"Foibe" ed espansionismo italiano

1. Nelle foibe la falsa innocenza della patria (di Enzo Collotti)

2. «Quella tragedia non giustifica le colpe del fascismo» (intervista a
Galliano Fogar)

3. Confine orientale: le foibe tra imperialismo e resistenza (di
Antonino Marceca)


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il manifesto - 14 Febbraio 2004

FOIBE - La storia dal nulla

Nelle foibe la falsa innocenza della patria

Un groviglio di silenzi, rimozioni, pentimenti, confessioni e
riabilitazioni a metà. L'uso politico della storia è connaturato alla
classe politica italiana. Di destra e di sinistra. E così, sul solco di
una macabra par condicio, nasce la legge che istituisce la giornata
della memoria dedicata alle vittime delle foibe. Delle cui sofferenze
poco importa agli eredi dei fascisti che sono al governo. In gioco,
soltanto interessi elettorali

ENZO COLLOTTI

Quali che siano le buone intenzioni dei politici le manipolazioni della
storia producono sempre veleno. L'uso politico della storia è così
connaturato alla nostra classe politica, di destra e di sinistra, che
diventa sempre più difficile districarsi nel groviglio di silenzi,
rimozioni, pentimenti, confessioni e riabilitazioni a metà per cui il
risultato della memoria e della storia condivisa finisce per essere
sempre una verità dimezzata. Si è perduta la capacità di distinguere
tra storia e memoria, anche perché questa si impone per
l'amplificazione che ne fanno i media sempre sensibili ai gruppi di
pressione, a chi grida più forte, e soprattutto la capacità di leggere
criticamente la storia, a cominciare dalla propria storia, che viene
schiacciata dall'alternativa di essere ritenuta verità assoluta o di
essere condannata all'abiura. Un effetto devastante per una cultura
politica nella quale si finisce per affermare con cinismo ripugnante
che una memoria vale l'altra, continuando così ad eludere ogni serio
esame di coscienza sul proprio passato. Purtroppo è una metodologia
politica che ha una lunga tradizione e che non ha mai insegnato che il
vittimismo paga sempre e soltanto a destra, altro non essendo che uno
scampolo di patriottismo nazionalista, una proiezione di provincialismo
apparentemente anacronistico nel momento in cui tutti si riempiono la
bocca di afflati europeistici.

Siamo andati così avanti nel nostro cammino verso l'Europa che ora, a
sessant'anni o poco meno dalla liberazione, ci accorgiamo che è
esistito e che esiste un problema del nostro confine orientale. Credo
che delle vittime delle foibe e dei dolori e delle sofferenze di coloro
che condivisero l'esodo istriano ai politici che ne vogliono
monumentalizzare il ricordo in un secondo ambiguo giorno della memoria
interessi relativamente poco. Sono in gioco esclusivamente interessi
elettorali e riscaldare l'opinione pubblica su questi temi con gli
eredi dei fascisti al governo non può che aprire nuovi varchi nelle
infinite operazioni di mistificazione della storia con le quali, ad una
cultura legata ai valori della Resistenza e dell'antifascismo capace di
rinnovarsi e di rivedere criticamente i propri errori, si va
sostituendo una cultura diffusa fatta di parole obsolete, di miti duri
a morire, di meschino localismo, di preconcetti e pregiudizi e di vere
e proprie falsificazioni.

A quasi trent'anni dal processo per la Risiera di S. Sabba non si
vuole allargare la cerchia delle conoscenze e della ricerca della
verità, ma si vuole rovesciare un paradigma storico e non soltanto
storiografico, che dovrebbe rappresentare anche un impegno di
comportamento democratico e civile, restituendo all'Italia l'onore
dell'innocenza ed elevandola sull'altare della vittima. Ne siano o no
consapevoli i protagonisti di questa operazione, questa è la percezione
che non si può non avere del loro disinvolto modo di procedere.

E'stato giustamente sottolineato come per i protagonisti di simili
operazioni la storia cominci nel 1945. Ma ciò che accadde nel 1945 e
non solo in Italia ma su scala continentale europea, non è che un
momento di passaggio di qualcosa di molto più complesso che ha un
prologo molto più lontano. Per crudeli e spiacevoli che possano essere
i fatti del 1945, di cui nessuno può auspicare una ripetizione, essi
non sono scaturiti dal nulla, a meno appunto di accettare un criterio
di atemporalità che può consentire di riabilitare categorie
vetero-antropologiche e di contrapporre all'Italia faro di civiltà la
sempiterna barbarie slava. Ma pensavamo che simili metafore
appartenessero ormai alla cattiva propaganda di un lontano passato.
Evidentemente così non è se ci troviamo a dover cercare di riportare i
fatti alle loro origini e alle loro dimensioni. Foibe ed esodo
dall'Istria sono sicuramente due episodi ben distinti accomunati
problematicamente dal fatto di rappresentare due fasi del processo
storico avviato con la sconfitta del fascismo e con la dissoluzione
dello stato italiano nel settembre del 1943; ma l'origine di questi
sviluppi risalgono molto più indietro negli anni ed è difficile
comprenderne la logica, ci piaccia o no, estrapolandoli dal contesto
nel quale presero corpo. E questo contesto non è rappresentato soltanto
dall'aggressione alla Jugoslavia nel 1941, ma è costituito dal
complesso della politica condotta dall'Italia (purtroppo anche prima
dell'avvento del fascismo) nei confronti del nascente stato dei
serbi-croati e sloveni e successivamente della rilevante minoranza
slava (sloveni e croati) che si trovò inclusa nei confini del regno
d'Italia al termine della prima guerra mondiale. E' noto e arcinoto che
nell'euforia della guerra l'Italia liberale non fu in grado di arginare
il montante nazionalismo imperialista che guardava all'Adriatico come a
un mare interno italiano ed osteggiava perciò la creazione di uno stato
degli slavi del sud. Una politica che ebbe il suo prolungamento ed il
suo culmine nella ostinata avversione con la quale il regime fascista
guardò costantemente alla vicina Jugoslavia, considerandola, al di là
del gioco delle influenze internazionali, come possibile area da
sottomettere alla propria influenza e al limite da disgregare,
alimentando in funzione dei propri obiettivi il separatismo croato e
l'irredentismo di Pavelic e degli ustaÜa. Peggio ancora, dal punto di
vista interno l'avvento del fascismo significò l'esasperazione di una
politica di snazionalizzazione violenta delle comunità nazionali slave
e mano libera accordata al nazionalismo estremo del cosiddetto
«fascismo di frontiera», che è stato fatto oggetto di importanti studi
da parte di una generazione di storici critici della tradizione
storiografica nazionalista (Apih, Sala, Anna Vinci e altri).
L'equiparazione italiani uguali fascisti non è stata una invenzione
degli slavi ma una equazione inventata dal fascismo all'atto di operare
una vera e propria «pulizia etnica» nella Venezia Giulia, rendendo la
vita impossibile alle popolazioni locali, impedendo l'uso della lingua,
sciogliendone le amministrazioni, chiudendone le scuole,
perseguitandone il clero e le manifestazioni associative, boicottandone
lo sviluppo economico, costringendole all'emigrazione. L'espressione di
«genocidio culturale» che è stata adoperata per definire la condizione
della minoranza slava alla luce della vastissima documentazione
esistente risulta corretta.

Ma neppure la contrapposizione frontale tra italiani e slavi è stata
inventata dai titini. Anch'essa fu uno dei cavalli di battaglia del
«fascismo di frontiera». Qualche anno fa, ragionando sulle modalità del
grande e intimidatorio processo che il Tribunale speciale celebrò a
Trieste nel dicembre del 1941 mi ponevo il problema del perché in
quella circostanza il regime avesse voluto unificare in un unico
processo almeno tre diversi filoni dell'opposizione slovena al regime e
concludevo che doveva trattarsi di una circostanza riconducibile non a
strategie processuali ma ad una strategia politica «come per il passato
rivolta a una contrapposizione frontale nei confronti degli slavi». Ne
trovo conferma in una recentissima ricerca appena pubblicata
dall'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel
Friuli Venezia Giulia dedicata a tre dei processi che il Tribunale
speciale per la difesa dello stato celebrò a ridosso del confine
orientale (Puppini - Verginella - Verrocchio. Dal processo Zaniboni al
processo Tomazic. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale
1927-1941 Udine, 2003). Come scrivono gli autori «al Tribunale speciale
spetta il compito di ristabilire l'ordine affermando sia il primato
della razza e della civiltà italiana, sia il ruolo giocato da un
confine che funge da barriera con un mondo barbaro e inferiore».

Nell'aprile del 1941 l'aggressione alla Jugoslavia segnò un'ulteriore
escalation del livello di violenze e di sopraffazione, con l'annessione
al regno d'Italia della Slovenia, la cosiddetta «provincia di Lubiana».
Ne derivarono da una parte l'esportazione del «fascismo di frontiera»
con il suo carico di lutti e di violenze, dall'altra la saldatura delle
opposizioni slave nella Venezia Giulia alla ribellione degli sloveni
della provincia annessa. La violenza della repressione italiana ebbe
poco da invidiare alle spedizioni punitive dei tedeschi in altre parti
della Jugoslavia. Esecuzioni in massa, incendi di località,
deportazioni in campi di concentramento nel territorio occupato o
all'interno dei vecchi confini del regno d'Italia (Gonarsi, Renicci).
Impressionante la documentazione che possediamo, tra la quale spiccano,
oltre a pochi studi italiani (Cuzzi, Sala, ora Rodogno), tre volumi
documentari dello storico sloveno Tone Ferenc, scomparso da poche
settimane, uno dei quali stampato a Lubiana nel 1999 reca per titolo Si
ammazza troppo poco, da una frase del generale Mario Robotti,
comandante dell'XI Corpo d'armata di stanza in Slovenia. Saremmo
curiosi di sapere se i libri di questo compianto amico sloveno
entreranno tra i materiali con i quali scuole e istituzioni «culturali»
dovrebbero celebrare questo secondo giorno della memoria, che di fatto
vuole essere un ambiguo contraltare a quello del 27 gennaio, ne siano o
no consapevoli i compiacenti politici. Ai quali dovrebbe essere noto
anche che nessuno dei responsabili dei crimini commessi in Jugoslavia è
mai stato chiamato a rispondere del suo operato, qualcuno anzi su di
essi ha costruito la progressione di una onorata carriera.

La tragedia delle foibe si inserisce in questo contesto. Fu Giovanni
Miccoli nel 1976, all'epoca del processo della Risiera, a rigettare
energicamente l'accostamento foibe-Risiera e a sottolineare la
necessità di considerare il problema delle foibe nel quadro della
risposta ai crimini del fascismo prima o dopo il 1941. E' da questa
presa di coscienza che sono ripartiti gli studi, resi difficili e
complicati dalle interferenze politiche e dall'impossibilità di
arrivare a determinazioni statistiche certe, una impossibilità che di
fronte allo sforzo più equilibrato di riportare il fenomeno a
dimensioni attendibili ha lasciato libero campo a quanti erano
interessati a gonfiare le cifre a dismisura, per fare colpo
sull'opinione pubblica per ragioni che nulla avevano a che vedere con
la ricerca della verità.

Nel corso degli anni successivi la ricerca ha fatto notevoli progressi
facendosi strada a fatica tra le ricorrenti polemiche dell'estrema
desta, l'unica ad avere come punto di orientamento esclusivamente
l'odio antislavo e l'unica anche a non avere mai cambiato nulla nel suo
bagaglio politico-culturale. Contrariamente a quanto si continua a
ripetere, le foibe non sono mai state un tabùù per la pubblicistica e
la storiografia antifascista; nella nuova fase degli studi cessarono di
essere un tabù anche per la storiografia slovena, tanto che la
commissione mista di storici italo-slovena ha potuto consegnare nel
2000 ai rispettivi ministeri degli esteri un ampio rapporto contenente
ipotesi interpretative e ricostruttive dei rapporti tra i due popoli in
cui il problema delle foibe è collocato in una corretta
contestualizzazione e tenendo conto dei risultati acquisiti dalla
storiografia.

Il complesso iter delle conoscenze e del dibattito storiografico è
ricostruito in un lavoro recentissimo a cura di due storici di una
generazione nuova (anche se non più giovanissima) di studiosi cui
spetta il merito di avere rotto lo schema della contrapposizione
frontale tra gli opposti nazionalismi (nessuno dei quali è migliore
dell'altro) (Raoul Pupo -Roberto Spazzali, Foibe, Milano, Bruno
Mondadori, 2003). Almeno due sono i suggerimenti interpretativi che
emergono dalla loro ricognizione; anzitutto la corretta
contestualizzazione nel quadro generale del secondo conflitto mondiale:
«E' difficile concepire le stragi delle foibe senza l'educazione alla
violenza di massa compiuta nell'Europa centro-orientale a partire dal
1941, e il generale imbarbarimento dei costumi che ne seguì». In
secondo luogo un generale spostamento dell'ottica dalla quale guardare
al problema delle foibe, che rifiuta la tesi del «genocidio» a danno
degli italiani per riportare le violenze del 1943 e soprattutto del
1945 nell'alveo della dinamica del processo di conquista del potere da
parte del movimento rivoluzionario capeggiato da Tito, in un incrocio
di lotta di classe e di lotta nazionale in cui evidentemente l'essere
italiani «costituiva un fattore di rischio aggiuntivo tutt'altro che
trascurabile».

Lo stesso contesto nel quale, alla luce della situazione
internazionale di allora e dei rapporti di forze, si inserisce anche la
vicenda dell'esodo dall'Istria, che suggellava la posizione di
sconfitta dell'Italia e che ripeteva le modalità di altri coatti
movimenti di popolazioni (nei fatti non nelle procedure) che avvennero
su larga scala in altre parti d'Europa. Che allora non si fossero
trovati strumenti per tutelare i diritti delle minoranze nazionali fu
certo una grossa lacuna della nuova sistemazione che le potenze
vincitrici si apprestavano al predisporre per l'Europa, ma fu anch'esso
un retaggio della devastazione dell'Europa operata dalle potenze
fascista e nazista. Diverso sarebbe il discorso sui limiti
dell'integrazione degli esuli nella società italiana, che implicherebbe
un discorso specifico tutto interno alla politica italiana.


=== 2 ===

il manifesto - 11 Febbraio 2004

«Quella tragedia non giustifica le colpe del fascismo»

A colloquio con lo storico triestino Fogar: «Gli eredi del Msi ci
parlino di cosa avvenne prima delle foibe»
MATTEO MODER
TRIESTE

Il messaggio di Ciampi a Storace per la giornata dei valori nazionali
è solo la ciliegina sulla torta delle celebrazioni - il ricordo
dell'esodo degli istriani, giuliani e dalmati - che vengono presentate
da An del tutto fuori dalla storia. La tragedia delle foibe e
dell'esodo dalle terre perse - perché il fascismo fu sconfitto - viene
così presentata come esclusivo frutto della violenza «slavocomunista»,
materializzatasi dal nulla per abbattersi terribile su tutto ciò che
era italiano. Lo storico triestino Galliano Fogar, uno dei maggiori
conoscitori delle vicende storiche di queste terre di confine - dove il
ventennio fascista imperversò, ancor prima dell'invasione della
Jugoslavia, con una violenta opera di snazionalizzazione nei confronti
di tutto ciò che non era «italiano» e perciò «fascista» - non vuole
rassegnarsi al fatto che la storia venga dimezzata, che l'ignoranza e
la disinformazione su quanto realmente è avvenuto qui, in quella che fu
la Venezia Giulia, la facciano da padrone e che perfino gli eredi
dell'ex Pci si appiattiscono sulle tesi antistoriche di Alleanza
Nazionale. «An fa nascere la storia - dice - dal 1945, dall'occupazione
di Trieste da parte delle truppe di Tito. Io rispetto ciò che dice
Ciampi per il fatto che gli italiani dell'Istria, di Fiume e di Zara
dovettero abbandonare le terre perse, ma anche lui dimentica di
ricordare che tutto ciò, anche se certamente da condannare
assolutamente sul piano umano e morale, ebbe il suo terreno di coltura
nella violenza fascista e nell'invasione e disgregazione della
Jugoslavia da parte italiana e tedesca. Senza questo - aggiunge - non
si può discutere, non esiste una storia a metà».

«Era quello che volevo dire l'altro giorno a Fassino e Violante -
continua Fogar - quando sono venuti a Trieste per aderire alla proposta
di Roberto Menia (An) di istituire il 10 febbraio, giorno della firma
del Trattato di Pace di Parigi, nel 1947, la giornata della memoria
dell'esodo e per fare un "mea culpa" attribuendo al Pci di allora colpe
ed errori di valutazione. Ma io mi domando - aggiunge - come può
Fassino dire che il Pci sbaglio "perché l'aggressione fascista alla
Jugoslavia non poteva giustificare in nessun modo la perdita di
territori né l'esodo degli Italiani"? Ma è stata quella la causa
scatenante, l'Italia fascista è stata responsabile e corresponsabile
con la Germania di Hitler delle devastazioni e delle stragi che hanno
insanguinato l'Europa. Cosa dovrebbero dire gli ebrei, i polacchi, i
russi, i milioni che sono stati sterminati?».

Ma Fogar non ha potuto parlare, la conferenza stampa di Violante e
Fassino, come ha sottolineato il segretario triestino dei Ds, Bruno
Zvech, «era solo per giornalisti». «Io sono giornalista dal 1946 -
ricorda lo storico - e ho vissuto in prima persona gli avvenimenti di
queste terre e conosco la terribile ignoranza della grande stampa
nazionale e della Rai sulle vicende storiche della Venezia Giulia, dove
gli infoibati, "tutti italiani e solo perché italiani", sono a seconda
delle "disinformazioni" 10, 20, 50mila e i profughi 350mila, quando
l'Opera profughi giuliano dalmati e non certo il Soviet supremo ne
censì fino al 1960 204mila, più altri 40-50mila non censisti e che
hanno preferito allontanarsi senza lasciar traccia di sé».

Indifferenza, ignoranza, bassa politica elettorale, sono i fattori che
impediscono una lettura veramente storica dei fatti, per lasciarli
sospesi in un limbo pseudopatriottico, ignorando del tutto le colpe
fondamentali del fascismo di frontiera in Istria prima e poi nella
Jugoslavia occupata. «Fassino ha detto poi - spiega Fogar - che bisogna
ristabilire la verità storica, assumersi le proprie responsabilità, non
leggere quella vicende - foibe e esodo - che non sono così
consequenziali, se non nella visione antistorica degli eredi dei
fascisti - come una modalità dello scontro fascismo-antifascismo, come
secondo lui fece il Pci allora, perché "andava letta come una
manifestazione di un nazionalismo pericoloso che ha provocato molti
danni e sofferenze in quella parte d'Europa e torna periodicamente a
risvegliarsi". Certo - prosegue - c'era questa componente nel comunismo
di Tito, ma se non si racconta quello che è avvenuto prima come si può
capire, si sposano solo tout court le tesi di An che sono quelle del
Msi, che sono poi quelle repubblichine che perseguitano queste terre
dal 1943, dalle prime foibe istriane. Tralasciamo pure - rileva lo
storico - le nefandezze del fascismo tra le due guerre e partiamo dal
1940, quando l'Italia entra in guerra. La causa storica della nostra
disgrazia delle foibe e del calvario dei profughi è la guerra fascista,
l'occupazione della Jugoslavia, la politica di persecuzione, di
deportazione e di stragi, come nel 1942 a Podhum, vicino a Fiume quando
91 abitanti del paese, considerato "sospetto" dall'esercito e dalla
milizia fascista, furono fucilati e gli 800 abitanti deportati. La
destra attuale, gli ex missini - incalza Fogar - ben si guardano dallo
storicizzare le foibe e l'esodo con i quali tanto si riempiono la
bocca, perché dovrebbero per primi fare ammenda di quanto è successo.
Questi eredi dei missini, che hanno continuato a spadroneggiare e a
compiere atti di inaudita violenza a Trieste dal 1948 a tutti gli anni
Ottanta, e non solo contro comunisti e slavi ma contro gli esponenti e
i militanti di quegli stessi partiti democratici che avevano fatto
parte del Cln e che avevano difeso, pagando anche con la vita,
l'italianità di Trieste e di parte dell'Istria. Di questo non parlano,
ma di questo - conclude Fogar - parlano i nostri libri dell'Istituto
regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia
Giulia, le indagini di polizia, le inchieste della magistratura, anche
se furono sempre troppo indulgenti verso questi "difensori
dell'italianità" che flirtavano con Avanguardia Nazionale e Ordine
Nuovo, con le cellule nere di Freda e Ventura. Si parta da questa
storia, ammettano le colpe del fascismo e dopo parleremo di giornate
dell'esodo e delle foibe, fatti tragici, fatti tremendi ed esecrabili,
ma che non sono nati da un buco nero della storia».


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PROGETTO COMUNISTA
giornale dell'Associazione marxista rivoluzionaria
Progetto comunista - sinistra del PRC
febbraio 2004 - n. 5 nuova serie - anno II - Euro 2,00
(per informazioni: redazione@...
oppure scrivere a: Redazione Progetto comunista - via Ghinaglia, 93 -
26100 Cremona)

CONFINE ORIENTALE: LE FOIBE TRA IMPERIALISMO E RESISTENZA

Una storia che merita di essere conosciuta... prima che la riscrivano

di Antonino Marceca


Appena eletto alla presidenza del Friuli-Venezia Giulia, Illy si recò a
Lubiana in Slovenia, a Venezia dal presidente del Veneto Galan, a
Villaco presso il governatore della Carinzia Haider, in Istria dal
presidente Jakovcic e infine in Croazia dal presidente Mesic e ogni
volta propose ai rispettivi interlocutori la realizzazione
dell'Euroregione. Un progetto che vede l'appoggio del presidente del
Veneto Galan ed il sostegno dei presidenti della Confindustria del
Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Un quadro di relazioni
istituzionali mirante al controllo imperialistico della regione
orientale. Interessi strategici imperialistici verso l'oriente che per
quanto riguarda l'Italia possiamo considerare storici. Per limitarci al
'900 con il Patto di Londra, siglato il 26 aprile 1915 tra Italia e
Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), si prevedeva, in
caso di vittoria nella guerra imperialistica del 1914-1918,
l'assegnazione all'Italia del Trentino, del Sud Tirolo, la
Venezia-Giulia, la penisola dell'Istria, gran parte della Dalmazia e
delle isole adriatiche. Conclusa la prima guerra mondiale, crollato
l'Impero Asburgico, la conferenza di Parigi stabilisce la costituzione
del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il nuovo assetto pone la
necessità di definire i confini con l'Italia, mentre migliaia di
sloveni si trovano sotto occupazione dell'esercito italiano ed aspirano
a ricongiungersi al nuovo stato jugoslavo. Gli sloveni per quanto
riguarda l'Italia, non si facevano illusioni: i loro connazionali delle
Valli del Natisone, passati sotto l'Italia nel 1866, avevano subito da
allora un costante e sistematico processo di "snazionalizzazione". Il
combinato disposto dell'occupazione militare e dell'iniziativa
nazionalistica (impresa di G. D'Annunzio a Fiume) trovava riscontro nel
Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegna all'Italia nuovi
territori: l'Istria, la Dalmazia, la città di Zara, le isole di Cherso,
Lussino, Lagosta e Pelagosa, infine nel 1927 la città di Fiume. La
regione assume il nome di Venezia Giulia. La borghesia slovena benché
disponibile alla collaborazione con il governo italiano, a condizione
di preservare la propria identità e ruolo sociale, trova nel governo di
Roma, liberale prima e fascista poi, il fermo proposito di assimilare
gli "alloglotti", come venivano chiamate le popolazioni slave. Trieste,
avamposto colonialista verso l'oriente, diviene terreno fertile per lo
sviluppo del fascismo: "di fronte ad una razza inferiore e barbara come
la slava" afferma Mussolini percorrendo la Venezia Giulia nel settembre
1920 "non si deve perseguire la politica che dà lo zucchero, ma quella
del bastone". Nel 1921 la federazione fascista di Trieste è la maggiore
d'Italia, nel maggio del 1920 vengono create le "squadre volontarie di
difesa cittadina", bande armate fasciste, sotto la direzione di Giunta,
che scatenano aggressioni contro la classe operaia delle industrie
tessili, cantieristiche, minerarie e contro le popolazioni slovene e
croate. Tutti i luoghi di aggregazione degli sloveni e dei croati
vengono aggrediti e distrutti: società corali, società sportive, sale
di lettura, circoli dopolavoristici, le scuole.
Nel 1920 a Trieste è incendiato il Narodni Dom, sede delle associazioni
culturali ed economiche slovene. Il fascismo si identifica con
l'italianità e conquista il consenso della borghesia liberalnazionale
triestina. Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, la
repressione acquista il timbro delle leggi dello stato. Il regio
decreto del 15 ottobre 1925 proibisce l'uso delle lingue diversa da
quella italiana. La lingua slovena e serbo-croata viene rimossa da
tutti i luoghi pubblici e dalle insegne, con il regio decreto del 7
aprile del 1927 viene imposta l'italianizzazione dei cognomi, vengono
soppressi e confiscati i beni delle organizzazioni culturali,
ricreative, economiche slovene e croate. La scuola è al centro della
politica di "snazionalizzazione", gli insegnanti di lingua slovena
vengono trasferiti e costretti a licenziarsi, la repressione investe
anche i preti slavi in quanto "si ostinano a celebrare le funzioni
religiose in lingua slovena", e in Italia "si prega in italiano".
Contro questa azione di feroce repressione, contro l'imperialismo
coloniale italiano si organizza la resistenza, in particolare si
formano due organizzazioni clandestine, la T.I.G.R. (dalle iniziali
slovene di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka) e la "Borba" (lotta) che
affermano la parola d'ordine dell'unione alla Jugoslavia, in
particolare nella T.I.G.R. all'inizio degli anni '30 emerge la figura
di Pinko Tomazic che pone l'obiettivo di una repubblica slovena
inserita nel quadro di una confederasione di repubbliche sovietiche
balcaniche. Negli anni '28-'30 gli agricoltori slavi sono costretti a
mettere all'asta le proprietà, acquisite da coloni italiani mediante
l'Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie. La repressione negli
anni '27-'43 condotta dal Tribunale Speciale fascista contro sloveni e
croati è particolarmente feroce. La stessa cultura della foiba (1)
viene utilizzata da nazionalisti e fascisti, in canzoni e in poesie nei
testi scolastici, per intimorire con la minaccia di finire "in fondo
nella foiba" le popolazioni slave. Il 6 aprile 1941 l'Italia, assieme
alle forze dell'Asse, sferra l'aggressione alla Jugoslavia, che viene
smembrata; l'Albania era stata occupata nell'aprile 1939. Dalla
spartizione della Jugoslavia l'Italia incorpora la Slovenia
meridionale, il litorale Dalmata, Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro,
le isole e la regione della Carniola, costituendo la nuova Provincia di
Lubiana e il Governatorato della Dalmazia; a Sud incorpora all'Albania
la Macedonia meridionale e il Kosovo, il Montenegro diviene un
protettorato. L'occupazione fu contrassegnata da particolare durezza:
incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio italiani (202
complessivi, tra cui Arbe-Rab in Dalmazia e Gonars in Friuli) e
tedeschi, eccidi di rappresaglia, rastrellamenti, fucilazioni ed
impiccagioni. Dopo l'invasione nazifascista a Lubiana il 27 aprile 1941
si costituisce l'OF, Osvobodilna Fronta (Fronte di Liberazione
Sloveno), a cui aderiscono personalità indipendenti e gruppi di
ispirazione cristiano-sociale, con un ruolo egemone del Partito
comunista sloveno (2). L'OF inizia la resistenza armata con l'obiettivo
dell'indipendenza nazionale e l'unificazione della Slovenia nel quadro
della Jugoslavia federativa, organizza forze prevalentemente contadine
e popolari. Le forze liberalconservatrici slovene, espressione della
borghesia nazionale, restano in attesa della fine del conflitto o
collaborano con l'occupante. La risposta italiana è la repressione
civile e militare: nell'aprile del 1942 a Trieste viene istituito
l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza che si caratterizzerà per
i rastrellamenti, le violenze, le torture. Alla vigilia dell'8
settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana si conteranno 33.000
persone deportate, pari al 10% della popolazione, quasi 13.000 edifici
distrutti, 9000 danneggiati, ed un numero di fucilati, caduti in
combattimento e morti nei campi non quantificati, ma dell'ordine di
alcune migliaia (circa 7000 nei campi italiani). Dopo l'8 settembre
1943, crollate le strutture dello stato italiano, dissolto l'esercito
regio, i comandanti in fuga alla ricerca di vie di salvezza, la
Wehrmacht occupa i centri strategici della Venezia Giulia, le città
portuali di Trieste, Pola, Fiume, l'area industriale di Monfalcone,
Gorizia ma per carenza di forze trascura l'entroterra. Il vuoto di
potere nella penisola istriana è presto riempito dall'insurrezione
popolare e contadina, coinvolge la popolazione italiana dei centri
costieri e quella slava dell'interno, presenta connotazioni di
liberazione nazionale e lotta di classe, ad una fase spontanea con
fenomeni di jacquerie segue l'assunzione del controllo
politico-militare da parte del Novj (l'esercito di liberazione). Una
liberazione assai fragile durata circa venti giorni, in alcune zone
circa un mese. Tra l'11 e il 12 settembre 1943 le forze del Novj
occupano Pisino, nel cuore dell'Istria, organizzandovi il Comando
operativo. Nei villaggi le masse popolari attaccano i simboli e i
rappresentanti dello stato colonizzatore: podestà e segretari comunali,
fascisti, carabinieri, commercianti, esattori delle tasse; nelle
campagne i coloni e i mezzadri attaccano i possidenti terrieri
italiani; nelle imprese industriali, cantieristiche e minerari, in
particolare nella zona di Albona, con una forte tradizione di lotte
operaie e socialiste, stessa sorte investe dirigenti, impiegati e
capisquadra. Mentre la maggior parte vengono arrestati e concentrati
soprattutto a Pisino, in questo contesto alcune centinaia (300-500) di
vittime della furia popolare vengono gettate nelle foibe istriane. La
propaganda nazifascista utilizzerà il fenomeno delle foibe istriane per
incitare all'odio antislavo, moltiplicando il numero e sottolineando la
nazionalità italiana delle vittime. Il primo ottobre 1943 con
l'Operazione Nubifragio le forze armate tedesche rioccupano tutta
l'Istria, il loro passaggio segna decimazione di massa, distruzioni,
incendi, i morti sono migliaia. I territori riconquistati vengono uniti
alle altre aree del confine nordorientale e organizzati nella
Operationszone Adriatisches Kustenland (Zona Operazioni Litorale
Adriatico) comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola,
Fiume, Lubiana, nelle quali l'autorità suprema è un commissario alle
dipendenze di Hitler. L'Amministrazione tedesca emana una serie di
disposizioni e ordinanze, nomina prefetti e podestà, assegna ad ogni
amministrazione un consigliere tedesco. I giovani di leva vengono
incorporati nella Wehrmacht o nella organizzazione tedesca del lavoro
coatto Todt. Vengono pubblicati giornali e riviste in lingua tedesca,
slovena e serbo-croata, viene quindi ridimensionata la politica di
snazionalizzazione delle popolazioni slave. Il potere decisionale a
tutti i livelli è accentrato in mani tedesche, dai tribunali al
controllo poliziesco, quest'ultimo è gestito dal generale Odilo Lotario
Globocinik, capo delle SS del Litorale, stimato da Himmler per
l'attività svolta nei campi di sterminio in Polonia. A Trieste
organizza nel rione industriale di San Sabba, in edifici già utilizzati
per la pilatura del riso, un lager che funziona come campo di
smistamento, concentramento e sterminio. A San Sabba trovano la morte
migliaia di oppositori politici e combattenti partigiani sloveni e
croati, italiani, renitenti alla leva, ebrei. Per larga parte della
comunità italiana della Venezia Giulia, la borghesia e larghi strati di
piccola e media borghesia la creazione della Zona del Litorale
Adriatico, la presenza della Wehrmacht è una garanzia contro la
minaccia "slavo-comunista". A Trieste la borghesia industriale e
finanziaria vede nella annessione al Reich il rilancio commerciale
della città, porto meridionale del Reich. Nella Venezia Giulia si
costituiscono corpi volontari di milizie fasciste che collaborano col
comando tedesco: la Polizia annonaria, la Guardia Civica-Stadtshutz, la
Milizia Difesa Territoriale, la X Mas, la Guardia di Finanza, inoltre
collaborano con l'occupante anche forze slovene: Slovenski narodni
varnostni zbor (corpo nazionale sloveno di sicurezza) detti domobranci
e Slovensko domobranstvo (difesa territoriale Slovena). All'interno
della popolazione italiana della Venezia Giulia gli operai di Trieste,
Monfalcone, Fiume e delle cittadine costiere istriane diedero origine a
formazioni quali la Brigata Proletaria e Delavska Enotnost-Unità
Operaia che collaborano con la resistenza jugoslava nella prospettiva
della rivoluzione socialista, prospettiva che le organizzazioni egemoni
del movimento operaio italiano (PCI e PSI) non sostengono provocando
grosse contraddizioni tra quadri e militanti comunisti. Il PCI infatti
partecipava attraverso il CLN al Fronte popolare con i partiti borghesi
(DC, PDA, Monarchici, Liberali), e a questa alleanza subordina
l'indipendenza di classe. In Jugoslavia il PCJ, pur aderendo alla
politica dei Fronti popolari, in presenza di una borghesia nazionale
legata al capitale straniero, tipica di un paese semicoloniale, le cui
forze politiche collaboravano con l'occupante o restano passive, è
costretto dalla dialettica della rivoluzione a superare la fase
democratico-borghese (unificazione ed indipendenza nazionale, riforma
agraria) fino a liquidare una borghesia che queste esigenze non aveva
risolto o risolto parzialmente. Un intreccio di contraddizioni
nazionali e di classe che si riversano nel movimento partigiano della
Venezia Giulia, provocando a Trieste rotture nel CLN, qui le forze
borghesi, liberali e cattolici, si oppongono per ragioni di classe
alla rivoluzione jugoslava, tale avversione porterà, come nel caso
delle Brigate Osoppo, alla collaborazione con forze fasciste in
funzione antislava e anticomunista. La situazione politico-militare
costringe gli inglesi a limitare il controllo alla parte occidentale
della regione, per l'importanza strategica delle comunicazioni verso
Nord, in particolare Trieste e Gorizia, rinunciando all'ipotesi greca.
L'offensiva finale jugoslava inizia il 20 marzo 1945 e sono i reparti
del Novj ad arrivare il 1° maggio per primi a Trieste e Gorizia
anticipando le armate britanniche, con essi collaborano le formazioni
partigiane comuniste. Il CLN triestino, costituito dal PSI, PDA, DC, e
Liberali, oscilla tra l'attesa e l'insurrezione, in attesa dell'arrivo
degli inglesi da avvio all'insurrezione mediante il Corpo Volontari
della Libertà, ma questi si scontrano con le forze jugoslave e si
ritirano dalla lotta. Le forze neozelandesi raggiungono Trieste e
Gorizia il 2 maggio, la situazione rimane aperta per circa un mese fino
a quando i governi inglese ed americano costringono le forze jugoslave
a ritirarsi da Trieste e Gorizia. Il nuovo potere jugoslavo nelle zone
liberate si basa sull'Armata, sulla Difesa popolare, sull'Ozna, il
servizio segreto, mentre mancano strutture consiliari tipo i soviet.
L'obiettivo è affermare prima possibile la nuova sovranità jugoslava,
epurare l'apparato amministrativo e di polizia, prelevare i reazionari
e trasferirli per processarli in campi di prigionia in Slovenia, altri
vengono fucilati dopo la cattura o la resa. Nemici vengono considerate
le forze armate dello stato imperialista, le formazioni fasciste, le
forze antislave e anticomuniste tra cui aderenti al CVL del CLN
triestino. In questo quadro, tra il maggio-giugno del '45, si
ripresenterà il fenomeno delle foibe nell'entroterra carsico di Trieste
e Gorizia con aspetti simili al precedente istriano. Da una ricerca
accurata svolta da C. Cernigoi e pubblicata nel libro Operazioni foibe
a Trieste nella provincia triestina le vittime finiti nelle foibe sono
circa 517 di cui 112 della Guardia di Finanza, 149 della Pubblica
Sicurezza, 115 delle Forze armate, 105 civili, tra questi
collaborazionisti e spie. Siamo sicuri che la propaganda reazionaria e
liberaldemocratica, per esorcizzare la rivoluzione proletaria,
continuerà a rivangare di "migliaia di martiri delle foibe", di
"partigiani rossi e violenti", mentre i riformisti, come Bertinotti,
pur di allearsi con i liberali giureranno sulla nonviolenza, per parte
nostra con Marx, Lenin e Trotsky riaffermiamo la necessità della
rivoluzione socialista fino a quando le masse proletarie di questo
pianeta non si saranno liberate dal capitalismo e dall'imperialismo.


1) Geologicamente sono un aspetto tipico del paesaggio carsico,
indicano le fenditure di diametro variabile, profonde decine di metri,
provocate dall'erosione millenaria delle acque nelle rocce calcaree.
Usati dagli abitanti dei luoghi per far sparire ciò di cui intendevano
disfarsi: oggetti, animali, ma anche vittime di tragedie private o
delle violenze della storia.

2) Sulla storia dei comunisti jugoslavi vedi le schede del n°24 di
Proposta del maggio 1999 e il Quaderno, a cura del centro P. Tresso,
A. Ciliga, Come Tito si impadronì del PCJ.