellarsi, e tutto si sistema, come mostra il giovane ebreo che aspetta allegramente la fine della guerra.
In questo contesto gli italiani, come sempre, non sono altro che vittime innocenti. Vittime della guerra, delle bombe, ma soprattutto di un’aggressione brutale e selvaggia, incomprensibile e insensata. Non c’è nel film un solo italiano che operi una scelta, in una direzione o nell’altra. Partigiani e fascisti in Italia non esistono, in una rappresentazione che ribadisce per l’ennesima volta lo stereotipo degli “italiani brava gente” e gli accenti più nazionalisti degli esuli.
“Siamo italiani due volte. Per nascita e per scelta”, afferma una profuga, richiamando uno degli slogan tanto cari alle associazioni degli esuli. Si tratta d’altronde di un modello condiviso da tutta la nostra classe dirigente, quello che ha portato vent’anni fa all’istituzione del Giorno del Ricordo, quello che avrebbe la funzione di pacificare le memorie divise della seconda guerra mondiale sulla base si una presunta innocenza globale di tutti gli italiani.
È sul rapporto fra vittime, carnefici e violenza che si giocano l’impatto emotivo sul pubblico e dunque le implicazioni politico-morali del film. Proprio su questo punto appare più notevole la distanza dall’ultimo film realizzato sullo stesso tema, Rosso Istria, nonostante la presenza, come sceneggiatore, di Maximiliano Hernando Bruno, regista della pellicola del 2018.
In Rosso Istria le motivazioni ideologiche erano prevalenti su quelle nazionali: le vittime venivano presentate inequivocabilmente come fascisti e i colpevoli come comunisti, italiani e jugoslavi. Del tutto diverso è lo scenario in La rosa dell’Istria, dove la contrapposizione è solo nazionale: slavi contro italiani. E mai viceversa; al punto che, in maniera del tutto irrealistica, il protagonista italiano parla correttamente croato (una lingua proibita nei vent’anni precedenti pure ai madrelingua!), mentre i partigiani non sanno una parola di italiano, in un territorio dove fino al giorno prima senza la conoscenza della lingua sarebbe stato impossibile vivere.
Ovviamente i “bravi” italiani, totalmente inermi, non hanno niente contro gli slavi, i quali invece odiano gli italiani, senza alcuna ragione apparente, e li inducono con la violenza alla fuga disordinata. Insomma, quella mostrata nel film è una pulizia etnica da manuale, che serve a ribadire e confermare la vulgata ufficiale, ampiamente smentita dagli storici, ma caposaldo dell’uso politico del Giorno del Ricordo.
Se nel film del 2018 era “giusto” stare con il fascismo, e i tedeschi erano mostrati come liberatori, in questo ultimo prodotto Rai, l’unica appartenenza possibile è quella nazionale e l’unica scelta condivisibile è l’attesa vittimista degli eventi. Non stupisce che questo film sia stato messo in cantiere durante il precedente governo e che venga duramente criticato dal partito della Meloni.
Niente “violenza comunista”, niente “genocidio”, si lamenta il quotidiano di Fratelli d’Italia, che infatti invoca la visione di Rosso Istria (pur citato col titolo maltradotto), con gli eroici fascisti che cadono per difendere la patria dall’aggressione comunista.
“Mi fa molto arrabbiare che [questa vicenda storica] sia ancora oggetto di lotta ideologica”, ha dichiarato l’attore protagonista, Andrea Pennacchi, all’uscita del film.
E tuttavia non è forse una scelta ideologica anche quella di nascondere le motivazioni ideologiche di quell’epoca, per mostrarne solo l’aspetto nazionale, peraltro in maniera univoca, ignorando i crimini italiani precedenti? Intendiamoci: tra l’esaltazione del coraggio fascista di Rosso Istria e la rappresentazione puramente vittimista de La rosa dell’Istria, è certo preferibile quest’ultima. Ma la vittima vera di questa rappresentazione è la storia, la conoscenza degli eventi e dunque anche, in definitiva, la loro funzione pedagogica.
Fino a quando non saremo in grado di comprendere che le foibe e l’esodo sono anche la conseguenza della violenza ventennale fascista, dei crimini dell’esercito italiano e della sconfitta dell’Italia mussoliniana, non avremo mai insegnato niente di utile ai nostri concittadini. La rosa dell’Istria è l’ennesimo tentativo maldestro di raccontare la storia in maniera univoca e parziale. È come una rosa senza spine: può risultare gradevole, ma è irrimediabilmente falsa.
Segue la citazione da 'In difesa di Ivan Motika'. [**]
_Il Motika ad una precisa domanda di mio padre sul perché doveva andare con loro rispose con la seguente frase “Ti se’ italian”._
Nell’istruttoria Pititto non dice però che Fiorentin alla fine non seguì Motika perché riuscì a scappare, aiutato dai tedeschi (come appare in una nota inviata dall’avvocato Sinagra al magistrato nella quale indica una serie di possibili testimoni per questa indagine). Infatti il nome di Fiorentin non si trova tra le “vittime”, e la testimonianza della figlia viene così riassunta nel verbale della Digos sopra citato: _la nominata, che all’epoca dei fatti aveva otto anni, ha basato la sua testimonianza soprattutto su quanto le avevano raccontato i genitori nel corso degli anni. Da tali confidenze venne a conoscenza che suo padre era stato oggetto di un tentativo di sequestro da parte di alcuni partigiani jugoslavi che sarebbero stati guidati dal Matika (...) solo la fortuita presenza di un partigiano ferito consentì di ritardare l’arresto del Fiorentin e di permettere all’intera famiglia di fuggire._
È chiaro quindi che anche questa teste non parla per propria conoscenza diretta ma si limita a riferire quanto dettole da altri."