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http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/09-Gennaio-207/art32.html

Bottino di guerra, il petrolio iracheno alle multinazionali Usa

Petrolio etnico L'occupazione e la divisione dell'Iraq con nel mirino
Siria, Arabia Saudita e Iran. Una mossa contro l'Opec Il sacco di
Baghdad Presto una legge irachena «made in Usa» consegnerà nelle mani
delle società petrolifere il 70% dei proventi del petrolio

Stefano Chiarini da il Manifesto del 9.1.07 p. 4

«Scivolando silenziosamente nella notte del Golfo Persico i Navy
Seals - scriveva un eccitato reporter del «New York Times» il 23
marzo del 2003 - hanno occupato due terminali petroliferi off shore
con una serie di arditi attacchi terminati questa mattina all'alba, e
sono riusciti ad imporsi alle armi leggere delle guardie irachene
ottenendo una vittoria incruenta nella battaglia per il vasto impero
petrolifero dell'Iraq». Una vittoria che venne subito seguita, come
programmato dai dettagliati piani del Pentagono, dall'occupazione
delle principali installazioni petrolifere del paese e da quella, a
Baghdad, del ministero del petrolio presidiatissimo dalle truppe Usa
mentre gli stessi militari americani aprivano le porte degli altri
ministeri o ne abbattevano i muri per invitare la folla al saccheggio
della storia e della memoria dell'Iraq.
Nei prossimi giorni, forse ore, secondo quando ha scritto domenica il
settimanale britannico «The Indipendent on Sunday», l'Amministrazione
Bush e il cartello delle principali compagnie petrolifere, sarebbero
sul punto di mettere definitivamente le mani sul petrolio di quello
che Paul Wolfowitz definì «un paese che naviga sul petrolio».Un paese
considerato il terzo al mondo per riserve petrolifere, dopo l'Arabia
Saudita e l'Iran, ma che potrebbe essere in realtà il secondo, se non
il primo. Ufficialmente l'Iraq ha riserve per 115 miliardi di barili
di petrolio, il 10% del totale mondiale, ma in realtà nel deserto
occidentale vi sarebbero quantità di petrolio ancora sconosciute. Si
tratta di un petrolio di ottima qualità e molto facile da estrarre a
tal punto che in alcune zone le autorità hanno dovuto gettare delle
colate di cemento per evitare che i cittadini, scavando, facessero
zampillare dal suolo l'oro nero. Un petrolio che quindi costa
pochissimo da estrarre.
Questo giardino delle delizie per i petrolieri presto sarà di nuovo,
a oltre trent'anni dalla nazionalizzazione del settore portata avanti
dall'allora presidente Hassan al Bakr e dal vice presidente Saddam
Hussein nel 1972, pronto ad essere sfruttato a condizioni di grande
favore dalle grandi multinazionali come la Bp e la Shell britanniche
e le americane Exxon e Chevron. E magari qualche briciola relativa ai
giacimenti di Nassiriya potrebbe anche essere lasciata dalle
compagnie Usa all'Eni. Qualcosa di assai diverso da quel che sarebbe
potuto avvenire se Enrico Mattei non fosse stato ucciso con il suo
aereo il 26 ottobre del 1962 nei pressi di Linate. Pochi giorni dopo
il presidente dell'Eni avrebbe dovuto perfezionare un accordo con il
governo iracheno di Abdel Karim Kassem che il 30 settembre aveva
annunciato la formazione dell'Ente Nazionale Iracheno per il
petrolio, per la produzione annua di 20 milioni di tonnellate di
petrolio. Una vera sfida alle sette sorelle.
La nuova legge che sarà discussa dal governo di Baghdad filo-Usa e
filo-Iran e approvata dal parlamentino uscito dalle elezioni truffa
dello scorso anno, si discosta totalmente da quelle normalmente
applicate nella regione e nei paesi in via di sviluppo dal momento
che sotto un sistema chiamato «Production-Sharing Agreements», o Psa,
permette alle società petrolifere di incamerare il 75% dei profitti
fino a quando non avranno ricuperato i costi sostenuti per poi
scendere, se verrà mai quel giorno, al 20%. Esattamente il doppio di
quanto in passato governo di Saddam Hussein aveva offerto alla
vigilia della seconda guerra del Golfo alla Total per lo sviluppo di
un grande giacimento petrolifero e di quanto viene praticato
normalmente. Per di più i contratti avranno una durata trentennale e
se qualche futuro governo iracheno dovesse cambiare idea e
rivendicare la sovranità dell'Iraq sul suo petrolio ci saranno sempre
i marines a ricordargli i suoi doveri. Per questo si tratta di un
accordo che difficilmente sarà accettato dal popolo iracheno. Gli
accordi di Psa lasciano si la proprietà dei giacimenti al paese
ospitante ma assegnano gran parte dei profitti alle società che hanno
investito nelle infrastrutture e nella gestione dei pozzi, degli
oleodotti e delle raffinerie e per questa ragione la nuova legge
irachena sarebbe la prima di questo tipo mai adottata da un grande
paese produttore di petrolio della regione. Senza contare che nel
caso di controversie tra lo Stato iracheno e le società petrolifere,
la sovranità irachena non avrà alcun valore e le parti dovranno
ricorrere ad un arbitrato internazionale. Le società petrolifere,
secondo il documento ottenuto dall'Indipendent, inoltre potranno
esportare liberamente i loro profitti senza alcuna condizione e nel
farlo non saranno soggette ad alcuna tassa. Sia l'Arabia saudita che
l'Iran - così come l'Iraq dal 1972 ad oggi - controllano invece
entrambi il settore con società statali nelle quali non vi è alcuno
spazio per le compagnie straniere, così come la gran parte dei paesi
che aderiscono all'Opec. Le legge costituirebbe quindi una sorta di
pericoloso precedente per l'Organizzazione dei paesi esportatori da
sempre nel mirino dei «neocon» secondo i quali la guerra e
l'occupazione dell'Iraq sarebbero dovute servire per disgregare i
paesi arabi, prima l'Iraq, poi la Siria e infine l'Arabia Saudita e
quelli musulmani come l'Iran, sia per lasciare campo libero ad
Israele sia per assestare un colpo definitivo all'Opec. E proprio a
tal fine la costituzione provvisoria dell'Iraq, scritta dagli esperti
Usa, apre la strada alla divisione del paese in tre «patrie etniche»,
una curda, l'altra sunnita e la terza sciita, che gestiranno
autonomamente lo sfruttamento dei nuovi pozzi petroliferi lasciando
al governo centrale solamente una percentuale dei proventi derivanti
dai giacimenti già in via di sfruttamento. Ciò significherà non solo
un permanente conflitto tra le tre entità, ciascuna facilmente
ricattabile dalle multinazionali, ma costituirà anche la fine di un
ruolo preminente del governo centrale e quindi di qualsiasi forma di
«Welfare» e di intervento dello stato nell'economia.
La legge che legalizza la rapina delle risorse irachene non è stata
redatta, come si potrebbe pensare dal governo iracheno ma dalla
BearingPoint, una società Usa assoldata dal governo americano per
«consigliare» le autorità di Baghdad con un proprio rappresentante
fisso presso l'ambasciata Usa nella «zona verde». Nel giugno del 2003
la BearingPoint ricevette un contratto per «facilitare la ripresa
economica irachena» al quale si aggiunsero una serie di compiti assai
delicati: Redigere il budget iracheno, Riscrivere la legge sugli
investimenti, organizzare la raccolta delle tasse, redigere le nuove
regole liberiste per il commercio e le dogane, privatizzare le
imprese irachene, porre fine alla distribuzione di generi alimentari
a prezzi politici, creare una nuova valuta e fissare i tassi di
cambio. Una volta perfezionata, la legge sul petrolio è stata
presentata al governo Usa, alle società petrolifere e, a settembre,
al Fondo Monetario Internazionale. Molti deputati iracheni ancora ne
sono all'oscuro.

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http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2007-01-10%
2009:53:06&log=invites

Butin de guerre

Stefano Chiarini

Bush a préparé une loi coloniale qui octroie aux sociétés US des
contrats aux privilèges ahurissants sur le pétrole irakien...

« Glissant silencieusement dans la nuit du Golfe persique, les Navy
Seals – écrivait un reporter excité du « New York Times » le 23 mars
2003- ont occupé deux terminaux pétroliers off shore par une série
d’attaques hardies qui se sont terminées ce matin à l’aube, et sont
arrivés à s’imposer face aux armes légères des gardes irakiens,
obtenant une victoire sans effusion de sang dans la bataille pour le
vaste empire pétrolier de l’Irak ». Une victoire qui fut
immédiatement suivie, comme cela avait été programmée en plans
détaillés par le Pentagone, par l’occupation des principales
installations pétrolières du pays et celle, à Bagdad, du très
surveillé ministère du pétrole par les troupes Usa alors que ces
mêmes militaires étasuniens ouvraient les portes des autres
ministères ou en abattaient les murs pour inviter la foule au saccage
de l’histoire et de la mémoire de l’Irak.

Dans les prochains jours, voire prochaines heures, selon ce qu’a
écrit dimanche l’hebdomadaire britannique « The Independent of Sunday
», l’Administration Bush et le cartel des principales compagnies
pétrolières, seraient sur le point de mettre définitivement la main
sur le pétrole de ce que Paul Wolfowitz avait défini comme « un pays
qui navigue sur le pétrole ».Un pays considéré comme le troisième au
monde pour les réserves pétrolifères, après l’Arabie Saoudite et
l’Iran, mais qui, en réalité, pourrait être le second, si ce n’est le
premier. Officiellement l’Irak a des réserves pour 115 milliards de
barils de pétrole, 10% du total mondial, mais il y aurait en fait
dans son désert occidental des quantités de pétrole encore inconnues.
Il s’agit d’un pétrole d’excellente qualité et très facile à
extraire, au point que dans certaines zones, les autorités ont du
couler du ciment pour éviter que les citoyens, en creusant, ne
fassent jaillir du sol l’or noir. Un pétrole qui coûte donc très peu
à l’extraction.

Ce jardin des délices sera de nouveau là pour les pétroliers, à plus
de trente ans de la nationalisation du secteur conduite par le
président de l’époque, Hassan al Bakr et son vice président Saddam
Hussein, en 1972 : prêt à être exploité dans des conditions très
favorables par les grandes multinationales comme Bp et Shell,
britanniques, et les étasuniennes Exxon et Chevron. Peut-être
quelques miettes relatives aux gisements de Nassiriya pourraient-
elles être laissées par les compagnies Us à l’Eni (Ente nazionale
idrocarburi, la société nationale des hydrocarbures, italienne,
fondée par Enrico Mattei, NDT). Quelque chose d’assez différent de ce
qu’il aurait pu advenir si Enrico Mattei n’avait pas été tué dans son
avion le 26 octobre 1962 aux environs de Linate (aéroport de Milan ;
l’enquête sur l’explosion en vol de l’avion personnel de Mattei, n’a
toujours pas déterminé les causes de cet accident, NDT). Quelques
jours plus tard le président de l’Eni aurait du mettre au point un
accord avec le gouvernement irakien d’Abel Karim Kassem qui avait
annoncé le 30 septembre la formation de la Société nationale
irakienne pour le pétrole, avec une production annuelle de 20
millions de tonnes de pétrole. Un véritable défi aux sept sœurs.

La nouvelle loi qui sera discutée par le gouvernement de Bagdad pro-
étasunien et pro-iranien et approuvée par le petit parlement issu des
élections-farce de l’année dernière, s’écarte totalement de celles
qui sont appliquées normalement dans la région et dans les pays en
voie de développement : en effet, sous un système appelé « Production-
Sharing Agreements », ou Psa, elle permet aux sociétés pétrolières de
s’approprier 75 % des profits tant qu’elles n’auront pas récupéré les
coûts supportés, pour ensuite descendre à 20%, à supposer que ce jour
arrive jamais. Le double exactement de ce que le gouvernement de
Saddam Hussein avait offert à la veille de la seconde guerre du Golfe
à Total, pour le développement d’un grand gisement pétrolifère, et de
ce qui est normalement pratiqué. De plus, les contrats auront une
durée trentenaire et si quelque gouvernement irakien à venir voulait
changer de perspective et revendiquer la souveraineté de l’Irak sur
son pétrole, il y aurait toujours des marines pour le rappeler à ses
devoirs.

C’est pour cela qu’il s’agit d’un accord qui sera difficilement
accepté par le peuple irakien. Les accords de Psa laissent bien sûr
la propriété des gisements au pays hôte mais assignent une grande
partie des profits aux sociétés qui ont investi dans les
infrastructures et dans la gestion des puits, des oléoducs et des
raffineries, et, de ce fait, la nouvelle loi irakienne serait la
première de ce type jamais adoptée par un grand pays producteur de
pétrole de la région. Sans compter qu’en cas de controverses entre
l’Etat irakien et les sociétés pétrolières, la souveraineté irakienne
n’aura aucune valeur et les parties en présence devront avoir recours
à un arbitrage international.

Les sociétés pétrolières, selon le document obtenu par The
Independent, pourront en outre exporter librement leurs profits sans
aucune condition, et elles ne seront soumises à aucune taxe en le
faisant. L’Arabie Saoudite aussi bien que l’Iran – de même que l’Irak
de 1972 à maintenant- contrôlent par contre tous les deux leur
secteur avec des sociétés d’état dans lesquelles il n’y a aucune
place pour des sociétés étrangères, comme c’est le cas pour la plus
grande partie des pays qui adhèrent à l’OPEP. La loi constituerait
donc une sorte de dangereux précédent pour l’Organisation des pays
exportateurs, depuis toujours dans le collimateur des « néo-cons »,
pour lesquels la guerre et l’occupation de l’Irak auraient du servir
à la désagrégation des pays arabes : l’Irak d’abord, la Syrie
ensuite, et pour finir l’Arabie saoudite, et les pays musulmans comme
l’Iran, pour tout à la fois laisser le champ libre à Israël et
asséner un coup définitif à l’OPEP.

Et la constitution provisoire de l’Irak, écrite par les experts
étasuniens, ouvre justement la voie à la division du pays en trois «
patries ethniques », une kurde, une sunnite et la troisième chiite,
qui gèreront de façon autonome l’exploitation des nouveaux puits
pétroliers, en ne laissant au gouvernement central qu’un pourcentage
de revenus dérivant des gisements déjà en exploitation. Cela
signifiera non seulement un conflit permanent entre les trois
entités, chacune pouvant être facilement rançonnée par les
multinationales, mais constituera aussi la fin d’un rôle prééminent
du gouvernement central et donc de toute forme de « welfare » et
d’intervention de l’état dans l’économie.

La loi qui légalise la rapine des ressources irakiennes n’a pas été
rédigée, comme on pourrait le penser, par le gouvernement irakien
mais par BearingPoint, une société étasunienne soudoyée par le
gouvernement étasunien pour « conseiller » les autorités de Bagdad,
ayant son propre représentant fixe auprès de l’ambassade Us dans la «
zone verte ». En juin 2003, BearingPoint a eu un contrat pour «
faciliter la reprise économique irakienne » auquel se sont ajoutés
une série de tâches assez délicates : rédiger le budget irakien,
réécrire la loi sur les investissements, organiser la collecte des
impôts, rédiger les nouvelles règles libérales pour le commerce et
les douanes, privatiser les entreprises irakiennes, mettre fin à la
distribution des denrées alimentaires à prix politiques, créer une
nouvelle monnaie et fixer les taux de change. Une fois perfectionnée,
la loi sur le pétrole a été présentée au gouvernement étasunien, aux
sociétés pétrolières et, en septembre, au Fond Monétaire
International. De nombreux députés irakiens l’ignorent encore.

Edition de mardi 9 janvier 2007 de il manifesto
Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio