Informazione


ALL TOGETHER AS SERVANTS?


Xinhua News Agency - February 24, 2011

Common Yugoslav army "reunited" in Afghanistan  

BELGRADE: After having torn apart their common former homeland during the bloody wars of secession during the 1990s, the armies of the former republics of Yugoslavia -- at least most of them -- are being united again as part of an international peacekeeping unit, reported Radio Sarajevo on Thursday.
Meeting in the Montenegrin capital of Podgorica, military experts from the U.S.-Adriatic Charter discussed the prospect of soldiers from Croatia, Macedonia, Montenegro, Bosnia and Herzegovina and Slovenia, along with Albania, forming a joint unit of NATO's International Security Assistance Force (ISAF) in Afghanistan. The unit's tentative name is "Balkan," which was reportedly first proposed by the U.S. military.
During previous meetings among the ministries of defense and foreign affairs of these countries, the option of sending a joint regional team of trainers and advisors for the training of the Afghan army had been approved.
Deputy Chief of General Staff of the Croatian Armed Forces, Rear Admiral Zdenko Simicic, said the initiative is based on regional cooperation among Western Balkan member states.
"We expect the training school for Afghan military police to be in full operational use in two years," said Simicic.

(Source: 
http://news.xinhuanet.com/english2010/world/2011-02/25/c_13748589.htm
through the Stop NATO e-mail list: http://groups.yahoo.com/group/stopnato/messages )





Romania, Iraq, Kosovo... Libia: nelle fosse comuni si seppellisce la verità

Marco Santopadre, Radio Città Aperta


25-02-2011/12:22 --- Di che paese si parla nelle citazioni tratte da due importanti quotidiani italiani?
“...Ieri sono arrivate altre conferme delle manifestazioni che sabato e domenica hanno sconvolto le città di * e * che sarebbero state represse nel sangue dalla polizia con l'appoggio dell'esercito”  (Corriere della sera **/**/****) e ancora “...Fonti dell'opposizione interna parlano di scontri violentissimi e di 300 morti...” (La Repubblica). 
Semplice, risponderete voi. Della Libia! Negli ultimi giorni notizie di stragi, di bombardamenti aerei sui manifestanti e sui civili inermi, di possibile uso delle armi chimiche contro la popolazione che si oppone al regime di Gheddafi, di stragi di medici e di feriti negli ospedali, di colonne di migliaia di profughi in fuga dai combattimenti e dagli eccidi bombardano le opinioni pubbliche occidentali e, quindi, anche italiana. 
Torniamo alle citazioni di cui sopra: non si riferiscono a quanto sta accadendo in Libia, bensì a quanto stava – secondo i media internazionali – accadendo a Timisoara e ad Arad ai tempi delle rivolte contro Ceaucescu, nel 1989. L’episodio che più impatto ebbe sull’opinione pubblica italiana e occidentale fu il ‘massacro di Timisoara’ del Natale del 1989. Per giorni si parlò di un vero e proprio eccidio costato la migliaia di civili inermi, passati per le armi dalle truci milizie del regime nella città romena, e le immagini di ‘migliaia’ di cadaveri sepolti in una ‘fossa comune’ fecero più volte il giro del mondo diventando il simbolo di quanto accadeva in uno dei paesi dell’Europa orientale che si stava liberando dall’odiato comunismo di stampo sovietico. Ad un certo punto comparve anche un filmato che mostrava i primi corpi riesumati con evidenti tracce di “torture spaventose”; i cadaveri avevano in comune un taglio malamente ricucito che andava dal collo all'inguine...
Il presunto eccidio del Natale del 1989 a Timisoara, ‘incontrovertibilmente vero’ in quanto raccontato dalle tv e dai giornali di tutto il mondo con ‘testimonianze particolareggiate’ ed immagini a profusione, in poche settimane venne smascherato e divenne una delle bufale più inquietanti nella storia del giornalismo. I cadaveri ritratti erano solo 13 ed erano morti di morte naturale. I segni delle torture erano in realtà conseguenza delle autopsie praticate da un medico legale. Niente stragi, niente fosse comuni. Il 24 gennaio del 1990 una tv tedesca e la France Press denunciarono la messa in scena: “Tre medici di Timisoara hanno affermato che i corpi di persone decedute in modo naturale sono stati prelevati dall'istituto medico legale e dall'ospedale per essere esposti alle telecamere come vittime della Securitate”.
Ma l’industria internazionale delle bufale non si diede per vinta, avendo sperimentato la facilità con cui qualche agenzia di stampa e qualche fotoreporter possono di punto in bianco, in assenza di prove e di conferme incrociate, creare un caso e mobilitare le opinioni pubbliche. E quindi fornire ai governi e agli Stati Maggiori di Washington e dell’Unione Europea il là per potersi imbarcare in bombardamenti umanitari, invasioni preventive, occupazioni democratiche. Paradossalmente la censura, la verve propagandistica parca di notizie e il dilettantismo tipici dei media del paese preso di mira dalla ‘disinformatia’ contribuiscono a concedere credibilità alle esagerazioni e alle invenzioni prodotte con maestria professionale dall’industria internazionale della menzogna.
Scrive Federico Povoleri in un pezzo dedicato ai meccanismi della disinformazione:“Le cose da considerare in questa storia sono allo stesso tempo importanti e quasi incredibili: 1) La capacità di raggiungere in pieno un obiettivo di disinformazione a livello internazionale 2) L'accettazione acritica da parte dell'opinione pubblica di notizie che mancavano di fonti certe e attendibili 3) L'incredibile capacità di penetrazione della notizia che crebbe a dismisura attraverso leggende e false notizie di supporto 4) La dimostrazione di quanto un'informazione manipolata possa trasformare o addirittura costruire la realtà.”
Il modello, sperimentato con successo in Romania, venne infatti utilizzato di nuovo, ed in grande stile, per altri quadranti del globo dove la sete di petrolio e di territori da conquistare imponevano sanzioni prima e interventi militari poi. 
Vi ricordate le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, con i giornali che svelavano una compravendita di materiale radioattivo con un piccolo e sconosciuto paese africano mai avvenuta? Giornalisti affermati affermavano che nel Kuwait occupato i soldati iracheni al servizio di Saddam Hussein uccidevano i neonati nelle incubatrici…
Prima ancora la fabbriche delle menzogne aveva funzionato egregiamente per giustificare i bombardamenti sulla Serbia e l’invasione della provincia del Kosovo. Si cominciarono a descrivere con dovizia di particolari le esecuzioni sommarie, le colonne di profughi bombardati dai caccia (questo avveniva davvero, solo che i caccia erano quelli della NATO decollati dalle basi militari italiane...), gli stupri di massa contro le donne kosovare, i villaggi distrutti. Siccome le opinioni pubbliche si dimostravano ancora troppo tiepide nei confronti di un intervento militare di terra, si cominciò a parlare di milioni di profughi in pericolo di vita, di eccidi indiscriminati, di pulizia etnica. A invasione conclusa le squadre forensi della FBI e della Polizia spagnola, inviate in Kosovo a caccia delle fosse comuni dove sarebbero stati sepolti decine di migliaia di civili kosovari, non ne trovarono, ma si imbatterono nei campi di prigionia e nelle sale della tortura allestite dai ‘liberatori’ dell’UCK, riconvertitisi nel frattempo nei nuovi padroni della provincia sottratta a Belgrado. (Vi consigliamo la lettura dell’articolo ‘La bufala delle fosse comuni in Kosovo. Assordante silenzio degli invasori ‘umanitari’ del Kosovo’ di John Pilger).
A quanto pare le smentite e le prove della manipolazione delle opinioni pubbliche da parte dell’industria della guerra non sono servite a molto. Oggi, di fronte a ciò che accade a Tripoli, il meccanismo all’opera è sempre lo stesso e le opinioni pubbliche - soprattutto quelle più sensibili alle tematiche umanitarie e orientate a ‘sinistra’ - sembrano accettare le varie ‘informazioni’ riportate dai media senza porsi particolari domande sulla loro veridicità. Che la maggior parte di queste siano precedute dal ‘sembra che…’, ‘si dice che...’, testimoni che vogliono rimanere anonimi affermano che…’ poco importa. Il meccanismo emotivo prende il sopravvento e rende alle cancellerie occidentali molto facile giustificare operazioni militari presentate come finalizzate a proteggere le popolazioni mentre in realtà mirano ad intervenire in territori dalle quali gli interessi dell’imperialismo erano stati esclusi od in parte limitati.
Paradossalmente sono spesso ingenue (o a volte prezzolate) Ong e associazioni di massa a pressare i governi affinché intervengano il prima possibile con sanzioni o interventi militari contro i regimi responsabili degli eccidi. 
Nel caso della Libia milizie armate fino ai denti e ben organizzate vengono descritte come ‘manifestanti inermi’; non ci sono colonne di centinaia di migliaia di profughi che tentano di fuggire verso i paesi confinanti eppure la notizia continua a rimbalzare sui media italiani ed esteri; le cifre dei morti – che evidentemente comprende anche quelli di parte governativa – crescono iperbolicamente senza che se ne abbia nessuna conferma, e per giustificare che le strade non sono lastricate di cadaveri come detto nei giorni scorsi da alcuni ‘testimoni oculari’ via facebook o via twitter alcuni quotidiani hanno affermato oggi che i mercenari avrebbero scaricato i morti nel deserto gettandoli dagli aerei… Ma le prime crepe nel meccanismo della produzione di massa delle bufale di guerra cominciano ad aprirsi. E non solo sui media alternativi o più critici nei confronti del meccanismo dominante.
Oggi Il Manifesto riporta questa notizia: “Su nostra sollecitazione si è avuta la smentita ufficiale della Corte Penale Internazionale che il signor Sayed Al Shanuka o El-Hadi Shallouf non figurano né come impiegati né come responsabili di organi della Corte Penale Internazionale. Si tratta di un gravissimo episodio di disinformazione poiché da tali individui era stata fatta arrivare tramite la Tv Al Arabiya la notizia di 10 mila morti e di 50 mila feriti”. La denuncia, incredibilmente, arriva da alcuni esponenti del Partito Radicale, in prima fila nel chiedere un intervento deciso dell’Europa contro Gheddafi… Possibile che nessuno a Rainews 24, che ha dato per due giorni in tutti i suoi notiziari questa cifra sulla vittime, si sia preoccupato di verificarne la veridicità? Possibilissimo…
Anche sui tanto sbandierati bombardamenti aerei sui civili nei quartieri di Tripoli e Bengasi, più volte smentiti dagli italiani arrivati in Italia dalla Libia in questi giorni e da numerosi testimoni - questa volta forniti di nome e cognome - qualche dubbio ce lo ha anche il corrispondente de La Repubblica. Inoltre sul quotidiano in edicola oggi scrive l’inviato a Tripoli Salvatore Nigro : “Un libico (...) guardando le foto delle fosse in cui sono state sepolte alcune delle vittime dice: “Non è una fossa comune, è uno dei cimiteri di Tripoli vicino al mare, si vedono anche le sepolture più vecchie sullo sfondo”. Ma ormai è chiaro: nella guerra contro Gheddafi ci sono delle notizie diffuse senza controllo, rilanciate e trasformate in fatti veri”...
Dicendo questo non vogliamo assolutamente negare la gravità di quello che sta accadendo a Tripoli: in Libia sono in atto cruenti combattimenti tra due fazioni delle classi dirigenti all’interno di un sistema tribale che la rivoluzione di Gheddafi, degradatasi da anni in dittatura personale e famigliare, non è riuscita a scalzare. Come accade spesso nelle zone di guerra i civili sono i primi a fare le spese della violenza. Il problema è non lavorare, come si dice in questi casi, per il ‘re di Prussia’, avallando un intervento militare e neocoloniale contro il popolo libico - mascherato da operazione umanitaria -che rappresenta esattamente il contrario rispetto a quelle aspirazioni alla libertà, alla democrazia e alla giustizia sociale che stanno animando le rivolte dei popoli e dei lavoratori in tutto il Maghreb e nella penisola arabica.

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LINK UTILI:
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Sulla storica amicizia tra la Jugoslavia e la Libia, e sul rischio di spartizione "etnica" della Libia ad uso e consumo imperialista, si veda ad es.:

Sul terrorismo psicologico scatenato contro l'opinione pubblica occidentale allo scopo di promuovere l'intervento militare NATO contro la Libia si veda anche ad es.:

Sulle manovre in atto per aggredire militarmente la Libia si veda ad es.:

Sulla disinformazione strategica come arma di guerra nel caso jugoslavo si vedano le centinaia di articoli raccolti nel nostro archivio:
nonché i documenti:






ITALIANI IN JUGOSLAVIA
Occupazione dei Balcani e razzismo "antislavo"
Seminario di storia contemporanea 

Sabato 26 febbraio 2011, Istituto Gambara, via Gambara 3, Brescia.

PROGRAMMA DEL SEMINARIO:

Ore 15.00 
Apertura dei lavori

Ore 15.15
STEFANO BARTOLINI
L'immagine dello Slavo nell'Italia fascista.
Dalla costruzione di un'identità nemica alle pratiche persecutorie e snazionalizzatrici.

Ricercatore presso l'Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea di Pistoia, vicepresidente Associazione Passaggi di Storia di Firenze, curatore unico dell' Archivio Storico CGIL di Pistoia, coordinatore della redazione della rivista
Quaderni di Farestoria. Tra le sue pubblicazioni Fascismo antislavo. Il tentativo di "bonifica etnica" al confine nord orientale. (I.S.R.pt, 2006)

Ore 15.50
DAVIDE CONTI 
La questione dei criminali di guerra italiani tra Guerra Fredda e continuità dello Stato.


Dottore di ricerca in storia contemporanea presso l'Università "La Sapienza" di Roma, ricercatore della Fondazione Basso sezione internazionale, docente e coordinatore dei corsi della Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso. 
Tra le sue pubblicazioni L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943) (Odradek, 2008)

Ore 16.30
COSTANTINO DI SANTE I soldati italiani in Jugoslavia: da occupanti a prigionieri (1941-1951).


Ricercatore presso l'Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche e responsabile della 
Biblioteca Provinciale di storia contemporanea di Ascoli Piceno. Tra le sue pubblicazioni L'internamento civile 
nell'ascolano. Il campo di concentramento di Servigliano 1940-1944 (Ascoli Piceno, 1998).

Introduce e coordina Silvia Boffelli - Associazione Culturale Anteo


La partecipazione è gratuita. Il C.I.D.I., ente accreditato per la formazione del personale della scuola (DM del 5/7/2005, n. 1217), rilascerà l'attestato di frequenza a chi ne farà richiesta.

Ideazione e realizzazione a cura dell'Associazione Culturale Anteo. Storia, ricerca e formazione.

Per ulteriori approfondimenti e informazioni

http://www.associazioneanteo.org/eventi_italianijugoslavia.htm



Antonio Gramsci e l’Unità d’Italia (Cap. III)


www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 14-02-11 - n. 351

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
 
Capitolo III
 
Nell’Europa della prima metà del secolo XIX crescita demografica ed industrializzazione sono le due forze-motrici di un processo di trasformazione economico-sociale, che si muove in linea contraria al processo politico della Restaurazione.
 
La rivoluzione industriale, avviata in Inghilterra, si estende a poco a poco sul Continente conquistando e trasformando l’attività produttiva di sempre più numerosi Paesi, mentre si verifica un incremento della produzione agricola in quei paesi in cui più radicale è stato il superamento degli ordinamenti feudali.
 
Grandi città nascono e si sviluppano in Europa, effetto dello spostamento di consistenti fette di popolazione dai centri rurali a quelli urbani (urbanizzazione), e, mentre si assiste al progressivo tramonto dei ceti legati alla rendita agraria, nei centri urbani emergono nuove classi sociali legate alle nuove forme di produzione: la borghesia ed il proletariato.
 
Nell’Italia della prima metà del secolo XIX in che termini si pone il rapporto città-campagna ?
 
Occorre, innanzitutto, specificare, con le parole di Gramsci, cosa si debba intendere in Italia per città e che cosa per campagna, dato che la storia della penisola ha scandito in maniera diversa, che in altri paesi europei, lo sviluppo della borghesia.
 
[…]I rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono di un solo tipo schematico, specialmente in Italia. Occorre pertanto stabilire cosa si intende per «urbano» e per «rurale» nella civiltà moderna e quali combinazioni possono risultare dalla permanenza di forme antiquate e retrive nella composizione generale della popolazione, studiata dal punto di vista del suo maggiore o minore agglomerarsi. Talvolta si verifica il paradosso che un tipo rurale sia più progressivo di un tipo sedicente urbano.
 
Una città «industriale» è sempre più progressiva della campagna che ne dipende organicamente. Ma in Italia non tutte le città sono «industriali» e ancor più poche sono le città tipicamente industriali. Le «cento» città italiane sono città industriali, l’agglomeramento della popolazione in centri non rurali, che è quasi doppio di quello francese, dimostra che esiste in Italia una industrializzazione doppia che in Francia? In Italia l’urbanesimo non è solo, e neppure «specialmente», un fenomeno di sviluppo capitalistico e della grande industria.[1]
 
Rispetto a molti altri Paesi europei, che con le monarchie assolutistiche avevano già realizzato l’unificazione del mercato interno, l’Italia manifestava ora, agli inizi del XIX secolo, tutta la sua debolezza, per l’arretratezza economica che la caratterizzava.
 
L’attività industriale, che nel settore tessile (lana, cotone, lino e seta) aveva il suo punto di forza, si presentava in tutti gli Stati della penisola ancora in una posizione complessivamente subordinata rispetto all’agricoltura, che per numero di addetti e per importanza economica restava la principale risorsa delle collettività.
 
La stessa attività manifatturiera, peraltro ancora poco meccanizzata, non conosceva quella concentrazione in grossi centri urbani che, invece, già si era realizzata in Inghilterra e si andava affermando in Europa.
 
Essa, agli inizi del secolo XIX, veniva ancora svolta, prevalentemente, con un decentramento nelle campagne ed il commerciante-imprenditore, antesignano del futuro capitalista, si faceva carico, dopo averlo commissionato, di raccogliere il prodotto finito per venderlo poi sul mercato.
 
La borghesia, che aveva mostrato sin dal tempo dei Comuni la propria incapacità a legare le masse contadine ad un proprio progetto di sviluppo e progresso economico, soccombeva ancora agli inizi del XIX secolo di fronte alla forte presenza della rendita parassitaria.
 
E quello della presenza nefasta della rendita parassitaria nell’economia del Continente, ed in particolare in Italia, è uno dei temi della forte denuncia che Gramsci fa, anche nelle pagine dei Quaderni dedicate ad Americanismo e fordismo, evidenziando come la superiorità economica degli U.S.A. rispetto all’Europa derivi dal fatto:
 
[…]che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione», la «civiltà» europea è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi simili, create dalla «ricchezza» e «complessità» della storia passata che ha lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito prima professionale poi di leva, ma professionale per l’ufficialità. Si può anzi dire che quanto più vetusta è la storia di un paese, e tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del «patrimonio» degli «avi», di questi pensionati della storia economica. Una statistica di questi elementi economicamente passivi (in senso sociale) è difficilissima, perché è impossibile trovare la «voce» che li possa definire ai fini di una ricerca diretta; indicazioni illuminanti si possono ricavare indirettamente, per esempio dall’esistenza di determinate forme di vita nazionale.
 
Il numero rilevante di grandi e medi (e anche piccoli) agglomerati di tipo urbano senza industria (senza fabbriche) è uno di questi indizi e dei più rilevanti.[2]
 
Nel contesto italiano non è, quindi, la dimensione ed il numero di abitanti l’indicatore sicuro della modernità in senso capitalistico di una città e delle sue caratteristiche produttive. Ne fa testo Napoli.
 
[…] Quella che fu per molto tempo la più grande città italiana e continua ad essere delle più grandi, Napoli, non è una città industriale: neppure Roma, l’attuale maggiore città italiana, è industriale. Tuttavia anche in queste città, di un tipo medioevale, esistono forti nuclei di popolazione del tipo urbano moderno; ma qual è la loro posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte, che non è di tipo moderno ed è la grandissima maggioranza.[3]
 
[…] Napoli è la città dove la maggior parte dei proprietari terrieri del Mezzogiorno (nobili e no) spendono la rendita agraria. Intorno a qualche decina di migliaia di queste famiglie di proprietari, di maggiore o minore importanza economica, con le loro corti di servi e di lacché immediati, si organizza la vita pratica di una parte imponente della città, con le sue industrie artigianesche, coi suoi mestieri ambulanti, con lo sminuzzamento inaudito dell’offerta immediata di merci e servizi agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un’altra parte importante della città si organizza intorno al transito e al commercio all’ingrosso. L’industria «produttiva» nel senso che crea e accumula nuovi beni è relativamente piccola, nonostante che nelle statistiche ufficiali Napoli sia annoverata come la quarta città industriale dell’Italia, dopo Milano, Torino e Genova…
 
…Il fatto di Napoli si ripete in grande per Palermo e Roma e per tutta una serie numerosa (le famose «cento città») di città non solo dell’Italia meridionale e delle Isole, ma dell’Italia centrale e anche di quella settentrionale (Bologna, in buona parte, Parma, Ferrara ecc.). Si può ripetere per molta popolazione di tal genere di città il proverbio popolare: quando un cavallo caca, cento passeri fanno il loro desinare. [4]
 
Napoli rappresenta, quindi, l’espressione più ampia ed evidente di questo rapporto parassitario ed oppressivo della città sulla campagna, che secondo Gramsci condiziona anche i piccoli centri della provincia.
 
[…] Il fatto che non è stato ancora convenientemente studiato è questo: che la media e la piccola proprietà terriera non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo, e che questa terra viene data a mezzadria primitiva (cioè in affitto con corrisponsione in natura e servizi) o in enfiteusi; esiste così un volume enorme (in rapporto al reddito lordo) di piccola e media borghesia di «pensionati» e «redditieri», che ha creato in certa letteratura economica degna di Candide la figura mostruosa del così detto «produttore di risparmio», cioè di uno strato di popolazione passiva economicamente che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare: modo di accumulazione di capitale dei più mostruosi e malsani, perché fondato sull’iniquo sfruttamento usurario dei contadini tenuti al margine della denutrizione e perché costa enormemente; poiché al poco capitale risparmiato corrisponde una spesa inaudita quale è quella necessaria per sostenere spesso un livello di vita elevato di tanta massa di parassiti assoluti. (Il fenomeno storico per cui si è formato nella penisola italiana, a ondate, dopo la caduta dei Comuni medioevali e la decadenza dello spirito d’iniziativa capitalistica della borghesia urbana, una tale situazione anormale, determinatrice di stagnazione storica, è chiamato dallo storico Niccolò Rodolico «ritorno alla terra» ed è stato assunto addirittura come indice di benefico progresso nazionale, tanto le frasi fatte possono ottundere il senso critico).[5]
 
Questo rapporto parassitario della città sulla campagna si accompagna ad un disprezzo ed odio contro il “villano”, contraccambiato da pari sentimenti della campagna verso la città.
 
[…] In questo tipo di città esiste, tra tutti i gruppi sociali, una unità ideologica urbana contro la campagna, unità alla quale non sfuggono neppure i nuclei più moderni per funzione civile, che pur vi esistono: c’è l’odio e il disprezzo contro il «villano», un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna, che, se realizzate, renderebbero impossibile l’esistenza di questo tipo di città. Reciprocamente esiste una avversione «generica» ma non perciò meno tenace e appassionata della campagna contro la città, contro tutta la città, tutti i gruppi che la costituiscono.
 
Questo rapporto generale, che in realtà è molto complesso e si manifesta in forme che apparentemente sembrano contraddittorie, ha avuto una importanza primordiale nello svolgersi delle lotte per il Risorgimento, quando esso era ancor più assoluto e operante che non sia oggi.[6]
 
Alla luce di quanto detto sopra, si possono cominciare a raccogliere i primi elementi per giungere ad una spiegazione del mancato sviluppo in Italia del cosiddetto giacobinismo storico e di quanto poco studiata fosse nella penisola l’esperienza della Rivoluzione francese, sin dai primi emulatori, quali furono i giacobini meridionali, ma soprattutto da quei soggetti politici, che saranno poi i protagonisti del Risorgimento.
 
[…] Il primo esempio clamoroso di queste apparenti contraddizioni è da studiare nell’episodio della Repubblica Partenopea del 1799: la città fu schiacciata dalla campagna organizzata nelle orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia nella sua prima fase aristocratica, che nella seconda borghese, trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani.[7]
 
(Non è per caso che i decreti contro i privilegi della feudalità furono emanati a Napoli, non durante la Rivoluzione, ma qualche anno più tardi da un francese, Giuseppe Buonaparte, anche se il loro scopo non fu quello di spezzettare il latifondo a vantaggio dei contadini “senza terra” ed il loro risultato fu solo quello di rafforzare la borghesia delle campagne).[8]
 
E’ in questo contesto, caratterizzato, sotto il profilo economico dall’arretratezza e dalla forte presenza di ampi settori di economia parassitaria, sotto il profilo politico dallo spezzettamento in tanti staterelli del territorio peninsulare, con la presenza a nord dell’Austria in funzione di gendarme armato contro ogni rivendicazione di libertà, unità ed indipendenza, che va inquadrata l’analisi delle forze motrici del processo risorgimentale, fatta da Gramsci.
 
[…] Dal rapporto città-campagna deve muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare e giudicare l’indirizzo del Partito d’Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale; 2) la forza rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale-centrale; 4-5) la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.
 
Restando ferma la funzione di «locomotiva» della prima forza, occorre esaminare le diverse combinazioni «più utili» atte a costruire un «treno» che avanzi il più speditamente nella storia.[9]
 
Il problema che Gramsci affronta in queste pagine dei Quaderni è quello, detto in altri termini, del blocco storico-sociale che la borghesia del Nord doveva porre in essere attraverso una politica di alleanze per realizzare l’obbiettivo della costituzione dello Stato unitario, premessa politico-istituzionale al suo ulteriore sviluppo.
 
Il rapporto è sempre quello generale di città-campagna, che l’analisi gramsciana scompone fra la borghesia industriale (la città), da un lato, e, dall’altro, quattro sezioni delle forze rurali (la campagna) divise fra loro per problemi specifici, come quelli legati alla presenza di correnti indipendentiste in Sicilia e Sardegna
 
La prima forza, la borghesia industriale del Nord, ha due grosse sezioni al suo interno: quella piemontese e quella lombarda, a cui corrispondono anche, come si vedrà più avanti, espressioni politiche differenti, per un certo periodo in contesa fra loro per l’egemonia sull’intero processo;
 
[…] ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se tale forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta» sulle altre. Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina un’esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti del 20-21, del 31, del 48. Nel 59-60 questo «meccanismo» storico-politico agisce con tutto il rendimento possibile, poiché il Nord inizia la lotta, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla sotto la spinta dei garibaldini, spinta relativamente debole.[10]
 
Se un certo grado di unità interna di questa classe consente “meccanicamente” di esercitare un ruolo di direzione (egemonia) sulle altre classi, nella prospettiva della costituzione dello Stato unitario, non sono altrettanto pacificamente risolti i problemi legati all’esercizio dell’egemonia sulle altre classi, una volta preso il potere.
 
Una delle prime questioni è la realizzazione dell’unità interna di classe della borghesia industriale, sia al Nord che al Sud.
 
[…] La prima forza doveva quindi porsi il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e specialmente del Sud. Questo problema era il più difficile, irto di contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di passioni… Ma la sua soluzione, appunto per questo, era uno dei punti cruciali dello sviluppo nazionale.[11]
 
E’ vero che identica, sia al Nord che al Sud, è la posizione della borghesia industriale nel processo produttivo e comune a tutte le sue sezioni territoriali è l’interesse per la costituzione di uno Stato unitario.
 
Tuttavia, diverso è il peso specifico che questa classe esercita nella società civile settentrionale o meridionale:
 
[…] Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta uguaglianza. Ciò era vero teoricamente, ma storicamente la quistione si poneva diversamente: le forze urbane del Nord erano nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud ciò non si verificava, per lo meno in egual misura.[12]
 
La questione, perciò, poteva avere diverse soluzioni:
 
Una era quella che la borghesia industriale meridionale rinunciasse a qualsiasi velleità di uguaglianza con quella settentrionale e si limitasse a riconoscerne la funzione egemone.
 
[…] Le forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del Sud che la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva essere altro che un momento subordinato della più vasta funzione direttiva del Nord.[13]
 
L’altra ipotesi, partendo dalla perfetta uguaglianza fra le due sezioni, avrebbe potuto estendere quell’uguaglianza fino ai confini dell’indipendenza reciproca.
 
[…] La contraddizione più stridente nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre la quistione così avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe affermata l’esistenza di nazioni diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un’alleanza diplomatico-militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unico elemento di comunità e solidarietà, insomma, sarebbe consistito solo nell’avere un «comune» nemico).[14]
 
Questa seconda ipotesi, però, non ebbe mai modo di affermarsi, anche se forti furono le opposizioni nel Sud al progetto dello Stato unitario, perché
 
[…] era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria soggezione della città alla campagna. [15]
 
In queste condizioni di inferiorità,
 
…[i]l collegamento stretto tra forze urbane del Nord e del Sud, dando alle seconde la forza rappresentativa del prestigio delle prime, doveva aiutare quelle a rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e non puramente teorico e astratto, suggerendo le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. …
 
…[I]l compito più grave per risolvere la situazione spettava in ogni modo alle forze urbane del Nord che non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare col convincere se stesse di questa complessità di sistema politico: praticamente quindi la quistione si poneva nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità meridionali e delle isole. Il problema di creare una unità Nord-Sud era strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione e una solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali.[16]
 
Se queste erano le problematiche connesse al rapporto di alleanza fra la forza urbana settentrionale e le forze produttive del meridione, altri problemi si ponevano nel rapporto con le forze rurali centro-settentrionali, contrassegnate, a differenza di quelle delle tre sezioni meridionali, da una più forte presenza della piccola proprietà contadina.
 
[…]In queste forze rurali occorreva distinguere due correnti: quella laica e quella clericale-austriacante. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo-Veneto, oltre che in Toscana e in una parte dello Stato pontificio; quella laica nel Piemonte, con interferenze più o meno vaste nel resto d’Italia, oltre che nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche nelle altre sezioni, fino al Mezzogiorno e alle isole. Risolvendo bene questi rapporti immediati, le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale.[17]
 
Le forza politica che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi della borghesia industriale settentrionale, il Partito d’Azione, non fu mai capace di farsi carico di tutte queste problematiche, per dare ad esse una soluzione in senso progressista.
 
[…]Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione fallì completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di principio e di programma essenziale quella che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la questione della Costituente. Non si può dire che abbia fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste. [18]
 
Ne derivò una caratteristica del processo unitario, che Gramsci più volte definì “rivoluzione passiva”, perchè spogliò le masse popolari, che all’epoca erano prevalentemente contadine, del diritto di partecipare alla sua realizzazione, tenendole, anzi, accuratamente lontane e pervenendo, così, alla realizzazione dello Stato unitario, obiettivo di per sé progressista e rivoluzionario (giudicato dai contemporanei come “miracolo”), senza intaccare i rapporti sociali delle campagne, che nel meridione significavano subordinazione della città alla campagna, dell’attività produttiva alla rendita parassitaria.
 

[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2035-6
[2] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2141-2
[3] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[4] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2142-3
[5] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2143
[6] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[7] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2036-7
[8] Vedi P.Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale. Donzelli Editore. Roma 1996 pagg.3-9
[9] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[10] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[11] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[12] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[13] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[14] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[15] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[16] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2043-4
[17] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044
[18] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044

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www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 29-01-11 - n. 349

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice:
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
 
Un ringraziamento particolare a chi mi ha aiutato in questo mio lavoro: al Prof. Marcello Montanari, che ha tollerato la mia impostazione, senza opporre contestazioni, ed all’amico e compagno Prof. Andrea Catone, che mi ha aiutato per le citazioni di Gramsci.
 
Introduzione
 
Questo libro nasce dall’opportunità di approfondire il pensiero di A.Gramsci sul tema della formazione dello Stato Unitario italiano e del processo che la generò, il Risorgimento, in occasione della ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
 
L’attualità del pensiero gramsciano sul tema è data, non solo dalle contestazioni che oggi da più parti vengono sollevate, “ a posteriori”, sul modo attraverso cui si svolse il processo storico risorgimentale (si pensi, ad esempio, al giudizio negativo della Lega Nord su Garibaldi, oppure all’attuale rinascita di un “partito” filo-borbonico), ma anche dalla necessità di recuperare, sul piano dell’analisi storica, il filo rosso che lega le ragioni di un distacco marcato fra le grandi masse popolari italiane e lo Stato italiano, da sempre percepito come Ente estraneo.
 
Il materiale esposto è il frutto della ricerca messa in atto in occasione della elaborazione della mia tesi di laurea, nella quale analizzavo alcuni aspetti del pensiero politico di A.Gramsci, che mi è sembrato opportuno riproporre in questo libro.
 
In particolare, vengono messi a fuoco i concetti di Rivoluzione passiva, di Blocco storico-sociale e di Egemonia, così come A.Gramsci li ha espressi nella sua riflessione sul periodo che abbraccia tutto il Risorgimento, i primi decenni di vita dello Stato Unitario italiano, fino alla Grande Guerra ed alla nascita del fascismo; un periodo storico di quasi settant’anni che comprende la fase della presa del potere politico e del suo consolidamento da parte della borghesia italiana.
 
L’analisi del rapporto “struttura-sovrastruttura”
 
….è l’origine dell’attenzione che Gramsci dà alla storia del Risorgimento e a tutta la storia italiana. Egli ricerca nella storia del Risorgimento, ricerca nelle analisi sui differenti momenti della storia italiana, ricerca nell’analisi della funzione che hanno avuto gli intellettuali nella storia del nostro Paese…. una definizione dei rapporti di classe della società italiana più esatta di quelle che abitualmente si sogliono dare. Continuamente attento all’azione reciproca tra la struttura dei rapporti produttivi e le sovrastrutture (politiche, militari, organizzative, ideologiche, ecc.), giunge ad individuare quello che egli chiama il “blocco storico, le forze che lo dirigono ed i contrasti interiori che ne determinano il movimento.[1]
 
Seguendo, quindi, l’evoluzione degli avvenimenti storici, si esporrà l’analisi gramsciana delle condizioni internazionali e nazionali che consentirono (solo nella seconda metà del XIX secolo e non prima) di realizzare e portare a termine il processo unitario: i nuovi equilibri europei, la crisi egemonica del Papato in Europa ed in Italia, l’influsso sugli avvenimenti italiani della Rivoluzione francese e degli eserciti napoleonici.
 
Si prenderà, quindi, in considerazione il blocco storico-sociale che si rese protagonista del processo unitario: l’aristocrazia agraria e gli industriali del Nord unitamente agli agrari del Sud; l’esclusione dei contadini, sia al Nord, ma soprattutto al Sud, dalla partecipazione al Risorgimento; la caratteristica di “rivoluzione passiva” assunta dal processo, cioè un cambiamento radicale, operato dall’alto, senza il coinvolgimento delle masse popolari.
 
L’analisi gramsciana dei partiti protagonisti del processo risorgimentale: moderati e democratici; egemonia dei moderati sui democratici; debolezza del giacobinismo storico in Italia; mancanza di un programma agrario da parte del Partito d’Azione; mancanza di una rappresentanza politica autonoma da parte dei contadini.
 
Le “tare originarie” del processo unitario: questione meridionale, debolezza strutturale di rappresentanza del neonato Stato unitario, unitamente a debolezza economica della borghesia industriale italiana (“capitalismo straccione”), condizionano le vicende politiche dei primi decenni dello Stato liberale; la Destra storica e la Sinistra storica al Governo; il trasformismo fino a Giolitti, la nascita del Partito Socialista e lo scoppio della Grande Guerra, offrono ampia testimonianza delle difficoltà incontrate dal blocco storico dominante nell’esercizio del rapporto di dominio sulla restante parte della popolazione, rapporto sempre in bilico fra autoritarismo e democrazia a causa della mancanza di un consenso diffuso.
 
Infine, la grande guerra del ’15-’18, l’esperienza maturata dalle masse operaie e contadine in quella grande carneficina, i partiti politici nel dopo-guerra, le elezioni a “suffragio universale” del 1919, il nuovo protagonismo che si manifesta nelle occupazioni delle fabbriche e delle terre, la Rivoluzione bolscevica in Russia e la paura del comunismo, la conseguente crisi di egemonia delle classi dominanti, la “situazione di equilibrio delle forze ad evoluzione catastrofica”, i fenomeni di cesarismo; tutto ciò completa il quadro storico di riferimento.
 
Le fonti utilizzate sono i Quaderni del carcere ed, in particolare, il quaderno XIX. Ma anche gli scritti politici dal 1919 al 1926, dove maggiormente vengono evidenziate le caratteristiche assunte dalla rivoluzione borghese nel nostro Paese ed i problemi politici e sociali, che essa ha portato con sé.
 
La necessità di approfondire il pensiero gramsciano, sia attraverso la riflessione forzatamente “pacata” e formalmente a-sistematica, da lui effettuata in carcere, che attraverso gli scritti più marcatamente politici, pubblicati sui periodici di partito negli anni precedenti il suo arresto, poggia sulla convinzione che un nesso profondamente ed organicamente unitario leghi i due periodi di attività del dirigente comunista, il cui impegno politico resta la chiave di volta per interpretarne correttamente il pensiero.
 
Come considerare, a tale proposito, la ricerca fatta in carcere, se non come la naturale prosecuzione di quella battaglia, quasi subito avviata da Gramsci nel PCd’I – partito internazionalista per nascita e “vocazione” (sezione della III internazionale) - per la sua “nazionalizzazione”, battaglia mirata, cioè, ad ancorare l’azione del Partito alle condizioni concrete italiane, così come storicamente determinatesi, e finalizzata al suo radicamento nel Paese, come premessa di qualsiasi processo di trasformazione rivoluzionaria; battaglia che vide nel III Congresso di quel Partito, svoltosi a Lione, una tappa fondamentale ?
 
Rileggendo le “Tesi di Lione”, soprattutto le tesi dalla n. 4 alla n.18bis, dove viene dipinto il quadro della situazione economico-sociale dell’Italia di quel periodo e tratteggiato a grandi linee il percorso storico attraverso cui si pervenne a quella situazione, oppure lo scritto “Alcuni aspetti della questione meridionale”, come non rintracciare i temi poi approfonditi in tante riflessioni contenute nei Quaderni del carcere?
 
A questa impostazione metodologica e a questo approccio unitario al pensiero gramsciano mi sono attenuto in questo lavoro, condividendo ciò che a riguardo è stato espresso, in maniera molto più chiara e brillante, da P. Togliatti nei suoi “Appunti” in previsione del convegno di studi gramsciani, svoltosi nel ’58, su iniziativa dell’Istituto Gramsci:
 
[...] Gramsci fu un teorico della politica, ma soprattutto un politico pratico, cioè un combattente. La sua concezione della politica rifugge sia dalla strumentalità, sia dall’astratto moralismo o dalla elaborazione dottrinale astratta. Fare della politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica, quindi, è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il singolo che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale. Nella politica è da ricercarsi l’unità della vita di A. Gramsci: il punto di partenza e di arrivo. La ricerca, il lavoro, la lotta, il sacrificio sono momenti di questa unità. [...] [F]are oggetto di indagine non soltanto le posizioni da G. elaborate e sostenute nel dibattito filosofico e di dottrina, ma la sua attività pratica, come uomo politico, fondatore e dirigente del partito di avanguardia della classe operaia italiana […] questo [è] il solo modo giusto di avvicinarsi all’opera di Gramsci e penetrarne il significato.[2]
 
Bibliografia
 
A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Einaudi Torino1975
A.Gramsci, Scritti politici, a cura di P.Spriano. Editori Riuniti Roma 1967
A.Gramsci, Pensare la democrazia. Antologia dai Quaderni del carcere, a cura di M.Montanari. Einaudi Torino 1997
Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del PCI . Edizioni del calendario. Marsilio Venezia 1985
AA.VV., Oltre Gramsci con Gramsci. Critica marxista n.2-3 Editori Riuniti Roma 1987
A.Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia. La Nuova Italia Firenze 1973
P.Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale. Donzelli. Roma 1996
M.Bontempelli, E.Bruni, Storia e coscienza storica. Trevisini Milano 1983
C.Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, trad.it. Editori Riuniti Roma 1976
B.Caizzi, Storia dell’industria italiana. UTET Torino 1965
M.Ciliberto, Filosofia e politica nel Novecento italiano. De Donato Bari 1982
A.De Bernardi, S.Guarracino, L’operazione storica, vol.3. B.Mondatori Milano 1993
R.Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Savelli Milano 1981
P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Einaudi Torino 1971
G.Liguori, Gramsci conteso. Storia di un dibattito. Editori Riuniti Roma 1996
A.Macchioro, Studi di storia del pensiero economico ed altri saggi. Feltrinelli Milano 1970
L.Masella, Passato e presente nel dibattito storiografico, De Donato Bari 1979
W.Maturi, Interpretazioni del risorgimento. Einaudi Torino 1962
V.Melchiorre, C.Vigna e G.De Rosa (a cura di), A.Gramsci. Il pensiero teorico e politico, la “questione leninista”. 2 voll., Città Nuova Editrice Roma 1979
F.Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità. Feltrinelli Milano 1975
M.Montanari, Studi su Gramsci. Pensa Multimedia Lecce 2002
R.Morandi, Storia della grande industria in Italia. Einaudi Torino 1966
G.Nardone, Il pensiero di Gramsci. De Donato Bari 1971
P.Ortoleva, M.Revelli, Storia dell’Età Contemporanea. B.Mondatori Milano 1988
L.Paggi, A.Gramsci ed il moderno principe. Editori Riuniti Roma 1970
L.Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, Editori Riuniti Roma 1984
L.Paggi, Americanismo e riformismo, Einaudi Torino 1989
R.Romanelli, Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi. Donzelli. Roma 1995
R.Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza Bari 1970
M.Rosa, M.Verga, Storia dell’Età Moderna 1450-1815. B.Mondatori Milano 1998
A.W.Salomone, L’età giolittiana . La Nuova Italia Firenze 1988
M.Salvatori, Gramsci ed il problema storico della democrazia. Einaudi Torino 1972
M.Salvatori, N Tranfaglia, Il modello giacobino e le rivoluzioni. La Nuova Italia Firenze 1984
P.Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci. Einaudi Torino 1967
P.Togliatti, Gramsci ed il leninismo.Associazione Culturale Marxista Roma 1987
G.Vacca, Gramsci e Togliatti. Editori Riuniti Roma 1991
G.Vacca, Appuntamenti con Gramsci. Carocci Roma 1999
R.Villari, Il sud nella storia d’Italia, antologia della questione meridionale - vol.II Laterza Bari 1974
N.Zitara, L’unità d’Italia: nascita di una colonia. Jaca Book Milano 1971.   
 
 


[1]P.Togliatti, Gramsci ed il leninismo, Ed. a cura dell’Associazione Culturale Marxista, Roma, 1987, pp. 32-33
[2] P. Togliatti, op. cit., p. 5



(italiano / english / srpskohrvatski)

LIBIA: INTEGRITA' STATUALE E PRECEDENTE JUGOSLAVO


Una parte del discorso di Gheddafi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 23.9.2009, fu dedicata alla Jugoslavia e alla richiesta di indagine sulle guerre balcaniche. 

Quel paese pacifico, la Jugoslavia, era stato costruito con le proprie forze, mattone per mattone, dopo che Hitler l’aveva distrutto, per essere distrutto di nuovo con la stessa modalità hitleriana. La Federazione jugoslava, paese pacifico creato da un eroe della pace, Tito, fu costruita pietra su pietra, e dopo la morte di Tito, voi siete venuti nell’ex Jugoslavia e l’avete distrutta pezzo per pezzo per i vostri interessi individuali, imperialistici. Come potremmo sentirci sicuri, noialtri, di cosa ci succederà dopo quello che è successo alla pacifica Jugoslavia? L'Assemblea generale deve investigare su questo, deve vedere chi debba essere processato alla Corte Internazionale..."

in english:
<< A peaceful country like Yugoslavia which built itself brick by brick after it had been destroyed by Hitler has been destroyed once again by the second Hitler. This is illegal. Federal Yugoslavia was a peaceful country. It was built by Tito the champion of peace brick after brick and then after the death of Tito it was fragmented into pieces for personal, imperialist interests. We others how can we feel peaceful if the peaceful country of Yugoslavia which did not pose any threat to anyone was invaded. The general assembly has to investigate this. It has to see who to prosecute in the ICJ. >>
( http://www.btinternet.com/~davidbeaumont/msf/gadafi.htm )

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Il figlio di Gheddafi: "Se prevale la violenza sarà peggio che in Jugoslavia"


VIDEO / Gadafijev sin: "Nastavi li se nasilje, biće gore nego u Jugoslaviji"

S.B. - 21. 02. 2011. • 13:16

24SI - Saif al-Islam, sin libijskog čelnika Moamera Gadafija, izjavio je u 40-minutnom televizijskom obraćanju javnosti da libijski narod mora izabrati između izgradnje "nove Libije" i građanskog rata, dok su u noći sa nedjelje na ponedjeljak sukobi zahvatili Tripoli.
"Libija je na raskrsnici. Ili ćemo se danas dogovoriti o reformama ili će krv teći cijelom Libijom", rekao je Saif al-Islam u televizijskom govoru.
"Borićemo se do posljednje minute, do posljednjeg metka", izjavio je Gadafijev sin. "Nastavi li se nasilje, biće gore nego u Jugoslaviji", rekao je Al-Islam. (...)

(fena)

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Libia/ Attaccati 50 serbi, Belgrado avvia evacuazione

Dipendenti di una ditta inviano allarme via mail a radio B92

Belgrado, 21 feb. (TMNews) - La serbia avvia le operazioni di evacuazione dei propri cittadini in Libia - che sarebbero almeno un migliaio - dopo un attacco a un gruppo di serbi nella parte settentrionale del Paese nordafricano.

L'ambasciata serba a Tripoli "è entrata in contatto con i cittadini (serbi) che si trovano in un campo nei pressi della città di Raslanalf, aggrediti la notte scorsa da un piccolo gruppo di uomini armati. Nessuno nessuno è rimasto ferito, e la loro sicurezza, a questo momento non è compromessa", riferisce un comunicato il ministero degli Esteri serbo. Un gruppo di 50 connazionali dipendenti della ditta serba in Libia " Petrolcomet" ha inviato una mail con richiesta di aiuto all'emittente privata belgradese, B92, informando di essere stati attaccati da una ventina di uomini armati e dichiarandosi "in pericolo di vita" Il ministero degli Esteri di Belgrado "in collaborazione con la compagnia di bandiera JAT lavora (..)per l'evacuazione dei cittadini serbi che sono attualmente in Libia" aggiunge la nota. La Serbia vanta una storica collaborazione economica con la Libia, che risale ai tempi del Movimento dei Non allineati, di cui l'allora Jugoslavia e il Paese africano furono protagonisti. Attualmente l'ambasciata di Belgrado a Tripoli è stata contattata da circa 700 connazionali, ma il numero dei serbi stabili in Libia è "ben più alto", secondo quanto riporta l'agenzia locale, Beta.

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“Ma il colonnello ha sottovalutato i clan delle montagne”


Tonino Bucci*
Intervista ad Angelo Del Boca storico del colonialismo italiano

Tripoli a un passo dalla capitolazione. Fino a pochi giorni nessuno avrebbe scommesso sulla caduta di Gheddafi. La Libia – tanto per fare qualche numero – aveva un surplus di ricchezza tra i più alti in Africa. Nel 2009 le risorse disponibili per i capitoli di spesa ammontavano a 26 miliardi di euro. Il debito pubblico era fermo, ormai da anni, al quattro per cento del Pil. Un’utopia irraggiungibile per molti paesi occidentali. Perché allora questa rivolta? Lo chiediamo allo storico Angelo Del Boca, profondo conoscitore della Libia.
La rivolta libica ha sorpreso tutti. La Libia sembra un paese solidissimo. Cosa è accaduto?

Ho una mia tesi, diversa da quella sostenuta nei giornali. Se non si fosse mossa la Cirenaica difficilmente la sommossa sarebbe arrivata a Tripoli e non avrebbe causato la fine del regime. La Cirenaica è da sempre una regione non addomesticata agli ordini di Gheddafi perché è storicamente sotto l’influenza della Senussia. Non dimentichiamo che è la regione dove Omar al Mukhtar ha fatto la sua guerra contro gli italiani ed è stato ucciso. Per tradizione la Cirenaica non ha mai obbedito molto al regime di Gheddafi, tanto è vero che già nel ’96 il Colonnello dovette mandare addirittura l’esercito, la marina e l’aviazione per reprimere una sommossa. Non mi stupisce perciò quanto è accaduto a Bengasi. Mi sorprende, invece, che la rivolta si sia estesa anche alla Tripolitania, questo sì. In apparenza non c’erano motivi gravi perché si potesse prevedere una insurrezione del genere. E’ vero che c’è un trenta per cento di giovani che non hanno un lavoro, ma i prodotti di prima necessità sono calmierati e la gente vive abbastanza bene.
In Europa non abbiamo visto un libico andare per le strade a chiedere l’elemosina. Era un paese molto diverso da quelli confinanti. Credo che ci sia stato un input dall’esterno. Esistono alcuni gruppi di libici residenti all’estero, negli Stati Uniti, a Londra e a Ginevra, che hanno partecipato, dai blog e attraverso internet, all’organizzazione della sommossa. All’interno non conosciamo gli agitatori. Non ci sono personaggi noti o di spicco. Sappiamo però che le tribù delle montagne sopra Tripoli si sono associate alla rivolta. Tra loro ci sono i Warfalla e i Berberi. Le stesse tribù nel 1911 diedero filo da torcere agli italiani, sconfitti nella battaglia di Sciara Sciat. Il ruolo dei clan è stato determinante nel provocare di fatto la caduta di Gheddafi. Il Colonnello ha sottovalutato le tribù delle montagna. Lui pensava che con la sua teoria di una terza via, quella esposta nel suo Libro Verde, di avere smantellato la struttura tribale e di avere costruito uno Stato moderno. Si sbagliava. Ma, in fondo, lo aveva già confessato. Ricordo che in un’intervista che gli feci nel ’96, confessò che il Libro Verde era stato un fallimento. Credeva di avere amalgamato il paese e costruito una nazione. Quando ho pubblicato A un passo dalla forca, alcune copie sono entrate clandestinamente in Libia. Ho saputo poi che il ministero degli interni aveva bloccato il libro perché parlava bene della Senussia.
L’integrità nazionale e statale della Libia rischia davvero di disgregarsi?
Sì. Le tre regioni se ne potrebbero andare ciascuna per la propria strada. La Cirenaica, ad esempio, subisce ancora l’influsso della confraternita senussa e potrebbe darsi un proprio governo. Non credo che a guidare il paese possa essere il figlio di Gheddafi Saif al Islam, nonostante le sue dichiarazioni liberali. Se abbattono il padre, abbattono anche il figlio. I ribelli vogliono demolire un’intera epoca e dei Gheddafi non ne vogliono più sapere. A prendere il sopravvento potrebbe essere qualche capo dei clan della montagna.
C’è da tenere sott’occhio anche il ruolo dell’esercito, o no?

Non è un grande esercito, nulla di paragonabile ai 400mila uomini dell’esercito egiziano. E’ un esercito di ottantamila uomini e in Cirenaica si sono schierati con gli insorti. E, in parte, anche in Tripolitania.
La Libia di Gheddafi, non sottovalutiamolo, è anche un impero finanziario con partecipazioni in tante banche e società occidentali. Non è così?

Berlusconi ha concluso un Trattato con Gheddafi con molta superficialità, a occhi chiusi, ben sapendo delle violazioni dei diritti umani. I libici hanno investito in Italia, ci danno un terzo del petrolio e del gas, hanno relazioni con Finmeccanica e con altre ditte che stanno lavorando in Libia. Avremo delle sorprese.
*Liberazione
Pubblicato il 22 febbraio 2011 
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Altri link segnalati:

MILOSEVIC: LIBIA, PER ESTRADIZIONE DUE PESI E DUE MISURE (2001)

Artel: DA SU HTELI POSLUSATI GADAFIJA ... (2005)





Segnalazioni iniziative

1) Gorica/Gorizia 24/2: Metamorfosi etniche 
2) Montereale Valcellina (PN) 26/2: "Bog i Hrvati" (Iddio e i Croati)
3) Padova 26/2: kosovo AttoUno / ZASTAVA AnnoZerO


=== 1 ===

24 FEBBRAIO ore 17,30

Kulturni Dom - Gorizia 

presentazione in lingua slovena del libro di Piero Purini 

“Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975”

Interverrà Mirko Primozic dell’Anpi di Gorizia



=== 2 ===

Sabato 26 febbraio alle ore 16:45

Sala “Menocchio” in via Ciotti, 1 Montereale Valcellina (PN)


"Bog i Hrvati" (Iddio e i Croati)


Per la serie “genocidi dimenticati”, l’olocausto balcanico durante la Seconda Guerra Mondiale. Anteprima nazionale del documentario realizzato dal Ministero della Cultura Serba. Durata: 65’.
Ospiti della serata saranno:

- Vladan Relic: ex presidente della comunità Serbo Ortodossa di Trieste;
- Alessandra Kersevan: storica;

Alle ore 20:00, presso i locali del Circolo, seguirà una cena di finanziamento e presentazione della campagna referendaria contro la privatizzazione dell’acqua. Per l’occasione sarà presente Ferruccio Nilia del Comitato Referendario “2 sì per l’Acqua Bene Comune”.



=== 3 ===

PROGETTO BAOBAB
ex-Scuderie in Piazza Napoli - ex-Fornace Carotta
Padova - zona Sacra Famiglia
Sabato 26 febbraio – ore 18

Videoproiezioni
del fotoreporter Bruno Maran

kosovo AttoUno
Un reportage degli avvenimenti del febbraio 2008 nella provincia del Kosovo. L'autoproclamata indipendenza della provincia del Kosovo, culla delle più profonde radici storiche e religiose per i serbi, dove la maggioranza albanese è riuscita a staccarsi, dopo la guerra "umanitaria" del '99, con la sospetta connivenza di varie diplomazie occidentali.

ZASTAVA AnnoZerO
Il capitale viaggia in prima classe, il lavoro in quarta
Viaggio della globalizzazione
Testimonianza sulla realtà dopo i bombardamenti del ‘99, sullo smantellamento delle ”vecchie” linee, sulla situazione del lavoro nei “nuovi” reparti e per riaffermare che i lavoratori serbi non stanno togliendo lavoro agli operai italiani...
Kragujevac, città della Serbia centrale, importante centro industriale e pertanto pesantemente bombardata durante la guerra "umanitaria" del 1999.
Al centro vi è la fabbrica di automobili Zastava, tornata alle cronache per le vicende relative all'acquisizione da parte della Fiat, con le relative ripercussioni sul mondo operaio italiano a causa della prevista delocalizzazione di attività da parte del gruppo torinese in Serbia. La Zastava, fondata nel 1862, divenne, nel secondo dopoguerra, la più importante realtà industriale dei Balcani, vanto della Jugoslavia socialista. Il suo nome era Savodi Crvena Zastava. Fino allo sfascio della Jugoslavia produceva 220mila vetture l'anno, con più di 50mila lavoratori e 280 imprese dell’indotto dislocate in 130 città jugoslave. A Kragujevac erano occupati 32mila operai. Durante la guerra “umanitaria“ fu pesantemente bombardata con 36 missili Cruise, con pericolosi effetti, ancora presenti, sulla popolazione nonché sugli operai, specie tra quelli che rimossero le rovine. Dal 1° febbraio 2010, la Fiat, in accordo col governo serbo, ha preso il completo controllo della fabbrica, occupando circa mille operai con contratto a termine.



(italiano / deutsch / english)

ICTY prison director kept US Embassy informed on Milosevic

1) INTRODUZIONE. In base a rivelazioni Wikileaks, il direttore del carcere dell'Aia Tim McFadden riferiva all'ambasciata USA in Olanda i dettagli delle conversazioni telefoniche private di Milosevic e del suo stato di salute. Perché?
2) Gespräch mit Christopher Black: Gefängnisdirektor als Informant Washingtons (jW)
3) REACTIONS IN DEN HAAG (IWPR):
KARADZIC REQUESTS TRIAL SUSPENSION / SESELJ URGES ACTION OVER EX-DETENTION UNIT OFFICER
4) FLASHBACK: The Hague ICTY Tribunal killed Yugoslavia's President Slobodan Milosevic / L'11 marzo 2006 il tribunale de L'Aia ha ucciso il presidente della Jugoslavia Slobodan Milosevic

LINK: 
Wikileaks cable from Clifford Johnson of the US embassy in The Hague which details statements made by Timothy McFadden, the former commanding officer of the United Nations Detention Unit, UNDU

NEL QUINTO ANNIVERSARIO DELL'ASSASSINIO: DEMONSTRATION AND EVENTS IN VIENNA, 11-12/3/2011
siti internet del Comitato Internazionale Slobodan Milosevic: 
http://www.icdsm.infohttp://www.free-slobo.de/
archivio Milosevic:
https://www.cnj.it/MILOS/

sull'assassinio di Milosevic nella galera dell'Aia:
https://www.cnj.it/MILOS/morte.htm


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In base a rivelazioni Wikileaks, il direttore del carcere dell'Aia Tim McFadden riferiva all'ambasciata USA in Olanda i dettagli delle conversazioni telefoniche private di Milosevic e del suo stato di salute. Perché?

Riportiamo di seguito (a) una intervista a Christopher Black, giurista canadese e avvocato di fiducia di Mira Markovic, vedova di Slobodan Milosevic. 
L'intervista, che è apparsa sul quotidiano berlinese Junge Welt, riguarda l'inchiesta a proposito delle circostanze della morte di Milosevic. Black commenta in particolare le recenti rivelazioni di Wikileaks (b), secondo cui il direttore del carcere Tim McFadden ascoltava le telefonate di Milosevic e ne comunicava i contenuti riservati all'ambasciata USA, cioè a Washington. 
Seppure in molte carceri l'ascolto delle telefonate, come dei colloqui, sia previsto e legale, i loro contenuti non andrebbero divulgati a terzi. Viceversa, spiega Black,

<< McFadden ha divulgato conversazioni tra Milosevic e sua moglie, in cui si toccavano questioni relative alla strategia di difesa ed a testimoni, discussioni interne al team della difesa, il punto di vista di Milosevic su queste questioni, la mancanza di mezzi finanziari per la difesa, le influenze politiche, eccetera. E [McFadden] ha trasmesso agli USA dettagli strettamente confidenziali sullo stato di salute di Milosevic. Peraltro io temo che McFadden si sia incontrato anche con rappresentanti dell'Accusa. (...) McFadden ed il governo USA in questo modo di sono immischiati in un processo in corso, violando il dovere di neutralità. (...)
[Le rivelazioni di Wikileaks] possono seriamente influenzare il corso dei processi all'ICTY [il "tribunale ad hoc" dell'Aia]. Ogni accusato si deve adesso chiedere se è sottoposto ad un processo imparziale, quando il governo USA viene informato di tutto ciò che egli fa o dice. Se l'ICTY è indipendente e super-partes, che ragione hanno gli USA per incontrarsi con McFadden e raccogliere tutte queste informazioni? Quali informazioni vanno all'Accusa? Forse la controparte conosce ogni passo successivo previsto? Radovan Karadzic perciò, subito dopo la comparsa di queste rivelazioni, ha richiesto la fine delle intercettazioni ai suoi danni. (c)
(...) Ci dobbiamo anche chiedere quale origine abbia questo rapporto tra McFadden e gli USA, e come si è sviluppato. L'intero quadro cambia a seguito di questi nuovi dati di fatto. >>

Queste rivelazioni - nel carosello delle tante di Wikileaks, che ad osservatori attenti appaiono comunque parziali, incomplete ed orientate solo a scopi geostrategici piuttosto precisi, cioè a mettere in imbarazzo alcuni alleati poco affidabili per gli USA - sono passate sostanzialmente sotto silenzio. In Italia ne ha riferito solamente un lancio AGI (che riportiamo di seguito), nel quale tuttavia tra i tanti sciocchi pettegolezzi sui rapporti di Milosevic con i famigliari (d) si omette di sollevare lo scandalo più grosso: e cioè il fatto stesso che l'ex direttore della galera dell'Aia era un informatore di Washington.

(a cura di Italo Slavo)

NOTE:
(a) Si veda di seguito, sezione *2*.
(c) Sulle reazioni nelle aule del "Tribunale ad hoc" dell'Aia, a proposito di queste rivelazioni Wikileaks, in particolare da parte degli "imputati" Karadzic e Seselj, si vedano i testi riportati nella sezione *3* di questo post.
(d) I pettegolezzi sulle abitudini di Milosevic in carcere e sui suoi rapporti telefonici con collaboratori e famigliari erano già stati fatti trapelare, proprio dal direttore della galera McFadden, allo scopo di deviare l'attenzione pubblica dai contenuti del "processo"-farsa per mezzo di << una pioggia ben dosata di rivelazioni minori intrise di sarcasmo >> - si veda: http://archiviostorico.corriere.it/2002/febbraio/09/Milosevic_cella_con_Sinatra_Hemingway_co_0_0202096992.shtml .

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Olanda: su Wikileaks documento che racconta la vita di Milosevic in carcere


Agi, 6 febbraio 2011

Un cablogramma diplomatico statunitense, svelato oggi dal sito Wikileaks, ha fornito uno spaccato unico sulla vita dell’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, nella prigione del Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aia in cui è morto. Il documento descrive Milosevic come un appassionato lettore di thriller giudiziari di qualità mediocre, un ascoltatore delle canzoni di Frank Sinatra e un detenuto che non mancava di godere della sua ora d’aria nel cortile della prigione.
L’Ambasciata statunitense all’Aia ha inviato al Dipartimento di stato Usa la sua informativa nel novembre 2003, quando il processo a Milosevic entrava nel suo secondo anno. L’autore del documento aveva avuto un colloquio col capo dell’unità di detenzione del Tpi Tim McFadden. Quest’ultimo era in contatto quotidiano con Milosevic e aveva accesso al contenuto delle sue conversazioni con la sua famiglia e i suoi amici, oltre che al dossier medico dell’ex presidente serbo. Nei colloqui con i rappresentanti dell’ambasciata, McFadden ha spiegato che Milosevic chiamava ogni giorno la moglie, Mira Markovic, e descriveva la loro relazione come “straordinaria”.
Markovic è descritta come una donna dalla personalità fortissima. “Milosevic poteva manipolare tutta una nazione, ma finiva a mal partito quando deve gestire sua moglie che, al contrario, sembrava esercitare una forte ingfluenza su di lui”.
Milosevic aveva problemi cardiaci e d’ipertensione, problemi che l’hanno angustiato durante tutto il corso del processo in cui doveva rispondere per genocidia e crimini di guerra relativi ai conflitti balcanici degli anni 90. Si trattava di sintomi “seri e difficilmente controllabili con i farmaci”. McFadden, inoltre, descrive Milosevic come un “narcistista” che si credeva “circondato da matti” nel tribunale. Eppure era convinto di controllare l’andamento del processo. “Ha una grande fiducia nelle proprie capacità e pensa che riuscirà a vincere di fronte al tribunale, un atteggiamento che rafforza il suo stato di salute stabile attuale”. Tuttavia, nel documento, c’è la previsione che le sue condizioni cliniche sarebbero peggiorate. Previsione che s’è avverata tre anni dopo, quando - il 14 marzo 2006 - l’ex presidente è morto.


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11.02.2011 / Ausland / Seite 2

»Details über Gesundheit weitergegeben«


Gefängnisdirektor als Informant Washingtons. US-Depesche über Haft von Slobodan Milosevic. Ein Gespräch mit Christopher Black


Interview: Cathrin Schütz

Der kanadische Jurist Christopher Black ist Anwalt von Mira Markovic zur Aufklärung der Todesumstände von Slobodan Milosevic und Verteidiger am Internationalen Strafgerichtshof für Ruanda


Slobodan Milosevic hat während seines Prozesses vor dem UN-Sondertribunal für das ehemalige Jugoslawien (ICTY) in Den Haag in seiner Zelle »billige Kriminalthriller« gelesen und CDs von Frank Sinatra gehört, heißt es in einer von Wikileaks veröffentlichten US-Depesche. Auch was der frühere jugoslawische Präsident in privaten Gesprächen gesagt haben soll, wird kolportiert. Die Informationen stammen vom Gefängnisdirektor Tim McFadden. Ging dessen Abhöraktion mit rechten Dingen zu?

Enthüllt wurden von Wikileaks hier gleich mehrere Skandale: Zum einen hat der Gefängnisdirektor Details über Milosevics Privatleben und seinen Gesundheitszustand weitergegeben. Damit hat er seine strikte Schweigepflicht gebrochen. Zum anderen hat er dabei, wie es scheint, als Informant der US-Regierung agiert. Die Inhalte seiner privaten Gespräche mit Milosevic wie der Telefonate zwischen diesem und seiner Frau sowie Bekannten und auch persönliche Gewohnheiten, Launen, Bemerkungen hat er nämlich den USA gemeldet.

Sind die Abhörmaßnahmen legal?

Sie sind in vielen Gefängnissen gängig. Allerdings nicht, wenn es um vertrauliche Gespräche geht, etwa mit Anwälten und Beratern. McFadden hat Gespräche zwischen Milosevic und seiner Frau weitergegeben, in denen es um Fragen der Verteidigungsstrategie und um Zeugen ging, um Debatten innerhalb des Beraterteams, Milosevics Sicht auf diese Fragen, den Mangel an finanziellen Mitteln zur Verteidigung, politische Einflüsse usw. Und er hat streng vertrauliche Details über Milosevics Gesundheit an die USA geliefert. Außerdem befürchte ich, daß sich McFadden auch mit Vertretern der Anklageseite getroffen hat. Diese hätte einen klaren Nutzen daraus ziehen können.

McFadden und die US-Regierung haben sich dadurch in einen laufenden Prozeß eingemischt und die Neutralitätspflicht verletzt. McFadden stattet seinen Bericht nicht Rußland ab oder anderen Mitgliedern des UN-Sicherheitsrats. Meine Vermutung, daß es sich beim Jugoslawien-Tribunal um eine reine Kreatur von NATO und USA handelt, die nicht im Sinne des Rechts agiert, sondern politische Entscheidungen ausführt, wird erneut untermauern.

Könnte diese Wikileaks-Enthüllung die laufenden Prozesse vor dem ICTY betreffen?

Sie kann diese ernsthaft beeinflussen. Jeder Angeklagte muß sich nun fragen, ob er einen fairen Prozeß haben kann, wenn die Regierung der USA über alles informiert wird, was er tut und sagt. Wenn das ICTY unabhängig und unparteiisch ist, welchen Grund haben dann die USA, sich mit McFadden zu treffen und all diese Informationen einzuholen? Welche Informationen gehen an die Anklage? Kennt die Gegenseite vielleicht jeden geplanten nächsten Schritt? Radovan Karadzic hat übrigens gleich nach Erscheinen der Enthüllung das Ende seiner Observation beantragt.

Als Anwalt von Milosevics Witwe Mira Markovic sind Sie mit der Aufklärung seiner Todesumstände betraut. Milosevic verstarb im März 2006 im Gefängnis, angeblich an einer natürlichen Ursache, unter der Obhut von McFadden. Beeinflußt die Enthüllung Ihre Arbeit?

Wir wußten nicht, daß die US-Regierung Milosevic bewachte – eine Regierung, die während der NATO-Aggression gegen Serbien im Frühjahr 1999 versuchte, Präsident Milosevic zu töten, indem sie unter Verletzung des Kriegsvölkerrechts sein Haus mit Cruise Missiles angriff, sein Land unter Verletzung des Völkerrechts bombardierte und die ihn über ihre Handlanger mittels falscher Anschuldigungen anklagen ließ. Diese Regierung hat Milosevic möglicherweise während all der Jahre in Den Haag beobachten lassen, wußte alles, was er sagte und tat. Unsere Untersuchungen der Todesumstände von Milosevic müssen diese Fakten berücksichtigen. Warum wurden die USA über den Gesundheitszustand und seine Behandlung so umfassend informiert? Welchen Einfluß hatten sie auf die Arbeit der Haftanstalt, auf die Anordnungen von McFadden? Haben sie ihm gesagt, was er tun soll? Was er Wärtern und Krankenschwestern anordnen soll? Welche Rolle spielten die USA vor allem in den Monaten vor seinem Tod? Und wir müssen auch fragen, woher die Beziehung zwischen McFadden und den USA stammt, wie sie sich entwickelt hat. Das ganze Bild ändert sich durch diese neuen Fakten.

Am 11. März findet in Wien anläßlich des 5. Todestages von Slobodan Milosevic eine internationale Protestveranstaltung statt, auf der u.a. Christopher Black und der Anwalt von Radovan Karadzic, Goran Petronijevic, reden werden. Weitere Informationen: www.free-slobo.de

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IWPR’S ICTY TRIBUNAL UPDATE No. 678, February 7, 2011

KARADZIC REQUESTS TRIAL SUSPENSION

Former Bosnian Serb president says he needs time to consider new material.

By Rachel Irwin

Radovan Karadzic this week requested that his trial at the Hague tribunal be suspended for three months due to a large volume of material the prosecution recently disclosed to him.

This material – about 32,000 pages - mainly concerns events in various Bosnian municipalities, which is the next component of the prosecution’s case. Currently, the trial is still focused on the sniping and shelling of Sarajevo, as it has been since last April.

Karadzic is requesting that the proceedings be suspended from February 15 until May 15, save for a few witnesses with dates already fixed.

He claims that since most of the new material is in the Serbian language, only a few members of his legal team have the ability to review it. According to the submission, the time off from trial preparation “will ensure that the accused is not required to start defending events in the municipalities until he has received all of the disclosure he was entitled to receive before the trial commenced” including additional material that is expected in early April.

The judges have previously granted Karadzic’s requests for a trial suspension on three occasions—for a month last November, one week last September and two weeks last August. Each of those times Karadzic had just received a trove of material from the prosecution.

The prosecution has not yet responded to Karadzic’s request, and the judges will not make a decision on the matter until that response is filed.

In other recent developments, Karadzic has also requested that his phone calls no longer be monitored by court officials, as is standard practice regarding all detainees.

He bases his January 28 request on a leaked Wikileaks cable from Clifford Johnson of the United States embassy in The Hague which details statements made by Timothy McFadden, the former commanding officer of the United Nations Detention Unit, UNDU.

In the cable – which Karadzic attached to his request – McFadden is said to have described in great detail phone calls between Milosevic and his wife Mirjana Markovic.

“Milosevic could manipulate a nation, [McFadden] said, but struggled to maintain his wife who, on the contrary, seemed to exert just such a pull on him,” the cable states.

The cables also describe Milosevic’s taste in music, including Frank Sinatra, and “pot boiler thrillers”, it read.

Karadzic claims that the way McFadden disclosed this information is “shocking and disturbing.

“It is unknown to what extent, if any, officials of the United Nations detention unit or registrar have discussed with third parties information obtained in whole or in part through the monitoring or recording of Dr Karadzic’s conversations,” he states.

Karadzic further requests that the registrar obtain a statement under oath from the current commander of the detention unit, and all commanders since July 2008, “setting forth all instances in which they discussed Dr Karadzic’s case with persons outside of the registry and in the information revealed in those discussions”.

The president of the tribunal, Judge Patrick Robinson, has yet to respond to Karadzic’s request.

At a press conference on January 26, chief of the registrar’s office Martin Petrov told journalists that “at this point, the tribunal is unable to confirm the authenticity of the report but the matter is being looked into.

“A preliminary analysis of the alleged cable indicates that many of the issues raised in it were already in the public domain.”

For example, he said that “details about the daily routine of ICTY detainees have been available to the public for years”.

Petrov stressed “that the tribunal has clear confidentiality rules, which apply to all, including and especially to ICTY staff members. Alleged breaches of confidentiality are always investigated and appropriate action taken”.

Rachel Irwin is an IWPR reporter in The Hague.

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IWPR’S ICTY TRIBUNAL UPDATE No. 679, February 14, 2011

SESELJ URGES ACTION OVER EX-DETENTION UNIT OFFICER

Serb nationalist politician claims the former officer revealed Milosevic’s personal details prejudicing work of tribunal. 

By Rachel Irwin

Serbian nationalist politician Vojislav Seselj this week urged the Hague tribunal to take action against the former commanding officer of the United Nations detention unit in The Hague for allegedly disclosing personal details about ex-Serbian president Slobodan Milosevic to a United States diplomat.

Seselj’s remarks – in a report to tribunal president Judge Patrick Robinson – were related to a reportedly leaked diplomatic cable where Clifford Johnson, of the United States embassy in The Hague, allegedly detailed statements that former commanding officer Timothy McFadden is said to have made about Milosevic.

“Milosevic could manipulate a nation, [McFadden] said, but struggled to maintain his wife who, on the contrary, seemed to exert just such a pull on him,” the alleged cable stated about Milosevic’s daily phone conversations with his wife, Mirjana Markovic.


The said cable goes on to describe Milosevic’s “nearly photogenic memory”, his supposed narcissism, as well as his state of health and daily routine. In addition, the alleged cable mentions his taste in music and books, which included Frank Sinatra and “pot boiler thrillers”.

Seselj claims that “by sending the information to US agencies and state organs, [McFadden] caused serious prejudice to the reputation and the work of the [tribunal]”. He said that if Judge Robinson doesn’t take action “commensurate” with the allegations at hand, “the already poor international reputation of the [tribunal] will be ruined further”.

Seselj then listed numerous rules enacted at both the tribunal and the detention unit, known as the UNDU, and described how McFadden allegedly broke them.

The reported details about Milosevic’s relationship with his wife were “a scandalous disclosure about the private relationship between spouses”, he alleged, and went on to note that it is “normal for spouses to call each other every day”.

He concluded by urging Judge Robinson to take action on the matter, or “it will be clear that the [tribunal] is under the same jurisdiction as the Guantanamo camp/military court”.

Detained at the UNDU since 2003, Seselj is charged with nine counts of war crimes and crimes against humanity – including murder, torture and forcible transfer – for atrocities carried out in an effort to expel the non-Serb population from parts of Croatia and Bosnia between August 1991 and September 1993. He remains leader of the Serbian Radical Party, SRS, based in Belgrade.

Seselj’s trial has endured repeated delays since it officially began in November 2007, a full year after the original trial date was postponed due to the accused’s hunger strike. In addition, he was found guilty of contempt in July 2009 for revealing confidential details about protected witnesses in one of the books he authored. The accused is set to face yet another contempt trial on similar charges.

Fellow accused Radovan Karadzic has already used the alleged leaked cable as a basis for requesting that his phone calls no longer be monitored by court officials, as is standard for all detainees.

In a January 28 motion, Karadzic claimed that the way McFadden disclosed the information on Milosevic was “shocking and disturbing.

“It is unknown to what extent, if any, officials of the United Nations detention unit or registrar have discussed with third parties information obtained in whole or in part through the monitoring or recording of Dr Karadzic’s conversations,” he stated.

Karadzic further requested that the registrar obtain a statement under oath from the current commander of the detention unit, and all commanders since July 2008, “setting forth all instances in which they discussed Dr Karadzic’s case with persons outside of the registry and in the information revealed in those discussions”.

The president of the tribunal has yet to respond to Karadzic’s request.

At a press conference on January 26, chief of the registrar’s office Martin Petrov told journalists that “at this point, the tribunal is unable to confirm the authenticity of the report but the matter is being looked into.

“A preliminary analysis of the alleged cable indicates that many of the issues raised in it were already in the public domain”.

For example, he said that “details about the daily routine of [tribunal] detainees have been available to the public for years”.

Petrov stressed “that the tribunal has clear confidentiality rules, which apply to all, including and especially to staff members. Alleged breaches of confidentiality are always investigated and appropriate action taken”.

Rachel Irwin is an IWPR reporter in The Hague.


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The Hague ICTY Tribunal killed Yugoslavia's President Slobodan Milosevic


Global Research, March 10, 2009
Strategic Cultural Foundation

President Slobodan Milosevic. In memoriam

On 11 March 2006 the Hague Tribunal killed Yugoslavia's President Slobodan Milosevic


On 11 March 2006 the UN`s International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY) reported that Slobodan Milosevic had been “found dead in his cell”. On 14 March the court stopped all trial procedures on the case. While reporting on the causes of Milosevic`s death, the Tribunal's Vice-President Kevin Parker said “Milosevic died a natural death as a result of a heart attack”. But there is evidence that Slobodan Milosevic was killed, and that the ICTY was responsible for the murder.

This is how it all happened. First, Milosevic was placed in prison, where his health deteriorated. Then he was refused to be treated in a heart surgery center and when his heart condition worsened, he did not receive urgent medical help. The Tribunal did so deliberately as they knew about his health problems.

One should just read the following medical reports to understand that Milosevic had not received necessary medical treatment. Dr. Aarts: “Atherosclerosis is typical for people of his age”. Dr. De Laat: “Over the past 6 months Milosevic suffered strong head noise and tension and a partial hearing and sight loss. Probably, poor hearing was caused by cardiovascular problems”. Dr.Spoelstra knew that Milosevic had been wearing earphones for five years but still suggested “just to regulate volume level for the earphones”. The ICTY prison doctor Paulus Falke: “I discussed the issue with an otolaryngologist from the Bronovo hospital. He told me Milosevic`s poor hearing was normal for people of his age”. Could all these reports be just a medical mistake? No.

Milosevic was diagnosed correctly, and all the rest doctors were aware of it. On 4 November 2005 Slobodan Milosevic said he wanted to be examined by doctors. There were three of them: Doctor of Medicine, Professor Shumilina M.(Russia), Professor Leclerc (France) and Professor Andric (Serbia). Doctor Shumilina said Milosevic had not received proper medical treatment and insisted on urgent thorough medical examination and treatment. She also warned there was a risk of serious brain problems. Cardiologist Leclerc was not given an opportunity to familiarize himself with the results of Milosevic` previous medical examinations. He said an ECG test he did to Milosevic was “extremely anomalous”. In their joint report, the international group of doctors warned the Tribunal that the patient's condition was very grave and he was at risks. They said Milosevic had to be examined more throughly to get a precise diagnosis. The doctors asked for a 6-week rest for Milosevic`s body and mind so that he could feel at least some kind of relief.

Shumilina`s opinion caused much annoyance. It was the first time when a group of independent doctors proved that Milosevic`s poor health condition had been caused by improper medical treatment. Shumilina was criticized and even accused of being involved in conspiracy with Milosevic. On 14 December 2005 she wrote a letter to the Tribunal to express her annoyance at the attempts made by some of doctors to play down the importance of her resolution on Milosevic`s health. Among other things, she wrote that not the age of 64 had caused Milosevic`s atherosclerosis but the lack of proper treatment for his arterial hypertension.

In December 2005 Leo Bokeria, Director of Moscow's Bakulev Heart Surgery Center, wrote to the ICTY President Fausto Pokar that Milosevic`s health had deteriorated due to wrong treatment. Bokeria said the aim was to “prevent cardiovascular catastrophe”, so the Tribunal`s President should hardly have any doubts about it. In December 2005 Slobodan Milosevic asked the court to let him be hospitalized in Moscow. Despite the fact that all the regulations were observed, Milosevic was refused.

The ICTY accused Milosevic of deliberately taking unprescribed drugs to worsen his health condition in order to leave for Moscow and there escape from court.

Timothy McFadden, the prison governor responsible for Milosevic, wrote a letter to the Tribunal on 19 December 2005, in which he said he had long doubted whether Milosevic was taking prescribed drugs. McFadden also reported that the ICTY prison doctor could no longer hold responsibility for Milosevic`s health, neither the Tribunal's secretary was going to do it. Obviously, conclusions made by McFadden were not based on the results of medical treatment. Actually, Milosevic`s blood tests showed “low levels of prescribed and unprescribed medicines”. And without having any solid evidence, McFadden described the blood tests as the result of Milosevic`s deliberate actions.

In his letter of January, 6, 2006 the ICTY prison doctor Paulus Falke repeats McFadden: “The tests showed that he had been taking prescribed medicines not as regularly as he should. Besides, he took drugs neither me nor other doctors have prescribed him”. Toxicologist Donald Uges added: “I have reasons to believe Milosevic had been taking unprescribed drugs. This is what could have caused his high blood pressure”.

Dr. Tou was the only one to name a few possible reasons for low concentration of prescribed drugs in Milosevic`s blood: weak gastrointestinal absorption, inaccurate use of prescribed medicines, interaction with other substances, lowered absorption of enzymes and quick metabolism for CYP2D6. All these conclusions were based on elementary medical tests. The question is how other doctors failed to be aware of this. Obviously, it could have been done only deliberately. However, before Dr. Tou`s report was published, Falke ruled out any other causes except non-use of prescribed drugs. Falke lacked competence to make conclusions like he did. He wanted the court to have a negative image of Milosevic.

On 12 January 2006 Slobodan Milosevic demanded a sample of his blood to be taken for analysis. The procedure took place after he had been taking the medicines prescribed by Falke. The test showed the same level of medicines as before. Thus Falke`s and McFadden's allegations were refuted. Falke insisted that Milosevic had been taking “unprescribed drugs”. But toxicologist Uges said only two medicines were spotted in Milosevic`s blood- Diazepam and Nordazepam. Appointed attorneys found out that Diazepam had been prescribed to Milosevic by Falke in the middle of October 2005. According to Dr. Tou, who did a repeated expertise, the metabolism of Nordazepam is possible only with participation of Diazepam. Dr. Uges added that “concentration of both medicines in blood was too low to have any pharmacological effect”. Even if these two medicines are found in a patient's blood for months, they will not do any harm and cause high blood pressure in any way. In view of this, all the reports presented at the Tribunal are nothing but a provocation.

The appointed attorneys noted: “It was mentioned in none of the reports that Diazepam had been repeatedly prescribed to Milosevic by Dr. Falke: a) during a whole period of his imprisonment; b) particularly, during three days in mid October 2005. On 7 March 2006, three days before Milosevic`s death, the judges were reported that Milosevic`s blood taken for analysis on 12 January contained unprescribed Rifampicin, which could neutralize the effects of the heart medicine Milosevic was required to take.

The report published after Milosevic`s death by the ICTY Vice-President Kevin Parker read: “Autopsists diagnosed a grave heart condition which caused death”. If investigators were objective, they would have been noted that grave heart condition was diagnosed long before by Shumilina and Bokeria. In any case, diagnosis should be made when a patient is alive but Milosevic was refused to undergo necessary medical examination. Unbiased investigation should have been focused on the reasons of a heart attack. However, nothing of the kind was discussed.

Instead of investigating the situation with rifampicin in Milosevic`s blood, Parker was busy justifying Dr. Falke. But he was doing it so clumsily that even members of the Tribunal were puzzled. The information about rifampicin appeared two months after the medicine had been spotted in blood. “Dr. Falke and his colleagues discussed a possibility to reveal the information without Milosevic`s permission”, Parker explained. But such explanation is absurd since nothing prevented Falke from disclosing all information. It was even more absurd to say that the information about rifampicin was hidden from Milosevic. Firstly, this explanation itself refutes all the previous (if Milosevic did not know about rifampicin, why should he be against this information be disclosed?). Secondly, in his report Parker lies when he says “Dr. Falke did not informed Milosevic on rifampicin in his blood in accordance with the Dutch regulations on anonymity in medicine”.

Three days before his death Slobodan Milosevic wrote in a letter to the Russian Foreign Ministry: “the fact that my blood contains rifampicin, an antibiotic that is normally used to treat leprosy and tuberculosis, proves that none of these doctors have the right to treat me... I defended by country from them and now they want me to keep silence for ever”. The fact that the court stopped all trial procedures without investigating the causes of Milosevic`s death makes us think that the ICTY either organized the murder or sheltered the criminals.

Today there is hardly anyone who believes that Milosevic`s killers may be found and tried. But I am confident that such mission should exist, no matter how impossible it is. Well, now those criminals enjoy power in the Hague and worldwide but it won't last for ever. Slobodan Milosevic proved resistance is possible. Men of such strength are rare nowadays. That is why their death is perceived as personal tragedy.

Never forget President Slobodan Milosevic!


© Copyright , Strategic Cultural Foundation, 2009 

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di seguito la traduzione fattaci pervenire da Alessandro Lattanzio
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Presidente Slobodan Milosevic. In memoriam

Alexander Mezayev 11.03.2009

L'11 marzo 2006 il tribunale de L'Aia ha ucciso il presidente della Jugoslavia Slobodan Milosevic
 
L'11 marzo 2006 il tribunale internazionale dell’ONU per l'ex Jugoslavia (ICTY) ha segnalato che Slobodan Milosevic “era stato trovato privo di vita nella sua cellula”. Il 14 marzo la corte ha sospeso tutte le indagini sul caso. Mentre segnalava le cause della morte di Milosevic, il vice presidente del Tribunale Kevin Parker ha detto che “Milosevic è morto per cause naturali in conseguenza di un attacco di cuore”. Ma vi è prova che Slobodan Milosevic è stato ucciso e che l’ICTY è responsabile dell'omicidio. Ecco cos’è veramente accaduto.
In primo luogo Milosevic è stato costretto in prigione, dove la sua salute s’è deteriorata. Allora gli è stato rifiutata la possibilità d’essere curato in un centro di cardiologia e quando lo stato del suo cuore ha peggiorato, non ha ricevuto un aiuto medico urgente. Il tribunale ha agito in tal modo deliberatamente, sapendo dei suoi problemi sanitari. Si dovrebbero leggere solo i seguenti rapporti medici per capire che Milosevic non ha ricevuto il trattamento medico necessario.
Dott. Aarts: “L'arteriosclerosi è tipica per gente della sua età”. Dott. De Laat: “In questi ultimi 6 mesi Milosevic ha sofferto un forte mal di testa, tensioni e una perdita parziale della vista e dell’udito. Probabilmente, il calo dell'udito è stato causato dai problemi cardiovascolari”. Il Dr.Spoelstra ha saputo che Milosevic stava portando i trasduttori auricolari da cinque anni ma ha suggerito solo “di regolare il livello del volume per i trasduttori auricolari”. Il dottore Paulus Falke della prigione dell’ICTY: “Ho discusso la cosa con un otorinolaringoiatra dell'ospedale di Bronovo. Mi ha detto che il calo d’udito di Milosevic era normale per persone della sua età”.
Potevano essere tutti questi rapporti solo un errore medico? No. Milosevic ha avuto la diagnosi corretta e, del resto, tutti i medici erano informati di ciò. Il 4 novembre 2005 Slobodan Milosevic ha detto che voleva essere esaminato dai medici. C’erano tre di loro: la professoressa Shumilina M. (Russia), il professor Leclerc (Francia) ed il professor Andric (Serbia). La dottoressa Shumilina ha detto che Milosevic non aveva ricevuto il trattamento medico adeguato e aveva insistito su un esame medico e su un trattamento completo urgente. Inoltre ha avvertito che c’era il rischio di problemi seri al cervello. Il cardiologo Leclerc non ha avuto l’occasione di familizzare con i precedenti risultati degli esami medici di Milosevic. Ha detto che ha eseguito un test ECG su Milosevic ed era stato “estremamente anomalo”.
Nel rapporto congiunto, il gruppo internazionale dei medici ha avvertito il tribunale che lo stato del paziente era molto serio ed era a rischio. Hanno detto che Milosevic doveva essere esaminato completamente per ottenere una diagnosi precisa. I medici hanno chiesto per sei settimane per esaminare il corpo e la mente di Milosevic, in modo che potessero compiere almeno un certo genere di rilievi. L'opinione della Shumilina ha causato molta irritazione. Era la prima volta che un gruppo di medici indipendenti ha dimostrato che lo stato sfavorevole della salute di Milosevic era stato causato da un trattamento medico improprio. Shumilina è stata criticata e perfino è stata accusato di coinvolgimento in una cospirazione con Milosevic.
Il 14 dicembre 2005 ha scritto una lettera al tribunale per esprimere la sua irritazione verso i tentativi fatti da alcuni medici per sminuire l'importanza del suo referto sulla salute di Milosevic. Tra l'altro, ha scritto che non è stata l'età di 64 anni ad aver causato l'arteriosclerosi di Milosevic, ma la mancanza di trattamento adeguato per la sua ipertensione arteriosa.
Nel dicembre 2005 Leo Bokeria, direttore del centro di cardiochirurgia Bakulev di Mosca, ha scritto al presidente Fausto Pokar dell’ICTY, dicendo che la salute di Milosevic era deteriorata a causa del trattamento errato. Bokeria ha detto che lo scopo era “impedire la catastrofe cardiovascolare”, così che il presidente del tribunale non dovrebbe avere alcun dubbio su ciò.
Nel dicembre 2005 Slobodan Milosevic ha chiesto alla corte di lasciarlo ospedalizzare a Mosca. Malgrado il fatto che tutte le norme fossero osservate, la richiesta è stata rifiutata.
L’ICTY ha accusato Milosevic di aver deliberatamente preso delle droghe non prescritte per peggiorare il suo stato di salute per andare a Mosca e, da lì, sottrarsi alla corte. Timothy McFadden, il direttore della prigione responsabile di Milosevic, ha scritto una lettera al tribunale il 19 dicembre 2005, in cui ha detto che da tempo dubitava del fatto che Milosevic stesse prendendo dei medicinali prescritti. McFadden inoltre ha segnalato che il medico della prigione dell’ICTY non aveva più la responsabilità dello stato di salute di Milosevic, e né la segreteria del Tribunale se ne curava.
Ovviamente, le conclusioni di McFadden non sono basate sui risultati del trattamento medico. Realmente, le analisi del sangue di Milosevic hanno mostrato “bassi livelli di medicine prescritte e non prescritte”. E senza avere alcuna prova solida, McFadden ha descritto le analisi del sangue come risultato delle azioni intenzionali di Milosevic. Nella sua lettera del 6 gennaio 2006 il dottore della prigione dell’ICTY Paulus Falke segue McFadden: “Gli esami hanno provato che stava prendendo regolarmente le medicine prescritte come doveva. Inoltre, ha preso a droghe che né io che nessun altro medico ha prescritto”.
Il Tossicologo Donald Uges ha aggiunto: “Penso che Milosevic stesse prendendo droghe non prescritte. Cose che potrebbero aver causato la sua ipertensione”. Il Dott. Tou è stato l’unico a parlare dei motivi possibili per la bassa concentrazione di medicinali prescritti nel sangue di Milosevic: l'assorbimento gastrointestinale debole, l'uso inesatto delle medicine prescritte, interazione con altre sostanze, hano abbassato l'assorbimento degli enzimi e del metabolismo rapido per CYP2D6. Tutte queste conclusioni sono basate su test medici elementari. La domanda è come altri medici non sono riusciti a rendersi conto di ciò, ovviamente, ciò può essere accaduto solo deliberatamente. Tuttavia prima che il rapporto del Dott. Tou fosse pubblicato, Falke ha escluso tutte le altre cause tranne l’uso di medicinali non prescritti. Falke manca della competenza per trarre le conclusioni che ha fatto. Ha voluto che la corte avesse un'immagine negativa di Milosevic.
Il 12 gennaio 2006 Slobodan Milosevic ha richiesto un campione del suo sangue per l'analisi. La procedura è avvenuta dopo, quando stava prendendo le medicine prescritte da Falke. L'esame ha provato lo stesso livello di medicine di prima. Così le accuse di McFadden'e Falke sono state confutate. Falke ha insistito che Milosevic stesse prendendo “droghe non prescritte”. Ma il tossicologo Uges ha detto che soltanto due medicine sono state tracciate nel sangue di Milosevic: Diazepam e Nordazepam. Gli avvocati nominati hanno scoperto che il Diazepam era stato prescritto a Milosevic da Falke verso la metà dell'ottobre 2005. Secondo il Dott. Tou, che ha fatto u

(Message over 64 KB, truncated)


Kosovo: Everybody knew what Thaci did 

1) The Culture of Impunity, NATO Style (Diana Johnstone)
2) NEWS:
- Marty: Everybody knew what Thaci did 
- Kosovo a mafia state – EuroMP
- Moscow insists on Kosovo trafficking probe
- Serbia wants UN inquiry into Kosovo leader's alleged organ trafficking 
- KFOR's Final Firefighting Exercise for Kosovo Security Force 
- US congratulates Kosovo on independence day
- Kosovo rebels told UN of organ harvests 
3) Pacolli for President - with Thaci's support


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=== 1 ===


The Culture of Impunity, NATO Style


Diana Johnstone 
  

(Counterpunch, February 14, 2011)


Coverup of the Kosovo Mafia: The Culture of Impunity, NATO Style

On January 25, the Council of Europe overwhelmingly endorsed the Report it had commissioned from Swiss Senator Dick Marty on longstanding but officially ignored indications that Kosovo Albanian separatist fighters extracted and sold vital organs from prisoners around the end of the 1999 NATO bombing war that detached Kosovo from Serbia. Specifically implicated was the Drenica section of the “Kosovo Liberation Army” (KLA) led by post-bombing Kosovo’s first and current President, Hashim Thaci. The Council of Europe, whose main function is to defend human rights, called for a proper judicial investigation, notably by the European Union Rule of Law Mission in Kosovo (EULEX)
(For a thorough analysis of the Marty Report, see “Criminal Kosovo: America’s Gift to Europe”, by Diana Johnstone, CounterPunch newsletter, Vol. 18, no.1, January 1-15, 2011.)
The problem created by the Marty Report is the same as the one that gave rise to it. There is no clear judicial authority willing and able to undertake a criminal investigation of the organ trafficking charges. The charges first surfaced in the 2006 memoir of former Chief ICTY Prosecutor Carla del Ponte, who complained that she was not allowed to pursue investigation of evidence in Albania. It was because of this judicial void that the Council of Europe mandated Senator Marty to make his report, hoping to stimulate some sort of legal procedure. But the problem remains. Most of the alleged crimes took place on the territory of Albania, where the KLA operated bases and prisons, but the Albanian authorities have so far refused to cooperate with investigators. EULEX was sent to Kosovo to try to fill the judicial void left by secession. However, like all the international protectorate structures set up to construct “independent” Kosovo, EULEX is afraid of arousing the wrath of Kosovo Albanians and has great difficulty gaining their cooperation in criminal investigation.
Media coverage of the organ trafficking charges implicating Hashim Thaci has been far too muted to build pressure from public opinion on reluctant Western governments to take the issue to court. Human Rights Watch has called for an independent European prosecutor to pursue the case, but there has been no audible response from the governments concerned. Mr. Marty’s expressed fear that his report will remain a “dead letter” seems quite plausible.
Even as the Marty Report appears fated to join the Goldstone Report on Gaza in the limbo of good intentions, the counterattack was launched. Oddly, the London Review of Books chose to publish a five-page review of the Marty Report by someone with a strong vested interest in discrediting it: none other than Geoffrey Nice, who as assistant prosecutor at the International Criminal Tribunal for former Yugoslavia (ICTY) in The Hague, led the prosecution of Yugoslav president Slobodan Milosevic.  Nice’s only real achievement in the five-year-long trial was to outlive both the presiding judge and the defendant. The monstrous dimensions of the prosecution, aimed at blaming Milosevic for virtually all the woes of the complex civil wars that tore apart Yugoslavia in the 1990s, succeeded in sending Milosevic to his grave before he could present his defense, thus sparing the three judges the task of finding excuses to convict him, as they were hired to do.
The LRB review gave Sir Geoffrey (he was knighted in 2007 for his services) the opportunity to rehash the ICTY prosecution version of NATO’s Kosovo war (the “objective was to forestall a humanitarian catastrophe”) complete with the standard exaggerated figures (“at least 10,000 Kosovo Albanians killed”) and crucial omissions (Hashim Thaci “was chosen to go to Rambouillet in preferance to the Kosovan president, Ibrahim Rugova” – without saying by whom he was chosen, namely the U.S. State Department).
Nice’s main diversionary tactic was to center his attack on an unidentified “witness K144”. He titled his review “Who is K144?” and went on to answer the question by claiming that K144 was both the basis for the Marty Report accusations and non-existent creation of Serbian media propaganda.  A hasty reader might overlook the parenthetical element in the following sentence: “Stories in the Serbian press suggest that many of these allegations came from a witness known as K144, although del Ponte never refers to this source in her book (and nor does Marty, directly).” In reality, there is no “witness K144” mentioned in the Marty Report. Nice’s citations from the Serbian press do not correspond to the Marty Report.
The Nice article was immediately echoed and amplified by an article in The Wall Street Journal, which enjoys a larger and more American audience. Under the title “Smearing Hashim Thaci: Are the organ-harvesting allegations part of a media campaign against Kosovo?” (conclusion: yes) British journalist and Member of Parliament Denis MacShane gave a rave review of Nice’s review. “Most troublesome, according to Mr. Nice, is that Mr. Marty’s narrative implicitly depends on an anonymous witness, ‘K144’, who Belgrade says has provided evidence of these atrocities, but who most likely does not exist.”
Denis MacShane is a prize attack dog from the kennel of Tony Blair’s poodle imperialism. He is a member of the Henry Jackson Society, a gathering of warmongers whose model is the “Senator from Boeing”, Henry “Scoop” Jackson, who in the 1970s, with the aid of the Richard Perle, championed aggressive anti-Soviet policies under a supposedly liberal banner. MacShane’s claim to be “on the left” seems to rest almost exclusively on his championing of “the only democracy in the Middle East”, which allows him to make up for the shortage of communist threats with Islamic terrorism. His “European Institute for the Study of Contemporary Antisemitism” issued a 2009 report which undertook to define which kinds of criticism of Israel constitute anti-Semitism. These included describing the state of Israel as a racist endeavor and comparing contemporary Israeli policy to that of the Nazis. He is on the board of “Just Journalism” whose aim is to oversee UK media reports on Israel.
Mr. MacShane was Labour Minister for the Balkans and then for Europe, but was suspended from the Labour Party last October 14 pending investigation of expense account padding. He reportedly became the first British MP to be reported to the police by the Parliamentary Commissioner for Standards concerning his claims on taxpayer-funded office expenses. MacShane’s claims over seven years totaled about £125,000, including nearly £20,000 a year for an office located in his garage, eight laptop computers in three years and over a dozen bills for “research and translation” by an elusive “European Policy Institute” which turned out to mean, basically, his brother Edmund Matyjaszek (for his professional life, MacShane dropped his father’s Polish name for his mother’s Irish name surname). He has also been involved in numerous minor scandals involving distortion of facts. None of this seems to have harmed his self-confidence or his career, which includes regular essays for Newsweek. From his writings one can gather that the only Muslims he really trusts are the ones in former Yugoslavia.
Aside from the K144 diversion, the Nice-MacShane attack on the Marty Report zeroes in on two factors that to readers unfamiliar with the case may look like serious weakness. The report, they stress, gives no names of victims and no names of witnesses. The explanation for this is simple.  There are indeed lists of potential victims: missing Serbs and ethnic Albanians who are presumed dead after being taken prisoner by the KLA.  Without material evidence, it is nearly impossible to ascertain the precise fate of missing persons over ten years ago in a country, Albania, where local authorities have refused to cooperate and have had ample time to dispose of evidence.
As for the names of witnesses, Mr. Marty refuses to disclose them except to serious judicial authorities with a witness protection program.  This caution is absolutely necessary given the record of witness intimidation and even murder, notably in the case of Thaci’s rival in the KLA hierarchy, clan leader Ramush Haradinaj. Sir Geoffrey refers to this politely as “accusations of witness tampering”.
Geoffrey Nice concludes his review in the LRB by conceding that the allegations against Thaci need to be dealt with, simply because they make a bad impression. Mr. Nice compares Thaci to the West’s man in Montenegro, Milo Djukanovic, accused by Italian authorities of large-scale cigarette smuggling. “Montenegro, like Kosovo, can readily be trashed as a criminal state; and also like Kosovo, it seeks membership of the EU. Djukanovic has just announced that he will stand down and cease to hold political office. This, some say, is intended to ease Montenegro’s entry into organizations that are prepared to negotiate with the likes of Djukanovic or Thaci when their states are emerging from conflict but want afterwards to deal with someone less compromised. Thaci might well have to follow the same path as Djukanovic if the current rumors continue to circulate.”
Taking into account the habitual understatement employed by Geoffrey Nice concerning the wrongdoings of “our side”, this can be read as acknowledgement that both NATO protégés are crooks to some degree or other, who were useful in wresting their lands away from the Serbs, but now had best step back to make way for more presentable puppets. Being prosecuted for those wrongdoings, whatever they may be, is, however, out of the question.
Human rights campaigners in the self-righteous Western democracies are intransigent when it comes to ending what they call “the culture of impunity” so long as it involves, say, Africa. But their own impunity and that of their clients seems more secure than ever.

Diana Johnstoneis the author of Fools Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions. She can be reached at diana.josto@...


=== 2 ===

http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=02&dd=12&nav_id=72677

B92 - February 12, 2011

Marty: Everybody knew what Thaci did 

LJUBLJANA: The killing of witnesses, the fact that everybody knew what Hashim Thaci was doing and the destruction of evidence is a scandal, Dick Marty told the Slovenian daily Delo. 

“Everybody kept quiet. That’s the real scandal, not my report in which I only wrote what many have known for a long time,” the Council of Europe (CoE) rapporteur was quoted as saying.

He added that Thaci’s name had often been mentioned in police reports, diplomatic cables, criminal studies and foreign intelligence agencies’ reports. 

“That means that the West knew all along very well what was happening in Kosovo, but no one took any action,” the CoE rapporteur told the Slovenian daily. 

Commenting on first UNMIK Chief Bernard Kouchner’s reaction to a reporter’s question about the human organ trafficking, Marty said: “A man who laughs at such a horrific topic says a lot about himself”. 

Marty also spoke about his visit to The Hague, adding that he had been utterly surprised by the fact that evidence from the Yellow House had been labeled as irrelevant and then destroyed. He explained that the Hague Tribunal had said it was a normal procedure but according to him, this is not the way evidence is handled anywhere in the world. 

Speaking about EULEX, the CoE rapporteur said that there were several highly professional people there but that conditions they worked in were horrible and unacceptable. 

“There is no secrecy. All translators are local, there are many local staff. That is why even the most confidential information has been systematically leaking,” he said, adding that if he were a lawyer of a witness in Kosovo he would never advise them to testify before EULEX, “primarily because they cannot protect the witnesses”. 
....
“The only solution is a special investigative unit outside Kosovo, with special authority and with a very serious witness protection program. Europe is never going to accept that. Because it knows that my witnesses would really talk and reveal that a large part of the European politicians knew all along what was going on in Kosovo. Do you really think that Brussels wants to hear something like this?” the CoE rapporteur concluded.  

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http://english.ruvr.ru/2011/02/14/44351856.html

Voice of Russia - February 14, 2011

Kosovo a mafia state – EuroMP

Euro-Parliament member and head of the United Nations counternarcotics agency Pino Arlacchi describes Kosovo as a mafia state built around transnational organized crime and the import of Afghan-produced heroin.
Speaking in Moscow Monday, he criticized the international officials in Kosovo and the nations that extended recognition to it for turning a blind eye to the problem.

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http://english.ruvr.ru/2011/02/17/44782073.html

Voice of Russia - February 17, 2011 

Moscow insists on Kosovo trafficking probe

Russia has called for a thorough investigation into suspected human organ trafficking in Kosovo. 
Speaking on Thursday, the Kremlin’s Ambassador to the United Nations Vitaly Churkin said international mechanisms needed to be called upon to carry out the probe. 
His call followed Wednesday’s presentation of a report by prominent Swiss human rights activist Dick Marty at the UN Security Council, in which he proved that Kosovo militants had extracted organs from Serb prisoners and sold them to “black market” dealers.   

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http://www.dw-world.de/dw/article/0,,14846344,00.html

Deutsche Welle - February 17, 2011

Serbia wants UN inquiry into Kosovo leader's alleged organ trafficking 

Author: Holly Fox (AFP, Reuters)

Serbia says the United Nations should look into allegations that Kosovo's prime minister was part of an organ trafficking network during the Kosovo War in the late 1990s. 
Speaking at the United Nations on Wednesday, Serbian Foreign Minister Vuk Jeremic called on the international body to look into allegations that the Kosovo's Prime Minister Hashim Thaci was behind the trafficking in organs from ethnic Serbs in 1999 and 2000. A report by Dick Marty of the Council of Europe human rights watchdog made the original accusation that senior commanders of the former ethnic Albanian Kosovo Liberation Army, including Thaci, were the masterminds of and organ trafficking network.
Jeremic described Marty's report as "deeply disturbing" and said that the European Union mission EULEX currently looking into the issue was not enough because the allegations involved locations outside of Europe such as Asia and Africa.
"The solution lies in establishing an ad hoc investigating mechanism created by - and accountable to - the Security Council," he said.
US envoy Rosemary DiCarlo said the EULEX investigation was sufficient. "We do not believe that an ad hoc UN mechanism is necessary or appropriate," she said. Britain and Germany also denied the need for UN involvement, while Jeremic received support from long-time ally Russia.

Three years of independence

Thursday marks the third anniversary of Kosovo's unilateral declaration of independence from Serbia. Despite Belgrade's fierce opposition, it has been recognized by 75 countries, including the US and all but five EU members. Russia continues to oppose its independence.
Thaci was elected in December in Kosovo's first elections since declaring independence and has rejected the accusations against him.
A NATO bombing campaign drove Serb forces out of Kosovo in 1999....The UN passed administration duties on to EULEX in December 2008....

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http://www.aco.nato.int/page424203219.aspx

North Atlantic Treaty Organization
Allied Command Operations
February 17, 2011

KFOR's Final Firefighting Exercise for Kosovo Security Force 

On Wednesday the 16th of February 2011, General Enrico Spagnoli, Commanding General for the formation of the Kosovo Security Force (KSF) attended the KSF final fire fighting exercise at KFOR HQ fire fighting station. 
General Enrico Spagnoli from KFOR welcomed Brigadier General Imri Ilazi and Colonel Skender Hoxha from KSF.
This fire fighting basic training course started on 31st of January 2011 with 13 candidates from the Civilian Protection Regiment of KSF. During the graduation ceremony the fire fighting certificates were presented to all the successful KSF candidates.

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http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5i-Jgu3PRX8XIHQYDXZJU2p-vmJzQ?docId=CNG.68e525354daffd868eac000986513f10.191

Agence France-Press - February 17, 2011

US congratulates Kosovo on independence day

WASHINGTON: Secretary of State Hillary Clinton congratulated Kosovo Thursday on the third anniversary of its declaration of independence, saying the United States was committed to its future.
The United States "is committed to your future and we are honored to be your friends and your partners," Clinton said in the statement.
"You are charting a new future for your country and for the region."
She added that the anniversary "is a fitting occasion for Kosovo's elected leaders to reinforce their commitment to good governance and transparency -- both essential to fulfill Euro-Atlantic integration."
Clinton said that she had been "impressed with the promise of such a young country" during her visit to Kosovo in October, where she was met by cheering crowds waving US flags and carrying banners thanking Washington.
Clinton's husband, former US president Bill Clinton (1993-2001) ordered US forces to take part in the NATO bombing campaign that drove Serb troops out of Kosovo in 1999 and paved the way for the UN administration of the territory and finally the declaration of independence.
During the visit Hillary Clinton stopped at a bronze statue of her husband in downtown Pristina.
Kosovo unilaterally declared independence from Serbia in 2008....

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http://ap.stripes.com/dynamic/stories/E/EU_KOSOVO_ORGAN_HARVESTS?SITE=DCSAS&SECTION=HOME&TEMPLATE=DEFAULT

Associated Press - February 18, 2011

Kosovo rebels told UN of organ harvests 

By NEBI QENA 

PRISTINA, Kosovo: Ethnic Albanian rebels in Kosovo gave detailed testimony in 2003 on an alleged program to kill Serb captives, sell their organs, and bury hundreds of victims to hide evidence of civilian killings, according to a U.N. document obtained by The Associated Press.
The 30-page compilation of statements by at least eight people to U.N. investigators could provide momentum to claims that the world body failed to pay proper attention to war crimes by ethnic Albanian Kosovars in their 1990s war for independence.
U.N. authorities briefly investigated organ harvesting claims in 2004 but never launched a full-fledged probe, prompting Serb accusations of double standards in pursuing war crimes.
The document outlines an alleged scheme to take captives of the Kosovo Liberation Army rebels to Albania in the aftermath of the war so their kidneys, livers and other organs could be removed at a home that had been set up as a medical clinic.
U.N. officials were told the home was equipped with specialized equipment and medical personnel to carry out operations.
In a letter dated Dec. 12, 2003, Paul Coffey, the top justice official in Kosovo at the time, wrote to Jonathan Sutch, the official in charge of Yugoslav tribunal investigations in Kosovo, that the alleged crimes were reported to the U.N. in Kosovo by "multiple sources of unknown reliability."
Coffey said the information was "based on interviews with at least eight sources, the credibility of whom is untested, all ethnic Albanians from Kosovo or Montenegro who served in the Kosovo Liberation Army."
Details of the interviews were given more than seven years ago to the U.N.'s Netherlands-based tribunal that was then responsible for prosecuting war crimes in the former Yugoslavia; no one has been brought to trial.
The interviews were made available to the AP by an international official who asked not to be named because of the sensitivity of the case.
They appear to back allegations made by Council of Europe investigator Dick Marty, who said in a recent report on the case that Western governments ignored the accusations for fear of destabilizing Kosovo.
Marty's report in December named Kosovo's Prime Minister Hashim Thaci, the former head of the KLA, as the boss behind a network dealing in kidneys and other human organs as well as organized crime. Thaci has denied wrongdoing and has supported an international inquiry.
According to the documents, the sources told U.N. officials in 2003 that senior KLA officers and officials from the Albanian government were involved in the alleged crimes, which purportedly went on as late as the summer of 2000, almost a year after Kosovo came under U.N. and NATO control.
One source is quoted as telling investigators that the first two surgeries to harvest organs were done "to breach the market," and that traffickers later were able to make up to $45,000 per body.
"The largest shipment was when they did 5 Serbs together....He said they took a fortune that time," the source said according to the document. "Other shipments were usually from two or three Serbs."
The source told investigators that workers at the Rinas airport outside the Albanian capital of Tirana and at the airport in Istanbul, Turkey, where the organs were allegedly taken for sale, were bribed "to close their eyes."
The flight between the two cities takes about 1 hour 45 minutes; sources told the U.N. the house where the organs were allegedly harvested was a two-hour drive from the airport.
If packed in ice after removal, organs are viable for several hours after extraction - hearts and lungs for four-six hours, livers for 18-24 hours, kidneys for 24-48 hours.
Two sources claimed they took part in delivering body parts to Tirana's international airport, but "none of the sources witnessed the medical operations," U.N. officials noted in the document.
The organ trafficking claims, first made public in a 2008 book by former U.N. war crimes prosecutor Carla del Ponte, are resurfacing as Kosovo marks three years since declaring its sovereignty, with strong backing from the U.S. and most countries in the European Union.
Since then, Kosovo has met strong resistance from Serbia, which claims the territory as its spiritual homeland and seeks to undermine statehood. The alleged trade in kidneys of killed captives has given Serbia ammunition in its fight to counter Kosovo and its Western backers.
Serbian Foreign Minister Vuk Jeremic on Wednesday called on the U.N. Security Council to authorize an international investigation into the allegations and to deal with claims that some countries "would love to sweep this thing under the carpet."
The head of the U.N. mission in Kosovo, Lamberto Zannier, told the AP that the 2,000-strong EU mission - known as EULEX - now in charge of dealing with war crimes in Kosovo was given every war crimes file that the Yugoslavia tribunal and the U.N. possessed, including witness statements.
Both the U.N. and the EU have prosecuted war crimes committed in Kosovo by both Serbs and ethnic Albanians, but the interviews are the first recorded reference on alleged organ trading to emerge.
"I can confirm that we gave the material we had to EULEX....This was early in 2009" Zannier said by phone from New York, where he was reporting to the U.N. Security Council.
EULEX says it has launched a preliminary investigation into Marty's allegations, but would not immediately comment on the 2003 report. It was not immediately clear if it was following up on any of the information given by the eight sources to the U.N.
So far, both the U.N. and EULEX have maintained that their investigations into the alleged organ harvesting have failed to yield any evidence.
The statements taken by the U.N. give specific details of locations in Albania where the KLA allegedly kept detainees and buried victims, some of them also ethnic Albanians accused of collaborating with Serbs.
The sources, described as "low to midlevel ranking KLA members," said the Serbs were driven by trucks and vans to Albania where they were held in detention centers and some went through medical checks.
The trail was partly followed up in February 2004, when a team of U.N. and tribunal investigators visited a house in the village of Rripe where the sources said the organ harvesting took place.
The investigators, accompanied by a local Albanian prosecutor, recovered syringes; empty containers of Tranxene, a muscle relaxant; chloraphenical, an antibiotic; and a piece of gauze similar to material used for surgical scrubs.
Chemical agents sprayed on the floors and walls of the house revealed two sizable splatters of blood - one in the kitchen, another in a storage room. But forensics tests were never conducted on the stains, and U.N. officials at the time said they could not explain why not.
According to the sources in the U.N. document, most of the alleged Serb victims ranged in age from 25 to 50.
One source said he was instructed by KLA superiors not to beat the prisoners. He became suspicious when they were to deliver "a briefcase or a file with papers that would be given to the doctor when the captives were delivered" to the house in northern Albania.
"I thought about how this was the only house where I brought people, but never picked anyone up," one source testified. "It was around this time that I heard other guys talking about organs, kidneys, and trips from the house to the airport."
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Associated Press Medical Writer Maria Cheng contributed from London.


=== 3 ===

http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=02&dd=15&nav_id=72731

B92 - February 15, 2011

Thaci to make Pacolli president 

PRIŠTINA: Hashim Thaci's Democratic Party of Kosovo has decided to offer the post of president of Kosovo to Behgjet Pacolli. 
Pacolli is the leader of the New Kosovo Alliance.
This should allow a new government to be formed in Priština, in the wake of the December elections. 
According to this proposal, Thaci will be prime minister once again, while his party will also name the president of the assembly in Priština. 
The two Kosovo Albanian parties will in the coming days consider how to distribute portfolios, according to announcements. 
....
The assembly is expected to meet for its first session on February 24.  

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http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=02&dd=16&nav_id=72757

Beta News Agency - February 16, 2011

Russian media on Pacolli 

MOSCOW: Moscow media are reporting that Kosovo presidential candidate Behgjet Pacolli is known in Russia for a Kremlin reconstruction scandal. 
Moscow-based daily Kommersant writes that Pacolli was at the center of corruption affairs close to former Russian President Boris Yeltsin. 
The media write that the New Kosovo Alliance (AKR) leader was in Russia in the early 1990s when his Switzerland-based company Mabetex Group was carrying out projects in Yakutia. 
He allegedly met Yakutsk Mayor Pavel Borodin who became head of the Presidential Property Management Department in 1993. 
Pacolli’s firm was soon hired to reconstruct the Kremlin, Shuyskaya Chupa presidential residence, government headquarters, headquarters of the State Duma and the Federation Council and many more projects, the media write. 
Moscow-based daily Moscow Komsomolets reports that “scandalous Behgjet Pacolli, a Kremlin restorer, will head Kosovo”, while RBC TV states that Pacolli was hired to do a reconstruction of the Russian state buildings thanks to his friendship with Borodin. 
Kommersant writes that Pacolli became a central figure of the corruption scandal close to Yeltsin and that several officials were suspected of accepting bribes in exchange for the Kremlin reconstruction job. 
Mabetex offices in Lugano were searched in January of 1999 at Russia’s request and Pacolli was questioned by then Swiss State Prosecutor Carla Del Ponte. 
According to the daily, the Swiss authorities charged him with money laundering and giving bribes worth USD 4mn in June 2000. The proceedings in Russia were in dismissed in December 2000 and Switzerland closed the case in March 2002. 
Kommersant also writes that a personal conflict in the meantime grew between Pacolli and then Russian State Prosecutor Yuri Skuratov, who launched the investigation against Mabetex and was subsequently relieved of his duties. 
The daily added that if Pacolli became the president of Kosovo, he would enter "high politics" and therefore achieve his goal. The report says that he has been actively lobbying for Kosovo’s independence since 2005 and that it would be "much easier for him to continue lobbying if he became president". 
Voice of Russia Radio has assessed that Pacolli is “simply an angel” compared to Kosovo Albanian Prime Minister Hashim Thaci. 
“Such a president can talk to Brussels, to Washington, to Belgrade and even to unobliging Moscow if he is lucky,” the radio reported. 
Russian Academy of Science Center for Study of Current Balkan Crisis’ Anna Filimonova told the radio, however, that Pacolli had also lobbied for the Nabucco gas pipeline and Iran-Turkey-Greece-Albania-Kosovo pipeline. 
According to her, this is fundamentally contrary to the Russian interests in the Balkans, especially regarding the construction of the rival South Stream gas pipeline.  




(italiano / srpskohrvatski)

Jedini jezik / Un'unica lingua

1) Un documento del Dipartimento dello Stato USA deplora che le lingue bosniaca, croata e serba siano considerate come lingue diverse
Američke diplomate o srpsko-hrvatskom jeziku / Hrvatski jezik je službeni u EU. Dokument američkog Stejt departmenta nije uznemirio Hrvate / Sprovođenje, provodba, implementacija

2) Snježana KordićJezik i nacionalizam (Zagreb: DURIEUX d.o.o., 2010) / Govori kao što govoriš

3) "Hrvati, Srbi, Bosanci i Crnogorci govore jedan te isti jezik"

4) Povodom knjige „Srpski jezik u normativnom ogledalu” (2006)

Sulla stessa tematica vedi anche la documentazione raccolta alla nostra pagina: https://www.cnj.it/CULTURA/jezik.htm


=== 1 ===

Da un documento interno di un ispettorato per le risorse umane del Dipartimento dello Stato USA trapela preoccupazione per il fatto che, nell'area linguistica serbo-croata, le lingue bosniaca, croata e serba siano considerate come lingue diverse. Nel documento, intitolato "La problematica linguistica nei Balcani" e prodotto dopo la visita degli ispettori, si afferma che le lingue parlate in questi Stati, da punto di vista linguistico, sono fondamentalmente identiche, con l'unico segno distintivo dell'utilizzo dell'alfabeto cirillico per il serbo. Si tratta di "dialetti di un'unica lingua", sta scritto nel documento, che suggerisce ed auspica che questo fatto sia accettato ai fini del risparmio nell'addestramento dei funzionari. Osservando che le piccole varianti linguistiche potrebbero essere apprese con un breve addestramento alla conversazione, nel documento si suggerisce che "è inutile che una persona già addestrata per la lingua croata, con il suo trasferimento lavorativo a Sarajevo, debba frequentare un intero corso per il bosniaco come se questa fosse un'altra lingua".
Secondo il documento, "ai fini di valutare la necessità di spesa per lo studio linguistico, il bosniaco, il croato, il serbo-croato e il serbo si dovrebbero trattare come un'unica lingua". Si menziona inoltre il fatto che negli ormai ben rodati programmi di lingue slave nelle università statunitensi, incluse Harvard e la UCLA, questi dialetti sono considerati nel novero di un'unica lingua.

Nell'articolo che di seguito riproduciamo, pubblicato dal quotidiano belgradese Politika, esperti linguisti delle repubbliche jugoslave, oltre ad esprimere soddisfazione per questa notizia, rilevano alcuni fatti politici, economici ed editoriali. Si presume che queste pressioni potrebbero avere il fine politico di orientare le repubbliche ex-federate a mantenere una maggiore collaborazione reciproca. Un'altra ragione sarebbe di carattere commerciale e consisterebbe nel fatto che molte imprese straniere, attive nell'ambito dell'editoria e dei media, diventate proprietarie di media locali desiderano adesso allargare i bacini di vendita...

(a cura di DK e AM)

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Američke diplomate o srpsko-hrvatskom jeziku


Sa gledišta parlamenta SAD, reč je prvenstveno o uštedi novca jer oni ne žele da plaćaju četiri prevodioca, smatra profesor Ljubiša Rajić




Američka administracija izrazila je zabrinutost zbog prakse da se bošnjački, hrvatski, i srpski tretiraju kao različiti jezici. Glavni inspektorat američkog državnog sekretara je nedavno poslao interni dokument Odseku za ljudske resurse i Institutu za službu spoljnih poslova pod naslovom „Balkanska jezička problematika”, gde se posle posete američkih ambasada u Srbiji, Hrvatskoj, Crnoj Gori, BiH, došlo do zaključka da su jezici koji se govore u tim zemljama bazično lingvistički isti.

Reč je o „dijalektima jednog jezika”, navedeno je u dokumentu u kome inspektori sugerišu da bi bilo dobro kada bi takav stav bio prihvaćen jer bi to doprinelo uštedi na obuci službenika, prenosi Tanjug.

Podsetimo, kada je hrvatski lingvista Snježana Kordić u knjizi „Jezik i nacionalizam”, koja je objavljena prošle godine, napisala da svi narodi u regionu – Hrvati, Srbi, Crnogorci o Bošnjaci govore istim jezikom, i da je pravo na jezik na prostoru bivših jugoslovenskih republika postalo opravdanje za ekstremni nacionalizam, njena knjiga je izazvala burne reakcije i negodovanje među hrvatskim intelektualcima.

„U lingvistici je definisano da se radi o istom jeziku ako je najmanje 81 odsto osnovnog rečničkog blaga zajedničko, a Hrvati, Srbi, Bošnjaci i Crnogorci kad govore standardnim jezikom imaju 100 odsto zajedničko osnovno rečničko blago”, navodi Snježana Kordić.

Američke diplomate su utvrdile da „uprkos novim imenima, ove regionalne varijante ostaju lingvistički bazično iste s neznatnim varijacijama, uključujući korišćenje ćirilice u srpskom”. Primećujući da je reč o varijacijama koje se mogu prebroditi kratkotrajnom vežbom konverzacije, sugerisan je zaključak da je „nepotrebno da službenik koje je već obučen za, na primer, hrvatski jezik, ako iz Zagreba ode u Sarajevo, mora da prođe ceo kurs bošnjačkog kao da je reč o novom jeziku”.

Prema tom dokumentu, „bošnjački, hrvatski, srpsko-hrvatski i srpski jezik trebalo bi tretirati kao jedinstven jezik u cilju utvrđivanja podobnosti za plaćanje podsticanja za učenje jezika”.

Zaključeno je, naime, i da svi američki univerziteti sa dobro uhodanim programima slovenskih jezika, uključujući Harvard i UKLA, pomenute dijalekte tretiraju kao jedan jezik.

Upitan za komentar, profesor Filološkog fakulteta u Beogradu Ljubiša Rajić smatra da je, lingvistički gledano, ovde reč o jednom jeziku, koji se pravno definiše na četiri različita jezika.

– Nema potrebe za njihovim prevođenjem jer se samo minimalan broj reči razlikuje: arhaizmi koji se ne koriste, kao i dva dodatna slova u crnogorskom jeziku, koje koristi deo političke i intelektualne elite, ali ne i narod. Sa gledišta američkog parlamenta, reč je prvenstveno o uštedi novca jer oni ne žele da plaćaju četiri prevodioca. Kad je reč o Evropskoj uniji, pored 23 jezika, ne treba im još četiri. Verovatno se tom logikom vodi i američko Ministarstvo spoljnih poslova – kaže profesor Rajić.

On pretpostavlja da ovde postoji i politički cilj kako bi se bivše jugoslovenske republike, preko zajedničkog jezika, „pogurale” ka međusobnoj saradnji.

– Još jedan razlog, komercijalne prirode, vidim i u tome što su stranci postali vlasnici medija i žele veće tržište. Ako bi se knjige, novine i časopisi prodavali na većem tržištu, dobija se nekoliko miliona potencijalnih čitalaca više – kaže Rajić.


M. Sretenović


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Hrvatski jezik je službeni u EU

Dokument američkog Stejt departmenta nije uznemirio Hrvate


Od našeg stalnog dopisnika


Zagreb – Tvrdnje da su hrvatski i srpski jezik u stvari jedan jezik u Hrvatskoj se od njenog osamostaljenja dočekuju s osetljivošću. Ovaj put, kada je u javnost „procurio” dokument iz američkog Stejt departmenta u kojem njegov funkcioner Harold Gejsel pre dve godine izražava zabrinutost što se hrvatski, srpski i bošnjački tretiraju kao tri jezika, a u stvari su „dijalekti jednog jezika”, takvog uzbuđenja u Hrvatskoj nije bilo, ili barem ne još.

Ovu temu, naime, domaća javnost i struka već su imali nedavno, kada se digla poprilična prašina pošto je objavljeno strahovanje da će Evropska unija „radi štednje” na sličan način kako se to sada čita u spomenutom američkom dokumentu rešiti upotrebu hrvatskog jezika u njenim organima i službama. Čak je bilo predloga u Briselu da će se u službenoj upotrebi u EU „ponovo uvesti” termin hrvatskosrpski (i obrnuto), ali se na kraju sve završilo povoljno za hrvatska očekivanja i jezična euforija je splasnula.

Krajem oktobra protekle godine doneta je odluka da će hrvatski biti jedan od službenih jezika EU, čime je potvrđen princip da jezik svake zemlje koja se priključuje Uniji postaje i jedan od njenih službenih jezika. Verovatno i zato ova upravo otkrivena razmišljanja Amerikanaca na tu temu u Hrvatskoj nisu izazvala dosadašnja uzbuđenja.

I pored čvrste i službene opredeljenosti da se tu radi o dva različita jezika, u Hrvatskoj ima i istaknutih intelektualaca i lingvista koji smatraju da se ipak radi o jednom jeziku. Poznate su u tom smislu, na primer, izjave pisaca Igora Mandića i Pere Kvesića, a kao bomba odjeknula je prošle godine knjiga „Jezik i nacionalizam” lingviste Snježane Kordić koja godinama predaje na nemačkim univerzitetima.

Zanimljivo je da je oštri protivnik njenog dokazivanja da se tu zaista radi o jednom jeziku s različitim oblicima upravo njena profesorka koja joj je na Filozofskom fakultetu u Osijeku predavala hrvatsku književnost, Sanda Ham, inače autor Školske gramatike hrvatskog jezika i koautor Hrvatskog školskog pravopisa s profesorima Babićem i Mogušem. Ona je duboko uverena, kao i većina hrvatskih lingvista, da su hrvatski i srpski dva različita jezika, a tezu svoje učenice Kordić ocenjuje kao „romantičarsku i nenaučnu”.


Radoje Arsenić


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Sprovođenje, provodba, implementacija


Od našeg stalnog dopisnika

Sarajevo – Bez obzira kako ga imenujemo to je lingvistički jedan jezik, kaže Senahid Halilović, profesor Filozofskog fakulteta u Sarajevu i autor pravopisa bosanskog jezika, kao i koautor gramatike i rečnika bosanskog jezika.

„Umesto jednog standardnog, danas postoje četiri zaokružena standardna jezika”, objašnjava Halilović i ponavlja da se radi o jezicima (srpski, hrvatski, bosanski i crnogorski) koji su iznikli na temelju jednog jugoslovenskog jezika, na istoj dijalekatskoj podlozi.

„Lingvistički gledano jedan jezik, sociolingvistički gledano imamo četiri standardna jugoslovenska jezika, potpuno ravnopravna”, precizira on i napominje da nam, uprkos određenim „pregonjenjima”, prevodilac ne treba. Bosna i Hercegovina će, sugeriše Halilović, kada postane članica EU „na trpezu jezika, pored srpskog i hrvatskog, prineti još i bosanski jezik”, tako da će ona imati „tri službena jezika”.

Hanka Vajzović, redovni profesor Fakulteta političkih nauka u Sarajevu, takođe, smatra da je reč o jednom jeziku.

„Svakako da je reč o jednom jeziku ako ga merimo stepenom istovetnosti, odnosno razlika, ili mogućnostima sporazumevanja”, objašnjava ona i dodaje da je pitanje procesa standardizacije nešto drugo. Na pitanje treba li nam prevodilac, Vajzovićeva odgovara da je, u najmanju ruku, „glupo” da se prevodimo, jer i nije, kaže, „reč o prevođenju”, nego „o adaptaciji” koja se, praktično, svodi „na komične situacije”. Navodi primer službenih glasnika u kojima je na hrvatskom „provodba zakona”, na srpskom „sprovođenje”, a na bošnjačkom „ona fina, iskonska, domaća, autentična reč – implementacija”.

„Važno je da nađemo razliku i to je odavno naš problem” – ocenjuje Vajzovićeva i napominje da se radi o „zasebnim procesima standardizacije” koja je po njenom mišljenju „vrlo tendenciozno urađena” i da se „jezičke razlike izmišljaju na sve tri strane, jer važno je da se udaljimo”.

Kad su u pitanju jezici naroda u BiH, naša sagovornica ističe da prevođenje dolazi u obzir samo ukoliko se radi o engleskom jeziku, na primer. „Kad se nešto prevede sa engleskog onda definitivno nema reči o prevođenju, nego samo o adaptaciji teksta, usklađivanju sa onim što je pretežno u bogatstvu sinonimije koja je po svojoj prirodi relativna”.


Duška Stanišić

objavljeno: 16.02.2011.



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Kordić Snježana

Jezik i nacionalizam

Zagreb: DURIEUX d.o.o., 2010
ISBN 978-953-188-311-5
Format: 13x21, tvrdi uvez - Cijena: 200 kn / 28 Eur

Ovo je u domaćoj sredini prva knjiga koja na osnovi uvida u obimnu inozemnu literaturu rasvjetljava odnos između jezika i nacije. Čitatelju se u njoj nude spoznaje o tome kako se prave nacije, kako se instrumentalizira jezik za nacionalističke ciljeve, kako se falsificira prošlost i izgrađuju mitovi koji podupiru ideološki poželjnu sliku stvarnosti. U knjizi se identitet razotkriva kao konstrukcija, a kultura kao nepodudarna s nacijom. Pokazuje se da jezik kojim govorimo ima šire granice nego što mu uobičajeno ucrtavaju, a predočava se i prava priroda jezičnog purizma.
S obzirom na ovdašnja proširena shvaćanja, mnogima bi se sadržaj knjige mogao učiniti revolucionarnim. Ali on to nije, nego se prije radi o izoliranosti domaće sredine od dosega znanosti u svijetu. Cilj ove knjige i jest da se ta izoliranost prevlada i da se nadoknade postojeći deficiti u znanju. (http://www.durieux.hr/pregled.asp?id=776)

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Snježana Kordić: govori kao što govoriš

Domaći jezikoslovci uvjeravaju ljude da država i nacija ne može postojati ako nema zaseban jezik sa zasebnim imenom. Kad bi bilo tako, ne bi postojala čak ni američka država i nacija, ne bi postojala švicarska nacija i država, ni kanadska, argentinska... Ako je najmanje 81 posto osnovnog rječničkog blaga zajedničko, radi se o istom jeziku.
15 august 2010


Snježana Kordić, lingvistica iz Osijeka, u svojoj knjizi Jezik i nacionalizam [1] piše o tome da se u BiH, Hrvatskoj, Srbiji i Crnoj Gori govori istim jezikom. Naime, Kordić je u intervjuu zaSlobodnu Bosnu kazala da se spomenuti narodi međusobno razumiju i da govore jednim jezikom. Lingvistica napominje kako je u lingvistici definirano da se radi o istom jeziku ako je najmanje 81 posto osnovnog rječničkog blaga zajedničko. "A Hrvati, Srbi, Bošnjaci i Crnogorci, kad govore standardnim jezikom, imaju 100 posto zajedničko osnovno rječničko blago", kazala je Kordić.

Prije nekoliko godina Kordić je bila optužena da "potkopava temelje hrvatske države" zbog svojih radova i stajališta o jeziku. Ona kaže da je do toga došlo jer "domaći jezikoslovci uvjeravaju ljude da država i nacija ne može postojati ako nema zaseban jezik sa zasebnim imenom". "To je, naravno, besmislica jer inače ne bi postojala čak ni američka država i nacija, ne bi postojala švicarska nacija i država, ni kanadska, argentinska...", smatra Kordić.

lingvistički dokazi o postojanju zajedničkog jezika ne ugrožavaju postojanje zasebne države

"Čovjek stvarno mora biti potpuno neuk, da ne kažem slijep, pa da misli da lingvistički dokazi o postojanju zajedničkog standardnog jezika ugrožavaju postojanje Hrvatske, Bosne i Hercegovine, Srbije i Crne Gore kao četiri zasebne države, ili da ugrožavaju postojanje četiriju nacija", smatra Kordić.

Kordić u svojoj knjizi navodi kako se radi o standardnom jeziku koji je policentričan, odnosno da nekoliko nacija govori istim jezikom pa on ima nekoliko centara. "Sve četiri varijante su ravnopravne, nije jedna od njih nekakav ‘pravi’ jezik, a druga ‘varijacija’ tog jezika. Policentrični su svi svjetski jezici, a i brojni drugi. Razlike između njihovih varijanti su često veće nego u našem slučaju", smatra.

jezična netolerancija je politički prihvatljiva maska za netoleranciju prema drugoj naciji

Lingvistica naglašava da pojedinci koji razdraženo reagiraju na neke riječi koje prepoznaju kao znak druge nacije izražavaju jezičnu netoleranciju. Ona se slaže s tim da je jezična netolerancija često politički prihvatljiva maska za netoleranciju prema drugoj naciji. "Ta maska se koristi jer je u današnjim društvima politički prihvatljivije govoriti o jezičnoj čistoći nego govoriti direktno o neprijateljstvu prema drugoj naciji", kazala je.

"Tipično je da mislimo kako nacionalizam postoji uvijek samo kod drugih, a naš nacionalizam predočavamo kao ’patriotizam’, koristan i neophodan", kazala je Kordić.

Kordić smatra da su naši lektori postali cenzuristi. "Ono što čine domaći lektori, to nije posao lektora, nego cenzora. Ni u kojem slučaju lektori u inozemstvu ne vrše odstrel riječi navedenih na nekakvim listama nepodobnosti, a upravo to čine domaći lektori", smatra Kordić.

index.hr



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18.01.2011

"Hrvati, Srbi, Bosanci i Crnogorci govore jedan te isti jezik"


Njemačke novine „Frankfurter Rundschau“ se u svom online izdanju od utorka, 18. januara, osvrću na jezike koji su nastali u zemljama stvorenim nakon raspada bivše Jugoslavije.


Pod naslovom „Nema popusta za budale“, list prenosi mišljenje hrvatske lingvistkinje Snježane Kordić koja bespoštedno i pedantno pokazuje  – kako piše magazin - ono što su zapravo uvijek svi znali: naime, Hrvati, Srbi, Bosanci i Crnogorci govore jednim te istim jezik.

„U Hrvatskoj se nakon raspada bivše Jugoslavije govori hrvatski, a u Srbiji srpski. Može li jedan jezik jednostavno nestati kao što to mogu neka država ili nacija? Ako je odgovor pozitivan, šta to znači? Da li odjednom svi govore različitim jezicima i više se međusobno ne razumiju, kao nakon propale gradnje Babilonskog tornja? Hrvatska lingvistkinja Snježana Kordić pronašla je sada u jednoj knjizi jednostavan odgovor: Ne. I od tada se svađa cijela zemlja.

U Hrvatskoj se govori hrvatski, a u Srbiji srpski – dakle, opšta formula nakon raspada bivše Jugoslavije je glasila: sve lijepo razdvojiti. Jezički čistunci, koji su 20 godina narodu u novi hrvatski jezik ubacivali nove riječi, energično su reagirali. Knjiga je „smeće“, rekao je romanopisac Hrvoje Hitrec, predsjedavajući konzervativnog Hrvatskog kulturnog vijeća i to u najgledanijem terminu na televiziji.“

Liberalni listovi su sa zadovoljstvom iznosili sve apsurdnosti


„Frankfurter Rundschau“ navodi da je najtiražniji dnevni „Večernji list“ u Hrvatskoj s tim u vezi dopustio Sandri Ham, koautorici Hrvatskog školskog pravopisa, da na više od dvije stranice polemizira o toj – kako je u Hrvatskoj nazivaju - odmetnici. 


List piše: „Nacionalisti su se našli u defanzivi. Hrabri izdavač Snježane Kordić, Nenad Popović se nije dao zbuniti. Vodeći hrvatski intelektualci kao što su dramatičar Slobodan Šnajder, pisac Miljenko Jergović i satiričar Boris Dežulović nagradili su do danas manje poznatu naučnicu aplauzom. Liberalna štampa je sa zadovoljstvom listala sve apsurdnosti koje su nastale iz teze da su hrvatski, srpski, bosanski i crnogorski različiti jezici. Tako da je svaki Hrvat na svijet morao doći kao poliglota, jer je automatski vladao sa tri druga jezika. Jedan list je uočio da od 70 hrvatskih ambasadora u svijetu, samo jedan od njih na svojoj webstranici navodi da, pored engleskog ili francuskog, također govori i srpski. Za sve ostale to je nešto što se, čini se, podrazumjeva.“      

Doprinos lingvistike u odbrani nacionalnih interesa je bio dobrodošao

List podsjeća da je lingvistkinja Snježana Kordić diplomirala u Zagrebu te da je karijeru nastavila u Njemačkoj.

„Frankfurter Rundschau“ piše: „Ona jasno i nepodmitljivo iznosi argumente da srpsko-hrvatski jezik i dalje postoji – neovisno od nacionalnih političara – i to kao „policentrični jezici“, kao što su njemački, engleski i francuski. Ono što njenu knjigu čini skandaloznom je to što bivšim protivnicima u ratu u njihovom boju za jezik ne daje nikakav popust na budalaštinu. Suparničke strane se, naime, nisu morale truditi 20 godina oko svojih argumenata: u strankama, izdavaštvima i redakcijama doprinos lingvistike u ideološkoj odbrani nacionalnih interesa je samo bio dobrodošao“, piše, pored ostalog. njemački list „Frankfurter Rundschau“.

Priredio: Senad Tanović

Odg. ured.: Mehmed Smajić


www.dw-world.de | © Deutsche Welle.





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http://www.politika.co.yu/detaljno.php?nid=11699&lang=2

Rasparčavanje srpskog jezika

Lojalnost Dejtonskom sporazumu 

Povodom knjige „Srpski jezik u normativnom ogledalu”, koju su priredili Branislav Brborić, Jovan Vuksanović i Radojko Gačević, a objavila „Beogradska knjiga” (2006)


Da u Srbiji postoji centar za rasparčavanje srpskog jezika i da on, pod nazivom Odbor za standardizaciju srpskog jezika, deluje u Srpskoj akademiji nauka i umetnosti, to se vidi u knjizi Srpski jezik u normativnom ogledalu, koju su priredili Branislav Brborić, Jovan Vuksanović i Radojko Gačević, a objavila Beogradska knjiga (2006).

Podnaslov ove publikacije glasi: 50 odluka Odbora za standardizaciju srpskog jezika. Među odlukama ima i onih koje su korisne, kao i onih koje su irelevantne. U nekoj normalnoj istorijskoj situaciji, bavljenje jezičkim sitnicama, nedoumicama i finesama stvarno ima smisla. Ali, prve dve odluke ne tiču se sitnica i, za razliku od ostalih, od strateškog su značaja. One su pogubne jer poriču identitet i integritet srpskog jezika. Prvom odlukom legalizuje se novoproglašeni bošnjački jezik, uz već „priznati” – „hrvatski” jezik. Drugom odlukom ispoljen je negativni odnos prema srpskoj filološkoj tradiciji. Ove dve ključne odluke su u međusobnoj saglasnosti. Obe vode ka rasparčavanju srpskog jezika, a posledično, i ka rasparčavanju srpskog naroda.


Bosanski ili bošnjački


U prvoj odluci, koja je prihvaćena 13. februara 1998. pod naslovom Bošnjački ili bosanski jezik; sat ili čas; jevrejski, hebrejski (jezik) ili ivrit, indirektno je izvršeno priznavanje bošnjačkog jezika. Pošlo se od toga kao da takav jezik zaista postoji i samo mu treba odrediti pravo ime. Odbor za standardizaciju video je svoj zadatak samo u tome da odgovori na pitanje da li ga treba zvati bosanski ili bošnjački. Tako je jedno od kapitalnih pitanja za srpsku lingvistiku, koje se tiče identiteta i integriteta srpskoga jezika, dobilo isti tretman kao i pitanje da li treba pisati sat ili čas. Učinjeno je to u ime novoustanovljenog principa da je jezički standard isto što i nacionalni jezik.

Po ovom principu, koji važi samo za srpski jezik, implicitno je rečeno: koliko jezičkih standarda, toliko jezika. Čim bude utvrđen crnogorski jezički standard, i on će od ovog Odbora, iz istih kvaziprincipijelnih razloga, biti proglašen za poseban jezik.

Poznato je da i engleski jezik ima više standarda; da se britanski engleski razlikuje od američkog engleskog, kao i od australijskog engleskog. Ali u svim slučajevima to je uvek engleski jezik. Iskazujući slepu lojalnost Dejtonskom sporazumu, koji se i nije bavio pitanjima jezika, ali je bio potpisan, tobože, na četiri jezika: srpskom, hrvatskom, bošnjačkom i engleskom, srpski lingvisti se nisu potrudili da pokažu da je taj Sporazum pisan na samo dva jezika: na engleskom (u američkom jezičkom standardu) i na srpskom (u srpskoj, hrvatskoj i bošnjačkoj verziji). Izraz bošnjački jezik do Dejtona postojao je samo tri ratne godine, a onda je taj izraz stekao isti status sa izrazom srpski  jezik. I to tako što su ga srpski lingvisti eksplicitno podržali. Izraz hrvatski jezik s pravom se odnosi na čakavsko ili kajkavsko narečje; ali tim narečjima nije pisan Dejtonski sporazum. Pisan je u hrvatskoj standardnojezičkoj verziji srpskog jezika.

Dejtonski dokument nisu pisali lingvisti već političari. Ali prvu odluku Odbora za standardizaciju srpskog jezika pisali su oficijelno reprezentativni srpski lingvisti. I oni su standardnojezički izraz Hrvata i Muslimana stavili u isti rang sa srpskim narodnim i književnim jezikom.

Ako je jezik kojim nam se preko televizije obraća Rasim Ljajić bošnjački, a jezik kojim govori Ivana Dulić Marković – hrvatski, koji je onda srpski jezik? Jesu li Vuk i Šantić pisali bošnjačkim ili srpskim jezikom? Reprezentativni srpski lingvisti kao da nisu svesni šta ovakvim svojim odlukama priređuju svom jeziku i svom narodu. Posledice ovakve jezičke politike stvaraju haos. Na severu Bačke, na primer, mereno normalnim lingvističkim kriterijima, govore se dva jezika: srpski i mađarski. Ali naopakim lingvističkim odlukama daje se za pravo proizvoljnim političkim stavovima koji kažu da se tamo govori: mađarskim, srpskim, hrvatskim, bunjevačkim, crnogorskim, jugoslovenskim jezikom, a možda i nekako drugačije. Ne verujem da bi iko ozbiljan u naučnom svetu postupio ovako kao Odbor za standardizaciju srpskog jezika u svojoj pomenutoj odluci.

Zašto srpski lingvisti tako rade? Zato što tako radi idejni centar za rasparčavanje srpskog jezika u Zagrebu koji je srpskim lingvistima doturio ideju o standardizaciji kao vrhovnom jezičkom zakonu. Dovoljno je pogledati Novu deklaraciju Hrvatske akademije nauka i umjetnosti (od 23. veljače 2005), pa videti da su u njoj svi ovi jezici (tj. „hrvatski”, „bošnjački”, „crnogorski” i srpski) tretirani kao standardno posebni, a genetski „bliski” jezici. U ovoj Deklaraciji se samo ne pominje bunjevački, koji je već pominjan od nekih članova Odbora za standardizaciju srpskog jezika. Niko nije upitao: a gde su se izgubili jezici: slavonski, slovinski ili dalmatinski ili dubrovački? Na ideji o standardizaciji, kao osnovi za razlikovanje nacionalnih jezika, srpski lingvisti su odradili zadatak koji su dobili iz Zagreba. Zar onda nije tačno da SANU, u ovom jezičkom domenu, i dalje deluje kao puki ogranak HAZU?


Štosmajerovske ideje


Druga odluka Odbora za standardizaciju zove se U odbranu dostojanstva srpske jezičke nauke. Ona je doneta 11. avgusta 1998. To je polemički tekst kojim se reagovalo na pojavu dokumenta Slovo o srpskom jeziku, potpisanog imenima 14 srpskih filologa i književnika među kojima je i moje ime. Glavna ideja pokreta za obnovu srbistike i Slova o srpskom jeziku, jeste: da Srbi treba da se okanu štrosmajerovske (hrvatske) ideje jugoslovenstva i da se okanu jagićevske ideje serbokroatistike; da se vrate svojim slavističkim i srbističkim korenima, a pre svega stavovima glavnog reprezentanta srbistike Vuka Stefanovića Karadžića. Po ovoj filološkoj orijentaciji Srbi su objektivno, kao i drugi evropski narodi, određeni svojim jezikom i, kao i drugi evropski narodi, i Srbi su višekonfesionalan narod.

Na osnovu tih stavova, srpski jezik i srpski narod ne mogu se proizvoljno rasparčavati, kao što se po konfesionalnoj i regionalnoj osnovi ne rasparčavaju ni drugi evropski jezici i narodi.

Odbor za standardizaciju srpskog jezika je svojom prvom odlukom  priznavao jezike koje srbistika ne bi mogla priznati kao posebne jezike. Svojom drugom odlukom, ovaj Odbor se pokazao revnosnim u zatiranju srpske filološke tradicije. Odbor je javnosti jasno poručio: Treba odbaciti slavističku i srpsku filološku tradiciju (srbistiku) iz prve polovine 19. veka, koju simbolizuje Vuk Karadžić. Dakle, treba odbaciti onakvu tradiciju kakvu u svojim nacionalnim filologijama, postojano čuvaju svi slovenski narodi. Nijedna od tih nacionalnih filologija nije dovela do toga da se njihovi nacionalni jezici rasparčaju na četiri i više jezika.

Otuda nijedan slovenski narod i nije doživeo sudbinu Srba u 20 veku: da se delovi istojezičnog naroda okrenu jedni protiv drugih. Po drugoj odluci ovog Akademijinog Odbora, ispada da se treba držati tradicije tvorca serbokroatistike Vatroslava Jagića iz druge polovine 19. veka koja je srpskom jeziku nametnula dvonacionalno ime. Ova tradicija je, takoreći do juče, govorila: da hrvatska narečja (čakavski i kajkavski) sa srpskim narečjem (štokavskim) čine jedan narodni jezik. Pa je zatim govorila da su četiri naroda: Srbi, Hrvati, Crnogorci i Muslimani stvorili isti narodni i književni jezik štokavski. Pa je, najzad, smislila da ta četiri naroda, od kojih su dva stvorena u Titovo vreme, imaju četiri posebna nacionalna jezika koji su svi štokavski.

Delujući  „u ime dostojanstva srpske jezičke nauke”, Odbor je podržao rasparčavanje srpskog jezika. Njegov je glavni rezultat: da su se od nekada jednog srpskog jezika napravila bar četiri. Učinio je tačno ono što mu je projektovano u HAZU. Izraz srpski jezik, po njima, sada označava samo parče stvarnoga srpskog jezika: ono koje se dobija kada se od njega oduzmu „hrvatski”, „bošnjački” i „crnogorski”.

Neka đavolska pamet je smislila da se rad ovog Odbora legitimitzuje tako što će iza njega stati gotovo sve srpske naučne i visokoškolske ustanove. Sporazum o njegovom osnivanju potpisali su: SANU, CANU, ANURS, Matica srpska, Institut za srpski jezik SANU, Filološki Fakultet u Beogradu, Filozofski fakultet u Novom  Sadu, SKZ, Filološki fakultet u Prištini, Filozofski fakultet u Nišu, Univerzitet u Kragujevcu, Filozofski fakultet u Nikšiću, Filozofski fakultet u Srpskom Sarajevu, Filozofski fakultet u Banja Luci. Veštom manipulacijom, svi ovi potpisnici stavljeni su u funkciju tuđe politike. Iste one politike koja je dovela do razbijanja Jugoslavije i koja je nastavila da Srbima razbija ono što Srbe svih vera i regija još uvek spaja: njihov jezik. 

Petar MILOSAVLjEVIĆ

[objavljeno: 11.11.2006.]



(english / italiano)

Otpor in Egitto per etero-dirigere la rivolta araba

1) Dietro le rivolte in Medio oriente (come per la Serbia nel 2000) c'è un signore di 83 anni che sta a Boston (Sole24Ore)
2) Giovani attivisti egiziani ispirati da Otpor serbo / A Tunisian-Egyptian Link That Shook Arab History (New York Times)
3) AlJazeera's VIDEO on Otpor's Srdja Popovic training "young activists in nonviolent strategy and tactics" i.e. a "form of warfare"... / FLASHBACK: Excerpt from an interview of Retired U.S. Army Colonel Robert Helvey who teached a group of Otpor students in the spring of 2000 (Belgrade, January 29, 2001)
4) Serbian non-violence group shares know-how with Egyptian activists (Deutsche Welle)


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il Sole24Ore, 15 febbraio 2011

Dietro le rivolte in Medio oriente (come per la Serbia nel 2000) c'è un signore di 83 anni che sta a Boston

di Christian Rocca

Uno degli eroi delle rivolte mediorientali è un oscuro signore di ottantatrè anni di Boston. Si chiama Gene Sharp. I militanti democratici egiziani, secondo quanto riportato dal New York Times, lo paragonano a Martin Luther King e al Mahtma Gandhi. Le sue idee hanno influenzato le rivoluzioni democratiche e nonviolente in Serbia, quelle colorate in Ucraina, in Georgia, in Kyrgyzstan e ora quelle tunisine ed egiziane.
Libri tradotti in 28 lingue e studiati dalle opposizioni di Zimbabwe, Birmania e Iran 
Quattro anni fa, era stato l'autocrate venezuelano Hugo Chavez ad accusare Sharp di aver ispirato le rivolte antigovernative nel suo paese. Nel 2007, in Vietnam, i militanti dell'opposizione sono stati arrestati mentre distribuivano un suo libro del 1993, From Dictatorship to Democracy, un manuale strategico per liberarsi dalle dittature (93 pagine scaricabili dal sito dell'Albert Einstein Institution). A Mosca, nel 2005, le librerie che vendevano la traduzione in russo dello stesso libro sono state distrutte da incendi dolosi. Gli scritti di Sharp, tradotti in 28 lingue, sono stati studiati dalle opposizioni in Zimbabwe, in Birmania e in Iran. Nel 1997, racconta il Wall Street Journal, un militante polacco-americano, Marek Zelazkiewicz, fotocopiò le 93 pagine di Sharp e le portò con sé nei Balcani, insegnando le tattiche di resistenza nonviolenta in Kosovo e poi a Belgrado.
A Sharp si ispirano gli attivisti di Otpor, "mercenari della democrazia" 
Il testo di Sharp è stato tradotto in serbo e distribuito segretamente tra i militanti dell'opposizione, in particolare tra gli iscritti di Otpor, un gruppo di opposizione giovanile anti Milosevic. Otpor, grazie anche ai 42 milioni di dollari americani, ha esportato le tecniche di opposizione, apprese dal libro di Sharp, nelle ex repubbliche sovietiche, organizzando seminari di resistenza democratica in Georgia, in Ucraina, in Ungheria. Nel 2000 la Casa Bianca ha aperto un ufficio a Budapest per coordinare le attività dell'opposizione democratica serba, fornendo anche strumenti e tecnologia per diffondere notizie e informazioni alternative a quelle del regime. Nel 2003, sei mesi prima della rivoluzione delle rose, l'opposizione georgiana ha stabilito contatti con Otpor con un viaggio a Belgrado finanziato dalla Fondazione Open Society del finanziere americano George Soros. I militanti di Otpor hanno addestrato gli attivisti georgiani e in Georgia è nata Kmara, una versione locale di Otpor. I soldi sono arrivati da Soros e da una delle tante agenzie semi-indipendenti di cui si serve il Congresso americano per finanziare i gruppi democratici in giro per il mondo. In Ucraina è nato Pora, un altro gruppo democratico con forti legami con l'Otpor serbo e finanziato con 65 milioni di dollari dall'Amministrazione Bush. I militanti di Otpor sono diventati mercenari della democrazia, hanno viaggiato per il mondo a spese del governo americano per addestrare le opposizioni a organizzare una rivoluzione democratica.
Otpor e Sharp hanno influenzato i ragazzi delle piazze di Tunisi e del Cairo 
Il modello Otpor e le idee di Gene Sharp, racconta il New York Times, hanno influenzato i ragazzi delle piazze di Tunisi e del Cairo. Promuovere la democrazia non è una politica facile da imporre. Deve seguire una strategia diversa paese per paese, calibrata su un ampio arco temporale e centrata sui diritti umani, sulla rappresentanza politica, sullo stato di diritto, sulla trasparenza, sulla tolleranza, sui diritti delle donne. Ma le tecniche di opposizione, redatte da un anziano signore di Boston, possono essere facilmente trasmesse.

15 febbraio 2011
(segnalato da Paola C., che ringraziamo)


=== 2 ===

Da: Jasmina 
Data: 14 febbraio 2011 21.54.06 GMT+01.00
A: unponteper@...
Oggetto: [unponteper] giovani attivisti egiziani ispirati da Otpor serbo
Rispondi a: unponteper@...

Oggi il New York Times scrive come gli attivisti egiziani sono andati in Serbia ad incontrarsi con gli ex attivisti di Otpor per organizzare la loro rivoluzione. Persino il pugno chiuso (l'iconografia rubata dal movimento della gioventù comunista jugoslavo, lo SKOJ) hanno preso da OTPOR, solo con lo sfondo rosso.

http://www.nytimes.com/2011/02/14/world/middleeast/14egypt-tunisia-protests.html?_r=1&scp=1&sq=otpor%20egypt&st=cse

Che dire, auguro agli egiziani di avere più fortuna di noi. Almeno di ottenere più pane. In Serbia oggi si comincia a morire di fame, ma si gode di tanta bella libertà, dosata a piacere di chichesia.
Spero da tutto il cuore che gli arabi avranno più fortuna e più saggezza a non farsi manipolare dall'esterno.
Jasmina

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February 13, 2011

A Tunisian-Egyptian Link That Shook Arab History


By DAVID D. KIRKPATRICK and DAVID E. SANGER


CAIRO — As protesters in Tahrir Square faced off against pro-government forces, they drew a lesson from their counterparts in Tunisia: “Advice to the youth of Egypt: Put vinegar or onion under your scarf for tear gas.”

The exchange on Facebook was part of a remarkable two-year collaboration that has given birth to a new force in the Arab world — a pan-Arab youth movement dedicated to spreading democracy in a region without it. Young Egyptian and Tunisian activists brainstormed on the use of technology to evade surveillance, commiserated about torture and traded practical tips on how to stand up to rubber bullets and organize barricades.

They fused their secular expertise in social networks with a discipline culled from religious movements and combined the energy of soccer fans with the sophistication of surgeons. Breaking free from older veterans of the Arab political opposition, they relied on tactics of nonviolent resistance channeled from an American scholar through a Serbian youth brigade — but also on marketing tactics borrowed from Silicon Valley.

As their swelling protests shook the Egyptian state, they were locked in a virtual tug of war with a leader with a very different vision — Gamal Mubarak, the son of President Hosni Mubarak, a wealthy investment banker and ruling-party power broker. Considered the heir apparent to his father until the youth revolt eliminated any thought of dynastic succession, the younger Mubarak pushed his father to hold on to power even after his top generals and the prime minister were urging an exit, according to American officials who tracked Hosni Mubarak’s final days.

The defiant tone of the president’s speech on Thursday, the officials said, was largely his son’s work.

“He was probably more strident than his father was,” said one American official, who characterized Gamal’s role as “sugarcoating what was for Mubarak a disastrous situation.” But the speech backfired, prompting Egypt’s military to force the president out and assert control of what they promise will be a transition to civilian government.

Now the young leaders are looking beyond Egypt. “Tunis is the force that pushed Egypt, but what Egypt did will be the force that will push the world,” said Walid Rachid, one of the members of the April 6 Youth Movement, which helped organize the Jan. 25 protests that set off the uprising. He spoke at a meeting on Sunday night where the members discussed sharing their experiences with similar youth movements in Libya, Algeria, Morocco and Iran.

“If a small group of people in every Arab country went out and persevered as we did, then that would be the end of all the regimes,” he said, joking that the next Arab summit might be “a coming-out party” for all the ascendant youth leaders.

Bloggers Lead the Way

The Egyptian revolt was years in the making. Ahmed Maher, a 30-year-old civil engineer and a leading organizer of the April 6 Youth Movement, first became engaged in a political movement known as Kefaya, or Enough, in about 2005. Mr. Maher and others organized their own brigade, Youth for Change. But they could not muster enough followers; arrests decimated their leadership ranks, and many of those left became mired in the timid, legally recognized opposition parties. “What destroyed the movement was the old parties,” said Mr. Maher, who has since been arrested four times.

By 2008, many of the young organizers had retreated to their computer keyboards and turned into bloggers, attempting to raise support for a wave of isolated labor strikes set off by government privatizations and runaway inflation.

After a strike that March in the city of Mahalla, Egypt, Mr. Maher and his friends called for a nationwide general strike for April 6. To promote it, they set up a Facebook group that became the nexus of their movement, which they were determined to keep independent from any of the established political groups. Bad weather turned the strike into a nonevent in most places, but in Mahalla a demonstration by the workers’ families led to a violent police crackdown — the first major labor confrontation in years.

Just a few months later, after a strike in Tunisia, a group of young online organizers followed the same model, setting up what became the Progressive Youth of Tunisia. The organizers in both countries began exchanging their experiences over Facebook. The Tunisians faced a more pervasive police state than the Egyptians, with less latitude for blogging or press freedom, but their trade unions were stronger and more independent. “We shared our experience with strikes and blogging,” Mr. Maher recalled.

For their part, Mr. Maher and his colleagues began reading about nonviolent struggles. They were especially drawn to a Serbian youth movement called Otpor, which had helped topple the dictator Slobodan Milosevic by drawing on the ideas of an American political thinker, Gene Sharp. The hallmark of Mr. Sharp’s work is well-tailored to Mr. Mubark’s Egypt: He argues that nonviolence is a singularly effective way to undermine police states that might cite violent resistance to justify repression in the name of stability.

The April 6 Youth Movement modeled its logo — a vaguely Soviet looking red and white clenched fist—after Otpor’s, and some of its members traveled to Serbia to meet with Otpor activists.

Another influence, several said, was a group of Egyptian expatriates in their 30s who set up an organization in Qatar called the Academy of Change, which promotes ideas drawn in part on Mr. Sharp’s work. One of the group’s organizers, Hisham Morsy, was arrested during the Cairo protests and remained in detention.

“The Academy of Change is sort of like Karl Marx, and we are like Lenin,” said Basem Fathy, another organizer who sometimes works with the April 6 Youth Movement and is also the project director at the Egyptian Democratic Academy, which receives grants from the United States and focuses on human rights and election-monitoring. During the protesters’ occupation of Tahrir Square, he said, he used his connections to raise about $5,100 from Egyptian businessmen to buy blankets and tents.

‘This Is Your Country’

Then, about a year ago, the growing Egyptian youth movement acquired a strategic ally, Wael Ghonim, a 31-year-old Google marketing executive. Like many others, he was introduced into the informal network of young organizers by the movement that came together around Mohamed ElBaradei, the Nobel Prize-winning diplomat who returned to Egypt a year ago to try to jump-start its moribund political opposition.

Mr. Ghonim had little experience in politics but an intense dislike for the abusive Egyptian police, the mainstay of the government’s power. He offered his business savvy to the cause. “I worked in marketing, and I knew that if you build a brand you can get people to trust the brand,” he said.

The result was a Facebook group Mr. Ghonim set up: We Are All Khalid Said, after a young Egyptian who was beaten to death by police. Mr. Ghonim — unknown to the public, but working closely with Mr. Maher of the April 6 Youth Movement and a contact from Mr. ElBaradei’s group — said that he used Mr. Said’s killing to educate Egyptians about democracy movements.

He filled the site with video clips and newspaper articles about police violence. He repeatedly hammered home a simple message: “This is your country; a government official is your employee who gets his salary from your tax money, and you have your rights.” He took special aim at the distortions of the official media, because when the people “distrust the media then you know you are not going to lose them,” he said.

He eventually attracted hundreds of thousands of users, building their allegiance through exercises in online democratic participation. When organizers planned a “day of silence” in the Cairo streets, for example, he polled users on what color shirts they should all wear — black or white. (When the revolt exploded, the Mubarak government detained him for 12 days in blindfolded isolation in a belated attempt to stop his work.)

After the Tunisian revolution on Jan. 14, the April 6 Youth Movement saw an opportunity to turn its little-noticed annual protest on Police Day — the Jan. 25 holiday that celebrates a police revolt that was suppressed by the British — into a much bigger event. Mr. Ghonim used the Facebook site to mobilize support. If at least 50,000 people committed to turn out that day, the site suggested, the protest could be held. More than 100,000 signed up.

“I have never seen a revolution that was preannounced before,” Mr. Ghonim said.

By then, the April 6 movement had teamed up with Mr. ElBaradei’s supporters, some liberal and leftist parties, and the youth wing of the Muslim Brotherhood to plaster Cairo with eye-catching modernist posters advertising their Tunisia-inspired Police Day protest. But their elders — even members of the Brotherhood who had long been portrayed as extremists by Mr. Mubarak and the West — shied away from taking to the streets.

Explaining that Police Day was supposed to honor the fight against British colonialism, Essem Erian, a Brotherhood leader, said, “On that day we should all be celebrating together.

“All these people are on Facebook, but do we know who they are?” he asked. “We cannot tie our parties and entities to a virtual world.”

‘This Was It’

When the 25th came, the coalition of young activists, almost all of them affluent, wanted to tap into the widespread frustration with the country’s autocracy, and also with the grinding poverty of Egyptian life. They started their day trying to rally poor people with complaints about pocketbook issues: “They are eating pigeon and chicken, but we eat beans every day.”

By the end of the day, when tens of thousands had marched to Tahrir Square, their chants had become more sweeping. “The people want to bring down the regime,” they shouted, a slogan that the organizers said they had read in signs and on Facebook pages from Tunisia. Mr. Maher of the April 6 Youth Movement said the organizers even debated storming Parliament and the state television building — classic revolutionary moves.

“When I looked around me and I saw all these unfamiliar faces in the protests, and they were more brave than us — I knew that this was it for the regime,” Mr. Maher said.

It was then that they began to rely on advice from Tunisia, Serbia and the Academy of Change, which had sent staff members to Cairo a week before to train the protest organizers. After the police used tear gas to break up the protest that Tuesday, the organizers came back better prepared for their next march on Friday, the 28th, the “Day of Rage.”

This time, they brought lemons, onions and vinegar to sniff for relief from the tear gas, and soda or milk to pour into their eyes. Some had fashioned cardboard or plastic bottles into makeshift armor worn under their clothes to protect against riot police bullets. They brought spray paint to cover the windshields of police cars, and they were ready to stuff the exhaust pipes and jam the wheels to render them useless. By the early afternoon, a few thousand protesters faced off against well over a thousand heavily armed riot police officers on the four-lane Kasr al-Nile Bridge in perhaps the most pivotal battle of the revolution.

“We pulled out all the tricks of the game — the Pepsi, the onion, the vinegar,” said Mr. Maher, who wore cardboard and plastic bottles under his sweater, a bike helmet on his head and a barrel-top shield on his arm. “The strategy was the people who were injured would go to the back and other people would replace them,” he said. “We just kept rotating.” After more than five hours of battle, they had finally won — and burned down the empty headquarters of the ruling party on their way to occupy Tahrir Square.

Pressuring Mubarak

In Washington that day, President Obama turned up, unexpectedly, at a 3:30 p.m. Situation Room meeting of his “principals,” the key members of the national security team, where he displaced Thomas E. Donilon, the national security adviser, from his seat at the head of the table.

The White House had been debating the likelihood of a domino effect since youth-driven revolts had toppled President Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, even though the American intelligence community and Israel’s intelligence services had estimated that the risk to President Mubarak was low — less than 20 percent, some officials said.

According to senior officials who participated in Mr. Obama’s policy debates, the president took a different view. He made the point early on, a senior official said, that “this was a trend” that could spread to other authoritarian governments in the region, including in Iran. By the end of the 18-day uprising, by a White House count, there were 38 meetings with the president about Egypt. Mr. Obama said that this was a chance to create an alternative to “the Al Qaeda narrative” of Western interference.

American officials had seen no evidence of overtly anti-American or anti-Western sentiment. “When we saw people bringing their children to Tahrir Square, wanting to see history being made, we knew this was something different,” one official said.

On Jan. 28, the debate quickly turned to how to pressure Mr. Mubarak in private and in public — and whether Mr. Obama should appear on television urging change. Mr. Obama decided to call Mr. Mubarak, and several aides listened in on the line. Mr. Obama did not suggest that the 82-year-old leader step aside or transfer power. At this point, “the argument was that he really needed to do the reforms, and do them fast,” a senior official said. Mr. Mubarak resisted, saying the protests were about outside interference.

According to the official, Mr. Obama told him, “You have a large portion of your people who are not satisfied, and they won’t be until you make concrete political, social and economic reforms.”

The next day, the decision was made to send former Ambassador Frank G. Wisner to Cairo as an envoy. Mr. Obama began placing calls to Prime Minister Benjamin Netanyahu of Israel, Prime Minister Recep Tayyip Erdogan of Turkey and other regional leaders.

The most difficult calls, officials said, were with King Abdullah of Saudi Arabia and Mr. Netanyahu, who feared regional instability and urged the United States to stick with Mr. Mubarak. According to American officials, senior members of the government in Saudi Arabia argued that the United States should back Mr. Mubarak even if he used force against the demonstrators. By Feb. 1, when Mr. Mubarak broadcast a speech pledging that he would not run again and that elections would be held in September, Mr. Obama concluded that the Egyptian president still had not gotten the message.

Within an hour, Mr. Obama called Mr. Mubarak again in the toughest, and last, of their conversations. “He said if this transition process drags out for months, the protests will, too,” one of Mr. Obama’s aides said.

Mr. Mubarak told Mr. Obama that the protests would be over in a few days.

Mr. Obama ended the call, the official said, with these words: “I respect my elders. And you have been in politics for a very long time, Mr. President. But there are moments in history when just because things were the same way in the past doesn’t mean they will be that way in the future.”

The next day, heedless of Mr. Obama’s admonitions, Mr. Mubarak launched another attack against the protesters, many of whom had by then spent five nights camped out in Tahrir Square. By about 2:30 p.m., thousands of burly men loyal to Mr. Mubarak and armed with rocks, clubs and, eventually, improvised explosives had come crashing into the square.

The protesters — trying to stay true to the lessons they had learned from Gandhi, the Rev. Dr. Martin Luther King Jr. and Gene Sharp — tried for a time to avoid retaliating. A row of men stood silent as rocks rained down on them. An older man told a younger one to put down his stick.

But by 3:30 p.m., the battle was joined. A rhythmic din of stones on metal rang out as the protesters beat street lamps and fences to rally their troops.

The Muslim Brotherhood, after sitting out the first day, had reversed itself, issuing an order for all able-bodied men to join the occupation of Tahrir Square. They now took the lead. As a secret, illegal organization, the Brotherhood was accustomed to operating in a disciplined hierarchy. The group’s members helped the protesters divide into teams to organize their defense, several organizers said. One team broke the pavement into rocks, while another ferried the rocks to makeshift barricades along their perimeter and the third defended the front.

“The youth of the Muslim Brotherhood played a really big role,” Mr. Maher said. “But actually so did the soccer fans” of Egypt’s two leading teams. “These are always used to having confrontations with police at the stadiums,” he said.

Soldiers of the Egyptian military, evidently under orders to stay neutral, stood watching from behind the iron gates of the Egyptian Museum as the war of stone missiles and improvised bombs continued for 14 hours until about four in the morning.

Then, unable to break the protesters’ discipline or determination, the Mubarak forces resorted to guns, shooting 45 and killing 2, according to witnesses and doctors interviewed early that morning. The soldiers — perhaps following orders to prevent excessive bloodshed, perhaps acting on their own — finally intervened. They fired their machine guns into the ground and into the air, several witnesses said, scattering the Mubarak forces and leaving the protesters in unmolested control of the square, and by extension, the streets.

Once the military demonstrated it was unwilling to fire on its own citizens, the balance of power shifted. American officials urged the army to preserve its bond with the Egyptian people by sending top officers into the square to reassure the protesters, a step that further isolated Mr. Mubarak. But the Obama administration faltered in delivering its own message: Two days after the worst of the violence, Mr. Wisner publicly suggested that Mr. Mubarak had to be at the center of any change, and Secretary of State Hillary Rodham Clinton warned that any transition would take time. Other American officials suggested Mr. Mubarak might formally stay in office until his term ended next September. Then a four-day-long stalemate ensued, in which Mr. Mubarak refused to budge, and the protesters regained momentum.

On Thursday, Mr. Mubarak’s vice president, Omar Suleiman, was on the phone with Vice President Joseph R. Biden Jr. at 2 p.m. in Washington, the third time they had spoken in a week. The airwaves were filled with rumors that Mr. Mubarak was stepping down, and Mr. Suleiman told Mr. Biden that he was preparing to assume Mr. Mubarak’s powers. But as he spoke to Mr. Biden and other officials, Mr. Suleiman said that “certain powers” would remain with Mr. Mubarak, including the power to dissolve the Parliament and fire the cabinet. “The message from Suleiman was that he would be the de facto president,” one person involved in the call said.

But while Mr. Mubarak huddled with his son Gamal, the Obama administration was in the dark about how events would unfold, reduced to watching cable television to see what Mr. Mubarak would decide. What they heard on Thursday night was a drastically rewritten speech, delivered in the unbowed tone of the father of the country, with scarcely any mention of a presumably temporary “delegation” of his power.

It was that rambling, convoluted address that proved the final straw for the Egyptian military, now fairly certain that it would have Washington’s backing if it moved against Mr. Mubarak, American officials said. Mr. Mubarak’s generals ramped up the pressure that led him at last, without further comment, to relinquish his power.

“Eighty-five million people live in Egypt, and less than 1,000 people died in this revolution — most of them killed by the police,” said Mr. Ghonim, the Google executive. “It shows how civilized the Egyptian people are.” He added, “Now our nightmare is over. Now it is time to dream.”


David D. Kirkpatrick reported from Cairo, and David E. Sanger from Washington. Kareem Fahim and Mona El-Naggar contributed reporting from Cairo, and Mark Mazzetti from Washington.

This article has been revised to reflect the following correction:

Correction: February 17, 2011


An article on Monday about the collaboration between young Tunisian and Egyptian activists that helped lead to the revolutions in their countries misspelled the name of a city in Egypt where a violent police crackdown in March 2008 proved to be an important event in the evolution of the Egyptian opposition movement. It is Mahalla, not Malhalla.



=== 3 ===

(Source: Stop NATO e-mail list home page with archives and search engine - http://groups.yahoo.com/group/stopnato/messages )

VIDEO: AlJazeera's People & Power reveals the story behind the unprecedented political protests in Egypt
In the Al Jazeera video Otpor's Srdja Popovic uses the exact expression he was taught by U.S. Army Colonel Robert Helvey (see below): "form of warfare."

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The Roots of Egypt’s Pro-Democracy Movement


By Eric Stoner 

February 16, 2011

In this [ http://www.youtube.com/watch?v=QrNz0dZgqN8 ] great episode of People & Power, Al Jazeera looks at the role that the April 6 Movement played in getting Egyptians out on the streets and sustaining the struggle to oust Mubarak. It also highlights the work of our good friend Srdja Popovic – one of the leaders of Otpor, the youth movement that brought down Slobodan Milosevic in 2000 – who had helped train the young activists in nonviolent strategy and tactics. (To read his thoughts on the Egyptian uprising see the “Rise up like an Egyptian” series we’ve been publishing over the last several days.)

There was also a good front-page story [ http://www.nytimes.com/2011/02/14/world/middleeast/14egypt-tunisia-protests.html ] in the New York Times yesterday that reported on the various Egyptian activist groups – from Kefaya and the April 6 Movement to We Are All Khalid Said -  that were behind the recent successful uprising in Egypt and their connection with activists in Tunisia. It too mentions the important role that Otpor activists and the writings of Gene Sharp played in educating Egyptians about the dynamics of nonviolent struggle.

Stories like these are important because they make it clear that what happened in Egypt wasn’t spontaneous or leaderless, but the result of the hard work of thousands of activists over the course of several years. This mainstream attention is also generating new, unprecedented interest in nonviolence which I find extremely hopeful and exciting.

This article was originally published on WagingNonviolence.org.


--- FLASHBACK ---


Interview: Col. Robert Helvey

 

Retired U.S. Army Colonel Robert Helvey was sent by the International Republican Institute to teach seminars in nonviolent strategy for a group of Otpor students in the spring of 2000.

On the origins of his interest in nonviolent action:

My career has been that of a professional soldier. And one of my last assignments was to be the defense attache in Rangoon [Burma]. And I really had an opportunity — two years living in Rangoon and getting around the country — to really see first hand what happens when a people are oppressed to the point that they're absolutely terrorized. When people would talk to me-- and it required a bit of courage to talk to a foreigner-- sometimes they would place their hands over their mouth because they were afraid someone was watching and they could read their lips. That's how paranoid they became.
And, you know, there was no future for [those] people, and there was a struggle for democracy going on, but it was an armed struggle on the periphery of the country and in the border regions. And it was very clear that that armed struggle was never going to succeed. There was no [international] interest in Burma. Burma had been isolated for decades.
So, when I got back, I kept Burma in the back of my mind. Here were a people that really wanted democracy, really wanted political reform, but the only option they had was armed struggle. And that was really a non-starter, so there was really a sense of helplessness.
So, I got selected to be a senior fellow at the Harvard Center for International Affairs. So when I was up at Cambridge one day, I saw a little poster saying "Program for Nonviolent Sanctions," you know, room such and such. I didn't have anything to do that afternoon so I went up to the seminar on nonviolent sanctions. Primarily, I guess, being an army officer I was going to find out who these people are, you know, these pacifists and things like that — troublemakers. Just trying to get an understanding of it.
And Dr. Gene Sharp happened to be there. And he started out the seminar by saying, "Strategic nonviolent struggle is all about political power. How to seize political power and how to deny it to others." And I thought, "Boy, this guy's talking my language." And, you know, that's what armed struggle is about. So I got interested in this approach because I saw immediately that there may be an opportunity here for the Burmese. You know, if you only have a hammer in your tool box every problem looks like a nail. So maybe if they had another tool in their toolbox, they could at least examine the potential of strategic nonviolent struggle. So that's how I got interested in it.
I had done some work along the Thai-Burmese border with the International Republican Institute. So when they were looking for someone to present information on strategic nonviolent struggle to a Serb group, they called me.

On the Otpor training seminar:

What I did initially was, I had sort of a side session with five or six of the Otpor leaders of this leaderless organization and asked them some questions to get a feel for what they were looking for. And then I started into my seminar.
I think they were looking for something to keep the momentum going. You know, they had done very, very effective work in mobilizing individual groups. But there was something missing to take them beyond protest into actually mobilizing to overthrow theregime. I just felt that something was lacking. They were doing something very, very well, but there seemed to be an invisible wall here that they needed to get over.
So we started with the basics of strategic nonviolent struggle theory. And I did it sort of as a review because apparently they were doing many things right so there must have been some basic understanding. But sometimes you miss some of the dynamics of it if you don't understand the theory. And I focused on the pluralistic basis of power. That the sources of power are the skills and knowledge and the numbers of people, the legitimacy, the fear of sanctions, things like that. Why people obey the regime, even though they dislike it. There are many reasons why people obey that regime. And the primary one is one of habit. So you focus on breaking the habits of obedience. But before you can break the habits you have to understand what it is, why it's in their interests to disobey.
So, once we got beyond that then we looked at — I don't know how to say this, but — you're fighting a war and wars can only be fought successfully if you have a very clear objective and just defeating your opponent, getting him out of power, is just an intermediate objective if you want to go to democracy. So you have to have a vision of tomorrow that includes transforming a society so that it can be democratic. So we talked about that for a while, some of the things that needed to be looked at.
And then we talked a little bit about propaganda. Propaganda today is not a very good word. We like to use the word media or information. But I still use the same old term because it clearly identifies what propaganda is, and that is providing information to change attitudes that influence behavior. And so you look at your society, where the sources of power are, and sources of power are expressed in institutions. Individuals can't exert much power. But organizations is how these sources of power are expressed. And these are expressed in organizations and institutions that you refer to as pillars of support.


(Originalni tekst na srpskohrvatskom: Berlinska revolucija januara 1919.


La rivoluzione berlinese del gennaio 1919


Rosa Luxemburg e Carl Liebknecht: la loro morte significò la fine della speranza nella vittoria della rivoluzione mondiale


Nel mese di gennaio 1919, sono stati rapiti torturati e trucidati di nascosto, i fondatori del Partito Comunista tedesco nonché, capi della Ribellione Spartachista: Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

Gli esecutori del delitto sono stati i reparti militari dei tiratori scelti nonché, i Freikörps; il crudele assassinio è stato ordinato dal governo socialdemocratico presieduto da Friedrich Ebert. Il corpo di Rosa Luxemburg, è stato buttato in un canale del fiume, tanto martoriato da diventare irriconoscibile sicchè, nemmeno più tardi, quando fu ritrovato, non si è potuto affermare con assoluta certezza che i resti fossero autentici. La certezza non ci fu persino nel momento in cui ai corpi fu data la degna sepoltura e quando gli fu eretto il monumento. Questa fosca catastrofe del gennaio 1919 ha avuto conseguenze tragiche, non soltanto sulla storia del movimento operaio mondiale ma, sulla storia del mondo intero e in qualche maniera indiretta, essa è la causa dei giorni difficili che viviamo tutt’ora.

Lenin e i bolscevichi quando, in piena guerra mondiale, avevano scatenato la Rivoluzione d’Ottobre, non erano stati sfiorati dal dubbio, nemmeno per un momento, che il proletariato del mondo intero non sarebbe insorto e che la rivoluzione non sarebbe stata mondiale. Soltanto se ci fosse stata la rivoluzione mondiale, essa avrebbe potuto avere il successo finale. Molti segni incoraggiavano aspettative del genere, visto che le sollevazioni erano avvenute un po’ ovunque, da Cuba alla Spagna al Messico, fino all’Impero Austro-Ungarico. Dappertutto, nella base si creavano i consigli dei soldati, degli operai e dei contadini e il popolo fu molto risoluto nella sua protesta contro la sanguinaria carneficina della Prima guerra mondiale, contro lo sfruttamento bestiale e contro la vita grama. Dalle parti nostre (ex Jugoslavia ndr) si sono sollevati i marinai nelle Bocche di Cataro ma, la ribellione fu repressa nel sangue ed i capi marinai furono fucilati.

Il paese più vicino alla Russia e con cui capi i bolscevichi (ma anche i menscevichi ed i socialisti-rivoluzionari) russi avevano stretto i legami più forti, il paese che era più sviluppato industrialmente e organizzato politicamente, il paese la cui classe operaia fu più duramente colpita a causa delle perdite di guerra, era la Germania.

Le cannonate dall’incrociatore Aurora e la caduta del Palazzo d’Inverno a Pietroburgo, ebbero una forte eco in tutta la Germania. La guerra ebbe fine improvvisamente nel novembre 1918 sul fronte occidentale, visto che in Germania era successa la Rivoluzione. La tregua fu firmata in un vagone ferroviario a Compiègne, visto che nonostante le enormi perdite i tedeschi non furono realmente sconfitti. La causa, della percezione d’ingiustizia subita, da parte del popolo in Germania, sarà anzitutto per le umilianti e pesanti condizioni della pace di Versailles, che gettarono in ginocchio il paese. La Germania risulterà punita per essersi comportata da aggressore, mentre alle masse popolari pareva falso, sia che fossero stati sconfitti, sia che avessero scatenato la guerra e soprattutto, fu vissuto come un’oltraggio estremo, la perdita di vaste regioni sia dell’oriente che dell’occidente. Tutto ciò sarà la causa dell’altra, ancora più grande catastrofe: lo scoppio della seconda guerra mondiale.

Ma, nel novembre e nel dicembre del 1918, dopo che la guerra fu interrotta e l’imperatore mandato in manicomio, tutto il paese fremette sotto la rossa ondata rivoluzionaria. Dal nord al sud del paese s’incendiò la rivolta. Prima si ribellarono i marinai di Kiel, dopo insorse Berlino, eppoi Monaco. La fiammata fu grande, ma di breve durata.

La Germania, fu il secondo paese, in ordine di tempo, in cui i marinai rivoluzionari issarono la bandiera dei Soviet sull’intero territorio e in cui il Comitato esecutivo degli operai e soldati di Berlino aveva nominato un governo socialista nel paese. Al momento pareva che le Rivoluzioni russe di Febbraio e d’Ottobre, in Germania si fossero saldate in un’ unica cosa, visto che dopo l’abdicazione dell’imperatore sembrava che il potere nella capitale fosse passato nelle mani dei socialisti più radicali. Purtroppo si trattò soltanto d’una illusione, causata dalla momentanea ma, altrettanto completa paralisi dell’esercito e dell’apparato dello stato, ai quali il fallimento drastico, nonchè lo scoppio della rivoluzione diedero il colpo di grazia.

La storia conosce questi balzi improvvisi, quando la fiammata rivoluzionaria vola inaspettatamente alta, causando salti in avanti, per dopo tornare ancora più in dietro. Molto presto il regime, ritorna al suo posto, ora nelle vesti repubblicane, per esso i socialisti, infatti, non rappresentavano più un vero pericolo, visto che nelle elezioni che furono indette subito dopo la rivoluzione l’ala radicale dei socialisti non ebbe la maggioranza. I socialdemocratici ottennero 38% dei voti, mentre i socialisti che avevano compiuto una scissione e peroravano la causa rivoluzionaria, ottennero soltanto il 7,5% dei voti. Ancora minore minaccia per i capitalisti tedeschi, rappresentava l'appena fondato KPD Partito Comunista Tedesco, i cui capi furono subito trucidati.

Ma, la speranza bolscevica nella rivoluzione mondiale e nella vittoria delle forze rivoluzionarie in Germania rimase tenace, nonostante quello che accadde a Rosa Luxemburg e a Karl Liebknecht. Nella primavera di quel sciagurato 1919 in Baviera fu proclamata la Repubblica Sovietica, che fu sconfitta con l'uccisione del suo capo, dopo di che, si sollevò Monaco di Baviera, il centro di cultura e di arte del paese, tradizionale baluardo dell’opposizione. Il movimento rivoluzionario in Europa non fini per questo e continuò a dare molte speranze ai bolscevichi. Dopo la Germania si sollevò l’Ungheria, in cui la rivoluzione durò dal mese di marzo fino al luglio 1919 ma, fu sopraffatta , causando poi una grande ondata emigratoria.


La rivoluzione si riduce ad un solo paese


La sconfitta delle rivoluzioni in Europa aveva lasciato la Russia cioè l’Unione Sovietica sola e isolata cosi che, ne la vittoria ottenuta con eroismo in guerra civile, ne la sconfitta dell’intervento straniero riusciranno a salvarla dallo sbandamento. Mai Marx né chiunque altro abbia appassionatamente seguito gli insegnamenti del Capitale e del Manifesto comunista, aveva creduto che la vittoria delle rivoluzioni comunitarie, avvenisse in un unico paese e per giunta cosi orrendamente arretrato come era la Russia. E' stata una rivoluzione contro il Capitale, come fu chiamata da Antonio Gramsci, e tutte le tragedie, tutti gli insuccessi e tutte le macchie sulla bandiera rossa e tutte le ignominie in cui fu trascinato il movimento rivoluzionario che accaddero nel ventesimo secolo, furono causati dal fallimento della rivoluzione mondiale. La prima tragica sconfitta fu la decapitazione dei rivoluzionari in Germania, il fallimento degli Spartachisti e l’assassinio dei loro capi :Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Dicono che lo stesso Lenin ne fu perfettamente conscio e Trotsky non smise mai di predicare e vedere la vittoria della rivoluzione esplicitamente come un fenomeno mondiale.

Ma, se pure in un unico paese, la Rivoluzione d’Ottobre, fu la prima vittoria dei più diseredati sul capitale mondiale, che segnò tutto il XX secolo, liberando da una vita di sofferenze e di lavoro da schiavi, non solo gli sfruttati del proprio paese ma, irradio nel mondo una colossale speranza, che suscitò ispirazione in tutti gli oppressi per cento anni.

Il paese dei Soviet, ha fatto la parte del leone nella Seconda guerra mondiale, sacrificando per la vittoria sul nazifascismo, venti milioni di vite dei propri cittadini ed ha permesso l’esistenza di tutti i movimenti antimperialisti ed anti colonialisti del Terzo Mondo, nonchè una posizione comoda alla classe operaia in Occidente, visto che il capitalismo mondiale temeva la vittoria operaia, che malgrado tutto, il bastione dell’Unione Sovietica ha sempre rappresentato.

Però le differenze nel concepire la rivoluzione e le sue istituzioni tra i bolscevichi e i socialisti di sinistra tedeschi, si erano manifestate ben presto nella nota polemica fra Lenin e la Luxemburg. Rosa Luxemburg fu contraria alla dittatura del proletariato leninista, contraria allo scioglimento del parlamento, fu per il rispetto rigoroso della libertà di parola e delle altre libertà civili, per l' espressione dei gruppi sociali, tramite le organizzazioni politiche. Lottò per allargare e non per restringere i diritti civili, frutto della Rivoluzione Francese. Senza quei diritti ritenne che alla classe operaia sarebbe stata indossata la camicia di forza e che abolire la democrazia e privare della libertà il parlamento fosse funesto per la stessa classe operaia. Però, rimase fermamente sulle posizioni rivoluzionarie nonostante i giorni burrascosi che presto sconvolsero la Germania. Ancora oggi echeggia il suo grido, vivo tutt’ora con la stessa drammaticità: ”Rivoluzione o barbarie!”

Purtroppo in Germania le forze reazionarie uscirono vittoriose sia nel 1919 che nel 1933 e questa vittoria portò la barbarie sulla scena mondiale. Le crudeltà perpetrate, finora inimmaginabili, come pure la morte industrializzata, faranno subire al mondo intero un inaudito bagno di sangue. La rovina degli Spartachisti, fu in un certo senso l’annunciazione di tutte le catastrofi che si succedettero nel ventesimo secolo, secolo di guerre con distruzioni mai viste, e indirettamente fu pure l’annuncio del fallimento totale dell’Unione Sovietica e della tragedia odierna della sinistra nel mondo. Se la Rivoluzione avesse vinto in Germania, la storia del mondo avrebbe preso un'altra piega.

I concetti che erano propri del movimento Spartachista sono vivi tutt’ora nel movimento operaio e rappresentano gli scopi per cui vale la pena di lottare. Questi principi sono la spontaneità rivoluzionaria e la democrazia che parte dalla base, con le decisioni che sono portate dalla base stessa da parte dei consigli operai e cittadini. Gli organi rivoluzionari come pure le istituzioni rivoluzionarie devono obbedire alle decisioni prese dalla base, e non dalle risoluzione di apparato di partito. La stessa importanza, si da all’internazionalismo proletario in grado di trasformare le minoranze locali in una enorme maggioranza, visto che loro che non hanno nulla, rappresentano ieri come oggi, la stragrande maggioranza della gente. Un importanza enorme viene data alla coscienza della classe lavoratrice, visto che senza questa, la lotta di classe non può essere vittoriosa. Gli Spartachisti si erano pronunciati anche contro la proprietà privata dei mezzi di produzione e consideravano come loro compito principale, la lotta per la pace contro la guerra imperialista, e credevano che uno sciopero generale di tutti gli operai del mondo poteva assicurare la vittoria della rivoluzione mondiale. Il loro ultimo compito, era la realizzazione di una società comunista, ma questo sogno fini con la loro liquidazione fisica e col buttare nei canali i loro resti.

Cosi il sogno della rivoluzione mondiale, ebbe fine in una fredda giornata di gennaio nel fiume Spree e sul mondo cominciarono ad addensarsi le nubi della futura sciagura, sciagura di dimensioni inimmaginabili.

Rosa Luxemburg, il cui nome ancora oggi da forza ai comunisti e alla gente di sinistra autentica, del mondo intero, era nata nella cittadina di Zamosc 1871, quinta figlia di una famiglia ebrea molto povera. La bambina, a scuola, fu subito notata per sua intelligenza fuori del comune, poi riusci a studiare a Zurigo, nonostante la povertà. Fini gli studi con un intera generazione di menti eccelse, che diventeranno personaggi di spicco del movimento operaio ed ebbero dei ruoli importanti, sia nelle rivoluzioni incombenti sia nelle conquiste intellettuali e scientifiche dell’Europa dell’inizio del ventesimo secolo. Finiti gli studi Rosa Luxemburg svolse l’attività politica in Polonia, ma a causa delle persecuzioni fu costretta ad emigrare. Dal 1907 fino al 1914 insegnò economia politica a Berlino. Quando scoppiò la guerra si mantenne fermamente sulle posizioni antimperialiste e organizzò una serie di manifestazioni pacifiste. Per questo fu arrestata per ordine dell’imperatore Guglielmo II e condannata a diversi anni di galera. Esce dal carcere nel 1916 e continua l'attività politica. L’azione pacifista di Rosa Luxemburg, di Karl Liebknecht, di Clara Zetkin e di Franz Mering, insieme alla voce di Jean Jorès in Francia, che furono ammazzati per poter iniziare la guerra, erano gli unici punti luminosi nel oscuramento mentale delle nazioni intere, guerra che ha portato il mondo ad una carneficina immensa nell’interesse degli imperialisti e dei loro servitori.

Jorès e la Luxemburg chiamarono la gente ad uno sciopero generale contro la guerra, fatto che tutti e due pagarono con la vita. La morte di Rosa Luxemburg, non fu soltanto una perdita fatale per la rivoluzione in Germania e in Polonia, ma significò la scomparsa di una teorica del marxismo d’eccezione, che si era ben presto accorta della forza di resistenza del capitalismo tratta dall’imperialismo e non prevedeva, a differenza di Lenin e dei bolscevichi, la sua fine rapida. Però lottò con la forza degli argomenti e con tenacia politica contro il revisionista Bernstein; la sua insistenza nel negare la proprietà privata le diede il merito storico nell’affermazione che l’unica alternativa al socialismo fosse la barbarie. Come ebrea polacca diffidò assai di ogni movimento nazionalista e persino osò esprimere qualche dubbio sul principio leninista dell’autodeterminazione dei popoli, in parte per aver assistito all’ascesa sanguinaria del nazionalismo polacco, in parte perche era dell’avviso che, in ogni caso, bisogna dare la precedenza alla lotta di classe e all'internazionalismo. Dietro di se lascio le lettere dal carcere, il libro il Capitale e la sua accumulazione e la Rivoluzione in Russia , come pure i testi di accesa polemica con Lenin e molti altri scritti che sono sempre d’una attualità eccezionale, una vera miniera dei suoi pensieri e delle prese di posizione originali, valide ancora oggi. Senz’altro una curiosità nella tragedia della sua fine rappresenta il fatto che fu ammazzata per ordine d’un suo studente, il presidente del governo socialdemocratico, Ebert.

Il co -fondatore del movimento spartachista con Rosa, Karl Liebknecht era il figlio del fondatore del Partito Socialdemocratico tedesco, Wilhelm Liebknecht originario di Lipsia. Laureatosi in giurisprudenza ed economia politica, dopo aver discusso la tesi di dottorato, Karl Liebknecht aveva aperto con il fratello Theodor, uno studio legale in cui si occupava della difesa dei socialisti trascinati in tribunale. Come membro del Partito Socialdemocratico divenne il presidente dell’Internazionale socialista. A causa del suo libro Militarismo e antimilitarismo fu arrestato per la prima volta già nel 1910. Diventa membro del Reichstag e nel 1914 fonda con Clara Zetkin, Paul Levi, Leo Jogiches e Franz Mering la Lega degli Spartachisti. Presto viene arrestato e mandato al fronte. Liberato per motivi di salute, fu preso di nuovo nel 1916 e messo sotto processo per alto tradimento. Ma quando scoppiarono i moti rivoluzionari, fu liberato dalla prigione e continuò l’azione rivoluzionaria. L’autore espressionista Döblin gli dedicò le pagine più belle della sua opera descrivendolo come capo popolo e citando le sue parole, pronunciate al funerale ai caduti nella Rivoluzione a Berlino del 1918.

Gli Spartachisti pubblicarono il giornale La bandiera rossa e nel novembre 1918, Liebkencht dal balcone del Castello di Berlino, proclamò la Libera Repubblica Socialista, due ore dopo che Philipp Schleidemann aveva proclamato la Repubblica tedesca, dal balcone del Reichstag il 31 dicembre 1918. Il primo gennaio 1919 è stato fondato il Partito Comunista tedesco. L’insurrezione a Berlino fu sollevata dagli Spartachisti il 6 gennaio e capeggiata da Karl Liebknecht, Clara Zetkin, Rosa Luxemburg, e Leo Jorgiches. L’insurrezione falli, l’esercito la soffocò. La Luxemburg e Liebknecht furono rapiti il 13 gennaio, ammazzati il 15 e buttati nel canale del fiume Spree.

In quella fredda giornata di gennaio non smisero di battere soltanto due cuori rivoluzionari del popolo tedesco, sono state distrutte anche due splendide menti che avevano saputo comprendere e prevedere la storia.


Jasna Tkalec


(traduzione dell'autrice, versione italiana a cura di Dario di CU-FVG)



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