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CATALOGNA, FINORA HANNO PERSO SOLO GLI ANTICAPITALISTI

1/2 – Segnalazioni in ordine cronologico inverso. In questo post:

1) ROMA 13 GENNAIO: I comunisti, l’Unione Europea e l’autodeterminazione dei popoli
2) Il feticcio dell’Indipendentismo e il suo segreto (di classe) (di Stefano Paterna  06/01/2018)
3) L’impasse dell’indipendentismo: il caso catalano (di Stefano Paterna  02/12/2017)
4) Repressione in Catalogna: l’Unione Europea si riscopre franchista (di Rete Dei Comunisti, 4 novembre 2017)
5) Il “cuneo catalano” mostra cos’è l’Unione Europea (di Dante Barontini, 4.11.2017)

Nel prossimo post:

*) ALTRI LINK
6) Donbass e Catalogna: una doverosa precisazione (di Mauro Gemma, 29 Ottobre 2017)
7) Ai compagni che non condividono il mio omaggio alla Catalogna (di Giorgio Cremaschi, 29 ottobre 2017)
8) L\'indipendenza catalana: cinque cose su cui riflettere (di Tony Cartalucci, 25 Ottobre 2017)
9) I sonnambuli europei, Orwell e la Catalogna (di Alberto Negri, 20 ottobre 2017)
10) L’intrigo catalano e la chiarezza italiana senza effetti (di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta, 4.10.2017)
11) Viva la Catalogna abbasso l’Italia (di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta, 26.9.2017)


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I comunisti, l’Unione Europea e l’autodeterminazione dei popoli


L’esplosione della vicenda catalana ha dimostrato quanto, nell’Unione Europea del XXI secolo, la questione nazionale sia ancora vigente e prioritaria, smentendo quei profeti che, superficialmente, preconizzavano il tramonto degli stati nazionali in epoca di “globalizzazione”.

La lotta per l’autodeterminazione, di nuovo, rappresenta in vari territori dell’Europa un formidabile motore di mobilitazione popolare e costituisce uno strumento attraverso il quale alcune classi sociali – in particolare la piccola borghesia e le classi subalterne colpite da anni di austerity – manifestano un disagio e un desiderio di rottura nei confronti dell’attuale assetto istituzionale dominato dallo svuotamento della democrazia formale a favore di una governance ordoliberista gestita da istituzioni sovranazionali che non prevedono la legittimazione e il consenso popolare.

In generale si può affermare che, se il processo d’integrazione ha svuotato di sovranità i governi e le istituzioni nazionali, espropriate a vantaggio delle istituzioni comunitarie (formali e informali), nel continente è in corso un processo di ricentralizzazione che accentua il carattere autoritario e reazionario degli stati amplificandone le funzioni coercitive e di controllo, sia nei confronti di eventuali ribellioni di natura sociale sia di qualunque altra contraddizione possa mettere a rischio una stabilità interna indispensabile a consentire al polo imperialista europeo di reggere una competizione internazionale sempre più feroce.

La vicenda catalana ha messo, finora, in evidenza la rigidità di una Unione Europea che di fronte al manifestarsi di un conflitto nazionale al suo interno non sa e non può fare altro che sostenere incondizionatamente lo Stato-Nazione di riferimento.

La questione nazionale si pone oggi, nel continente europeo, sia a partire dal recupero della sovranità popolare in quegli stati che fanno parte dell’Unione Europea e che ne sono stati espropriati, come i Pigs, o che pur non facendone parte sono già ingabbiati all’interno del suo spazio economico e normativo – si veda la sponda sud del Mediterraneo – sia in relazione al diritto all’autodeterminazione delle nazioni senza stato che invece proprio negli Stati trovano un muro, una barriera invalicabile sostenuta dall’Unione Europea e dalle sue istituzioni.

Non può sfuggire che uno dei momenti fondativi, costitutivi dell’Unione Europea è stata la disgregazione violenta della Jugoslavia da parte di una Germania che ha soffiato sul fuoco dei nazionalismi pur di assorbire nella sua orbita alcuni territori a spese dell’ex stato federale. Ma quel principio di autodeterminazione della Croazia, della Slovenia e della Bosnia, difeso manu militari dalla costituenda Unione Europea – oltre che dagli Stati Uniti – non è ora riconosciuto da Bruxelles ai catalani mentre rispetto agli scozzesi si dimostra una certa tolleranza dopo la Brexit decisa da Londra.
D’altra parte, l’UE non ha esitato, pur di allargare fino a Kiev la sua area di influenza, a sostenere un golpe reazionario e a sdoganare i fascisti e i neonazisti ucraini appoggiando al contempo una criminale guerra contro le popolazioni russe dell’est del paese il cui il diritto all’autodeterminazione, di nuovo, Bruxelles non vuole riconoscere. In Palestina intanto l’occupazione israeliana si fa ancora più feroce grazie anche alla complicità di un’amministrazione Trump che provocatoriamente ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale del cosiddetto ‘Stato Ebraico’.

I comunisti hanno, nel corso della loro storia, affrontato la questione nazionale in diversi modi, attraverso diverse chiavi di lettura, a seconda delle epoche, dei contesti, delle necessità concrete del momento. Non si può quindi affermare che esista, all’interno del movimento comunista, un’unica chiave di lettura su questo tema. Ci dobbiamo quindi affidare dall’analisi concreta della situazione concreta, forti dell’analisi e dell’esperienza storica di quei leader e di quei movimenti, in particolare Lenin, che con il diritto delle nazioni all’autodeterminazione si confrontarono direttamente all’interno di un contesto rivoluzionario.

Su questi temi invitiamo tutti a confrontarsi in un incontro previsto a Roma il prossimo 13 gennaio.

Nei prossimi giorni, inoltre, il nuovo numero della rivista Contropiano conterrà un documento della Rete dei Comunisti sull’analisi di fase a livello internazionale ed un altro contributo che ricostruisce l’evoluzione del pensiero di Lenin proprio sulla Questione Nazionale.

 

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I comunisti, l’Unione Europea e l’autodeterminazione dei popoli

Il caso catalano interroga i comunisti sull’attualità della questione nazionale

Sabato 13 gennaio, ore 16.30

Impact Hub Roma, via dello Scalo San Lorenzo 67

Coordina: Giampietro Simonetto – Coordinamento Nazionale Rete dei Comunisti

Relazione di Marco Santopadre – Coordinamento Nazionale Rete dei Comunisti


Interventi di:

Maurizio Vezzosi – giornalista, esperto di Donbass

Bassam Saleh – attivista palestinese

Eleonora Forenza – Europarlamentare PRC

Marco Morra – attivista Laboratorio Casamatta Napoli


All’iniziativa sono invitati a partecipare e ad intervenire: Partito Comunista Italiano, FGCI, Collettivo Genova City Strike, Collettivo Militant, Sinistra Classe Rivoluzione, Associazione Marx XXI, Fronte Popolare, Laboratorio Casamatta…


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Il feticcio dell’Indipendentismo e il suo segreto (di classe) 

In Catalogna emerge nelle urne la fragilità della sinistra e l’ambiguità dei nazionalismi.

di Stefano Paterna  06/01/2018

Parafrasando Winston Churchill si potrebbe dire, a proposito degli indipendentisti catalani di sinistra: “Tra indipendenza e socialismo avete scelto la prima. Non l’otterrete e non avrete il secondo”.

risultati elettorali delle elezioni regionali catalane del 21 dicembre mi pare si possa dire abbiano pienamente confermato i dubbi e le cautele in materia di indipendentismo e sinistra di classe. La Cup, Candidatura di Unità Popolare, quasi dimezza il suo capitale di consensi tra il 2015 e oggi, perdendo il 3,5% dei voti; mentre la sinistra non indipendentista della sindaca Ada Colau, CatComu-Podem perde anch’essa seggi nel parlamento di Barcellona. Il risultato non può rendere felici, ma spinge a comprenderne le ragioni.

L’indipendentismo e le sue radici di classe: al sud e al nord del mondo

Dietro i partiti ci sono sempre degli attori più concreti, solidi e meno formali, costituiti dalle classi sociali, dagli uomini e donne che le compongono e dai loro interessi materiali, dalle loro aspirazioni e prospettive. La regola vale anche per i processi di costruzione di uno Stato indipendente. A questo proposito diviene di fondamentale importanza la collocazione sulla cartina mondiale del processo di indipendenza di una nazione dall’altra. Ovviamente, non per un criterio meramente geografico, ma per la sua disposizione nell’arco della catena internazionale della divisione del lavoro.

Così appaiono diversi i processi di liberazione nazionale avvenuti in America Latina o nel mondo arabo (Cuba, Algeria, Egitto solo per fare alcuni esempi) da quelli che si stanno producendo attualmente nel cuore dell’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio). Nel primo caso, i processi rivoluzionari che portarono alla creazione di stati indipendenti videro tra le forze protagoniste anche le borghesie nazionali: nel caso del mondo arabo, dove si era in assenza di una forte classe operaia, queste forze espressero anche la direzione dei movimenti di liberazione. Ma nei paesi in questione la liberazione nazionale coincideva con la crescita delle forze produttive industriali, fino ad allora compresse e sacrificate sull’altare degli interessi dell’industria della metropoli coloniale o neocoloniale. Si trattava, pertanto, da un punto di vista marxista, di borghesie che avevano un oggettivo ruolo progressivo.

Di tutt’altro segno, invece, la natura e il ruolo che la borghesia (soprattutto la piccola borghesia) gioca negli attuali movimenti indipendentisti nei paesi imperialisti, ovvero nei paesi pienamente maturi dell’area capitalista. Qui non ci sono forze produttive da liberare, c’è soltanto l’effetto disgregatore sulle rispettive società delle politiche liberiste applicate dall’Unione Europea, con il loro mix letale di tagli alla spesa pubblica, aumento dello sfruttamento e della precarietà del lavoro e tensione degli apparati produttivi all’aumento delle esportazioni. In queste aree, contraddistinte da una storia e da una cultura relativamente autonome, la piccola borghesia è in enorme difficoltà: le sue micro-imprese non reggono il confronto con i grandi colossi multinazionali della produzione e soprattutto della distribuzione, si chiudono i battenti e la minaccia della proletarizzazione si staglia ben chiara dinanzi agli occhi di commercianti, piccoli imprenditori, politici regionali di professione.

Il proletariato, che non ha una precisa coscienza del suo ruolo e della sua importanza, subisce pesantemente gli effetti della crisi che in varie forme perdura dal 2008 e affida la cura dei propri interessi alla piccola borghesia, richiedendo genericamente l’aumento della spesa pubblica e del welfare. In questo contesto è forte la tentazione di fare da soli; di gestire le proprie risorse senza l’intermediazione e la ridistribuzione da parte dell’apparato statale centrale, ma di mantenere tuttavia i vantaggi della propria collocazione all’interno dell’area imperialista. Nel caso catalano è questa la posizione della maggioranza del movimento indipendentista, ovvero di JuntsperCat del fuggiasco Puigdemont e di Esquerra Republicana de Catalunyaindipendenza da Madrid, ma salda appartenenza alla Ue.

Paralisi e divisione della sinistra in Catalogna

La traduzione elettorale e politica di questa situazione sociale e di classe si è avuta lo scorso 21 dicembre, come ben chiaramente riportato nel pezzo sopra citato. Il risultato di Ciudadanos, partito politico di impronta radicalmente liberista e di destra (ma unionista e spagnolista) è indicativo e particolarmente inquietante: 25,3 per cento risucchiando la destra del Partito Popolare e sfondando nei settori operai composti da forza-lavoro immigrata dal resto del territorio dello stato spagnolo.

Ovvero: se la guida del movimento è piccolo-borghesese le richieste non sono di modificazione strutturale dei rapporti di produzione, ma di mera redistribuzione territoriale sulla base di una pur legittima e distinta storia culturale e linguistica; i proletari si dividono in base all’appartenenza nazionale e la loro rappresentazione politica (la sinistra di classe) si dividele destre si irrobustiscono e appaiono come le opzioni più concrete e realistiche.

Naturalmente, non è possibile sottacere il ruolo della repressione di Madrid nella produzione dell’esito elettorale del 21 dicembre. Una repressione neo-franchista che va condannata e che rischia di tracimare in senso puramente reazionario e antidemocratico. Tuttavia, l’alternativa ai nazionalismi e alla deriva autoritaria esiste: la sinistra spagnola nel suo complesso potrebbe rialzare la bandiera unificante della Repubblica contro il ruolo nefasto della Monarchia e l’eredità dell’accordo con il franchismo morente; del riconoscimento pieno dei diritti di autonomia di tutti i popoli presenti sul suo territorio; della ricostruzione di uno stato sociale e popolare fuori e contro l’Unione Europea. Per farlo c’è bisogno di coraggio e (da comunisti) di rinunciare ad ogni approccio ideologico, di falsa coscienza, anche quella della cosiddetta indipendenza nazionale senza contenuti di classe.



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L’impasse dell’indipendentismo: il caso catalano 

Oltre i limiti del nazionalismo, il progetto costituzionale di una Spagna nuova.

di Stefano Paterna  02/12/2017

“Bussando alle porte del Paradiso”, cantava Bob Dylan. E così hanno fatto gli indipendentisti catalani il 1° ottobre scorso con il referendum sull’indipendenza, ma le porte non si sono aperte sul Paradiso della libertà, ma solo per far passare il pugno duro della repressione del governo Rajoy, con l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione Spagnola e il conseguente commissariamento del governo regionale catalano (Generalitat), l’arresto di otto ex suoi ministri (tra i quali spicca il vicepresidente Oriol Junqueras, leader del partito di Centrosinistra Erc) e il mandato d’arresto per l’ex presidente catalano Carles Pugdemont, del partito di Centrodestra Pdecat, fuggito in Belgio. A questi arresti vanno aggiunti quelli Jordi Sanchez e Jordi Cuixart delle due associazioni indipendentiste, Anc e Omnium e la repressione da parte della Guardia Civil nella giornata del referendum per impedirne l’effettuazione.

Nel frattempo, l’Unione Europea si è completamente schierata a fianco del governo di destra di Madrid, mentre a favore degli indipendentisti si sono più o meno apertamente poste le forze della Sinistra radicale internazionale. Tuttavia, anche all’interno della Sinistra di classe si è aperto un dibattito sulle vicende catalane e in generale sugli aspetti controversi dell’indipendentismo, mentre anche in Spagna e in particolare in Catalogna il tema divide anche il campo delle classe popolari come ben evidenzia il recente e bel reportage da Barcellona pubblicato da questo giornale. L’intento di questo articolo è appunto quello di mantenere vivo il dibattito sul tema, non schiacciandosi su un acritico sostegno delle posizioni pro-indipendenza, ma ovviamente mantenendo un fermo no alla repressione spagnolista di Rajoy.

Innanzitutto un po’ di tradizione…

Lenin e Rosa Luxemburg. Due giganti del socialismo rivoluzionario avevano opinioni del tutto contrapposte sul fenomeno dell’indipendentismo nazionale. Il primo era a favore dell’autoderminazione dei popoli a tal punto da mettere in gioco la stessa esistenza della Rivoluzione d’Ottobre, pur di mantenere in piedi la possibilità di libera secessione delle nazionalità oppresse dall’ormai defunto impero russo. La Luxemburg, al contrario, giudicava reazionario il nazionalismo polacco allora sostenuto dal PPS, Partito Socialista Polacco, nonostante fosse anch’essa polacca e per questo diede vita all’internazionalista SDKP, Socialdemocrazia del Regno di Polonia. Il marxismo era, per Rosa, internazionalista per vocazione e ogni cedimento alle piccole patrie che negasse la realtà di un mercato ormai esteso a livello mondiale ne era un tradimento.

Dal punto di vista strategico, sono convinto che la ragione fosse dalla parte di Lenin: come si può proclamare il primo Stato socialista del mondo e costringervi dentro quelle che fino a ieri sono state delle nazionalità oppresse? Per conquistare la fiducia dei lavoratori delle nazionalità oppresse è necessario garantir loro la possibilità di andarsene. Quella scommessa, vinta, consentì poi all’Urss di presentarsi come alleata dei giovani popoli colonizzati in lotta per la loro indipendenza nazionale contro gli imperialismi.

Tuttavia, si dibatteva allora tra Rosa e Lenin di nazionalità oppresse da secoli di zarismo. Diverso mi pare ora il caso di nazionalità incluse in stati dell’Occidente sviluppato.

Gratta, gratta e salta fuori il piccolo borghese…

Nel 2006, il governo del Psoe guidato da Zapatero riconobbe alla Generalitat catalana maggiori poteri in ambito amministrativo e fiscale, ma quattro anni dopo il Tribunale Costituzionale Spagnolo consultato su iniziativa della Destra guidata da Rajoy ne dichiarò l’incostituzionalità. Questo è l’evento che ha dato il via all’indipendentismo con il tentato referendum del 2014 e tutto ciò che lo ha seguito. Salta agli occhi, pertanto, che una delle radici principali della questione catalana è quella relativa al trattenimento della raccolta fiscale(esattamente come per le regioni leghiste \"par excellence\" Lombardia e Veneto). L\'altra radice evidentemente è quella del taglio dello Stato Sociale in Catalogna che però è stato praticato anche dalla borghesia locale e dalle forze politiche che la rappresentano. Queste ultime (Erc, Convergencia e Uniò ora Pdecat) sono state spregiudicatamente in grado di scaricare le loro responsabilità, nascondendosi dietro la questione fiscale e nazionale. Questa “radice”, a mio giudizio, spiega l\'egemonia della piccola borghesia  e delle sue forze politiche sul movimento, nonostante la marcata presenza di forze ideologicamente anticapitaliste come la Cup che, tuttavia, nell’ultimo periodo ha dovuto affievolire le sue richieste sociali per privilegiare l’aspetto nazionale e ottenere, infine, nulla più che una formale dichiarazione di indipendenza.

I meriti e i limiti dell’indipendentismo

È necessario, però, riconoscere che la questione indipendentista catalana ha scosso lo Stato spagnolo e i comunisti debbono partire da questo dato di fatto. Non è pensabile, cioè, un ritorno alla situazione precedente al referendum del 1° di ottobre senza scadere nella più pura e “nera” reazione di stampo franchista. Da questo punto di vista, dal punto di vista delle classi popolari, dei dominati, l’indipendenza catalana è stata un potente stimolo alla trasformazione dello stato delle cose esistentiMa, fermo restando il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano da esprimere in un referendum non condizionato dalla repressione, uno stimolo oggettivamente senza sbocchi positivi.

Dati i rapporti di forza militari (perché gli Stati si creano e si abbattono generalmente in questo modo) la “palla” non è più nella disponibilità delle forze politiche catalane. Tra queste ultime, l\'ala sinistra dell\'indipendentismo, se intende ottenere qualche risultato, deve necessariamente passare dalla formale (e attualmente inutile) dichiarazione di indipendenza a una proposta politica che riunifichi il fronte proletario diviso: i lavoratori spagnoli e la sinistra di classe spagnola non possono essere attratti dalla proposta indipendentista e i primi sono facilmente manipolabili dalla Destra di Rajoy se si rimane su di un semplice piano identitario.

Un fronte della Sinistra e delle classi popolari potrebbe agglutinarsi intorno a una proposta di nuova costituzione per la Spagna di tipo federale che riconosca pieni diritti a tutte le nazionalità e superi definitivamente l\'eredità centralista del franchismo e, infine, dia ampia garanzia di diritti sociali per tutti. Una proposta del genere è già stata avanzata dai comunisti catalani, spagnoli e da Podemos, mentre altri settori della Sinistra catalana, come quelli rappresentati dalla sindaca di Barcellona Ada Colau, potrebbero convergervi. 

Di certo, il progetto di una Spagna nuova ha bisogno di un fronte anticapitalista unitooltre l’indipendenza nazionale per l’indipendenza di classe.



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Repressione in Catalogna: l’Unione Europea si riscopre franchista

di Rete Dei Comunisti, 4 novembre 2017

In tempi record, che confermano il carattere preordinato e spudoratamente politico della misura, otto ministri del governo catalano – scelto da una maggioranza parlamentare democraticamente eletta dai cittadini – sono stati arrestati per ordine di un Tribunale Speciale ereditato dal franchismo e rinchiusi in prigioni fuori dal territorio catalano.

Neanche si trattasse di serial killer o di attentatori dello Stato Islamico…
Una sollecitudine che la magistratura e il governo spagnoli si sono ben guardati dal dimostrare contro quegli esponenti politici di Madrid protagonisti di ripetuti casi di corruzione che coinvolgono anche la famiglia reale.
E’ la prima volta che dei responsabili di un governo vengono imprigionati nell’Unione Europea per degli atti politici realizzati nel corso del loro mandato e in obbedienza alla volontà popolare espressa nel corso di un referendum democratico.
Uno dei ministri, che si era dimesso il giorno precedente alla dichiarazione d’indipendenza non condividendo la decisione dei suoi colleghi, si è risparmiato la prigione in cambio di una cauzione di 50 mila euro. Quando è arrivato a Madrid per essere interrogato dai giudici è stato accolto dagli slogan di un gruppo di nazionalisti e e fascisti spagnoli che lo hanno apostrofato al grido di “frocio” e “vigliacco”.
inizia quindi con un’altra raffica di arresti la campagna elettorale che dovrebbe portare alle elezioni regionali del 21 dicembre, imposte con la forza dal governo spagnolo con la complicità di Ciudadanos e Psoe (provocando le dimissioni dal partito socialista catalano di numerosi sindaci e consiglieri comunali in polemica con il sostegno di Pedro Sanchez al governo di estrema destra) e senza alcuna mobilitazione da parte delle cosiddette sinistre federaliste che pure si dicono contrarie all’applicazione dell’articolo 155 contro l’autogoverno catalano..
Al carcere sono scampati per ora Puigdemont e altri 4 ministri, ma solo perché hanno deciso di rifugiarsi in Belgio nel tentativo di internazionalizzare la crisi e costringere l’Unione Europea, sostenitrice della repressione di Madrid, a farsi carico del problema. Quella Unione Europea che di nuovo, attraverso i suoi portavoce, ha definito gli arresti politici realizzati da Madrid – e che si sommmano a quelli dei due presidenti di due grandi associazioni di massa indipendentiste realizzati alcune settimane fa – “una questione giudiziaria interna alla Spagna”. Contrariamente a quanto affermano alcuni analisti Bruxelles “non si volta dall’altra parte” rispetto al fascismo spagnolo, ma osserva attentamente e, in nome della stabilità e della difesa a oltranza dello status quo, non esita ad avallare una vandea neofranchista che nei prossimi giorni potrebbe portare ad altri arresti e al condizionamento delle elezioni imposte in Catalogna dopo lo scioglimento coatto del Parlament e del Govern di Barcellona. Non stupisce che il sentimento europeista all’interno della base sociale indipendentista, tradizionalmente molto forte nei settori più moderati, si stia gradualmente affievolendo. Lo iato tra le altisonanti dichiarazioni di democrazia e di difesa della libertà da parte dell’Unione Europea e dei suoi rappresentanti non reggono di fronte al cinico e inaccettabile sostegno di Bruxelles ad una repressione che non ha eguali nella storia recente del continente europeo, in barba allo stato di diritto, alla volontà popolare, alla divisione dei poteri, alle più elementari garanzie democratiche.
Presto in carcere potrebbero andarci anche i dirigenti della sinistra indipendentista, dei Comitati per la Difesa dei Referendum, gli attivisti sociali e sindacali, e non più solo i ministri del governo catalano o i leader delle associazioni indipendentiste. Significativa appare, da questo punto di vista, la richiesta da parte della Confindustria Catalana – ferocemente contraria all’indipendenza – che ha chiesto a Madrid di proibire e reprimere lo sciopero generale indetto da alcuni sindacati, in particolare la CSC (aderente alla Federazione Sindacale Mondiale) per il prossimo 8 novembre, a dimostrazione che all’interno della società catalana la faglia tra indipendentisti e unionisti ha un carattere di classe e non solo ideologico.
Di fronte all’escalation in atto a Barcellona e al pieno sostegno dell’Ue alla svolta neofranchista di Madrid perde qualsiasi credibilità ogni forza di sinistra, progressista e democratica che, dentro e fuori lo Stato Spagnolo, alla propria condanna di principio della repressione non faccia seguire comportamenti reali, nelle piazze così come nelle istituzioni.
La parola d’ordine delle mobilitazioni non può non associare la richiesta di liberazione dei prigionieri politici catalani e la condanna del fascismo di Madrid, con il sostegno ad una rottura da parte del popolo catalano, sicuramente di tipo nazionale, che però la stessa repressione spagnola ed europea contribuiscono a caricare di significati sociali e di classe.



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Il “cuneo catalano” mostra cos’è l’Unione Europea

di Dante Barontini, 4.11.2017

La battuta sarebbe scontata (“uno spettro s’aggira per l’Unione Europea”), ma il soggetto andrebbe cambiato. Quel fantasma, in questo momento è l’autodeterminazione dei popoli, pilastro – nel bene e nel male – del Novecento mondiale.

Visto che ormai si preferisce designare questo principio con il termine dispregiativo di “sovranismo”, ci sembra utile riportare la definizione contenuta nell’enciclopedia Treccani, come era solito fare qualsiasi “bravo giornalista”:

Principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna). Proposto durante la Rivoluzione francese e poi sostenuto, con diverse accezioni, da statisti quali Lenin e Wilson, tale principio implica la considerazione dei diritti dei popoli, in contrapposizione a quella degli Stati intesi come apparati di governo (Stato. Diritto internazionale). In tal senso, si pone potenzialmente in conflitto con la concezione tradizionale della sovranità statale; la sua attuazione deve inoltre essere contemperata con il principio dell’integrità territoriale degli Stati.

Un principio condiviso ufficialmente da imperialisti liberisti e rivoluzionari di professione, insomma, anche se spesso e volentieri ignorato dai primi.

Nel vedere le immagini del presidente catalano destituito, Carles Puigdemont, mentre passeggia a Bruxelles sotto palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea (il “governo” dei 27 paesi membri), il fantasma è apparso in carne e ossa.

Puigdemont e i quattro ex ministri catalani rimasti con lui in Belgio – Antoni Comin, Clara Ponsatì, Meritxell Serret e Lluis Puig – sono infatti ora ufficialmente ricercati con mandato di cattura internazionale, consegnato nelle stesse ore alle autorità del Belgio per ottenerne l’estradizione.

Più che con le parole pronunciate dagli indipendentisti catalani nelle scorse settimane, insomma, è direttamente il governo spagnolo – per il tramite di una magistratura assolutamente “dipendente” – a chiamare in causa l’Unione Europea, i trattati, i “valori condivisi”. E lo fa con la stupida iattanza fascista ancora inscritta in una Costituzione franchista appena emendata (libere elezioni e diritti civili, ossia un voto ogni cinque anni e movida libera), ma mai mutata nei pilastri portanti, a cominciare dal ruolo della monarchia (niente affatto di “rappresentanza”, come ha fatto vedere Felipe). Una Costituzione accettabile dall’Unione Europea solo a patto di non guardarci dentro. 

Al di là degli incerti aspetti costituzionali, comunque, l’indefesso fascismo dello Stato spagnolo è apparso in mondovisione il 1 ottobre con la Guardia Civil impegnata nell’assaltare i seggi elettorali e nel manganellare la popolazione schierata pacificamente a loro difesa.. E ora anche nei maltrattamenti subiti – ancora in diretta tv! – dai ministri catalani arrestati. Un video diffuso dal quotidiano spagnolo La Vanguardia mostra infatti agenti spagnoli della Audiencia Nacional che insultano Junqueras augurandogli sevizie sessuali in prigione.

Nelle stesse ore la ley mordaza viene applicata estensivamente, portando persino all’arresto di alcune persone per i loro commenti sui social…

Coloro che, in Belgio, dovranno decidere se consegnare Puigdemont e gli altri allo Stato spagnolo debbono fare i conti con questo innegabile contesto “anti-democratico”, oltre che con reati contestati assai poco consueti nel diritto europeo: ribellione, sedizione, malversazione, abuso di potere e disobbedienza. Malversazione (aver speso soldi pubblici per il referendum) e abuso di potere difficilmente comportano una carcerazione preventiva, fuori dalla Spagna. Mentre sedizione, ribellione e disobbedienza sono fin troppo chiaramente “comportamenti politici” magari scomodi per qualsiasi governo, ma dall’incerto profilo penale. Specie se – come in Catalogna – manifestati con il ricorso sistematico alla totale non violenza.

Il carattere completamente politico dei “reati” è peraltro confermato dallo stesso governo spagnolo, il cui portavoce Inigo Mendez de Vigo ha spiegato che “Finché non c’è condanna definitiva chiunque abbia i diritti civili intatti può presentarsi alle elezioni”. Dunque Puigdemont, Oriol Junqueras e anche i primi due prigionieri politici del dopo-referendum – “i due Jordi”, Sanchez e Cuixart – potranno candidarsi alle elezioni del 21 dicembre per “rinnovare” il Parlament di Barcellona.

Ci sarebbe ovviamente molto da discutere sulla “libera competizione elettorale” tra candidati accompagnati dalla Guardia Civil (quelli dei partiti “sovranisti spagnoli”: popolari, “socialisti” del Psoe, e Ciudadanos) e candidati in carcere o comunque osteggiati dal potere centrale (i media catalani di proprietà pubblica sono stati “invasi” e messi sotto controllo). Ma anche in queste condizioni infami i sondaggi danno per ora in ulteriore crescita il consenso ai partiti indipendentisti (PdeCat, Esquerra Repubblicana e Cup) a scapito ovviamente del fronte avverso e del divisissimo Podemos-Podem.

A Natale, insomma, la situazione potrebbe essere questa: parlamento e governo catalani in mano agli indipendentisti, conferma della dichiarazione di indipendenza e arresto dei nuovi ministri (magari equamente divisi tra quelli ancora in carcere e i nuovi entrati dalla libertà).

Qualunque decisione prenda il Belgio in merito all’estradizione dei cinque ec ministri catalani, insomma, sarà una decisione sbagliata.

Se li riconsegna a Rajoy certifica che nell’Unione Europea sono vietate tutte le posizioni politiche, democraticamente e pacificamente espresse, che risultano inaccettabili per i governi dei singoli paesi. L’Unione Europea – che continua a trincerarsi dietro la formula “è una questione interna alla Spagna” – certificherà che questa costruzione si preoccupa solo di costruire un mercato regolato in modo diseguale, secondo i rapporti di forza economici, ma non possiede alcuna visione condivisa della democrazia politica e degli interessi non convergenti dei singoli popoli che l’abitano. Una Unione che tratta insomma i cittadini esattamente con lo stesso atteggiamento con cui tratta la composizione del “parmesan” e il suo “diritto” a finire sulle nostre tavole come spacciato per parmigiano reggiano.

Se invece non riconsegnerà Puigdemont e soci all’imbufalito Rajoy aprirà un contenzioso tra paesi membri prevedibilmente molto aspro e dalle conseguenze imprevedibili. C’è infatti da ricordare che Gerry Adams, presidente del Sinn Fein e unico parlamentare a sedere contemporaneamente nel parlamento irlandese e in quello dell’Irlanda del Nord (formalmente Gran Bretagna), ha nei giorni scorsi appoggiato la dichiarazione di indipendenza catalana ricordando che “il diritto all’autodeterminazione dei popoli è una pietra angolare del diritto internazionale e questa dichiarazione deve essere pertanto rispettata”.

Tanto più che – dal punto di vista della stessa Unione Europea – non ha alcun senso logico opporsi all’autodeterminazione di una regione che, a maggioranza, vorrebbe comunque restare dentro la Ue (e i nostri lettori sanno benissimo che questa non è la nostra posizione, né quella della Cup). Non paradossalmente, proprio il totale e cieco appoggio della Ue a Rajoy potrebbe far crescere la consapevolezza generale che la rottura della stessa Ue è premessa necessaria per qualsiasi trasformazione, sociale e politica, europea e nazionale 

Negli oliati e indifferenti meccanismi tecnocratici della Ue il “cuneo catalano” si è dunque infilato con la forza di un popolo pacifico ma determinato. Dovremmo tutti adoperarci affinché non venga stritolato, non soltanto solidarizzando, ma attivandoci sul pano politico. Perché nell’Unione Europea tutti stiamo nella stessa condizione dei catalani: siamo infatti espropriati di qualsiasi possibilità di decidere collettivamente sia del nostro futuro che del nostro presente.





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Vedi anche: LO STATO DELL’INFORMAZIONE (PTV News 08.01.18)



Repubblica e i ribelli siriani, ovvero della straordinaria libertà d’espressione del giornalismo italiano

7 gennaio 2018 

[IMMAGINE: da La Repubblica

http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7559.jpg ]

 

Complice il prosecco e qualche panettone di troppo, la mattina del 4 gennaio qualcosa dev’essere andato storto nella redazione di Repubblica. D’improvviso, senza accorgersene, ingolfati dai festeggiamenti del Capodanno, ecco apparire per un brevissimo lasso di tempo la verità. Come sempre, questa si presentava senza clamore, senza schiamazzo, con la consueta eleganza delle cose semplici: «Siria, le narrazioni fasulle dell’”Osservatorio siriano sui diritti” che copre i crimini dei cosiddetti “ribelli”». Il titolo, degno del Pulitzer: in una frase racchiuso il significato di sei anni di guerra civile. Lo svolgimento ripete semplicemente quanto ormai accertato da chiunque abbia almeno capito dove si situi la Siria sul mappamondo: «Dunque, la verità a quanto pare, è che sono i cosiddetti “ribelli”, terroristi senza scrupoli, ad affamare i civili, privandoli degli aiuti a loro inviati, usandoli come scudi umani e come oggetto di un’ignobile mistificazione della realtà».

[IMMAGINE: da La Repubblica, 4.1.2018

http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7558.jpg ]


E poi il silenzio, l’oblio. Nel pomeriggio, nessuna notizia dell’articolo, del suo autore, di tutta la faccenda. In compenso, uno stralunato articolo di scuse verso i lettori, colpevoli di aver letto per qualche ora la verità. Espulso dalla rete, come mai avvenuto, cancellato da ogni memoria. Se ne salvano pochi screenshot recuperati qua e là nella rete:

[IMMAGINE: da La Repubblica, 4.1.2018

http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7561.jpg ]


Altre poche ore, ed ecco lo sconfortato atto di contrizione, la penitenza pubblica, l’autoaccusa.

[IMMAGINE: \"autocritica\" di Carlo Ciavoni, 5..1.2018

http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7562.jpg ]


Il processo si è risolto per il meglio, l’imputato ha dichiarato di sua sponte la sua colpevolezza, possiamo tornare a raccontarvi la nostra realtà: «Messa da parte ogni pretesa di assoluta indipendenza, a fornire le notizie dalle zone che resistevano ad Assad sono stati per mesi i vari Media center gestiti da attivisti locali». La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Viva il giornalismo.



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(srpskohrvatski / italiano)

Jelena Petrovic e suo marito \"sciaboletta\" son tornati

1) Italijani u velikoj tajnosti sahranili nekadašnju princezu Crne Gore (FOTO)
2) Vittorio Emanuele III, se questo è un re vittorioso... (di Angelo d’Orsi)
3) La storia ha già dato un giudizio negativo di questo re (Tiziano Tussi)


Vedi anche:

Elena del Montenegro, voce Wikipedia

Il ritorno della salma di Elena di Montenegro, la penultima regina d\'Italia (15 dicembre 2017)
E\' stata traslata con discrezione, dal cimitero di Montpellier dove era sepolta dal 1952 al Santuario di Vicoforte, nei pressi di Mondovì, dove è arrivata oggi, la salma della penultima regina d\'Italia, Elena di Montenegro, vedova di re Vittorio Emanuele III...

A proposito dell’ennesima fuga ingloriosa di Vittorio Emanuele il piccolo, l’unico clandestino trasportato dall’aviazione repubblicana (di Gigi Bettoli - 18 dicembre 2017)
... ci permettiamo di ricordare anche la sanguinosa conquista, nel 1911-1912, della Libia araba e dell’arcipelago del Dodecaneso greco; il titolo di imperatore conquistato nel 1936, a scapito dell’ultimo stato libero dell’Africa, l’Etiopia, vinto solo con l’utilizzo dei gas; l’aggressione alla Spagna repubblicana nello stesso anno; l’aggiunta del titolo di Re dell’Albania, con la conquista del paese adriatico nel 1939; la seconda guerra mondiale a fianco del nazismo genocida tedesco, invadendo: Egitto, Francia, Grecia, Jugoslavia, Unione Sovietica e Tunisia...

VIDEO: Kraljica Jelena Savojska (Црна Гора - Montenegro, 7 ott 2015)


=== 1 ===


Italijani u velikoj tajnosti sahranili nekadašnju princezu Crne Gore (FOTO)

Telo Jelene Savojske je 15. decembra prebačeno u Italiju i sada je u svetilištu Vikoforte kod Mondove

17. decembar 2017

Nekadašnja princeza Crne Gore i kraljica Italije Jelena od Savoje (rođena kao Jelena Petrović-Njegoš) sahranjena je u marijanskom svetilištu Vikoforte u Italiji, javlja RTCG pozivajući se na italijansku Republiku.
Kako navodi, telo Jelene Savojske, supruge Viktora Emanuela III, 15. decembra je u velikoj tajnosti prebačeno u Italiju i sahranjeno u svetilištu Vikoforte kod Mondove, na području Kunea.
Njena unuka, Marija Gabriela od Savoje zahvalila je italijanskom predsedniku Serđu Matareli što je dopustio da telo njene bake bude preneto u Italiju.
Prenos tela podudara se s 70-om godišnjicom smrti Viktora Emanuela III, koji je sahranjen u Aleksandriji u Egiptu.
Viktor Emanuele III odrekao se u maju 1946. godine prestola u korist sina, Umberta II, a mesec dana nakon toga na referendumu je uspostavljena Italijanska Republika.
Viktor Emanuele umro je u Aleksandriji, Egiptu, godinu nakon odlaska iz Italije, a njegova udovica ostala je u izgnanstvu u Francuskoj.
Kraljica Jelena umrla je u Monpeljeu 1952. godine.
Matarela je dao odobrenje i za sahranu Viktora Emanuelea III što će, kako se navodi, biti naknadno objavljeno.
Jelena Petrović Njegoš bila je šesta kćerka crnogorskog kralja Nikole i kraljice Milene.
Imala je petoro dece.
RTCG navodi da su zasluge Jelene Savojske za italijanski narod bile su tolike da je katolički biskup Rišar iz Monpeljea inicirao da se ona proglasi za sveticu.
(Tanjug/Telegraf.rs)



=== 2 ===

https://ilmanifesto.it/vittorio-emanuele-iii-se-questo-e-un-re-vittorioso/

Vittorio Emanuele III, se questo è un re vittorioso…

di Angelo d’Orsi 

su Il Manifesto del 19.12.2017

Sono poco interessato alla sede sepolcrale che raccolga i resti di Vittorio Emanuele III, detto «Sciaboletta».

Scongiurato il Pantheon o Superga, sono finiti in un santuario piemontese: in fondo una «cristiana sepoltura» non si nega a nessuno.

Ma, come’è ovvio, «la questione è politica»: e un breve ripasso storico ci può aiutare a capire e giudicare.

Davanti alle polemiche sollevate da più parti, si è dovuto constatare qualche difesa d’ufficio, volta a sminuire le responsabilità del «re vittorioso», e della casata sabauda. Sono risonate parole già udite in passato: il buon re Vittorio non era consenziente con le sciagurate iniziative del Duce, anche se, sbagliando, sottoscrisse gesti politici, iniziative diplomatiche, atti giuridici, che sarebbe stato bene non avesse sottoscritto.

E a chi incalza, ricordando che comunque egli fece tutto questo, si risponde che il re lo fece un po’ per quieto vivere, un po’ per debolezza, un po’ per via dell’isolamento in cui era stato confinato da rapporti di forza sfavorevoli con il fascismo.

Insomma, un sovrano più «actus» che «agens», che assomiglia tanto al Mussolini di Renzo De Felice, che «non voleva», che «non era d’accordo», che «venne costretto a…».

A coloro che invece imprecano contro questo ennesimo «ritorno dei Savoia», va ricordato, tuttavia, che le colpe di quel bel tomo che ha trovato infine da ieri l’eterno riposo terreno, sono ben antecedenti alle infami leggi razziali del 1938: in sintesi, la sua intera carriera politica è stata all’insegna del tradimento degli interessi della nazione, della volontà del suo popolo, degli stessi orientamenti politici del Parlamento. Nel maggio 1915 egli firmò l’entrata in guerra dell’Italia, contro il volere della larga maggioranza del Parlamento, d’accordo soltanto con il primo ministro (Salandra) e il responsabile degli Esteri (Sonnino)..

Si trattò di un vero e proprio colpo di Stato: il primo di una serie, come ricordò il grande Luigi Salvatorelli.

Il modo con cui l’esercito – di cui il re era pur sempre il comandante in capo – nella persona del suo capo militare, il generale Luigi Cadorna (poi sostituito da Armando Diaz), affrontò la crisi di Caporetto nell’autunno ’17 fu vergognoso: l’aver dar la colpa ai soldati «vilmente arresisi», costituì un’autentica infamia. Seguirono persecuzioni verso i socialisti, accusati di avere provocato la disfatta, una pessima gestione dei profughi italiani provenienti dalle terre venete invase dal nemico austro-germanico, e via seguitando.

In quella guerra il fascismo affondò le sue radici, ed ecco che si arrivò al secondo colpo di stato di Vittorio: la mancata firma del decreto di stato d’assedio per fronteggiare la Marcia Su Roma, deciso dal Governo Facta, l’ultimo dei ministeri liberali, aprendo così la strada all’avvento mussoliniano al potere.

Un’azione palesemente illegale, un attacco armato alla capitale del Regno, da parte di un partito militare come il Pnf, venne tranquillamente accolto dal sovrano, che non solo ritirò il decreto, ma due giorni dopo accolse in pompa magna Mussolini che sfacciatamente gli sibilò: «Maestà vi porto l’Italia di Vittorio Veneto», e fu preso sul serio.

Nel Ventennio il re, checché ne dicano «storici» compiacenti, appoggiò e sostenne ogni impresa del Duce, al quale concesse addirittura la massima onorificenza della casa regnante, il Collare dell’Annunziata, che rendeva Mussolini «cugino» di Vittorio.

Fra le tante bassezze e illegalità commesse da colui che avrebbe dovuto difendere lo Statuto Albertino – ossia la Costituzione – e lo violò ripetutamente, ricordo la firma del decreto che dichiarava decaduti i deputati aventiniani, nel 1926, e il pacchetto delle leggi fascistissime di Rocco, a cominciare dalla istituzione di un Tribunale Speciale: una incredibile fuoruscita dallo Stato di diritto.

In questa deriva, la firma delle leggi razziali furono la ciliegia sulla torta.

L’arresto di Mussolini, il 26 luglio ’43, dopo giorni di terribili (e vigliacchi) bombardamenti alleati su Roma, lungi dal costituire un gesto riparatorio, fu un nuovo atto illegale: il terzo colpo di Stato del re.

In fondo Mussolini era il capo del governo «legittimo» (reso tale da leggi illegittime), che fino al giorno prima aveva governato col pieno assenso del re. Il cui tardivo risveglio certo non può assolvere Vittorio. La successiva fuga ignominiosa al Sud, mentre l’esercito si squagliava e il Centronord era lasciato in mano ai tedeschi, fu l’ultimo oltraggio alla dignità e alla libertà d’Italia.

Insomma, se questo è un re vittorioso…


=== 3 ===

www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 17-12-17 - n. 655

La storia ha già dato un giudizio negativo di questo re

Tiziano Tussi

17/12/2017

Questa la dizione perfetta della XIII disposizione finale e transitoria della nostra Costituzione sino alla fine di ottobre del 2002

I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive.
Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l\'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale.
I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli.


 Il primo ed il secondo comma sono stati aboliti dalla legge costituzionale del 23 ottobre 2002.

Il tutto fatto senza aver sollevato allora particolari dimostrazioni di protesta, neppure dell\'ANPI. Ora ci ritroviamo sia i discendenti sabaudi che appaiono in troppe trasmissioni televisive, e lasciamo perdere ogni commento alle performances di Emanuele Filiberto, sia alla presenza di un re in pectore che molti anni fa ha sparato con un fucile verso una barca attraccata vicino alla sua, nel mare tra Sardegna e Corsica, uccidendo un giovane tedesco. Omicidio che il re senza trono non ha praticamente pagato dato che è stato condannato ad una pena ridicola, sei mesi, per porto abusivo d\'armi.

Bene, eliminati gli ostacoli personali - ma tenutisi gli averi della corona, almeno quelli che sono stati nelle possibilità di prendersi -, lo stato italiano permette ai resti di Vittorio Emanuele III di ritornare in Italia, come se questo ritorno fosse una riconciliazione storica come un\'altra. Come se il tutto fosse condito nella solita zuppa della pietà per i morti. Strano comportamento questo del governo, che manda un aereo militare in Egitto a prendersi ciò che rimane del re piccolino.

Proprio un deputato del partito che lo mantiene in vita, il governo intendo, il partito del PD, tale Emanuele Fiano, figlio di un deportato nei campi nazisti, è il primo firmatario di una legge che eleva a reato la divulgazione di analisi e posizioni fasciste. Sempre il PD ha convocato recentemente una manifestazione a Como proprio contro i rigurgiti fascisti in quelle zone, e, per estensione, nell\'Italia tutta. Altra istituzione, altro luogo. Il 12 dicembre di quest\'anno in Piazza Fontana, il sindaco Beppe Sala, uomo eletto con i voti del PD a Milano, in piazza richiama \"all\'antifascismo militante\", testuale. Insomma, parrebbe che l\'antifascismo abbia sfondato tutte le porte nel governo di centro sinistra.

Ed adesso ci becchiamo il ritorno della salma di un re che ha aperto le porte al fascismo, al nazismo, alle leggi antisemite del 1938, a ben due guerre mondiali. La prima, utilizzando D\'Annunzio come capopopolo per convincere gli italiani pacifisti, per la seconda assecondando totalmente il duce del \"vincere e vinceremo\". Un sovrano fra i peggiori della già orribile monarchia sabauda - basterebbe vedere le giravolte di alleanze nelle guerre europee del 1700 - per giungere alle sconcezze del 1900. Ed è a questi bei tipi che il governo antifascista e tutto l\'entourage del PD ha aperto l\'inumazione in un sacrario del Piemonte. Aspettiamo la traslazione, tra poco, per carità, a Roma, al Pantheon, cosa che il prode Emanuele Filiberto già reclama.

Questa come ogni altra considerazione e comportamento del nostro spudorato governo che dice una cosa e ne fa un\'altra, cercando con le parole pezze giustificative, delle toppe, alle sue lacerazioni, che il Paese deve poi pagare. E non stiamo ad ascoltare le insulse parole del sindaco del piccolo paese, Vicoforte nella provincia di Cuneo, in cui si trova il mausoleo. La storia ha già dato un giudizio negativo di questo re. Il resto riguarda l\'ignoranza civile e culturale di persone che non hanno capacità di tenere una dirittura morale civile. La difficoltà del dovere essere moralmente retti.



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[Il 2017 si chiude con la notizia che il \"Tribunale ad hoc\" dell\'Aia ha scagionato de facto, per la seconda volta, Slobodan Milošević dalla accusa di avere \"partecipato a una impresa criminale congiunta\" in Bosnia-Erzegovina. Questa nuova sentenza di assoluzione è nascosta tra gli incartamenti della sentenza contro Ratko Mladić, laddove la prima era nascosta negli incartamenti della sentenza contro Radovan Karadzić. Con questa presa d\'atto ingloriosa, che non è registrata nelle cronache di regime, si chiude lo stesso \"Tribunale ad hoc\", che dopo avere operato per un ventennio contro la pace e contro la giustizia in relazione alle guerre di spartizione della Jugoslavia, \"passa le carte\" a una nuova istituzione \"ad hoc\" – il Meccanismo ONU per i Tribunali Internazionali – che proseguirà con una scrittura della storia ad uso e consumo delle potenze imperialiste. 

Ricordiamo che sull\'operato del \"Tribunale ad hoc\" Jugocoord Onlus ha bandito un concorso per saggi scientifici che ne ricostruiscano il ruolo e l\'operato effettivo:

https://www.cnj.it/home/it/diritto-internazionale/8684-premi-giuseppe-torre-per-elaborati-critici-sul-tribunale-per-la-ex-jugoslavia.html


“Giuseppe Torre” Prizes for Critical Studies about the Tribunal for the ex Yugoslavia

https://www.cnj.it/home/en/international-law/8685-giuseppe-torre-prizes.html


(a cura di Italo Slavo)]


http://www.slobodan-milosevic.org/news/smorg_aw113017.htm

Hague Tribunal Exonerates Slobodan Milosevic Again


Eleven years after his death, a second trial chamber at the UN War Crimes Tribunal in The Hague has concluded that Slobodan Milosevic was not responsible for war crimes committed in Bosnia and Herzegovina.

www.slobodan-milosevic.org - November 30, 2017
Written by: Andy Wilcoxson

More than eleven years after his death, a second trial chamber at the UN War Crimes Tribunal in The Hague has concluded that former Serbian president Slobodan Milosevic was not responsible for war crimes committed in Bosnia where the worst atrocities associated with the break-up of Yugoslavia took place.

Buried in a footnote deep in the fourth volume of the judgment against Bosnian-Serb General Ratko Mladic the judges unanimously conclude that “The evidence received by the trial chamber did not show that Slobodan Milosevic, Jovica Stanisic, Franko Simatovic, Zeljko Raznatovic, or Vojislav Seselj participated in the realization of the common criminal objective” to establish an ethnically-homogenous Bosnian-Serb entity through the commission of crimes alleged in the indictment.[1]

This is an important admission because practically the entire Western press corps and virtually every political leader in every Western country has spent the last 25 years telling us that Slobodan Milosevic was a genocidal monster cut from the same cloth as Adolf Hitler. We were told that he was the “Butcher of the Balkans,” but there was never any evidence to support those accusations. We were lied to in order to justify economic sanctions and NATO military aggression against the people of Serbia – just like they lied to us to justify the Iraq war.

This is the second successive trial chamber at the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY) to conclude that Slobodan Milosevic was not guilty of the most serious crimes he was accused of.

Last year, the Radovan Karadzic trial chamber also concluded that “the Chamber is not satisfied that there was sufficient evidence presented in this case to find that Slobodan Milosevic agreed with the common plan” to permanently remove Bosnian Muslims and Bosnian Croats from Bosnian Serb claimed territory.[2]  

The Tribunal has done nothing to publicize these findings despite the fact that Slobodan Milosevic was accused of 66 counts of genocide, war crimes, and crimes against humanity by the Tribunal.

Milosevic died in the Tribunal’s custody before the conclusion of his own trial. He was found dead in his cell after suffering a heart attack in the UN Detention Unit two weeks after the Tribunal denied his request for provisional release so that he could have heart surgery that would have saved his life.[3]

Dr. Leo Bokeria, the coronary specialist who would have overseen Milosevic’s treatment at the Bakulev Medical Center, said: “If Milosevic was taken to any specialized Russian hospital, the more so to such a stationary medical institution as ours, he would have been subjected to coronographic examination, two stents would be made, and he would have lived for many long years to come. A person has died in our contemporary epoch, when all the methods to treat him were available and the proposals of our country and the reputation of our medicine were ignored. As a result, they did what they wanted to do.”[4]

Less than 72 hours before his death, Milosevic’s lawyer delivered a letter to the Russian Ministry of Foreign Affairs in which Milosevic expressed fear that he was being poisoned.[5]

The Tribunal’s inquiry into Milosevic’s death confirmed that Rifampicin (an unprescribed drug that would have compromised the efficacy of his high blood pressure medication) was found in one of his blood tests, but that that he was not informed of the results until months later “because of the difficult legal position in which Dr. Falke (the Tribunal’s chief medical officer) found himself by virtue of the Dutch legal provisions concerning medical confidentiality.”[6]

There are no Dutch legal provisions that prohibit a doctor from telling a patient the result of their own blood test, and U.S. diplomatic cables published by Wikileaks show that the Tribunal had zero regard for medical confidentiality laws when they gave detailed information about Slobodan Milosevic’s health and medical records to personnel at the US embassy in The Hague without his consent.[7]

Milosevic’s trial had been going badly for the prosecution. It was glaringly obvious to any fair-minded observer that he was innocent of the crimes he was accused of. James Bissett, Canada’s former ambassador to Yugoslavia, said Milosevic’s trial “had taken on all the characteristics of a Stalinist show trial.” George Kenny, who manned the U.S. State Department’s Yugoslavia desk, also denounced the Milosevic trial proceedings as “inherently unfair, amounting to little more than a political show trial”.[8]

The trial was a public relations disaster for the Tribunal. Midway through the Prosecution’s case, the London Times published an article smearing Slobodan Milosevic’s wife and lamenting the fact that “One of the ironies of Slobodan’s trial is that it has bolstered his popularity. Hours of airtime, courtesy of the televised trial, have made many Serbs fall in love with him again.”[9]

While the trial enhanced Milosevic’s favorability, it destroyed the Tribunal’s credibility with the Serbian public. The Serbian public had been watching the trial on television, and when the Serbian Human Rights Ministry conducted a public opinion poll three years into the trial it found that “three quarters of Serbian citizens believe that The Hague Tribunal is a political rather than a legal institution.”[10]

Tim Judah, a well-known anti-Milosevic journalist and author, was dismayed as he watched the trial unfold. He wrote that “the trial of former Yugoslav president Slobodan Milosevic at The Hague is going horribly wrong, turning him in the eyes of the public from a villain charged with war crimes into a Serbian hero.”[11]

By late 2005, Milosevic’s detractors wanted the live broadcasts of the trial yanked off the air because it was not having the political effect that they had hoped it would. Political analyst Daniel Cveticanin wrote, “It seems that the coverage benefits more those it was supposed to expose than the Serbian public. [The] freedom-loving and democratic intentions of the live coverage have not produced [the] planned effects.”[12]

Milosevic’s supporters, on the other hand, were emphatic. They wanted the live broadcasts to continue because they knew he was innocent and they wanted the public to see that for themselves.[13]

Slobodan Milosevic’s exoneration, by the same Tribunal that killed him eleven years ago, is cold comfort for the people of Serbia. The Serbian people endured years of economic sanctions and a NATO bombing campaign against their country because of the unfounded allegations against their president. 

Although the Tribunal eventually admitted that it didn’t have evidence against Slobodan Milosevic, its disreputable behavior should make you think twice before accepting any of its other findings. 


[1] ICTY, Mladic Judgment, Vol. IV, 22 November 2017, Pg. 2090, Footnote 15357  
http://www.icty.org/x/cases/mladic/tjug/en/171122-4of5_1.pdf 

[2] ICTY, Karadzic Judgment, 24 March 2016, Para. 3460 
http://www.icty.org/x/cases/karadzic/tjug/en/160324_judgement.pdf 

[3] ICTY Case No. IT-02-54 Prosecutor v. Slobodan Milosevic, Decision on Assigned Counsel Request for Provisional Release, February 23, 2006

[4] “Milosevic Could Be Saved if He Was Treated in Russia - Bokeria,” Itar-Tass (Russia), March 15, 2006

[5] Text of Slobodan Milosevic’s Letter to the Russian Ministry of Foreign Affairs 
http://www.slobodan-milosevic.org/news/sm030806.htm 

[6] Judge Kevin Parker (Vice-President of the ICTY), Report to the President of the ICTY: Death of Slobodan Milosevic, May 2006; ¶ 31, 76 
http://www.icty.org/x/cases/slobodan_milosevic/custom2/en/parkerreport.pdf 

[7] U.S. State Dept. Cable #03THEHAGUE2835_a, “ICTY: An Inside Look Into Milosevic’s Health and Support Network” 
https://wikileaks.org/plusd/cables/03THEHAGUE2835_a.html 

[8] “Milosevic trial delayed as witnesses refuse to testify,” The Irish Times, September 18, 2004

[9] “Listening to Lady Macbeth,” Sunday Times (London), January 5, 2003

[10] “Public Opinion Firmly Against Hague,” B92 News (Belgrade), August 2, 2004

[11] Tim Judah, “Serbia Backs Milosevic in Trial by TV - Alarm as Former President Gains the Upper Hand in War Crimes Tribunal,” The Observer (London), March 3, 2002

[12] “Debate Opens in Serbia Over Live Coverage of Milosevic War Crimes Trial,” Associated Press Worldstream, September 22, 2005

[13] “Serbian NGO Opposes Decision to Drop Live Broadcast of Milosevic Trial,” BBC Monitoring International Reports, October 8, 2003; Source: FoNet news agency, Belgrade, in Serbian 1300 gmt 8 Oct 03; See Also: “Serbia: Milosevic Sympathisers Protest Inadequate Coverage of Trial,” BBC Worldwide Monitoring, June 10, 2002; Source: RTS TV, Belgrade, in Serbo-Croat 1730 gmt 10 Jun 02



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