il manifesto
17 Maggio 2006

Kosovo, memorie di una guerra infinita

Un anno vissuto pericolosamente
Esce oggi il diario di Miodrag Lekic, ex ambasciatore jugoslavo a Roma

Tommaso Di Francesco

Diplomazia è spesso sinonimo di prudenza. Questa volta, però, Miodrag
Lekic, ex ambasciatore jugoslavo a Roma, non è stato tanto
«diplomatico». Ha infatti scritto e ora pubblicato - esce oggi in
libreria - un diario, La mia guerra alla guerra (Guerini e Associati,
pp. 397, euro 22,50) che va dall'ottobre 1998 all'ottobre 1999 e che
comprende i settantotto terribili giorni di bombardamenti «umanitari
della Nato» sulla ex Jugoslavia per la crisi del Kosovo. E lo ha
fatto, scrive, per «esprimere una cultura della responsabilità» e
«senza temere conseguenze». Del resto, poteva rimanere in silenzio il
protagonista di una esperienza unica costretto a essere suo malgrado
testimone di avvenimenti eccezionali?
Come ricorda infatti Sergio Romano nell'introduzione, l'ambasciatore
Lekic è rimasto nella sua sede ad assistere alla guerra dal
territorio di un paese nemico che stava bombardando il suo,
continuando al tempo stesso a negoziare per la pace. E questo perché
Belgrado aveva mantenuta aperta la possibilità di trattare con due
paesi della Nato, la vicina Grecia e l'Italia che - ricorda Romano -
non aveva chiesto a Lekic di rientrare in patria sebbene fosse in
quegli stessi giorni la portaerei dell'Alleanza atlantica.
Da questo osservatorio privilegiato e rischioso Lekic dipana un
resoconto originalissimo, perché l'autore vive il doppio dramma di
vedere da lontano la devastazione del suo paese interponendo
un'impossibile mediazione per limitare i danni, senza tuttavia
nascondersi gli errori del suo governo. Non è schierato con
Milosevic, Miodrag Lekic, ma si batte contro i bombardamenti della
Nato: è, insomma, il rappresentante del suo popolo. Al tempo stesso
deve subire un'altra privazione: quell'occidente che appare come un
baluardo internazionale di democrazia all'improvviso si frantuma per
diventare strumento di sopraffazione nelle mani del più forte. Tanto
più che il paese da cui Lekic si aspettava di più e nel quale è
ospite ingombrante se non sgradito, l'Italia con al governo per la
prima volta un presidente del consiglio post-comunista, Massimo
D'Alema, è diventato la pista di partenza dei bombardieri che faranno
strazio di civili e infrastrutture. Quaranta miliardi di dollari di
danni che nessuno ha pagato, cinquemila vittime civili, duemila morti
tra cui tanti bambini e tante donne. E nessun criminale di guerra
alla sbarra, aggiungiamo noi.
E qui, nella sua ineludibile attualità, sta l'aspetto più rilevante
del diario di Lekic. In queste ore di attesa per il nuovo governo di
centrosinistra, la memoria dell'ex ambasciatore è quasi uno specchio.
Giacché il libro mostra che la guerra doveva e poteva essere evitata,
che averla fatta è stato un tragico errore e averla definita
«umanitaria» una farsa. Non inutile. Gravava infatti su D'Alema nel
marzo del '99, a ridosso dell'imbroglio di Rambouillet e della
messinscena della strage di Racak, il dubbio, scrive ancora Romano ,
se «si sarebbe comportato da "buon alleato"», se «sarebbe stato
sufficientemente "atlantico"». Insomma D'Alema era sotto esame, dalla
bicamerale doveva passare alla guerra «costituente». Esame passato
con lode.
Ma le menzogne usate allora sono un misfatto che ha avuto come
testimoni non solo i pacifisti italiani ma anche l'ambasciatore
Lekic, il quale nel suo diario racconta come nelle stesse sedute del
parlamento il governo D'Alema per bocca del ministro degli esteri
Dini riconobbe che sul campo la situazione era diversa rispetto a
quella raccontata dalla Nato. Che l'Uck era terrorista e andava
fermata perché il suo obiettivo era di internazionalizzare la crisi
allo scopo di arrivare a un'occupazione militare atlantica del Kosovo
per giungere all'indipendenza, un'indipendenza sciagurata visto che -
osserva Lekic - perdere quel territorio, «una linea di faglia tra le
civiltà come Gerusalemme», vorrebbe dire «non perdere un arto
qualsiasi del proprio corpo ma una parte della testa».
Si dipanano nel diario avvenimenti marginali ma significativi: come
l'intermediazione dell'altra ambasciata, quella in Vaticano, che
«esautorava» di fatto l'operato di Lekic; o come la sorprendente fuga
di Ibrahim Rugova da Pristina non in occidente ma a Belgrado da dove
poi venne consegnato come mediatore di pace (e anche su questo Rugova
non fu veritiero) all'Italia. Tornano nel libro i nomi
indimenticabili dei target dei bombardieri atlantici : Surdulica, la
televisione di Belgrado, il mercato di Nis. Sangue che nell'autore,
così lontano dai suoi luoghi, suscita perfino maggiore dolore. E a
ogni «effetto collaterale» - ma chiamatelo effetto collaterale un
bombardamento fatto con cluster bomb - si avverte l'impotenza di chi
non riesce a fermare l'aggressione, di chi non è stato capace di
impedire gli errori del proprio paese, di chi sente che l'azzeramento
dei dispositivi del diritto internazionale dopo Rambouillet ha ormai
cancellato ogni possibilità della pace.
Ora la Serbia, ridotta a immenso campo profughi (circa un milione di
fuggiaschi per le pulizie etniche subite dai serbi in Kosovo, nella
Krajina croata e in Bosnia Erzegovina) è il «cuore di tenebra» dei
Balcani. Nel Kosovo sotto occupazione Nato la pulizia etnica è
continuata sotto segno opposto ed è in discussione perfino
l'indipendenza come se il vero motivo di quella guerra fosse non il
ventilato umanitarismo ma la rimessa in discussione dei confini. Con
la morte oscura di Milosevic nel carcere del Tribunale dell'Aja come
se a lui solo andassero ascritte le responsabilità della tragedia
dell'ex Jugoslavia. Ma, si chiede Miodrag Lekic, quale sarà la fine
di quelli che «cinicamente, dai loro comodi uffici nelle cancellerie
occidentali, hanno precipitato i popoli jugoslavi nella guerra?».