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La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica
1. Il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la storia del mondo.
La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo. L’importanza di queste esperienze non si è esaurita nei paesi che sono stati teatro dei processi rivoluzionari; queste esperienze hanno dato nuovo impulso alla liberazione che ha coinvolto grandi masse in ogni continente.
Grazie all’Ottobre sulle bandiere del movimento dei lavoratori è scritto non solo “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” Ma “Lavoratori di tutti i paesi e popoli oppressi, unitevi!” [1]. La Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione della Terza Internazionale (Comintern), lega strettamente il proletariato occidentale e i popoli delle colonie e delle semicolonie in una lotta generale contro l’imperialismo. Grazie all’Ottobre, e al Komintern che da esso si sviluppa, sono nati nei paesi oppressi dall’imperialismo i partiti comunisti. Ottobre apre la strada alla rivoluzione cinese e alla riconquista della dignità nazionale del paese più popoloso del mondo.
Nella storia del capitalismo, come Marx ci ricorda nel capitolo 24 del I Libro del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria, il contributo della ricchezza saccheggiata nelle colonie ha costituito una base per l’accumulazione del capitale. Il capitalismo è cresciuto insieme con il colonialismo moderno ed è diventato imperialismo. La rottura della catena imperialista avviata con la Rivoluzione di Ottobre è una svolta nella storia dello sviluppo capitalistico e non solo perché la Russia è stata considerata l’anello più debole della catena imperialista, ma perché ha aperto la strada alla lotta di liberazione dei popoli d’Oriente e di tutti i popoli oppressi.
La teoria leninista dell’imperialismo ha un enorme valore scientifico e strategico perché individua il legame necessario tra il movimento dei lavoratori in Occidente e le popolazioni colonizzate. Lenin pensa globalmente, come la Seconda Internazionale non aveva mai fatto. Con l’Ottobre nasce la strategia del fronte unito dei lavoratori dei paesi capitalistici e dei popoli oppressi. Pensare la rivoluzione a livello mondiale significa che il proletariato occidentale sostiene tutte le lotte che possono indebolire il fronte imperialista. Significa anche che ogni situazione nazionale deve essere posta e compresa in un contesto internazionale.
La presenza e il prestigio dell’URSS, vittoriosa sul nazifascismo, e del suo modello di sviluppo che ha costruito un forte paese industriale dotato di armi moderne più potenti di quelle della feroce Germania hitleriana, ha rappresentato, per tutta una fase del secondo dopoguerra, un forte incentivo e un modello per i paesi che intendevano sfuggire al giogo dell’imperialismo (i nazionalismi arabi emergono con un programma avanzato di forti interventi statali – Egitto, Siria Iraq, ma, più tardi, anche Libia) e movimenti di liberazione nazionale (Angola, Mozambico, America Centrale…).
È con la Rivoluzione d’Ottobre che il movimento dei lavoratori viene globalizzato. La I e II Internazionale sono fondamentalmente europee, il Comintern è mondiale.
Da una prospettiva a lungo termine, dopo la dissoluzione dell’URSS e il crollo dei regimi socialisti in Europa nel 1989-91, e il ritorno di questi paesi al sistema capitalistico, il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi come protagonisti della scena mondiale (la Cina ne è il caso più emblematico).
2. Il crollo del 1989-1991: I partiti comunisti perdono il potere politico nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale
Nel 1989-91, dopo 70 anni in URSS e 40 anni nelle repubbliche popolari dell’Europa orientale e dei Balcani, i partiti comunisti hanno perso il potere politico, che ritorna alle mani dei capitalisti, i rapporti di proprietà borghesi vengono ripristinati e i paesi ex socialisti dell’Europa orientale sono integrati nella NATO e nella UE. Perché è successo questo? La questione rimane aperta su questo tema fondamentale. Numerosi forum internazionali sono stati tenuti dal 1991 e sono state pubblicati anche importanti lavori sulle cause del crollo delle democrazie popolari dell’Europa orientale e dell’URSS. Il sistema sovietico, che le democrazie popolari europee hanno più o meno imitato, è stato analizzato nei suoi vari aspetti: politici economici, sociali e culturali; nelle relazioni internazionali. A mio avviso, la causa principale sta nel deficit politico e ideologico che distrugge la leadership dell’URSS e porta a disastri. Un contributo molto importante in questo senso è stato dato dalla Conferenza di Pechino nel 2011 e dal libro che ne raccoglie gli atti, La storia giudicherà su questo, a cura di Li Shenming.
Il bilancio storico dell’Ottobre richiede anche un bilancio teorico, una ridefinizione critica delle categorie della rivoluzione.
3. La teoria della transizione al socialismo.
Lenin aveva chiarito che la transizione al socialismo è un processo dialettico che richiede un’intera epoca storica [2]. E dove non è stato deciso una volta per tutte chi vincerà. La storia del secolo che ci separa dall’ Ottobre conferma pienamente la concezione di Lenin e nega le teorie anti-dialettiche e ingenue che credono che il socialismo possa sostituire il capitalismo in pochi anni attraverso misure politiche e decreti. La transizione al socialismo richiede la transizione verso una nuova superiore civiltà. Una nuova civiltà non può essere creata in breve tempo, richiede un’intera epoca storica.
Perché Lenin insiste nei suoi ultimi scritti sul tema della creazione di una nuova civiltà? Che cos’è una civiltà? C’è una determinata civiltà quando un popolo ha acquisito determinati comportamenti come sua seconda natura e si è abituato a praticarli senza una coercizione esterna. Il socialismo richiede che le grandi masse di lavoratori e i gruppi subalterni (Gramsci) siano in grado di esercitare effettivamente il potere di direzione e di controllo sulla proprietà sociale ed essere in grado nei fatti di decidere cosa, in che misura e come produrre e distribuire il prodotto, essere in grado di pianificare la produzione.
Nel settembre-ottobre 1917 Lenin scrisse: “Possono i bolscevichi mantenere il potere statale?”, in cui, tra l’altro, pone la questione della capacità reale dei proletari, dei lavoratori non qualificati, di guidare lo Stato. Per l’immediato la risposta è: no. Un compito essenziale per il potere sovietico è quindi quello di costruire le condizioni perché anche una cuoca possa dirigere lo stato.
Anche Gramsci si pone chiaramente su questa scia: il socialismo deve rendere politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di ristretti gruppi intellettuali [Quaderni del carcere, Q11 §12, 1932]. Questo straordinario obiettivo non può essere raggiunto in condizioni di miseria e di basso sviluppo delle forze produttive.
I bolscevichi si trovano ad affrontare il duplice difficilissimo compito: superare l’arretratezza e allo stesso tempo costruire rapporti di produzione socialisti: una doppia transizione. Dovranno affrontare un compito totalmente nuovo nella storia dell’umanità, come la pianificazione e il calcolo economico in un’economia di transizione. I comunisti sovietici devono inventare e sperimentare una nuova economia, organizzare una nuova formazione economica e sociale. E devono farlo in condizioni estremamente difficili.
Lo stesso problema, in misura anche maggiore, avevano i comunisti in Cina dopo la conquista del potere politico nel 1949. La capacità di trovare un modo originale di sviluppo dopo la prima fase della costruzione economica e sociale (1949-1978) è stato il grande merito storico di Deng Xiaoping: quasi 40 anni dopo l’avvio del “socialismo con caratteristiche cinesi”, la RPC è diventata la seconda potenza economica mondiale (calcolando in base al PIL), sviluppando notevolmente le forze produttive.
Lo sviluppo delle forze produttive in una società di transizione verso il socialismo è tuttavia diverso da quello di una formazione economico-sociale capitalistica. La forza produttiva principale è l’essere umano. La transizione al socialismo richiede un essere umano con una conoscenza critica e una cultura politecnica – umanistica e tecnico-scientifica allo stesso tempo – e con uno stile di vita che non può essere la copia del modo di vivere americano, che tende a mantenere i subalterni nella condizione di consumatori subalterni, in uomini a una dimensione, come scrisse oltre 50 anni fa Herbert Marcuse.
Uno dei problemi più gravi che le società di transizione al socialismo si trovano ad affrontare – ognuna sulla base delle proprie caratteristiche nazionali – è quello di sviluppare le forze produttive, ma di governare questo sviluppo nella direzione della formazione di un nuovo tipo umano e di un nuovo legame sociale per una superiore forma di civiltà, la società socialista. Il fattore culturale non è meno importante di quello economico per avanzare verso la civiltà socialista.
4. Il tema della direzione politica del processo di transizione. La questione della democrazia socialista
La transizione verso una forma di democrazia superiore a quella del parlamentarismo borghese è riuscita solo in alcune situazioni e solo in parte nella storia di questo secolo. Dopo la morte di Lenin, la questione del gruppo dirigente e delle modalità e forme di selezione dei quadri non è stata affrontata in modo adeguato.
Il problema dei partiti comunisti al potere consiste nella ricerca di istituzioni e formule che possano garantire la transizione socialista. La transizione al socialismo non è un movimento spontaneo. Questa questione è stata teoricamente affrontata da Marx e sistemata da Lenin: la dittatura del proletariato, necessaria per garantire la transizione. Ma, allo stesso tempo, è necessario assicurare un meccanismo di selezione trasparente e democratico per i gruppi dirigenti, il legame stretto tra il partito e le masse, i governanti e i governati. Occorre sviluppare forme di democrazia partecipativa e crescita delle masse nella partecipazione alla direzione dello stato e dell’economia, un grande “progresso intellettuale di massa” (vedi Gramsci). La corretta selezione dei gruppi dirigenti è una delle questioni più delicate nella società di transizione.
Nella transizione al socialismo, il legame tra economia e politica deve necessariamente essere molto più stretto che nella società borghese, perché la transizione al socialismo non è un processo spontaneo, non avviene automaticamente, ma richiede una direzione politica chiara e forte. La transizione al socialismo richiede la creazione di una nuova cultura di massa, che non sia subalterna all’ideologia capitalista e imperialista: una rivoluzione culturale.
5. Le rivoluzioni socialiste vittoriose non si svolgono nei centri imperialisti, ma solo in periferia.
Il sistema capitalistico nelle sue sovrastrutture politiche e ideologiche si è rivelato più forte del proletariato dei Paesi occidentali. La rivoluzione in Occidente non si realizza, sia per la forza del capitale (si veda l’analisi di Gramsci sull’articolazione delle società borghesi occidentali e quella di Althusser sugli apparati ideologici di Stato), sia per la debolezza della strategia e dell’organizzazione del proletariato e dei partiti comunisti.
Di solito, si hanno situazioni rivoluzionarie in tempi di crisi acuta dello stato borghese. Dopo il 1918, nel primo dopoguerra europeo, nei paesi sconfitti degli imperi centrali (Ungheria, Baviera, Austria, Germania), le rivoluzioni sono rapidamente schiacciate nel sangue prima della presa del potere politico (Germania) o sopraffatte per l’incapacità di governare l’economia dei rivoluzionari (In Ungheria).
Dopo il 1945, nel II dopoguerra, la situazione sembra più favorevole grazie alla vittoria dell’URSS sul nazismo. Nei paesi dell’Europa centrale e orientale, i comunisti vanno al potere o come continuazione della resistenza antifascista nella rivoluzione socialista (Jugoslavia, Albania) o grazie a un consenso popolare fortemente sostenuto dalla presenza dell’armata rossa sovietica: Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Germania orientale. Fatta eccezione per gli ultimi due, si tratta di paesi di capitalismo periferico.
Nei paesi chiave dell’Occidente, anche quando un forte movimento anti-nazista (Italia, Francia) è stato sviluppato dai comunisti o con una forte presenza di essi, la Resistenza non si trasforma in una rivoluzione e dove è tentata ,come in Grecia, è schiacciata nel sangue dall’intervento militare britannico e occidentale.
Dopo il 1945 in Europa occidentale non ci sono crisi rivoluzionarie, anche se in due paesi con un’importante presenza dei comunisti ci sono momenti di mobilitazione di massa e di crisi del potere borghese (maggio 1968 in Francia, decennio 1968-77 in Italia). La migliore opportunità rivoluzionaria è stata in Portogallo, la “Rivoluzione dei garofani” (1974), con un ruolo importante del Partito Comunista guidato da Alvaro Cunhal, ma anche qui la borghesia interna, con il sostegno dell’imperialismo occidentale e della NATO, è in grado di ristabilire il proprio potere politico ed economico. L’ultima occasione, in una situazione di forte crisi economica, è stata in Grecia (2011-2015), dove la coalizione di sinistra ottiene il consenso elettorale e va al governo, ma subito dopo rimane ostaggio della “troika” (BCE , IMF, UE) e si riduce ad essere l’esecutrice dei suoi diktat.
Negli Stati Uniti, il cuore dei paesi imperialisti, nessun movimento di lotta (la rivolta dei campus universitari o le pantere nere negli anni ‘60) ha mai seriamente messo in discussione il potere politico o l’egemonia culturale del grande capitale. In Inghilterra, attraversata anche da grandi lotte dei lavoratori (minatori) il potere borghese non è mai messo in discussione.
Nei cento anni che ci separano dall’Ottobre il movimento comunista e dei lavoratori non riesce nel suo obiettivo principale: avviare nei paesi capitalisti più sviluppati – con la conquista del potere politico – la trasformazione del modo di produzione capitalistico nel modo di produzione socialista basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e sulla pianificazione socialista.
Quali sono le cause di questo fallimento storico?
La teoria dell’imperialismo di Lenin può spiegare alcune delle cause che ostacolano la rivoluzione in Occidente: la classe capitalistica, con le briciole della rapina imperialista, nutre “l’aristocrazia operaia” e corrompe i leader di sindacati e partiti operai, che introiettano le teorie revisioniste e negano la possibilità di uscire dall’orizzonte dei rapporti di produzione borghesi.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare il ruolo mondiale dell’imperialismo, che non è solo la rapina dei popoli sottomessi, ma è anche organizzato come un cane da guardia del potere borghese nei paesi centrali del capitalismo. Dopo il 1945, gli USA e la NATO, la più grande alleanza militare del mondo sotto il comando statunitense, hanno svolto un ruolo decisivo nel contrastare il movimento progressista e di emancipazione anche nei paesi occidentali, utilizzando il colpo di Stato (Grecia 1967) o minacciandolo (Italia, anni 1960-70). Inoltre, l’imperialismo, con le sue istituzioni economiche e finanziarie mondiali (FMI, ecc.), controlla e riconquista i paesi che vogliono liberarsi dal sistema imperialista mondiale (l’ultimo caso evidente: la Grecia 2011-2015).
Ci sono stati e ci sono immensi errori strategici e tattici commessi dai partiti comunisti in Occidente, senza una seria comprensione dei quali nessun progresso del movimento operaio sarà possibile. Oggi va preso atto che il capitalismo e il potere politico borghese si sono dimostrati molto più forti del movimento dei lavoratori, nonostante due crisi strutturali generali del capitalismo (negli anni ‘30 del XX secolo e la crisi manifestatasi a partire dal 2007-2008).
La transizione al modo di produzione socialista non è avvenuta nei tempi e nei modi che abbiamo immaginato dopo la vittoria del 1917.
Questa domanda rimane aperta. L’indagine di questo fallimento storico è un compito fondamentale per il movimento operaio e per i suoi intellettuali organici.
Questo non significa che tutta l’attività e l’elaborazione strategica del movimento operaio nei paesi centrali del capitalismo siano stati inutili e inefficaci. In particolare, la “via Italiana al Socialismo”, la strategia sviluppata dal Partito Comunista Italiano dal 1944 sulla base dell’analisi di Gramsci nei Quaderni del carcere, al di là di deviazioni e riduzionismi, è di grande importanza per la possibile transizione al socialismo in Occidente.
Questa strategia si basava su una lunga “guerra di posizione” in cui i comunisti, al centro di un fronte popolare, di un blocco di forze sociali e politiche, gradualmente conquistano alcune “fortezze” delle istituzioni economiche e politiche capitalistiche, attuando riforme strutturali. Per il successo di questa strategia, tuttavia, il paese deve essere libero dal controllo militare ed economico dell’imperialismo, mentre attualmente tutti i paesi dell’Europa occidentale e gli ex paesi socialisti europei sono sotto il controllo militare della NATO e delle istituzioni economiche imperialiste internazionali.
L’esperienza storica di questo secolo che ci separa dal grande Ottobre russo ci insegna che ci sono possibilità concrete di avviare una transizione socialista solo se la catena imperialista è seriamente indebolita.
Oggi, la situazione mondiale è più favorevole al movimento dei lavoratori che negli anni 1990 e 2000. È gravida di grandi pericoli e minacce, ma è anche aperta alla possibilità di un rapporto di forze più favorevole all’emancipazione delle nazioni oppresse e dei popoli sfruttati. Oggi, in tutto il mondo, le cose stanno cambiando: lo strapotere dell’imperialismo statunitense, che negli ultimi 25 anni ha portato guerre di aggressione per mantenere la sua centralità unipolare, trova un freno e un limite nella ascesa economica della Cina, nell’organizzazione dei BRICS, nel programma di creare una valuta di scambio internazionale alternativa al dollaro, nelle proposte strategiche della Cina che è diventato un attore sul palcoscenico mondiale e offre al mondo un’alternativa strategica per uno sviluppo pacifico (si veda “la nuova via della seta).
Il contesto internazionale è sempre stato importante per il movimento dei lavoratori, non perché le rivoluzioni possono essere esportate (le rivoluzioni possono svilupparsi solo su una effettiva base nazionale e devono fondamentalmente basarsi sulle proprie forze in ciascun paese), ma perché la presenza di un blocco di forze in grado di contenere l’impero americano può limitare la sua aggressività e fornire un sostegno a quei paesi in cui si sviluppa un movimento per il recupero della sovranità nazionale e popolare.
In questa situazione in movimento si possono creare le condizioni per una rinascita della lotta per il socialismo in Occidente.
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NOTE
1 Si veda in proposito Cheng Enfu, Li Wei, “Il marxismo-leninismo è il metodo scientifico e la guida per conoscere e trasformare il mondo”, in Marx in Cina, quaderno speciale di MarxVentuno n. 2-3/2014. Si può anche leggere in rete in http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf.
2 Su questo, si veda anche la recentissima e fondamentale antologia di scritti di Lenin, curata da V. Giacché, con un’ampia prefazione dello stesso: Economia della rivoluzione, Il Saggiatore, Milano, 2017.
Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici.
Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)
L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia;
1. La democrazia quale superamento delle tre grandi discriminazioni
Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia, così come oggi la intendiamo, presuppone il suffragio universale: indipendentemente dal sesso (o genere), dal censo e dalla «razza», ogni individuo dev’essere riconosciuto quale titolare dei diritti politici, del diritto elettorale attivo e passivo, del diritto di votare per i propri rappresentanti e di essere eventualmente eletto negli organismi rappresentativi. E cioè, ai giorni nostri la democrazia, persino nel suo significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla rivoluzione bolscevica.
Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi dell’Occidente. Era Lenin invece, in Stato e rivoluzione, a denunciare l\'«esclusione delle donne» dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come «rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di novembre», scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le donne conquistavano i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano contribuito in modo essenziale o decisivo.
Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in Stato e rivoluzione Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «\"piccoli\" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale», che in paesi come la Gran Bretagna comportavano l\'esclusione dai diritti politici dello «strato inferiore propriamente proletario». Si può aggiungere che proprio nel paese classico della tradizione liberale ha tardato in modo particolare ad affermarsi pienamente il principio «una testa, un voto». Solo nel 1948 sono dileguate le ultime tracce del «voto plurale», a suo tempo teorizzato e celebrato da John Stuart Mill: i membri delle classi superiori considerati più intelligenti e più meritevoli godevano del diritto di esprimere più di un voto, ciò che faceva rientrare dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta.
Per quanto riguarda l’Italia, sui manuali scolastici si può leggere che la discriminazione censitaria è stata cancellata nel 1912. In realtà continuavano a sussistere le «piccole» clausole di esclusione denunciate da Lenin. Ma non è questo il punto più importante. La legge varata in quell’anno concedeva graziosamente i diritti politici solo a quei cittadini di sesso maschile che, pur di modeste condizioni sociali, si fossero distinti o per «titoli di cultura e di onore» o per il valore militare mostrato nel corso della guerra contro la Libia terminata poco prima. In altre parole, non si trattava del riconoscimento di un diritto universale, bensì di una ricompensa in primo luogo per quanti avevano dato prova di coraggio e di ardore bellico nel corso di una conquista coloniale dai tratti brutali e talvolta genocidi.
In ogni caso, anche là dove il suffragio (maschile) era divenuto universale o pressoché universale, esso non valeva per la Camera Alta, che continuava a essere appannaggio della nobiltà e delle classi superiori. Nel Senato italiano vi sedevano, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti gli altri erano nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del Consiglio. Non dissimile era la composizione delle altre Camere Alte europee che, a eccezione di quella francese, non erano elettive bensì caratterizzate da un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Persino per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica francese, che pure aveva alle spalle una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso risultava da un\'elezione indiretta ed era costituito in modo tale da garantire una marcata sovra-rappresentanza alla campagna (e alla conservazione politico-sociale), a danno ovviamente di Parigi e delle maggiori città, a danno cioè dei centri urbani considerati il focolaio della rivoluzione. Anche in Gran Bretagna, nonostante la secolare tradizione liberale alle spalle, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), non aveva nulla di democratico, e netto era il controllo esercitato dall’aristocrazia sulla sfera pubblica: era una situazione non molto diversa da quella che caratterizzava Germania e Austria. È per questo che un illustre storico (Arno J. Mayer) ha parlato di persistenza dell’antico regime in Europa sino al primo conflitto mondiale (e alla rivoluzione d’ottobre e alle rivoluzioni e agli sconvolgimenti che hanno fatto seguito a essa)
In quegli anni neppure negli USA erano assenti i residui di discriminazione censitaria. Rispetto all’Europa, però, l’antico regime si presentava in una versione diversa: l’aristocrazia di classe si configurava come aristocrazia di razza. Nel Sud del paese il potere era nelle mani degli ex-proprietari di schiavi, che nulla avevano perso della loro arroganza razziale o razzista e che non a caso erano bollati dai loro avversari quali Borboni; non era certo dileguato il regime talvolta celebrato dai suoi sostenitori e talaltra criticamente analizzato dagli studiosi contemporanei come una sorta di ordinamento castale, in quanto fondato su raggruppamenti etnico-sociali resi impermeabili dal divieto di miscegenation, e cioè dal divieto di rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali, severamente condannati e puniti in quanto suscettibili di mettere in discussione la white supremacy.
2. La duplice dimensione della discriminazione razziale
E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della Rivoluzione d’Ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua vitalità in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio esclusivo di formazione dello Stato», negandolo alla stragrande maggioranza dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze inferiori» erano escluse in blocco dal godimento dei diritti politici già per il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (il paese sul quale soprattutto ci soffermeremo), i popoli di origine coloniale erano ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli civili.
Si pensi ad esempio ai linciaggi che, tra Otto e Novecento, negli Stati Uniti erano riservati in particolare ai neri. Un illustre storico statunitense (Vann Woodward) ne ha dato una descrizione secca ma tanto più efficace e raccapricciante:
«Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.
Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scoiamento, l\'arrostimento, l\'impiccagione, i colpi d\'arma da fuoco. I souvenir per acquirenti potevano includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali della vittima, così come cartoline illustrate dell\'evento».
Vediamo qui all’opera non la democrazia propriamente detta di cui favoleggia la storiella edificante di cui ho parlato agli inizi, bensì quella che eminenti studiosi statunitensi hanno definito la Herrenvolk democracy, una democrazia riservata esclusivamente al popolo dei signori, il quale esercitava una terroristica white supremacy non solo sui popoli di origine coloniale (afroamericani, asiatici ecc.) ma talvolta anche sugli immigrati provenienti da paesi (quali l’Italia) considerati di dubbia purezza razziale.
Ancora negli anni ’30 i neri, che pure nel corso della prima guerra mondiale erano stati chiamati a combattere e a morire per la «difesa» del paese, continuavano a subire un regime di terrore che al tempo stesso funzionava come una ripugnante società dello spettacolo. Eloquenti sono di per sé i titoli e le cronache dei giornali locali del tempo. Li riprendiamo dall’antologia (100 Years of Lynchings) curata da uno studioso afroamericano (Ralph Ginzburg): «Grandi preparativi per il linciaggio di questa sera». Nessun particolare doveva essere trascurato: «Si teme che colpi d’arma da fuoco diretti al negro possano andare fuori bersaglio e colpire spettatori innocenti, che includono donne con i loro bambini in braccio»; ma se tutti si atterranno alle regole, «nessuno sarà deluso». L’inedita società dello spettacolo procedeva in modo implacabile. Vediamo altri titoli: «il linciaggio eseguito pressoché come previsto nell’annuncio pubblicitario»; «la folla applaude e ride per l’orribile morte di un negro»; «cuore e genitali recisi dal cadavere di un negro».
A subire il linciaggio non erano solo i neri colpevoli di «stupro» ovvero, il più delle volte, di rapporti sessuali consensuali con una donna bianca. Bastava molto meno per essere condannati a morte: l’«Atlanta Constitution» dell’11 luglio 1934 informava dell’avvenuta esecuzione di un nero di 25 anni «accusato di aver scritto una lettera “indecente e insultante” a una giovane ragazza bianca della contea di Hinds»; in questo caso la «folla di cittadini armati» si era accontentata di riempire di pallottole il corpo dello sciagurato. Per di più, oltre che sui «colpevoli», la morte, inflitta in modo più o meno sadico, incombeva anche sui sospetti. Continuiamo a sfogliare i giornali dell’epoca e a leggere i titoli: «Assolto dalla giuria, poi linciato»; «Sospetto impiccato a una quercia sulla pubblica piazza di Bastrop»; «Linciato l’uomo sbagliato». Infine la violenza non si limitava a prendere di mira il responsabile o il sospetto responsabile del misfatto a lui attribuito: accadeva che, prima di procedere al suo linciaggio, venisse data alle fiamme e bruciata completamente la capanna in cui abitava la sua famiglia.
È da aggiungere che la terza grande discriminazione finiva col colpire anche certi membri e certi settori della stessa casta o razza privilegiata. Sfogliando sempre l’antologia relativa ai cento anni di linciaggi negli USA, ci imbattiamo nel titolo di un articolo del «Galveston (Texas) Tribune» del 21 giugno 1934: «Una ragazza bianca è rinchiusa in carcere, il suo amico negro è linciato». Su quella ragazza bianca il regime di terroristica white supremacy si abbatteva in modo duplice: sia privandola della sua libertà personale, sia colpendola pesantemente nei suoi affetti.
3. Movimento comunista e lotta contro la discriminazione razziale
In che direzione, a quale movimento e a quale paese guardavano le vittime di tale orrore, per cercare solidarietà e ispirazione nella lotta di resistenza e di emancipazione? Non è difficile indovinarlo. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, gli afroamericani che aspiravano a scuotersi di dosso il giogo della white supremacy erano spesso accusati di bolscevismo, ma pronta era la replica di un militante nero che non si lasciava intimidire: «Se lottare per i nostri diritti significa essere bolscevichi, ebbene io sono bolscevico e che gli altri si rassegnino una volta per sempre».
Sono gli anni in cui i neri che diventavano militanti del Partito comunista degli USA o che visitavano la Russia sovietica facevano un’esperienza inedita e esaltante: si vedevano finalmente riconosciuti nella loro dignità umana; su un piano di parità con i loro compagni potevano partecipare alla progettazione di un mondo nuovo. Si comprende allora che essi guardassero a Stalin come al «nuovo Lincoln», al Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, all’oppressione, alla degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi continuavano a subire. Non c’è da stupirsi per questa visione. Si tenga presente che per lungo tempo, nel periodo in cui la discriminazione razziale e il regime di supremazia bianca infuriavano pressoché indisturbati all’interno degli USA e a livello mondiale nel rapporto tra metropoli capitalistica e colonie, il termine «razzismo» ha avuto una connotazione positiva, quale sinonimo di comprensione sobria e scientifica della storia e della politica, una comprensione scientifica che solo gli ingenui (per lo più socialisti o comunisti) si ostinavano a ignorare o a mettere in discussione.
Quando interveniva il momento di svolta nella storia degli afroamericani? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia inviava alla Corte Suprema, che era stata chiamata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Già per ragioni di politica estera occorreva sancire l’incostituzionalità della segregazione e della discriminazione anti-nera. Washington – osserva lo storico statunitense (Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane». In altre parole, non si poteva arginare la sovversione comunista senza mettere fine al regime di white supremacy. E dunque: la lotta ingaggiata dal movimento comunista e la paura del comunismo finivano con lo svolgere un ruolo essenziale nella cancellazione negli USA (e poi nel Sudafrica) della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia.
A questo punto s’impone una riflessione. Le opzioni politiche di ciascuno di noi possono essere le più diverse. E, tuttavia, chi voglia fondare le sue affermazioni su una sia pur elementare ricostruzione storica, deve riconoscere un punto essenziale: la storiella edificante dalla quale abbiamo preso le mosse, e che continua a essere strombazzata dall’ideologia dominante, è per l’appunto una storiella. Se per democrazia intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni, è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla Rivoluzione d’Ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale.
4. La discriminazione razziale tra USA e Terzo Reich
Se da un lato spingeva le sue vittime a riporre le loro speranze nel movimento comunista e nell’Unione Sovietica, dall’altro il regime di white supremacy vigente negli USA e a livello mondiale suscitava l’ammirazione del movimento nazista. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che poi sarebbe diventato il teorico più o meno ufficiale del Terzo Reich, celebrava gli Stati Uniti, con lo sguardo rivolto soprattutto al Sud, come uno «splendido paese del futuro» che aveva avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che si trattava allora di mettere in pratica, «con forza giovanile», senza fermarsi a mezza strada. La repubblica nord-americana aveva coraggiosamente richiamato l’attenzione sulla «questione negra» e anzi l’aveva collocata «al vertice di tutte le questioni decisive». Ebbene, una volta cancellato per i neri, l’assurdo principio dell’uguaglianza doveva essere liquidato sino in fondo: occorreva trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei».
Non c’è dubbio, il regime di white supremacy ha profondamente ispirato il nazismo e il Terzo Reich. È un’influenza che ha lasciato tracce profonde anche sul piano categoriale e linguistico. Proviamo a interrogarci sul termine-chiave suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista. In questo caso non c’è bisogno di ricerche particolarmente tormentose: è Untermensch il termine-chiave, che in anticipo priva di qualsiasi dignità umana quanti sono destinati a essere schiavizzati al servizio della razza dei signori o a essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. Ebbene, il termine Untermensch, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione dall’americano Under Man! Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta a indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», con i quali bisogna procedere a una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), Stoddard è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime, compreso Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli «indigeni» ovvero degli Untermenschen dell’Europa orientale, e impegnato nei preparativi per l’annientamento degli Untermenschen ebraici, considerati i folli ispiratori della rivoluzione bolscevica e della rivolta degli schiavi e dei popoli delle colonie.
Ben lungi dal poter essere assimilate l’una all’altra quali nemiche mortali della democrazia, Unione Sovietica e Germania hitleriana si sono storicamente collocate su posizioni contrapposte: la prima ha svolto un ruolo d’avanguardia nella lotta contro la terza grande discriminazione (quella razziale), mentre la seconda si è distinta nella lotta per radicalizzare ed eternizzare la terza grande discriminazione e, nel far ciò, si è richiamata all’esempio costituito dagli USA. Nel complesso, l’analisi storica costringe a riconoscere il contributo essenziale o decisivo fornito dal movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni e dunque alla realizzazione di un presupposto ineludibile della democrazia.
5. Un incompiuto processo di democratizzazione
Conviene ora porsi un’ultima domanda: le tre grandi discriminazioni sono oggi del tutto dileguate? Già diversi anni fa, un eminente storico statunitense, Arthur Schlesinger Jr, che è stato anche consigliere del presidente John Kennedy, tracciava un quadro ben poco lusinghiero della democrazia nel suo paese: «L\'azione politica, una volta imperniata sull\'attivismo, s’impernia ora sulla disponibilità finanziaria». Dati i «costi spaventosamente alti delle recenti campagne elettorali», si delineava nettamente la tendenza a «limitare l’accesso alla politica a quei candidati che hanno fortune personali o che ricevono denaro da comitati d’azione politica», ovvero da «gruppi di interessi» e lobbies varie. In altre parole, era come se la discriminazione censitaria, cacciata dalla porta, fosse rientrata dalla finestra. Conviene prenderne atto: la campagna neoliberista contro i «diritti sociali ed economici», solennemente proclamati e sanciti dall\'ONU nel 1948 ma denunciati da Friedrich August von Hayek quali espressione dell\'influenza (da lui considerata rovinosa) della «rivoluzione marxista russa», ha finito con l‘investire anche i diritti politici.
Nell’atto di accusa contro la Rivoluzione d’Ottobre formulato dal patriarca del neoliberismo (e premio Nobel per l’Economia nel 1974) si può e si deve leggere un grande riconoscimento. Quella rivoluzione ha contribuito alla realizzazione dei diritti economici e sociali e all’edificazione anche in Occidente; non a caso, ai giorni nostri, al venire meno della sfida del movimento comunista corrisponde lo smantellamento dello Stato sociale nella stessa Europa, con il risultato che la discriminazione censitaria finisce col ripresentarsi in forme nuove.
E per quanto riguarda le altre due grandi discriminazioni? Non c’è tempo per un’analisi approfondita, ma non posso fare a meno di una breve osservazione a proposito della terza grande discriminazione. Certo, la storia non è l’eterno ritorno dell’identico, come pretendeva Nietzsche. Sarebbe errato e fuorviante ignorare i mutamenti intervenuti e i risultati conseguiti dalla lotta di emancipazione. Ai giorni nostri nessuno oserebbe fare professione di razzismo e proclamare ad alta voce la necessità di difendere o ristabilire la white supremacy. Non bisogna però dimenticare che, storicamente, un aspetto essenziale della terza grande discriminazione è stato la gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. L’ha ben compreso Lenin che abbiamo visto definire l’imperialismo come la pretesa di «poche nazioni elette» ovvero di poche «nazioni modello» di riservare esclusivamente a se stesse il diritto di costituirsi in Stato nazionale indipendente. È stata abbandonata una volta per sempre tale pretesa? In occasione di gravi conflitti politici e diplomatici, l’Occidente e in particolare il suo paese-guida si rivolgono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché autorizzi l’intervento militare da loro auspicato o programmato, ma al tempo stesso dichiarano che, anche in assenza di autorizzazione, essi si riservano il diritto di scatenare sovranamente la guerra contro questo o quel paese. E’ evidente che, arrogandosi il diritto di dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i paesi occidentali si attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale, mentre per i paesi da loro presi di mira il principio della sovranità statale è dichiarato superato e privo di valore. In forme nuove si riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di sovranità/popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo) che è propria dell’imperialismo e del colonialismo. Con la forza delle armi continua a esser fatto valere il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni.
Nel caso degli USA questa sedicente gerarchia è proclamata ad alta voce e viene persino religiosamente trasfigurata. Nel settembre del 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo». È un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo: «La nostra missione è senza tempo»!
Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy. Resta fermo il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni, una gerarchizzazione naturale, eterna e persino consacrata dalla volontà divina, come nella monarchia assoluta dell’Antico regime! Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la terza grande discriminazione non è dileguata. Detto altrimenti: almeno per quanto riguarda i rapporti internazionali, siamo ben lontani dalla democrazia. Il processo di democratizzazione iniziato con la rivoluzione d’ottobre è ancora ben lungi dalla sua conclusione.
Testo pubblicato dalla Casa editrice «La Scuola di Pitagora», Napoli. Ringraziamo Domenico Losurdo, Presidente dell\'Associazione Marx XXI, per la richiesta di pubblicazione nel nostro sito.
LEGGI IN FORMATO PDF: http://www.marx21.it/documenti/losurdo_Rivoluzioneottobredemocrazia.pdf
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1937-2017 – 80 ANNI DALLA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA CROATO
Oltre 100 persone si sono riunite ad Anindol, presso Zagabria, per celebrare l\'ottantesimo anniversario della nascita del Partito Comunista Croato. Tra i partecipanti, il rappresentante del comune di Samobor, promotore dell\'evento, il rappresentante del principale partito di opposizione SDP, vari altri partiti socialisti, comunisti e di sinistra, oltre alle formazioni antifasciste e partigiane di Croazia, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, e il Coro partigiano di Zagabria che si è esibito con canzoni rivoluzionarie, tra cui “Padaj Silo i Nepravdo”.
Le formazioni antifasciste e socialiste croate hanno commemorato questo evento che vide Tito, in segreto assieme ad altri 16 comunisti, fondare il partito che si sarebbe poi federato agli altri partiti comunisti jugoslavi e assieme ai quali sconfisse i fascisti ed instaurò uno stato socialista.
Gli intervenuti hanno voluto ricordare come il movimento socialista in questi territori fosse iniziato al seguito della I Guerra mondiale, sull\'eco della Rivoluzione d\'ottobre; che alle elezioni nel Regno di Jugoslavia il Partito Comunista finì in terza posizione, prima di venir messo fuorilegge; che Tito al ritorno dall\'URSS negli anni \'30 si occupò di diffondere le organizzazioni del partito in tutta la Jugoslavia, fondando anche partiti comunisti nazionali, al fine di creare con successo un fronte unico contro il fascismo.
In particolare il compagno Kapuralin (Partito Socialista dei Lavoratori) ha ricordato che il partito all\'inizio era piccolo, ma ben organizzato qualitativamente, e che seppe sfruttare l\'occupazione straniera non solo per condurre la liberazione nazionale, bensì per industrializzare il nuovo stato ed elevare il livello culturale del popolo:
Se non ci fosse stato il compagno Tito, l\'unità e la fratellanza, i suoi comunisti, il coraggio e la convinzione, già allora gli stivali stranieri ci avrebbero calpestato, e altra gente avrebbe governato sopra noi, come succede oggi.
La rappresentante dello SRP, Vesna Konigsknecht, ha brillantemente riassunto cosa significa la lotta antifascista:
Per mascherare le contraddizioni sociali, e sconfiggere l\'unità della classe lavoratrice, le società capitaliste ricorrono a mistificazioni sull\'unità nazionale, incoraggiano la convinzione che l\'appartenenza nazionale è d\'importanza critica, insistono sulle differenze tra i popoli.
Il fascismo compare nel capitalismo; è la conseguenza del modo in cui il capitalismo funziona, della sua volontà di sconfiggere l\'unità e la solidarietà di classe attraverso il mito dell\'unità nazionale.
Maggiori le differenze all\'interno di una società, maggiore la tensione. Con una recrudescenza delle tensioni, più ferocemente si tira in ballo l\'unità nazionale. L\'esplosione avviene non là dove necessario – nel campo degli interessi contrapposti tra capitale e lavoro – ma là dove la tensione è canalizzata, nel campo del nazionalismo. Degli interessi nazionali si parla sempre più aggressivamente ed esclusivamente, e molto facilmente si scivola – nel fascismo.
Da noi l\'antifascismo è arrivato assieme al socialismo. Ogni antifascismo, se pensato coerentemente, dev\'essere anticapitalista, perché il fascismo è figlio del capitalismo. E perciò, chi non vuole affrontare il capitalismo, che taccia sul fascismo!
Il Partito Comunista Croato, come frazione del PC Jugoslavo, si era chiaramente schierato dalla parte degli interessi della classe lavoratrice. Non voleva creare un movimento di resistenza (per combattere il fascismo e ripristinare lo status quo ante) ma condurre una guerra di liberazione popolare. Mentre combatteva l\'occupatore, si organizzava, sviluppava un nuovo potere, e creava un nuovo sistema sociale – il socialismo.
Commemorando l\'80esimo anniversario del PC Croato, ci ricordiamo che i nostri antifascisti lottarono sì per liberare il paese, ma anche per modificare i rapporti di classe. L\'antifascismo è lotta di classe. Doveva e deve esserlo. Ieri, oggi, per sempre!
Di seguito alcuni estratti dei discorsi degli altri partecipanti.
Non ci arrenderemo mai, la lotta è continua, non vi sfiduciate. Alle persone di sinistra dico – uniamo le nostre forze perché solo così la Lotta Popolare di Liberazione fu vinta.
Tutte le conquiste del sistema socialista – la solidarietà, il lavoro sicuro, l\'educazione e sanità universali e gratuiti, pensioni dignitose – oggi vengono affidate al mercato. Ogni giorno siamo testimoni dell\'inumanità del capitale, del mercato, della corsa alla produttività e al profitto. Per questo vengono distrutti i monumenti al mondo diverso che fu – per cercare di perpetuare il più a lungo possibile questo sistema che serve solo una minoranza.
La lotta condotta dal Partito Comunista fu non solo lotta di liberazione, ma allo stesso tempo lotta per la libertà dei lavoratori.
Noi a Samobor con onore ci ricordiamo del giorno in cui 80 anni fa un gruppo di uomini coraggiosi con a capo il compagno Tito fondò il Partito Comunista Croato. Con l\'obiettivo di una società migliore, per l\'uguaglianza delle donne e per correggere tutte le inguistizie.
Bisogna difendere gli interessi della classe lavoratrice, ma anche la libertà nazionale, l\'uguaglianza e la fratellanza tra i popoli.
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L’indipendentismo è sempre da perorare come diritto della volontà popolare o, in specifiche situazioni, è illegittimo perché contrasta con la Costituzione? Ne risponde il giurista Paolo Maddalena
Alcuni dati di fatto per non parlare in maniera astratta dell\'indipendentismo catalano.
https://www.lacittafutura.it/editoriali/catalogna-e-indipendentismo-dei-ricchi-vero-o-falso.html
Christopher Black, , esperto di diritto internazionale, all\'AntiDiplomatico: \"L’indipendenza della Catalogna spaccherebbe ancora di più le forze lavoratrici spagnole come blocco e indebolirebbe le loro rivendicazioni in termini di diritti e Welfare\"...
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-c_black_lipocrisia_e_limmoralit_della_nato__palese_e_visibile_al_mondo_ogni_giorno/5496_21628/
Il referendum d’indipendenza della Catalogna è legale, ma tali attività vanno tenute con il consenso delle autorità centrali, ritiene il leader del partito dei “Verdi” austriaco, il vice presidente del Parlamento Europeo Ulrike Lunacek...
https://it.sputniknews.com/mondo/201710015090533-referendum-Catalogna-Parlamento/
1. Cataluña tiene una formidable economía industrializada...
2. La OTAN pareciera estar ansiosa por alentar la independencia y le daría la bienvenida a lo que ellos esperan sería una capacidad militar robusta para agregarle a sus guerras de agresión global.
Un artículo publicado por el Atlantic Council (un think-tank de la OTAN financiado por los Fortune 500) de 2014 titulado “Las implicaciones militares de la secesiones catalana y escocesa” [ http://www.atlanticcouncil.org/blogs/defense-industrialist/the-military-implications-of-scottish-and-catalonian-secession ] ...
3. Los políticos catalanes pro-independencia parecen apoyar de forma entusiasta el ingreso de Cataluña a la OTAN.
4. Algunos políticos catalanes han comenzado a planificar su integración en la OTAN.
5. Como “Kurdistán”, cualquier tipo de “independencia” pierde todo significado si el Estado resultante se encuentra a sí mismo profundamente dependiente e imbricado...
http://www.investigaction.net/es/la-independencia-catalana-cinco-cosas-para-pensar/
ORIG.: Catalan Independence: 5 Things to Think About (by TONY CARTALUCCI, 1 Oct 2017)
Catalan independence can be good or bad - it depends on the Catalan people to make it good, or else it likely will be bad...
https://landdestroyer.blogspot.it/2017/10/catalan-independence-5-things-to-think.html
Intervista a Nuria Lozano Montoya, responsabile statale del settore plurinazionalità di Izquierda Unida ed esponente del Bloc de Comunistes de Catalunya...
https://www.lacittafutura.it/esteri/catalogna-autodeterminazione-e-prospettiva-repubblicana-e-federale-secondo-i-comunisti.html
Intervista al Segretario politico dei Comunisti Catalani – Partito Comunista dei Popoli di Spagna (PCPE), Albert Camarasa... \"Il diritto all’autodeterminazione è un nobile obiettivo che noi comunisti incorporiamo nelle nostre tesi. E’ stato un diritto promosso dall’Unione Sovietica e i successivi paesi socialisti. Ma che si condivida l’obiettivo non vuol dire che si condiva il cammino per raggiungerlo. Oggi ci sono due vie verso l’autodeterminazione, una fattibile e l’altra che non porta ad essa. L’indipendentismo sta scegliendo la seconda... L’unica via fattibile in cui si può applicare l’autodeterminazione per la Catalogna è quella che passa per rovesciare la classe borghese dominante che detiene il potere in Spagna. Con la presa del potere da parte della classe operaia si distruggeranno le basi materiali che perpetuano l’oppressione nazionale e la Catalogna potrà esser ciò che decidono liberamente i catalani.\"
2) A proposito del referendum in Catalogna (George Gastaud, PRCF)
3) Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»
4) L’Unione Europea contro la Catalogna: bene censura e repressione (M. Santopadre)
5) Indipendenza della Catalogna e lotte di classe: intervista a Quim Arrufat (Cup)
0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone
1Živadin Jovanović
Dietmar Hartwig, former head of the EU (EEC) Monitoring Mission in Kosovo and Metohija (ECMM) in his 2007 warning letter:
“MERKEL RESPONSIBLE FOR KOSOVO PRECEDENT AND DIVIDING SERBIAN PEOPLE”
It seems that the recent developments in Europe, and in particular the push of secessionism (Catalonia), rings a bell, or rather is reminiscent of certain events. The ensuing ones are shedding more light on the roles of the EU (EEC), the USA and Germany. To what extent have they been guided by the principles of the international law and democracy in the Kosovo crisis? How much did they appreciate the reports of their (expensive) missions in Kosovo and Metohija (КDОМ, КVМ, ЕCMM) depicting the realities on the ground? To what extent have they been defending the right to self-determination and human rights and to what extent abusing separatism for expansion of geopolitical interests?
As strategies are slow to evolve, recollections of the past may help better understanding of the interests and roles of the EU in the ongoing Kosovo negotiations in Brussels.
Over a longer period of time, the leading members of both NATO and the EU have been supporting the terrorist KLA in Kosovo and Metohija. Allied, they launched an armed aggression against Serbia (the FRY) in 1999 which, pursuant to the same principles of the international law (eagerly invoked these days by the EU officials), was tantamount to a crime against peace and humanity! To sum it up, the countries and integrations whose spokespersons swear to this day that they have always been upholding the same principles and rule-based policies, back in 1999 had provoked the strongest blow to the global legal order and to the United Nations since the end of World War II. The policies pursued by governments of those countries and by integrations thereof during the Yugoslav and the Kosovo crises have stimulated the spread of secessions, the expansion of Islamic extremism, Wahhabism and terrorism in Europe and the rest of the world. By disregarding and violating the principles enshrined in the Helsinki Final Act, in the UN Charter and in international conventions and treaties, they have induced a lasting instability in the Balkans as the most vulnerable part of Europe. Presently, they are exerting pressure against Serbia, the one they have been demolishing, deceiving and humiliating by recognizing the forcible capture of her state territory in the form of an engineered unilateral and illegal secession of Kosovo, and requesting that Serbia erases it all from track-record and forgets it all “for the sake of her European future”! What kind of future could possibly be built upon such foundations!?
The separatist and terrorist genie that the leading countries of NATO and the EU have unleashed from the bottle in Kosovo and Metohija back in 1998/99 for the purpose of furthering the geopolitical goals of the USA and some European powers, such as Germany and the UK, for example, keeps spreading over Europe, while the EU and NATO believe they would be able to push it back into the bottle and clear they names and revive their dented unity by scarifying once again (interests of) Serbia! The real tragedy for Europe is the reasoning that truth is only what the EU commissioners and spokespersons declare to be the truth. The dominance of such reasoning is preventing the genuine understanding of historical maelstrom that has engulfed the Old Continent!
“War on the FRY was waged to rectify an erroneous decision of General Eisenhower from the Second World War. Therefore, due to strategic reasons, the U.S. soldiers have to be stationed there.” This quote was the explanation given by American representatives at a NATO conference held in late April 2000 in Bratislava, and noted by Willy Wimmer, former State Secretary in the German ministry of Defense, in his report to Chancellor Gerhard Schroeder dated 2 May 2000.
The first point in this report is an explicit U.S. request that its allies (NATO members) recognize ‘independent state of Kosovo’ as soon as possible, whereas the tenth, last point, reads that ‘the right to self-determination takes precedence over all others”. Should one wonder any further about the present referendum on secession of Catalonia?
Wimmer’s report also notes the U.S. declared position at the Bratislava Conference was that the 1999 NATO attack on Yugoslavia without UN SC authorization is ‘a precedent to be invoked by anyone at any time, and which is going to be invoked’. This renders any allegations of a principled and rule-based policy utterly dubious, when the aggression executed in violation of the UN Charter is declared to be a precedent, and the unilateral secession of Kosovo directly resulting from such aggression is declared to be ‘a unique case’?!
In the eve of NATO 1999 aggression on Yugoslavia two major international missions had been placed in the Province of Kosove and Metohija. One was under auspices of OSCE known as Kosovo Verification Mission (KVM), headed by American diplomat William Walker and the other under the auspices of EEC (EU) known as European Community Monitoring Mission (ECMM), headed by German diplomat Dietmar Hartwig. The later conveyed the often repeated assessment of the leader of KVM and his entourage that: “There is no such thing as high costs to deploy NATO in Kosovo. Any cost is acceptable.”
After Kosovo Albanian leadership declared unilateral illegal secession in 2006, Dietmar Hartwig in 2007 sent four letters to the German Chancellor Angela Merkel urging her that Germany should not recognize such unilateral act. In his letter of October 26, 2007 to Chancellor Merkel, Hartwig, among other points, says: “Not a single report (of ЕCMM) submitted from late November 1998 up to the evacuation (of ЕCMM, KVM) just before the war broke out (1999), contains any account of Serbs having committed any major or systematic crimes against Albanians, and not a single report refers to any genocide or similar crimes… Quite the contrary, my (ECMM) reports have repeatedly communicated that, considering the increasingly more frequent KLA attacks against the Serbian executive authorities, their law enforcement kept demonstrating remarkable restraint and discipline. This was a clear and persistently reiterated goal of the Serbian administration - to abide to the Milošević-Holbrooke Agreement (of October 13,1998) to the letter so not to provide any excuse to the international community for an intervention. In the phase of taking over the Regional Office in Priština, colleagues from various other missions – KDOM, U.S., British, Russian, etc. – confirmed that there were huge ‘discrepancies in perception’ between what said missions (and, to a certain degree, embassies as well) have been reporting to their respective governments and what the latter thereafter chose to release to the media and the public of their respective countries. This discrepancy could, ultimately, only be understood as an input to general preparations for war against Kosovo/Yugoslavia. The fact is that, until the time of my departure from Kosovo, there has never happened anything of what have been relentlessly claimed by the media and, with no less intensity, the politics, too. Accordingly, until 20 March (1999) there was no reason for military intervention, which renders illegitimate any measures undertaken thereafter by the international community.”
“The collective behavior of the EU Member States prior to, and after the war broke out, certainly gives rise to a serious concern, because the truth was lacking, and the credibility of the international community was damaged. However, the matter of my concern is exclusively the role of the FR of Germany and its role in this war and its political objective to separate Kosovo from Serbia…”
“The daily political news reporting over the previous months (before October 2007) made it progressively more evident that Germany not only supports the American desire to see Kosovo independent, but also actively engages on its own in dividing the Serbs…You are to be considered responsible for this. The same goes for your foreign minister, in particular, who knows perfectly well what is going on in Kosovo, and is presently pursuing your political directives by tirelessly advocating Kosovo’s independence and, thus, its secession from Serbia. Instruct him, rather, to promote a durable solution for the Kosovo issue which is in line with the international law… It is only if all states choose to observe the applicable rights, we can have the foundations for the common life of all nations. Should Kosovo become independent, it will be perpetuated as the place of restlessness… Contribute to achieving the solution for Kosovo on the basis of the endorsed UNSC Resolution 1244 pursuant to which Kosovo remains a province of Serbia. American wishes and active efforts to see Kosovo secede from Serbia and see Kosovo and Kosovo Albanians achieve full independence, are contrary to the international law, politically deprecated and, on top of all, irresponsibly expensive…”
“Kosovo’s secession from Serbia guided by ethnic criterion would constitute a dangerous precedent and a signal for other ethnic communities in other countries, including in EU Member States, who could rightfully request the‘Kosovo solution’” – says Dietmar Hartwig in concluding his letter to Chancellor Merkel.
Enough said about the ‘humanitarian intervention’ and the concerns for the protection of rights of the Albanian population as the features of the “uniqueness of the Kosovo case”. American Military base “Bondsteel” in the vicinity of the town of Uroševac, surely by a pure chance, happens to be among the largest U.S. military bases outside the U.S.A! Perhaps their anxiety over being potentially spied on from the Serbian-Russian Humanitarian Center in Niš merely confirms that the “Bondsteel’s” ’mandate’ is strictly local, humanitarian and just for short time?!
It was the U.S.A, the EU and NATO, not Serbia, who froze the conflict following the armed aggression of 1999. They and kept it frozen for the past 18 years by not allowing complete implementation of UN SC resolution 1244. The forced Serbia to fulfill all its commitments insisting on the legally obliging character of the resolution while exempting themselves and the Albanians from any obligation stated therein. They realize that the full implementation of UNSC Resolution 1244 equaled preservation of integrity of Serbia, which is exactly what they do not want since it goes against their geopolitical concept of expanding to the East. Especially now, when the West is undergoing a transition from which it may not emerge as mighty as it was during the uni-polar world order.
At the present the West demands that Serbia ‘unfreezes’ Kosovo “independence procerss”. How? By compelling Serbia to sign a ‘legally binding agreement’ with Priština, to recognize a illegal unilateral secession, legalize illegal 1999 aggression, accept the consequences of violent ethnic cleansing of over 250.000 Serbs from Kosovo and Metohija and essentially assume responsibility for all that!
1The Author is President of the Belgrade Forum for a World of Equals, Federal Minister for Foreign Affairs of FR of Yugoslavia (1998-2000)
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