Informazione
Manca solo un documento. Per questo la giustizia tedesca non ha ancora deciso se arrestare Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, ex componenti del Cda della ThyssenKrupp Acciai Speciali, condannati a nove anni e otto mesi il primo e sei anni e dieci mesi il secondo per l’omicidio colposo di sette operai morti dopo il rogo del 6 dicembre 2007 a Torino.
L’Italia ha inviato quel documento in Germania, ma è andato perso. Questo è quanto il Fatto Quotidiano ha appreso dalla Procura generale di Essen(Renania settentrionale-Vestfalia), città in cui ha sede il colosso dell’acciaio ha la sua sede. “Non si può ancora decidere se eseguire in Germania la sentenza italiana contro Espenhahn e Priegnitz – risponde Anette Milk, procuratore e portavoce –. La procedura è in corso. Stiamo ancora aspettando un documento che è stato chiesto alle autorità italiane”. E questo è il problema: “Ci hanno informato che ci hanno già mandato i documenti mesi fa, ma sfortunatamente non sono mai arrivati ai nostri uffici”.
La Procura generale di Essen spiega che stanno cercando di risolvere e hanno richiesto una copia dell’atto mancante. Poi, una volta ricevuto, sarà possibile decidere se e come arrestare i due manager. In base agli accordi bilaterali, Espenhahn e Priegnitz potranno scontare la condanna nel loro Paese per una durata massima di cinque anni, come previsto dal codice penale tedesco per l’omicidio colposo. Dal ministero della Giustizia italiano, invece, dicono di non aver ricevuto ulteriori richieste. L’ultima risale all’8 maggio, quasi un anno dopo la condanna definitiva datata 13 maggio 2016. La Germania chiedeva chiarimenti sulla presenza dei due imputati al processo: se condannati in contumacia, il loro arresto sarebbe stato più difficile. Il dato, in realtà, era riportato nella sentenza che li indica come “presenti”. Da via Arenula hanno inoltrato la richiesta alla Procura generale di Torino, dove il sostituto pg Vittorio Corsi, poco prima del suo pensionamento, ha firmato un ultimo atto, spiegando che i due presero regolarmente parte al processo di primo grado e furono sottoposti all’esame dibattimentale il 4 novembre 2009, mentre per i due processi di appello non si sono mai presentati e sono stati rappresentati da avvocati di fiducia. Ma insomma, per l’Italia non erano contumaci.
La risposta è stata mandata via mail a Essen il 1° giugno scorso, con tanto di foto dei due imputati in aula: c’è anche l’avviso di ricezione della mail dall’account dell’indirizzo di Essen, dove evidentemente l’hanno persa.
A differenza dei manager italiani che sono entrati in carcere il giorno dopo il verdetto della Cassazione, i due tedeschi sono liberi (e dal curriculum su Linkedin risulta che Gerald Priegnitz è tuttora Cfo, direttore finanziario, della ThyssenKrupp Global Shared Services).
Il 12 ottobre scorso a Lussemburgo è intervenuto direttamente anche il ministro Orlando che, durante il Consiglio dell’Unione europea dedicato alla giustizia, ha chiesto all’omologo tedesco Heiko Maas un suo interessamento per l’esecuzione della condanna: “Alla luce dell’eccellente cooperazione giudiziaria tra Italia e Germania il ministero federale di giustizia ha offerto il suo supporto per migliorare la comunicazione tra le autorità giudiziarie tra i due Stati se necessario”, ha risposto al Fatto un portavoce di Maas.
È possibile che le autorità tedesche aspettassero soltanto l’esito dell’ultimo ricorso straordinario in Cassazione: il 19 ottobre scorso i giudici l’hanno respinto perché le condanne inflitte erano “conformi a legge e adeguatamente giustificate”. Un’ulteriore conferma della loro colpevolezza che solo la Germania fatica a riconoscere.
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21 ottobre 2017, VINCENZO FRENDA
Per arrivare a questa verità definitiva ci sono voluti 9 anni e 5 processi, eppure solo i condannati italiani stanno scontando le pene. I tedeschi no, perché la loro condanna non è stata ancora recepita dalla giustizia tedesca che potrebbe anche ricalcolarla riducendola, visto che in Germania per lo stesso reato sono previste pene più miti. Ma non basta. I due manager tedeschi insieme al dirigente Daniele Moroni hanno provato a chiedere un nuovo sconto alla giustizia italiana. Un ricorso alla cassazione per avere un ricalcolo della pena rispedito al mittente dalla corte suprema. Un tentativo andato fallito che ha però garantito ai condannati tedeschi altro tempo in libertà.
Il ministro della giustizia Orlando ha sollecitato più volte i tedeschi ad applicare la condanna come previsto dai trattati, finora invano. Un nuovo sfregio alla memoria delle vittime; Graziella Rondinò madre di Rosario, morto ad appena 26 anni non si dà pace: “Le pene sono basse, almeno che non ci siano sconti per gli assassini. Avrebbero dovuto dare loro l’ergastolo, prendere la chiave della cella e buttarla via. Ora speriamo che la Germania si sbrighi a rendere esecutiva la sentenza. Non vogliamo aspettare altri dieci anni”.
Tanti, troppi anni passati per avere giustizia e le pene forse non sono quelle che i parenti delle vittime si aspettavano, ma questo processo mantiene intatta la sua importanza, perché infligge le pene più severe mai date per un incidente sul lavoro e dà un segnale forte a quei capitani d’industria che finora hanno pensato di poter derogare sui diritti dei lavoratori e sostanzialmente sulla loro salute, in virtù di una impunità garantita dal denaro scrivendo, come per il caso della Thyssen di Torino, pagine nerissime nella storia industriale non solo italiana.
\"Questa è la realtà della Unione Europea, un sistema autoritario e truffaldino di diseguali\"
di Giorgio Cremaschi, 20/10/2017
Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 un terribile incendio distrusse lo stabilimento ThyssenKrupp di Torino condannando ad una morte orribile 7 operai.
Grazie al lavoro instancabile e minuzioso del procuratore Guariniello i colpevoli di quella strage furono individuati, incriminati, condannati. E, caso raro per gli omicidi sul lavoro, le sentenze, pur attenuate, hanno retto fino alla Corte di Cassazione. Che pochi giorni fa ha voluto anche sottolineare la gravità del non rispetto delle norme di sicurezza, che proprio per la sua dimensione assegna la responsabilità della strage ai manager aziendali. Di essi quelli italiani stanno già scontando la pena, ma i due principali responsabili - l\'amministratore delegato Harald Espenhahn (condannato a nove anni di reclusione) e il direttore generale Gerald Priegnitz (condannato a sei anni) - sono liberi in Germania.
Buffonate.
La verità è che il governo dovrebbe fare una campagna contro l\'impunità dei manager tedeschi e far valere con tutti i mezzi le regole di giustizia europee.
Che però come al solito valgono solo per i paesi deboli e con una classe politica asservita e mai, mai per la Germania. Questa è la realtà della Unione Europea, un sistema autoritario e truffaldino di diseguali, ove se sei manager tedesco sei automaticamente immune dalla giustizia di uno dei paesi che in Germania chiamano PIGS.
L’ex ad della ThyssenKrupp Acciai Speciali Harald Espenhahn e l’ex consigliere Gerald Priegnitz, condannati in via definitiva il 13 maggio 2016 per omicidio colposo plurimo al termine del processo per il rogo allo stabilimento di Torino in cui, tra il 5 e il 6 dicembre 2007, morirono sette operai, sono ancora liberi. A cinque mesi dalla polemica sulla traduzione della sentenza il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto al suo omologo tedesco che la Germania dia esecuzione al verdetto.
Per Espenhahn, condannato a nove anni di reclusione, e Priegnitz, condannato a sei anni, è stata chiesta l’estradizione in Italia, ma questa è stata dichiarata non ammissibile in quanto sono entrambi di cittadinanza tedesca. Nei primi mesi del 2017 l’Italia ha quindi chiesto all’autorità giudiziaria tedesca di riconoscere la sentenza ed eseguire in Germania la relativa pena a carico delle due persone coinvolte. Richiesta ora rinnovata da Orlando che a margine della riunione del Consiglio GAI in corso a Lussemburgo, ha incontrato il suo omologo tedesco Heiko Maas, che si è impegnato a svolgere nel più breve tempo possibile un approfondimento sulla questione, al fine di poter dare riscontro alla richiesta italiana. Al termine del colloquio, il Guardasigilli gli ha consegnato una lettera che riepiloga i principali passaggi della vicenda.
Gli imputati condannati invece stanno tutti scontando la pena. La sentenza della Cassazione (qui le motivazioni) è arrivata il 13 maggio 2016, un venerdì sera, e il sabato mattina gli italiani si erano consegnati alle forze dell’ordine per poi andare in carcere a Terni e a Torino. Lunedì 16 maggio, rientrati nei loro uffici, il sostituto procuratore generale Vittorio Corsi e il procuratore generale Francesco Saluzzo avevano emesso un mandato di arresto europeo per Espenhahn e Priegnitz e il 25 maggio erano state diramate le ricerche dei due condannati, localizzati in Germania.
Lì era stata consegnata la documentazione per l’arresto, ma il 4 agosto la procura generale di Hamm aveva comunicato al ministero della Giustizia il rifiuto della consegna: in base alle norme sul mandato di arresto europeo un’autorità giudiziaria può rifiutare di eseguire il mandato contro i suoi cittadini per eseguirla “conformemente al suo diritto interno”. In Germania, in base ai codici, Espenhahn e Priegnitz non sconteranno le pene stabilite dai giudici italiani, rispettivamente nove anni e otto mesi il primo e sei anni e tre mesi il secondo. La detenzione potrà durare fino a un massimo di cinque anni, pena massima prevista dal codice penale tedesco per l’omicidio colposo.
Chissà cosa avrà pensato Virginia quando, nella causa intentata contro la Germania da lei e dagli altri eredi delle vittime – rappresentati dagli avvocati Lucio Olivieri, Monica Oddis e Claudia Di Padova – la Farnesina si è costituita in difesa di Berlino. Il ministero non voleva “incorrere in una violazione del diritto internazionale”, perché l’Italia, ricorda ancora il vertice della diplomazia italiana, ha rinunciato a ogni pretesa nei confronti della Germania nel 1947, con il Trattato di Pace di Parigi. E poi c’è la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Ma, forte della sentenza della Corte Costituzionale e di quella della Cassazione, il giudice Giovanna Bilò, del tribunale di Sulmona, il 2 novembre ha condannato in contumacia la Germania, “quale successore del Terzo Reich”, come “responsabile dell’uccisione” con “modalità efferate” dei 128 civili. In più, ha obbligato Berlino a corrispondere al Comune di Roccaraso 800mila euro di “danno non patrimoniale”.
Tra i motivi che frenano il governo italiano probabilmente c’è il timore che un domani Paesi come l’Etiopia, la Slovenia o la Grecia vengano a chiederci il conto per le stragi fasciste, a dispetto del falso mito degli “italiani brava gente”, di un esercito che al contrario di quello tedesco ha sempre rispettato e solidarizzato con le popolazioni invase. In quel caso i risarcimenti complessivamente ci costerebbero diverse centinaia di milioni di euro. “Su questo il nostro Paese è rimasto sempre in silenzio – dice Bernardo Cortese, professore di diritto dell’Unione europea all’università di Padova – Non è da escludere che ci sia anche questo, nella somma delle ragioni che portano il nostro ministero a non muoversi contro la Germania. Ci sono tante cose che spiegano le nostre reticenze. Ovviamente non siamo solo dalla parte delle vittime”.
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GUERRA NUCLEARE
IL GIORNO PRIMA
Da Hiroshima a oggi:
chi e come ci porta alla catastrofe
La lancetta dell’«Orologio dell’Apocalisse» – il segnatempo che sul Bollettino degli Scienziati Atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare – è stata spostata in avanti: da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2,5 minuti nel 2017. Tale fatto passa però inosservato o, comunque, non suscita particolari allarmi.
Sembra di vivere nel film The Day After (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’URSS e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche.
Questo libro ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione creato ad arte su questo tema di vitale importanza. Si è diffusa la sensazione che una guerra nucleare sia ormai inconcepibile e si è creata di conseguenza la pericolosa illusione che si possa convivere con la Bomba. Ossia con una potenza distruttiva che può cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita. Lo possiamo evitare, mobilitandoci per eliminare le armi nucleari dalla faccia della Terra. Finché siamo in tempo, il giorno prima.
L’autore, giornalista e saggista, collaboratore de il manifesto e di Pandora TV, è membro del Comitato No Guerra No Nato.
Con Zambon Editore ha pubblicato L’Arte della Guerra / Annali della strategia USA/NATO (1990-2016).
È stato direttore esecutivo per l’Italia della International Physicians for the Prevention of Nuclear War, associazione insignita nel 1985 del Premio Nobel per la Pace per aver «fornito preziosi servigi all\'umanità divulgando informazioni autorevoli e diffondendo la consapevolezza sulle catastrofiche conseguenze di un conflitto nucleare».
INDICE
1 La nascita della Bomba
1.1 Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
1.2 Gli effetti dell’esplosione nucleare su una città
1.3 Gli effetti della ricaduta radioattiva
1.4 L’inverno nucleare
2 La corsa agli armamenti nucleari
2.1 Il confronto nucleare USA-URSS
2.2 I missili balistici intercontinentali
2.3 La crisi dei missili a Cuba e l’ingresso della Cina tra le potenze nucleari
2.4 La pianificazione dell’attacco nucleare
2.5 Il Trattato sullo spazio esterno e il Trattato di non-proliferazione
2.6 I missili balistici a testate multiple indipendenti
2.7 La bomba N
2.8 I trattati sui missili anti-balistici e sulla limitazione delle armi strategiche
2.9 La Bomba segreta di Israele
2.10 L’ingresso di Sudafrica, India e Pakistan tra le potenze nucleari
3 La polveriera nucleare
3.1 Un milione di Hiroshima
3.2 La «valigetta nucleare»
3.3 I falsi allarmi di attacco nucleare
3.4 Gli incidenti con armi nucleari
3.5 L’inquinamento radioattivo dei test e degli impianti nucleari
3.6 Il legame tra nucleare militare e civile
3.7 Gli incidenti alle centrali nucleari
3.8 I movimenti antinucleari durante la guerra fredda
4 Le guerre del dopo guerra fredda
4.1 Il mondo al bivio
4.2 Golfo: la prima guerra del dopo guerra fredda
4.3 Le armi a uranio impoverito
4.4 Il riorientamento strategico degli Stati Uniti
4.5 Il riorientamento strategico della NATO
4.6 L’intervento NATO nella crisi balcanica e la guerra contro la Jugoslavia
4.7 Terreno di prova dei bombardieri da attacco nucleare e uso massiccio di armi a uranio impoverito
4.8 Il superamento dell’Articolo 5 e la conferma della leadership USA
4.9 Il «Nuovo Modello di Difesa» dell’Italia
4.10 L’espansione della NATO ad Est verso la Russia
5 La messinscena del disarmo
5.1 Le armi nucleari e lo «scudo anti-missili» nella ristrutturazione delle forze USA
5.2 I trattati START sulla riduzione delle armi strategiche
5.3 La messa al bando dei test nucleari e i test «subcritici»
5.4 Il Trattato di Mosca e il nuovo START
5.5 L’ingresso della Corea del Nord tra le potenze nucleari
5.6 Altri paesi in grado di fabbricare armi nucleari
5.7 Le armi chimiche e biologiche
6 La nuova offensiva USA/NATO
6.1 11 Settembre: maxi-attacco terroristico in mondovisione
6.2 11 Settembre: le falle della versione ufficiale
6.3 Afghanistan: l’inizio della «guerra globale al terrorismo»
6.4 La seconda guerra contro Iraq
6.5 La guerra contro la Libia
6.6 La guerra coperta contro la Siria e la formazione dell’ISIS
6.7 Il colpo di stato in Ucraina
6.8 Le guerre segrete dal volto umanitario
7 L’Europa sul fronte nucleare
7.1 L’Europa nel riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace
7.2 Italia: portaerei nucleare USA/NATO nel Mediterraneo
7.3 La B61-12, nuova bomba nucleare USA per l’Italia e l’Europa
7.4 L’escalation USA/NATO in Europa
7.5 Lo «scudo» USA sull’Europa
8 Gli scenari dell’Apocalisse
8.1 L’escalation qualitativa del confronto nucleare
8.2 La preparazione del first strike nucleare
8.3 Armi elettromagnetiche e laser e aerei robot spaziali per la guerra nucleare
8.4 La mortale minaccia del plutonio e il monito inascoltato di Fukushima
8.5 La minaccia del terrorismo nucleare
8.6 Le nanoarmi: potenziali detonatori della guerra nucleare
9 Il giorno prima finché siamo in tempo
9..1 La strategia dell’Impero Americano d’Occidente
9.2 Il sistema bellico planetario degli Stati Uniti d’America
9.3 L’ancoraggio dell’Italia alla macchina da guerra USA/NATO
9.4 Il disancoraggio dalla macchina da guerra USA/NATO, per un’Italia sovrana e neutrale, libera dalle armi nucleari
Italia in armi dal Baltico all’Africa
Manlio Dinucci, su Il Manifesto del 16.01.2018
Che cosa avverrebbe se caccia russi Sukhoi Su 35, schierati nell’aeroporto di Zurigo a una decina di minuti di volo da Milano, pattugliassero il confine con l’Italia con la motivazione di proteggere la Svizzera dall’aggressione italiana?
A Roma l’intero parlamento insorgerebbe, chiedendo immediate contromisure diplomatiche e militari.
Lo stesso parlamento, invece, sostanzialmente accetta e passa sotto silenzio la decisione Nato di schierare 8 caccia italiani Eurofighter Typhoon nella base di Amari in Estonia, a una decina di minuti di volo da San Pietroburgo, per pattugliare il confine con la Russia con la motivazione di proteggere i paesi baltici dalla «aggressione russa».
La fake news con la quale la Nato sotto comando degli Stati uniti giustifica la sempre più pericolosa escalation miitare contro la Russia in Europa. Per dislocare in Estonia gli 8 cacciabombardieri, con un personale di 250 uomini, si spendono (con denaro proveniente dalle casse pubbliche italiane) 12,5 milioni di euro da gennaio a settembre, cui si aggiungono le spese operative: un’ora di volo di un Eurofighter costa 40 mila euro, l’equivalente del salario lordo annuo di un lavoratore.
Questa è solo una delle 33 missioni militari internazionali in cui l’Italia è impegnata in 22 paesi.
A quelle condotte da tempo nei Balcani, in Libano e Afghanistan, si aggiungono le nuove missioni che – sottolinea la Deliberazione del governo – «si concentrano in un’area geografica, l’Africa, ritenuta di prioritario interesse strategico in relazione alle esigenze di sicurezza e difesa nazionali».
In Libia, gettata nel caos dalla guerra della Nato del 2011 con la partecipazione dell’Italia, l’Italia oggi «sostiene le autorità nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento del controllo e contrasto dell’immigrazione illegale».
L’operazione, con l’impiego di 400 uomini e 130 veicoli, comporta una spesa annua di 50 milioni di euro, compresa una indennità media di missione di 5 mila euro mensili corrisposta (oltre la paga) a ciascun partecipante alla missione. In Tunisia l’Italia partecipa alla Missione Nato di supporto alle «forze di sicurezza» governative, impegnate a reprimere le manifestazioni popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita.
In Niger l’Italia inizia nel 2018 la missione di supporto alle «forze di sicurezza» governative, «nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area», comprendente anche Mali, Burkina Faso, Benin, Mauritania, Ciad, Nigeria e Repubblica Centrafricana (dove l’Italia partecipa a una missione dell’Unione europea di «supporto»).
È una delle aree più ricche di materie prime strategiche – petrolio, gas naturale, uranio, coltan, oro, diamanti, manganese, fosfati e altre – sfruttate da multinazionali statunitensi ed europee, il cui oligopolio è però ora messo a rischio dalla crescente presenza economica cinese.
Da qui la «stabilizzazione» militare dell’area, cui partecipa l’Italia inviando in Niger 470 uomini e 130 mezzi terrestri, con una spesa annua di 50 milioni di euro. A tali impegni si aggiunge quello che l’Italia ha assunto il 10 gennaio: il comando della componente terrestre della Nato Response Force, rapidamente proiettabile in qualsiasi parte del mondo. Nel 2018 è agli ordini del Comando multinazionale di Solbiate Olona (Varese), di cui l’Italia è «la nazione guida». Ma – chiarisce il Ministero della difesa – tale comando è «alle dipendenze del Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa», sempre nominato dal presidente degli Stati uniti.
L’Italia è quindi sì «nazione guida», ma sempre subordinata alla catena di comando del Pentagono.
Tutti parlano del libro esplosivo su Trump, con rivelazioni sensazionali di come Donald si fa il ciuffo, di come lui e la moglie dormono in camere separate, di cosa si dice alle sue spalle nei corridoi della Casa Bianca, di cosa ha fatto suo figlio maggiore che, incontrando una avvocatessa russa alla Trump Tower di New York, ha tradito la patria e sovvertito l’esito delle elezioni presidenziali. Quasi nessuno, invece, parla di un libro dal contenuto veramente esplosivo, uscito poco prima a firma del presidente Donald Trump: «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti».
È un documento periodico redatto dai poteri forti delle diverse amministrazioni, anzitutto da quelli militari.
Rispetto al precedente, pubblicato dall’amministrazione Obama nel 2015, quello dell’amministrazione Trump contiene elementi di sostanziale continuità. Basilare il concetto che, per «mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera», occorre avere «la forza e la volontà di esercitare la leadership Usa nel mondo».
Lo stesso concetto espresso dall’amministrazione Obama (così come dalle precedenti): «Per garantire la sicurezza del suo popolo, l’America deve dirigere da una posizione di forza»..
Rispetto al documento strategico dell’amministazione Obama, che parlava di «aggressione russa all’Ucraina» e di «allerta per la modernizzazione militare della Cina e per la sua crescente presenza in Asia», quello dell’amministrazione Trump è molto più esplicito: «La Cina e la Russia sfidano la potenza, l’influenza e gli interessi dell’America, tentando di erodere la sua sicurezza e prosperità».
In tal modo gli autori del documento strategico scoprono le carte mostrando qual è la vera posta in gioco per gli Stati uniti: il rischio crescente di perdere la supremazia economica di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali, anzitutto Cina e Russia le quali stanno adottando misure per ridurre il predominio del dollaro che permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale.
«Cina e Russia – sottolinea il documento strategico – vogliono formare un mondo antitetico ai valori e agli interessi Usa. La Cina cerca di prendere il posto degli Stati uniti nella regione del Pacifico, diffondendo il suo modello di economia a conduzione statale. La Russia cerca di riacquistare il suo status di grande potenza e stabilire sfere di influenza vicino ai suoi confini. Mira a indebolire l’influenza statunitense nel mondo e a dividerci dai nostri alleati e partner».
Da qui una vera e propria dichiarazione di guerra: «Competeremo con tutti gli strumenti della nostra potenza nazionale per assicurare che le regioni del mondo non siano dominate da una singola potenza», ossia per far sì che siano tutte dominate dagli Stati uniti. Fra «tutti gli strumenti» è compreso ovviamente quello militare, in cui gli Usa sono superiori.
Come sottolineava il documento strategico dell’amministrazione Obama, «possediamo una forza militare la cui potenza, tecnologia e portata geostrategica non ha eguali nella storia dell’umanità; abbiamo la Nato, la più forte alleanza del mondo».
La «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti», a firma Trump, coinvolge quindi l’Italia e gli altri paesi della Nato, chiamati a rafforzare il fianco orientale contro l’«aggressione russa», e a destinare almeno il 2% del pil alla spesa militare e il 20% di questa all’acquisizione di nuove forze e armi.
L’Europa va in guerra, ma non se ne parla nei dibattiti televisivi: questo non è un tema elettorale.
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Si è tenuto il giorno sabato 10 febbraio 2018 a Torino, presso il caffé Basaglia, in via Mantova 34 dalle ore 10 alle 17.30, il convegno nazionale: GIORNO DEL RICORDO, UN BILANCIO
Il leader del movimento civile serbo \"Libertà, democrazia, verità\" Oliver Ivanovic è stato ucciso in un agguato a Kosovska-Mitrovica. Lo ha riferito al giornale Blic l\'avvocato del politico...
Arrêté en janvier 2014 pour de supposés « crimes de guerre », le chef historique des Serbes du Nord du Kosovo, Oliver Ivanović, a pu aujourd’hui quitter la prison de Mitrovica Nord après la décision du tribunal de l’assigner en résidence surveillée. Sa condamnation en première instance a été annulée le 16 février par la Cour d’appel de Pristina...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/oliver-ivanovic-en-residence-surveillee.html
http://www.courrierdesbalkans..fr/le-fil-de-l-info/affaire-oliver-ivanovic-point-partiel-sur-la-situation..html
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/7872
http://www.blic.rs/Vesti/Ekonomija/247175/Ivanovic-Beograd-protiv-privatizacije-Trepce
Cinque colpi di arma da fuoco in pieno giorno, esplosi da un\'auto in corsa nel centro di Mitrovica nord, la metà serba della città simbolo della divisione tra serbi e albanesi in Kosovo. Così, nelle prime ore del mattino di martedì 16 gennaio, è stato ucciso Oliver Ivanović, uno dei leader politici più noti e discussi della comunità serbo-kosovara.
Al momento è ancora difficile fare supposizioni su mandanti e moventi dell\'omicidio, che fa ripiombare il Kosovo in un\'atmosfera di forte tensione a un mese dalle celebrazioni per il decennale della dichiarazione di indipendenza di Pristina da Belgrado, avvenuta il 17 febbraio 2008.
Di certo Ivanović paga il suo essere un personaggio scomodo, fuori dagli schemi, inviso a molti sia in campo albanese che in quello serbo. Leader dell\'Iniziativa civica \"Sloboda, demokratija, pravda - SDP\" (Libertà, democrazia, giustizia), Ivanović era entrato sulla scena politica kosovara dopo il conflitto armato del 1999-2000.
Dal 2001 al 2007 aveva rappresentato la minoranza serba al parlamento di Pristina, mentre dal 2008 al 2012 era stato segretario di stato del ministero serbo “per il Kosovo e la Metohija”.
Il leader politico serbo-kosovaro era noto per le sue posizioni sfaccettate: fermo sull\'inaccettabilità dell\'indipendenza del Kosovo, ma aperto al confronto alla ricerca di soluzioni pragmatiche per consentire la coabitazione e la collaborazione tra le comunità kosovare. Spesso cercato dai media internazionali, Ivanović era uno dei pochissimi politici serbo-kosovari a rivolgersi agli albanesi-kosovari nella loro lingua.
Negli ultimi anni aveva assunto posizioni sempre più critiche nei confronti di Belgrado, che accusava di voler controllare in modo autoritario la vita politica dei serbo-kosovari attraverso l\'imposizione dall\'alto della “Srpska Lista” (Lista serba), formazione legata al presidente Aleksandar Vučić.
Nel 2014 il colpo di scena: Ivanović viene accusato da una corte EULEX - la missione UE in Kosovo - di crimini di guerra contro la popolazione civile albanese nel biennio 1999-2000. Ivanović si dichiara innocente, ma in primo grado viene condannato a nove anni. A inizio 2017, però, la Corte di Appello di Pristina annulla il verdetto, ordinando una ripetizione del processo, ancora in corso.
In una recente intervista per il settimanale “Vreme”, Ivanović aveva espresso forti preoccupazioni per il clima di instabilità in Kosovo e la propria incolumità personale (lo scorso luglio, l\'automobile del politico era stata data alle fiamme), puntando il dito contro i gruppi malavitosi serbi che operano – secondo il leader di SDP in modo indisturbato – nel Kosovo settentrionale.
L\'uccisione di Ivanović ha avuto subito larga eco in Kosovo e nella regione. Tutti i leader politici, kosovari, serbi e internazionali hanno condannato con fermezza l\'omicidio, che rischia di cementare la situazione di stallo o addirittura di aprire nuovi e imprevedibili scenari di scontro.
La prima conseguenza diretta è stata la decisione di Belgrado di ritirare la propria delegazione a Bruxelles, impegnata nel tentativo di riaprire il difficile negoziato con la controparte kosovara, che negli ultimi anni ha fatto registrare rari e limitati passi in avanti.
I giorni dell\'entusiasmo per la firma degli Accordi di Bruxelles (aprile 2013), voluti e sponsorizzati dall\'UE, sembrano ormai lontani, e il punto centrale di quell\'intesa, la creazione di un\'Associazione delle Municipalità serbe in Kosovo - che dovrebbe garantire un alto grado di autonomia ai serbi del Kosovo - rimane lettera morta.
In questi anni le comunità serba e albanese hanno imparato faticosamente a coabitare, gli incidenti di violenza inter-etnica sono diminuiti, ma le speranze di un vero superamento delle ferite del conflitto e di un nuovo clima di convivenza restano frustrate.
Nel frattempo, il Kosovo continua a vivere una situazione politica, sociale ed economica estremamente difficile. L\'incapacità di raggiungere un accordo col vicino Montenegro sulla definizione dei confini condanna il paese – caso unico nei Balcani occidentali – a rimanere sulla “lista nera” di Schengen, povertà e corruzione restano endemici, lo sviluppo economico anemico.
Nelle ultime settimane, ripetuti tentativi del parlamento di Pristina di azzerare la nuova Corte Speciale - voluta dall\'UE per giudicare i presunti crimini di guerra della guerriglia albanese dell\'UÇK -, che potrebbe portare alla sbarra nomi importanti dell\'élite albanese-kosovara oggi al potere, presidente Hashim Thaçi e premier Ramush Haradinaj inclusi, ha provocato ferme reazioni sia da parte europea che statunitense. C\'è il rischio reale di guastare i rapporti tra Pristina e quelli che restano i principali garanti della fragile indipendenza kosovara..
Una situazione complessa, che l\'omicidio di Ivanović rende ancora più delicata.
Београдски Форум за свет равноправних најоштрије осуђује терористички акт убиства Оливера Ивановића, истакнутог српског политичара, 16. јануара 2018. године у Косовској Митровици, и изражава најдубље саучешће породици због овог ненадокнадивог губитка. Београдски форум се придружује захтевима јавности да истрага, у најкраћем року утврди ко су извршиоци и налогодавци овог гнусног злочина и да их приведе правди што је услов за отклањање дубоке забринутости и узнемирености грађана Србије, посебно српског народа на Косову и Метохији. У том погледу, очекује се да цивилно и безбедносно присуство УН – КФОР и УНМИК, као и ЕУЛЕКС, одговорно и ефикасно извршавају своје одговорности, у складу са резолуцијом Савета безбедности УН 1244 (1999).
БЕОГРАДСКИ ФОРУМ ЗА СВЕТ РАВНОПРАВНИХ
IN MEMORIAM
ОЛИВЕР ИВАНОВИЋ
Оливер Ивановић је био изузетно честит човек. Личност важна не само за своју породицу и пријатеље, већ и за ширу јавност и народ. Један од ретких, ако не и једини политичар, који је истински схватао да је немогуће да сви имају једнако мишљење или поглед на ствари, и прихватао ту чињеницу као неизбежну полазну основу. За њега су разлике у мишљењу биле разлог да се разговара. Никада није одбацивао људе са другачијим виђењима, идејама или плановима за будућност. Никада никога није вређао, ни оне који су му се супротстављали или одбацивали, нити оне који су му правили проблеме. Због тога је временом задобио поштовање и оних који су га волели али и оних који га нису волели, оних који су са њим делили неке или све вредности, али и оних чије су вредности биле другачије. У шали је знао да каже да на Косову и Метохији људе могу да воле или да их поштују, а да је он лично увек давао предност поштовању.
Увек са осмехом, био оно што јесте: Оливер, Србин са Косова и Метохије, који жели да помогне свом народу тако да то не иде на штету другог или других народа, и који жели да објасни и докаже припадницима другог народа да њихова срећа никако не може да се изгради на несрећи његовог, српског народа.
Одликовало га је потпуно разумевање, иначе, веома сложених прилика на Косову и Метохији, како садашњих тако и свих других околности из ближе и даље историје које су утрле пут данашњем стању ствари. Познавао је све локалне менталитете и системе вредности и све их је уважавао. Познавао је јавну сцену али и закулисне радње, знао је границе до којих иду легалне а преко којих почињу она друга дешавања и радње. И у свему је остао чист.
Много је знао, али никад није користио своја сазнања да нашкоди другима, да блати друге, па је чак из принципа одбијао да то што му је познато користи као уцену или превентиву да сачува и брани самог себе.
Говорио је или разумевао много језика, укључујући све локалне језике на Косову и Метохији, и то је користио да спаја људе. А резултат је био да је људе придобијао. Са сваким се поздрављао чврстим стиском руке, гледајући саговорника у очи и са осмехом. За њега је свако био човек, личност, а не представник ове или оне групе, нације или организације. За њега нико није био \"обичан\" човек, сви смо за њега били посебни и важни. Много је људи којима је помагао, много је оних који га по добру помињу.
Умео је да води чак и непријатне разговоре тако да никог не увреди, а да при томе свако има прилику да искаже своје мишљење. Никад није одбијао да говори и на скуповима за које је било унапред јасно да ће бити непријатељски интонирани према њему или према ономе што је био: Србин са Косова и Метохије, и ономе шта је представљао: српског политичара. На тим скуповима је углавном знао да изазове осмехе и климање глава у знак прихватања или, бар, разумевања за оно што је говорио.
Стоички је подносио своју наметнуту улогу такозваног алиби ратног злочинца са српске стране којом су одређени заговорници тзв. косовског конструкта хтели да релативизују кривицу и наметну је искључиво Србима. Његова ненаметљива и тиха победа огледала се у томе што су и сведоци тужилаштва говорили о њему са уважавањем.
Оливер Ивановић је био човек мост, који је целог века настојао да спаја људе, јер му је било јасно да изолованост не води никуд. Оливер Ивановић је био човек који је имао визију за будућност која није била заснована искључиво на подељености.
Злочинац који је извршио егзекуцију убио је човека, оца, мужа, брата, рођака, пријатеља, лидера, а можда и наду за будућност коју се Оливер трудио да оствари.
Оно што можемо да урадимо јесте да га памтимо као часног човека, благослов који су многи умели да цене, и да покушамо да следимо његову доброту, да останемо верни себи и да пружимо руку уз јасно очекивање да у разговору добијемо исто поштовање које смо спремни да пружимо.
Нека ти је лака земља Оливере, поносна сам што сам те познавала.
Бранка Митровић
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U decembru 2018. navršiće se sto godina od nastanka Jugoslavije. Da li će, tko i kako taj jubilej obilježiti? Zašto Jugoslavija nije bila vještačka tvorevina, šta su njeni najveći dometi, a šta slabosti i kakve je tragove iza sebe ostavila? O ovim i drugim pitanjima vezanim za zemlju koje više nema, govori istoričarka Radina Vučetić, docentkinja na Odeljenju za istoriju Filozofskog fakulteta u Beogradu, autorica knjiga Koka-kola socijalizam i Monopol na istinu.
„VREME\": Pred balkanske ratove Srbija i Crna Gora bile su nezavisne države, Makedonija i Kosovo u sastavu Turske, a Slovenija, Hrvatska i Bosna i Hercegovina u Austrougarskoj. Šta su tada ove zemlje predstavljale u globalnim okvirima i možemo li povući paralelu sa njihovim današnjim međunarodnim položajem?
RADINA VUČETIĆ: Same ili u okviru velikih carstava, na njihovim rubovima, ove države nisu bile važni činioci ni evropske, a kamoli svetske politike. Imale su status provincije – i bukvalno i u dubljem značenju. Tek sa Jugoslavijom, svakoj od njih rastao je značaj. Nastala je relativno velika država na Balkanu i u Evropi – veća od svih svojih suseda, sem od Italije i naročito ako govorimo o drugoj Jugoslaviji, zemlja za koju se znalo u celom svetu. Vidna na mapi, ona je bila još vidnija po svojim vrednostima u raznim oblastima. Gde su danas sve države nastale posle raspada te i takve Jugoslavije? Kako ja imam običaj da kažem, od jedne smislene nastao je veliki broj besmislenih država, ma kako to strašno zvučalo. Ali čak i one države koje su u Evropskoj uniji danas u svetskim okvirima malo znače i malo toga važnog predstavljaju, pa dolazi do situacija da i neko ko mora da se razume u politiku i Balkan, kao Serž Bramerc, može da izjavi da je Kolinda Grabar Kitarović predsednica Srbije. Ili, kada vas u inostranstvu pitaju odakle ste pa kažete iz Srbije, često usledi ono pitanje „da li je tamo hladno\", jer misle da je Srbija Sibir. Sve ove novonastale zemlje, nažalost, i dalje su svetu prepoznatljive prvenstveno kao poprišta krvavih ratova devedesetih ili, ako ćemo gledati s pozitivnije strane, po dobrim sportistima i sportskim reprezentacijama. A kada već spominjem sport, ako su nam tako jake pojedinačne državne reprezentacije, kakve bi tek bile reprezentacije Jugoslavije, da ta država još postoji?
Što za jugoslavenske narode predstavlja ideja ujedinjenja?
Ma iz kojih pozicija i ma s kakvim namerama razmišljamo o Jugoslaviji, neizbežan je zaključak da je ona, u oba svoja života, bila okvir za emancipaciju i modernizaciju svih jugoslovenskih naroda i da su se u okviru nje konstituisale buduće republike, danas države, kao i da su najveći uzleti svih pojedinačnih naroda ostvareni upravo u toj zemlji. Kako kaže Mari Žanin Čalić, Jugoslavija je bila najozbiljniji modernistički poduhvat na ovim prostorima, a sve što se dešavalo od kraja osamdesetih i što se dešava i danas, u svojoj suštini je antimodernističko i vraća nas čitav vek unazad. Taj povratak u uske nacionalne zabrane, sve je to neki mračni 19. vek i u totalnoj je suprotnosti svemu onome što smo imali u obe Jugoslavije. Stepenicama za penjanje mi smo, uz nesporna penjanja, na kraju sišli takoreći na dno – zapravo, niz njih smo se sunovratili. Svi narodi koji su činili Jugoslaviju upravo su u njoj doživeli svoj istorijski i civilizacijski maksimum. S druge strane, ako pratimo poglede na Jugoslaviju iz novih država nastalih po njenom slomu, u njima se uglavnom negira sve pozitivno što je ujedinjenje donelo i uglavnom se stvaranje Jugoslavije pominje kao nekakvo „rešenje iz nužde\", međuprostor do novih samostalnih država. Zajednički život, svejedno da li viđen kao potreba ili kao nužda, bio je opterećen mnogim suprotnostima od kojih je najveći problem bio konstantno nerešavanje nacionalnog pitanja i pitanja (ne)ravnopravnosti država koje su se ujedinjavale u Kraljevinu Jugoslaviju i kasnije činile socijalističku Jugoslaviju. Stalni sukob centralističkog i federalističkog koncepta i suštinska nemogućnost pravog dijaloga ostavili su ova pitanja nerešenim u obe Jugoslavije. Paralelno sa ekonomskim i kulturnim uzletima još od prvog, Vidovdanskog ustava, Jugoslavijom je praktično dominirao centralističko-unitaristički koncept i na njemu se stalno sve lomilo dok se, na kraju, nije i slomilo. Međutim, ako se uporede značajna emancipacija svih naroda i njihov izlazak na međunarodnu scenu sa stalnim sukobima unutar nje, postavlja se pitanje da li je kolaps te države bio neminovan. Mislim da nije. Antagonizama je uvek bilo, ali tamo gde postoje prilike da se kroz zajedničke uspehe postižu i pojedinačni, da s napretkom celine napreduju i njeni delovi – što je u Jugoslaviji postojalo – antagonizmi i ne moraju da predstavljaju neku veću prepreku uspesima. Podižući sebe, ekonomski i kulturno, Jugoslavija je podizala i sve svoje delove i tako je postavljala, u mnogo čemu, temelje u svim oblastima u danas samostalnim, iz nje nastalim, državama.. Mnogo toga srpskog, hrvatskog, bošnjačkog, slovenačkog, makedonskog, crnogorskog, albanskog, čak i u materijalnom smislu, jugoslovensko je. I famozna „sukcesija\" to potvrđuje. Posvađana deca dele ono što su im ostavili roditelji kojih su se odrekli. Investirajući u sebe – figurativno ali i bukvalno – Jugoslavija je investirala i u Srbiju, Hrvatsku, Sloveniju, Crnu Goru, Bosnu i Hercegovinu, Makedoniju. Tragovi toga postoje i ostaju. Sve u svemu, ideja ujedinjenja nije bila samo državotvorna ideja. Bila je mnogo više od toga, te je otuda ostavila mnogo toga što živi i što će živeti ne samo na sentimentalnom i emotivnom planu.
Koliko je stvaranje obje Jugoslavije plod autentične želje njenih naroda, a koliko posljedica sklopa međunarodnih odnosa, to jest smije li se o Jugoslaviji govoriti kao o vještačkoj tvorevini?
Nikako se ni o prvoj, ni o drugoj Jugoslaviji ne može govoriti kao o veštačkim tvorevinama. Stvari nikad nisu toliko jednostavne, a upravo je teza o Jugoslaviji kao veštačkoj tvorevini služila da se negira ono što je bila realnost – a to je želja naroda za ujedinjenjem. Ta teza u potpunosti briše sve ono što je postojalo kao vidljivo od druge polovine 19. veka i čiji tragovi sežu mnogo dalje u prošlost. Tragovi želje za ujedinjenjem mogu se videti ne samo u političkim idejama nego i u svakodnevici, u kulturnom životu, što je, za Srbiju, istraživala moja koleginica Dubravka Stojanović. Ona je ukazala na prve pozorišne susrete Zagreba i Beograda još 1841; oni se intenziviraju od šezdesetih godina 19. veka, a početkom 20. veka se održavaju i Prva jugoslovenska izložba, Prvi kongres južnoslovenske omladine, Prvi kongres južnoslovenskih pisaca, letuje se u Abaciji i Fjumi (Rijeka), a u leto 1910, kao sada za Novu godinu, u posetu Beogradu dolazi grupa Slovenaca. Nije se, dakle, ta Jugoslavija 1918. desila slučajno, stihijski i kao plod svetske politike, nego kao rezultat težnji ljudi sa ovih prostora. Ali, mi smo skloni teorijama zavere, ne samo kada je nastanak Jugoslavije u pitanju nego i njen raspad, prebacujući odgovornost na nekog drugog, a ne tragajući za suštinskim problemima koji su postojali u obe Jugoslavije i koji su vodili njenom raspadu. Činjenica je da je jugoslovenska ideja zahvatala političke i intelektualne krugove u skoro svim nacionalnim sredinama. Zato se nikako ne može govoriti o „versajskoj Jugoslaviji\", ili o Jugoslaviji kao veštačkoj tvorevini, mada je međunarodni faktor takođe igrao određenu, ali nikako presudnu ulogu u njenom stvaranju.
Nijedna ulica u Beogradu ne nosi ime kralja Aleksandra Karađorđevića. Za razliku od Nikolaja II, on nema ni spomenik u glavnom gradu Srbije. Da li je u tome određenu ulogu odigrala i činjenica da se nalazio na čelu prve Jugoslavije, to jest njegova politika integralnog jugoslavenstva?
U Beogradu postoje samo biste Aleksandra Karađorđevića na ulazu u Arhiv Jugoslavije i u holu Doma Vojske Srbije. Pitanje zašto nema spomenika kralju Aleksandru zaista je interesantno i važno i na njega postoji više mogućih odgovora. Jedan od njih je da su godine posle ubistva kralja Aleksandra bile turbulentne godine velikih tenzija i da je to period udaljavanja od Francuske i liberalnih demokratija. I odustajanje od integralnog jugoslovenstva moglo je da bude jedan od razloga... Posle ubistva, kralj Aleksandar je nesumnjivo ostao prisutan u javnosti, ali se ta javnost menjala i nije više bilo političke opcije koja bi stala iza njegove politike. S druge strane, treba imati u vidu da je, ako govorimo o ubijenim vladarima, makar kod nas potrebno da prođe neko vreme da bi ti spomenici bili podignuti. Knez Mihailo je ubijen 1868, a spomenik mu je podignut 1882, dakle 14 godina kasnije. Isto je i sa Zoranom Đinđićem, koji je ubijen 2003, a priča o spomeniku se aktuelizuje tek sada. Kod spomenika je, pored toga kome se podiže, važno i ko ga podiže, tako da se nadam da spomenik Zoranu Đinđiću ipak neće biti podignut u ovim okolnostima. Nadam se i da će Mrđan Bajić i Biljana Srbljanović, koje izuzetno cenim, ipak još promisliti o tome šta sve podizanje jednog takvog spomenika nosi sa sobom i da li im je potrebno da učestvuju u pranju biografije Aleksandra Vučića. Nesporno je da je podizanje spomenika Zoranu Đinđiću opšte dobro s istorijskim dimenzijama, a svemu spornom oko toga, od estetike do politike, meru će odrediti javnost i vreme. Što se pak tiče spomenika kralju Aleksandru Karađorđeviću u našem dobu, izgleda da on tek danas nije nikom potreban, jer ideologija jugoslovenstva i svega onog što je predstavljao očigledno za nas nema nikakvog značaja, pred naletom raznih ruskih careva i horista – ili azerbejdžanskih diktatora. Ima tu i šireg i dubljeg „našeg\", čak do bizarnosti.
Koliko je Tito preuzeo i nastavio dijelove Aleksandrove vanjske politike kada je riječ o Balkanu i Evropi u prvim godinama nakon Drugog svjetskog rata?
Ja ipak ne bih poredila Aleksandrovu i Titovu spoljnu politiku: svet posle 1945. u hladnoratovskim okolnostima bio je sasvim drugačiji. Možda ima neke sličnosti u svesti o važnosti regionalnih kontakata i saveza koji bi predstavljali branu od mnogo jačih neprijatelja. Za kralja Aleksandra je to bila Mala Antanta, a za Tita ideja o Balkanskom paktu. Ipak, radi se o potpuno drugačijim situacijama i istorijskim trenucima, a ono što donekle povezuje spoljnu politiku Aleksandra i Tita svakako je opšte mesto da je politika veština mogućeg i da su se oni, ni manje ni više od evropskih i svetskih vođa, toga i držali.
Aleksandar i Tito bili su vrhovni komandanti, ratni pobjednici, šefovi tek formirane, odnosno obnovljene Jugoslavije. Mogu li se uporediti po političkom i ličnom stilu?
Takve paralele su nezahvalne jer imamo monarha i predsednika socijalističke republike i dve, u mnogo čemu, različite države. Zanimljivo je, međutim, pratiti stil i kult ličnosti obojice, jer su i jedan i drugi bili snažne ličnosti i neprikosnoveni vladari u svojim državama do smrti. U ta dva različita sistema postojala je slična forma, ali potpuno različita suština. Za „najvećeg sina našeg naroda\" nije proglašavan samo Tito nego i kralj Aleksandar. Nisu samo u socijalističkoj Jugoslaviji ulice ili različite institucije nazivane po Titu, nego za vreme kraljevine i po kralju Aleksandru. I smrti oba vladara (Tita i kralja Aleksandra) takođe su bile povodi za jačanje njihovog kulta. Titov kult ličnosti se često prikazuje kroz njegov rođendan, proslavljan kao Dan mladosti, a i u Kraljevini Jugoslaviji bio je izrazito jak kult rođendana i kralja Aleksandra i prestolonaslednika Petra Karađorđevića. Takvih primera je zaista mnogo, i ta forma koju je komunista Tito preuzeo od jednog kralja služila je da omogući lakše preuzimanje vlasti i lakšu legitimaciju novog poretka. Ali mi to, u nekom začetku, imamo i danas, tu idolatriju čiji je predmet prvi čovek u državi bilo da se radi o kralju, predsedniku socijalističke ili premijeru ili predsedniku nazovi demokratske države. Dakle, potpuno je nebitno da li govorimo o nacionalnoj ili višenacionalnoj državi, monarhiji ili republici, komunizmu ili postkomunizmu, jednopartijskoj ili višepartijskoj diktaturi – mi kao da ne možemo bez kulta ličnosti, odnosno bez vođe. To je samo pokazatelj jednog suštinski patrijarhalnog i konzervativnog društva, bez ikakve političke kulture, društva koje traži svog Hrista spasitelja, najčešće kada ni o religiji niti o hrišćanstvu ne zna ništa.
Što su bile Titove „crvene linije\" u vanjskoj politici i kakvo mjesto u istoriji zauzima njegovo „ne\" Staljinu?
Tito je razlazom sa Sovjetskim Savezom napravio najznačajniji potez u istoriji socijalističke Jugoslavije. Reći „ne\" Staljinu i Sovjetskom Savezu bila je neverovatna hrabrost i, ispostaviće se, Titova najmudrija odluka. To je jedan fascinantan politički čin koji je opredelio živote ljudi u Jugoslaviji posle 1948, sve do njenog raspada. Jugoslavija je tako ostala zemlja sa socijalističkom ideologijom, ali sa zavidnim slobodama koje ne mogu da se porede sa onim u Istočnom bloku. Drugo, Tito je umeo da proceni hladnoratovsku situaciju i da od Zapada izvuče najveću moguću korist, a u želji da očuva neutralnost Jugoslavije on se istovremeno okrenuo zemljama Trećeg sveta i postao jedan od lidera nesvrstanih, uspevši da sebe uzdigne u političku figuru svetskog formata. Danas se Tito negira na milion načina, ali njegova uloga u svetskoj politici je zaista bila izuzetna. Prolazila sam kroz arhivsku građu mnogih ključnih događaja, od sukoba na Bliskom istoku do invazije Čehoslovačke – imate situaciju da američki predsednici i svetski lideri pišu Titu i pitaju ga za mišljenje, traže da posreduje. Otuda me čudi, naročito od nekih ljudi sa političkim ambicijama, kada lako (dis)kvalifikuju Tita, bez razumevanja njegovog stvarnog značaja u svetskim okvirima koji mu danas priznaje i vodeća svetska istoriografija. Naravno da je njegovo „ne\" Staljinu imalo, uz deklarativne, i svoje prikrivene protivnike do današnjih dana. Duhovita je, u tom smislu, dosetka da su neka politička previranja, pa i Osma sednica, bila i „revanš\" za 1948, a možda je to i više od dosetke. Što se „crvenih linija\" tiče, one uvek postoje, ali mudri i uspešni političari umeju da prepoznaju trenutak i istorijsku potrebu da pomere i te linije. Mesec, dva ili tri, možda čak i samo dan pre Titovog „ne\" Staljinu, podrška Moskvi bila je najčvršća „crvena linija\", a nestala je takoreći u trenu. I De Gol je francusku „crvenu liniju\" – da je Alžir francuski i da će to večno biti – izbrisao preko noći, bolno ali uspešno. Apsolutizacija „crvenih linija\" u politici, kao uostalom i u životu, lepo i principijelno zvuči, ali često donosi štetu. To je i Tito, ni prvi ni poslednji u politici, savršeno umeo da prepozna.
Predsjednik Aleksandar Vučić izjavio je dok je bio premijer da je Srbija imala više diplomatskih posjeta, pritom i značajnijih, nego što je Titova Jugoslavija u svojih najboljih pet godina. Pohvalio se kasnije i da je za tri godine uradio koliko i Tito u Jugoslaviji, a sada najavljuje da će 2018. posjetiti petnaest afričkih država. Mogu li se današnji predsjednici samostalnih država na tlu Jugoslavije po bilo čemu usporediti sa Titom?
Niti jedan predsednik bilo koje od samostalnih država na tlu Jugoslavije ni po čemu se ne može porediti sa Titom. Međutim, iz mnogobrojnih postupaka deluje da bi Aleksandar Vučić jako želeo da on bude odgovor na onu dilemu s kraja osamdesetih – „Srbija se sada pita ko će nama da zameni Tita\". U poslednje vreme intenzivno pratim želju našeg predsednika da korača Titovim putem kada je spoljna politika u pitanju. Međutim, on ne razume da ovo vreme nije vreme Hladnog rata, niti da Srbija nije Jugoslavija. Zanimljivo je kako čovek koji je ponikao iz stranke koja je htela da glogovim kocem probada Tita i izbacuje njegov grob iz Kuće cveća, odjednom želi da bude novi Tito. To se vidi iz mnogih njegovih poteza, s tim što mislim da on, za razliku od Tita, nevešto balansira između Rusije i Zapada. Jedan od tih poteza je svakako i afrička turneja. S druge strane, ta njegova stalna prebrojavanja koliko se puta s nekim rukovao, koliko puta je negde bio zaista su smešna jer te brojke same po sebi ne znače ništa.. Broje se rezultati diplomatskih poseta, a ne one same. Koliko li se puta Tito rukovao sa Staljinom, ali se broji samo kad mu je „zavrnuo\" ruku. Što se Afrike tiče, to mi je posebno zanimljivo jer se trenutno bavim Titom i Afrikom; baš razmišljam zašto 15 zemalja, kad Aleksandar Vučić u svemu želi da nadmaši Tita, a Tito je, koliko se sećam, ukupno posetio 16 afričkih zemalja. Da je bar rešio da obiđe 17, to bi mi već bilo jasno, pošto bi to zaista bilo „prvi put u istoriji\". S druge strane, Titovo najduže političko putovanje je bilo 1961, kada je „Galebom\", na „putu mira\" koji je trajao 72 dana, posetio sedam afričkih zemalja. U tom smislu, 15 je svakako više od sedam, samo Vučiću fale i „Galeb\" i neki novi Dobrica Ćosić na tom „Galebu\", ali i Danilo Kiš da nam to opiše, pa da uživamo.
Inače, kako tumačite da je po prošlogodišnjem istraživanju Demostata, Tito „najpopularniji lider u Srbiji\"?
Pa i ne iznenađuje me. To je delom vezano za jugonostalgiju i titostalgiju, ali ne govori toliko o našem odnosu prema prošlosti, koliko o našem odnosu prema sadašnjosti. Ništa ne ulepšava prošlost efektnije od loše sadašnjosti. To, delimično, ima veze i s tim da mi, jednostavno, volimo lidere, vođe i jake autoritarne ličnosti, a s druge strane, ipak postoji svest o tome šta je bila zemlja koju je Tito vodio i koliki je bio njen međunarodni značaj. Postoji, na kraju krajeva, i svest o tome kako se živelo, a živelo se – ako govorimo o životu običnih ljudi koji treba da preguraju mesec od svoje plate, odu sa decom na more, imaju zagarantovano zdravstveno osiguranje i adekvatnu zdravstvenu negu – sigurno bolje nego što se živi danas. Kako izgleda živeti danas u bilo kojoj bivšoj jugoslovenskoj republici? Ogromna nezaposlenost, niske plate, velika beda i siromaštvo, poluuspela ili neuspela tranzicija, skandalozne privatizacije, namešteni tenderi, otvorene pljačke, korupcija, odsustvo pravne države... U tom smislu, naravno da sećanja i na Jugoslaviju i na Tita bude pomešane emocije, pa tako Tito istovremeno uspeva da bude i ozloglašeni komunistički diktator i najpopularniji lider u Srbiji. Mesta na listama popularnih u bilo čemu, pa i u politici, nisu uvek objektivan prikaz vrednosne skale, ali su uvek snažan otisak „kolektivizacije\" subjektivnog, ponajčešće mešavine trenutnog stanja, ukusa i emocija.
Kad smo kod kolektivnog sjećanja i života u bivšoj Jugoslaviji, šta su to bila njena najveća dostignuća?
Odakle god da se krene, rezultati su u poređenju sa današnjim zaista impresivni. Ako gledamo spoljnu politiku socijalističke Jugoslavije, jedna relativno mala zemlja imala je međunarodni ugled koji je daleko prevazilazio njenu veličinu. Analiziramo li dalje umetnost, arhitekturu, obrazovanje, nauku, zdravstvo, univerzitet, ekonomiju, izgradnju infrastrukture, videćemo da su tada moćne firme poput Energoprojekta ili Ingre gradile po celom svetu. Svuda je napravljen neverovatan skok koji je neuporediv ne samo sa uslovima naših života danas nego i sa životom u Kraljevini Jugoslaviji, a ona se, za razliku od socijalističke Jugoslavije, po pravilu glorifikuje, idealizuje i romantizuje. Dobijanje stanova od firmi, mogućnost školovanja, neverovatan rast broja pismenih, dobijanje prava glasa za žene i njihova emancipacija, urbanizacija, industrijalizacija – sve se to postizalo neverovatno krupnim koracima u SFRJ. Zahvaljujući sukobu sa Sovjetskim Savezom, i sama Partija se menjala, demokratizovala, kao i celo društvo. Imali smo neku formu nestranačke, odnosno jednopartijske socijalističke demokratije, sve do početka sedamdesetih, kada se ponovo vraća tvrdi kurs i kada, zapravo, Jugoslavija gubi šansu da kraj komunizma dočeka kao lider, a ne kao gubitnik tranzicije. Naravno, u kolektivnom sećanju nisu ostale samo pozitivne stvari – sećanja neminovno diktiraju, menjaju i preusmeravaju kako način na koji se ta zemlja raspala tako i mnogobrojne probleme koji su bili deo jugoslovenske stvarnosti. Jugoslavija je imala svoja dva lica – politički je to bila zemlja između Istoka i Zapada, to jest i na Istoku i na Zapadu. Na temu svakodnevice i sloboda, bila je to zemlja holivudskih i hladnoratovskih filmova, ali i zabrane filmova Crnog talasa; zemlja avangardnih predstava na BITEF-u, ali i zemlja skidanja pozorišnih predstava sa repertoara jugoslovenskih pozorišta, poput predstave Kad su cvetale tikve Dragoslava Mihailovića ili dramâ Aleksandra Popovića; zemlja koja pokazuje slobodu „Plejbojem\" na kioscima, ali i rigidnost zabranama „Studenta\", „Praxisa\", „Naših dana\"; zemlja samoposluga po američkom modelu u kojima je moguće kupiti stranu robu, ali i zemlja bonova za brašno, šećer i ulje i restrikcija struje. Na kraju krajeva, bila je to zemlja bratstva i jedinstva, sa krvavim bratoubilačkim ratom na njenom kraju. Ipak, za sagledavanje te socijalističke Jugoslavije, mora se, pre svega, imati u vidu širi istorijski kontekst – to je bila socijalistička zemlja u hladnoratovskom okruženju. Kao takva, zahvaljujući otpadništvu od Sovjetskog Saveza i otklonu od Istočnog bloka, a nalazeći se izvan „gvozdene zavese\", uspela je da ostvari neverovatan civilizacijski uspon i da za Istok bude izlog Zapada. Jugoslaviju sa svim njenim i pozitivnim i negativnim nasleđem mi danas brišemo iz sećanja. Ako se bilo koji period sopstvene istorije potpuno odbacuje, to predstavlja veliki luksuz, naročito za male države i male narode. Mada se često čuje da nas prošlost određuje, mi našoj prošlosti pristupamo selektivno, zbog dnevnih potreba, po merama dnevnih interesa. Loše posledice perioda komunizma uglavnom su planetarno poznate, ali je zaista mnogo pokazatelja i „dobrih ostataka\" jugoslovenskog socijalizma. Međutim, kod nas kao da je sve što je valjalo ukinuto ili planski potisnuto u zaborav, dok smo zadržali mnoge negativne strane komunizma – autoritaran način mišljenja, jednoumlje, partijsku kontrolu svih oblasti života, valjda srećni što se to više ne zove komunizam, nego demokratija. Menjajući termine – „moralno-politička podobnost\" je danas „stranačka pripadnost\", nedodirljiva „vlast radničke klase\" je nedodirljiva „vlast stranke\"... Suštinski, u negativnostima malo šta smo promenili, a nešto od toga „unapredili\".
Kako ocjenjujete aktualnu kulturu i umjetnost u odnosu na onu iz Jugoslavije, pogotovo one druge?
Malo je nezahvalna pozicija da ja kao istoričarka ocenjujem aktuelnu kulturnu i umetničku scenu – to pre mogu kao građanka. Ali činjenica je da je naša kultura sve više parohijalna i sve manje vidljiva – da ne kažem nevidljiva – u međunarodnim okvirima. Ako se osvrnemo i na Kraljevinu Jugoslaviju i na socijalističku Jugoslaviju, mi smo bili deo evropskih i svetskih kulturnih trendova. Naši su nadrealisti, uglavnom levičari, bili autentični i deo svetskog nadrealističkog pokreta; o njihovim dometima govori i deo stalne postavke Muzeja savremene umetnosti. Meštrović je takođe jugoslovenski autor koji je daleko prevazišao jugoslovenske okvire. I jugoslovenski socijalistički modernizam je bio nešto što je služilo za ponos zemlji i prevazilazilo uske, lokalne okvire. Uz to, pošto se bavim i kulturnom diplomatijom, fascinantno je koliko je socijalistička Jugoslavija shvatala značaj kulturne diplomatije i slala ljude iz samog vrha jugoslovenske umetnosti da je predstavljaju u svetu – bilo da se radilo o likovnim umetnicima, autorima Crnog talasa, koji su pritom oštro kritikovali sistem, ili o pozorišnim umetnicima i muzičarima. Zemlji su „smetali\" na unutrašnjem planu Živojin Pavlović, Dušan Makavejev, Aleksandar Petrović, Želimir Žilnik, ali su joj i te kako koristili njihovi međunarodni uspesi. Tamo gde nema ostrašćenosti, a gde ima političke mudrosti, gol se slavi i kada ga postigne neko za koga ne navijamo. Naša država to danas ne ume. To ne znači da nema vrhunskih umetnika, ali nemamo kulturnu politiku i političku toleranciju. Kao građanka, bila sam poražena našim paviljonom na ovogodišnjem Bijenalu u Veneciji. U tom smislu, imam utisak da se sve više zatvaramo i da nam je svet, pa i kada govorimo o aktuelnoj kulturi i umetnosti, sve dalji.
Socijalistička Jugoslavija ostavila je značajnu spomeničku i arhitektonsku zaostavštinu. Kako vam izgledaju „Beograd na vodi\" i najnoviji trend podizanja spomenika – od Borislava Pekića, Nikole Tesle pa do Zorana Đinđića?
Za vreme socijalizma podizani su moderni spomenici – dovoljno je da se osvrnemo na spomenike Bogdana Bogdanovića, Vojina Bakića, Dušana Džamonje i, uopšte, na umetnost socijalističkog modernizma. Time smo se ponosili onda, a trebalo bi i sada. Pogled na spomenike i memorijale vezane za Narodnooslobodilačku borbu i pogled na spomenike caru Nikolaju, Nikoli Tesli, fontane i šedrvane od jeftinog mermera gde im mesto nije, na te šarene sijalice kojima su osvetljene najznačajnije državne institucije – Skupština izgleda kao neki tematski hotel u Las Vegasu – zaista daju vrlo preciznu sliku i o socijalističkoj Jugoslaviji i o današnjoj Srbiji. Od nekadašnjeg socijalističkog modernizma došli smo do nekog naprednjačkog socrealizma. Spomenici kao da se podižu samo za one s gipsanim lavovima u dvorištima. Dovoljno je pogledati Novi Beograd, koji je bio čudo modernističke arhitekture i koji se danas u svetu izučava na arhitektonskim fakultetima gde sada između modernih blokova niču crkve, kopije Ravanice i Gračanice, što sebi ne bi trebalo da dozvoli ni najudaljenija i nejnerazvijenija provincija, a kamoli Beograd. U modernim svetskim metropolama ima i katedrala i džamija iz daleke prošlosti, građenih u ondašnjem stilu, ali se nove katedrale i džamije grade u duhu arhitektonskih dometa graditeljstva novog doba. Beograd je danas, s tom količinom jeftinog mermera, lošeg betona, šarenih sijalica, umesto u neku novu modernizaciju, ušao u skopljeizaciju... Mnogo će nam vremena biti potrebno, kad se jednom ovo završi, da ga vratimo u neke evropske i svetske tokove.
Često se ističe nedemokratski, autoritarni karakter Jugoslavije, pogotovo one druge. Koliki je on, u kontekstu svog vremena, zaista bio?
O tome bih govorila na primeru cenzure u socijalističkoj Jugoslaviji, kojom sam se bavila u knjizi Monopol na istinu, a cenzura je, eto, vrlo zgodna za poređenje sa današnjim trenutkom i za promišljanje autoritarizma.. Danas je pogled na cenzuru u socijalističkoj Jugoslaviji gotovo po pravilu revizionistički i Jugoslavija se posmatra isključivo kao represivna zemlja u kojoj nije bilo nikakvih sloboda, a zanemaruju se činjenice koje ukazuju da je, na mnoge teme, tu bilo neverovatnih sloboda za jedno socijalističko društvo, naročito kada se govori o šezdesetim godinama i o umetnosti, medijima, nauci. Vi ste tada imali kritiku postojećeg sistema u štampi, sa univerziteta, u filmovima, na pozorišnim scenama, tribinama... U javnosti je to vreme oštrih debata neistomišljenika, poput tribina u Filozofskom društvu Srbije, ali i u partijskoj „Borbi\"; imate ozbiljne kritičke tekstove u „Studentu\", „Praxisu\", „Vidicima\"; imate Korčulansku letnju školu i Crni talas... Svuda se bespoštedno kritikuje jugoslovenski sistem. I to ne površinski, već dubinski. Kada je počela da se pojačava cenzura, krajem šezdesetih i početkom sedamdesetih godina, to je već bio znak da vlast gubi legitimitet – tada se beleži i veći broj zabrana i sudskih presuda protiv medija i umetnika. Upravo pojačavanje cenzure, u bilo kom vremenu i sistemu, najviše svedoči da vlast nije sigurna u sebe, a cenzura krajem šezdesetih i početkom sedamdesetih pokazuje da svaka vlast, u onom slučaju Partija, sama sebi zadaje najveći udarac gušeći slobode, medije i stvaralaštvo. Cenzurisanjem umetnika i različitih neistomišljenika – i to u zemlji koja je od sukoba sa Staljinom imala visok stepen umetničkih i mnogih drugih sloboda i bila otvorena za modernizam i avangardu – Partija je pokazala da u njoj nije bilo snage ni sposobnosti, a izgleda ni volje za nužne promene. Pošto sam se bavila cenzurom u socijalizmu i živela u Miloševićevo vreme, ne mogu se oteti utisku da je sadašnja cenzura, još u sadejstvu sa autocenzurom, mnogo opasnija i perfidnija. I u vreme socijalizma i u vreme Miloševića postojao je prostor za polemiku, a danas se disonantni tonovi gotovo i ne čuju. U jezivim devedesetim, delovali su Radio B92, Studio B, „Utisak nedelje\", „Vreme\", „Naša borba\", opozicioni listovi... Toga danas nema, ukinute su emisije u kojima je moguće kritikovati vlast, mnogi novinari i autori su se povukli ili su otpušteni. Došli smo u situaciju da je naša medijska slika jedan strašan hibrid rijalitija „Veliki brat\" i Orvelovog Velikog brata iz 1984. Jedan po jedan nestaju i poslednji slobodni mediji, tako da je krajnje vreme da se počnemo otvoreno boriti za različite slobode koje nam pripadaju. Od kada cenzura postoji, a postoji u raznim formama takoreći oduvek, najgora je bila tamo gde se u centrima moći najglasnije govorilo da cenzure nema, evo, baš kao kod nas.
Što očekujete, kako će biti obilježena stogodišnjica Jugoslavije?
To je jedan važan jubilej, trenutak u kome treba da se ozbiljno bavimo Jugoslavijom – i Kraljevinom Jugoslavijom i socijalističkom Jugoslavijom – ali i raspadom Jugoslavije. Poslednja knjiga o istoriji Jugoslavije naših istoričara je ona Branka Petranovića iz 1988, dok je ta Jugoslavija još postojala. Naša istoriografija 30 godina kasnije nije našla za shodno da se bavi tom zemljom, kao ni njenim raspadom. Ulazimo u 2018. a da se ništa od konferencija ne najavljuje, ništa od velikih događaja, ne samo u Srbiji nego, koliko čujem, ni u Sarajevu, ni u Zagrebu. Jedino za šta znam jeste da se u Muzeju Jugoslavije planira izložba o stvaranju Jugoslavije. Ako se sve svede na medije, s obzirom na to kakvi su, plašim se da će to biti još jedna prilika za sve moguće revizionističke poglede na Jugoslaviju, na tvrdnje da je bila tamnica naroda, totalitarna država, da je Tito bio diktator, a da su nam se ratovi, eto tako, u pasivu, desili. Zato se plašim da će obeležavanje stogodišnjice proteći više u nekritičkom i revizionističkom sagledavanju te države i jugoslovenske ideje, umesto u njihovom dubinskom promišljanju, utemeljenom na ozbiljnim istraživanjima. Mislim da bi mnogi voleli da zaborave i na taj datum i na tu godišnjicu i na tu zemlju, jer je godinama stvarana slika da smo svi na području bivše Jugoslavije žrtve jugoslovenske ideje, mada je sve očiglednije da smo žrtve što smo tu ideju ubili.
Socijalističku Jugoslaviju obilježio je istinski antifašizam. Zbog čega smo u Srbiji svjedoci istorijskog revizionizma?
Taj revizionizam i negiranje antifašizma koji mi danas živimo tamne su mrlje u novijoj srpskoj istoriji i jedan potpuno anticivilizacijski čin. Strašne su posledice tih rehabilitacija po društvo jer time rehabilitujemo fašizam i pljujemo po našoj antifašističkoj tradiciji, a samim tim i po onome što je bila najpozitivnija tekovina Jugoslavije. Teško je odgovoriti šta to diktira, ali moram da kažem da veliku odgovornost za to snosi i moja struka, kao i sudstvo, pa smo u situaciji da su sudije danas ti koji pišu istoriju Drugog svetskog rata i perioda neposredno posle tog rata. Došli smo do svojevrsnog paradoksa – dok se ceo svet koji je bio na pravoj strani u Drugom svetskom ratu diči svojim antifašizmom, mi se njega stidimo i glorifikujemo drugu stranu. To je do te mere bolesno i suštinski je pokazatelj naše autodestrukcije. Takođe, mi time stavljamo svetu do znanja da zapravo nismo za Evropsku uniju, jer je temelj na kome ona počiva antifašizam. Ali to je sve samo deo te naše nove politike sedenja ne na dve, nego na 22 stolice. Mi i dalje hoćemo i Kosovo i EU, i Rusiju i Zapad, i antifašizam i četnike, i antikomunizam i Titovu mudru spoljnu politiku. E pa, to ne može. Takva politika je duboko šizofrena i predstavlja problem za formiranje identiteta i pojedinca i države i naroda. Staru izreku „Dobro jutro,čaršijo,na sve četiri strane\", kojom su se označavali smutljivci, nepouzdani, prevrtljivi, mi danas uzdižemo u dobitnu političku filozofiju i praksu.
Bratstvo i jedinstvo, isto kao i integralno jugoslavenstvo, završilo je neuspjehom. Zašto?
Zato što je mnogo više bilo u parolama nego u suštini; zato što su oba sistema – jedan kroz politiku integralnog jugoslovenstva, drugi kroz politiku „bratstva i jedinstva\" – mislila da se zbližavanje može odvijati deklarativno i nametanjem, a ne kroz dijalog i dugoročne i promišljene politike popuštanja, umesto zatezanja. I prva i druga Jugoslavija srušene su pod teretom međunacionalnih sukoba, mada pod različitim međunarodnim okolnostima: jedna je srušena u Drugom svetskom ratu, druga kada je pao komunizam, ali ne zbog pada komunizma jer je taj pad nije ni dotakao. Međunacionalni sukobi se po pravilu skrivaju iza interesa, brane se interesima, a epilog je, skoro uvek, kao u slučaju obe Jugoslavije, da mali i malodobitni interesi ponište velike i dobitne.
Kada se na kraju ispod svega podvuče crta, u čemu je značaj zajedničke države jugoslavenskih naroda? Iako više ne postoji, da li vam se čini da njen duh („živi, živi duh slavenski, živjeće vjeko’vma...\") i dalje opstaje na različite načine?
Iako se SFRJ raspala pre više od četvrtine veka, taj identitet još postoji, makar kod onih koji su rođeni u toj zemlji. Ali i kod onih mlađih, kod kojih nema svesti o Jugoslaviji, zajedničkom identitetu, i kod kojih nema ni pozitivnih, ni negativnih emocija o toj zemlji, ipak postoji svest o zajedničkom kulturnom prostoru. Kod mladih, doduše, postoji i određena konfuzija jer čuju mnogo protivrečnih priča o Jugoslaviji, a nemaju iskustvo života u toj zemlji, niti znanja o njoj. Međutim, izgleda da je interesovanje mladih za Jugoslaviju, zemlju njihovih roditelja, zemlju o kojoj slušaju toliko toga, sve veće, što vidim i kod svojih studenata: oni su s jedne strane zadojeni stereotipima o „mračnom dobu komunizma\", a s druge strane sve više od svojih roditelja slušaju o dobrim stranama života u toj zemlji. Iracionalno je to zatvaranje u male nacionalne okvire, kada se skoro cela Evropa ujedinila i kada se brišu granice. Po svoj logici, svest o zajedničkom prostoru i međusobnoj isprepletanosti moraće da nađe neki svoj put i neku svoju materijalizaciju. Mi smo upućeni jedni na druge i nema budućnosti nijedne od bivših jugoslovenskih republika bez saradnje. Kulturna i intelektualna scena je tu najživlja, tu živi taj „duh (jugo)slovenski\". Uzmimo samo pozorište kao primer, ono je baš dobra slika nepokidanih veza. Jer, šta je naša pozorišna scena danas? To su sjajne predstave Olivera Frljića, Dina Mustafića, Andraša Urbana, Aleksandra Popovskog, Jagoša Markovića, prerano preminulog Tomaža Pandura, Tomija Janežiča... Eto, od prvih zagrebačko-beogradskih pozorišnih susreta 1841. do danas ipak postoji neki kontinuitet, i Jugoslavija nam živi u pozorištu, kao što je jedna od retkih institucija koja je zadržala prefiks jugoslovenski, Jugoslovensko dramsko pozorište. Da se opet poslužim pozorišnim jezikom i sećanjem na jednu sjajnu predstavu Slobodana Unkovskog – mislim da to nisu samo Pozorišne iluzije, nego postjugoslovenska jugoslovenska realnost. U kulturi i umetnosti sve je vidljivo, ali verujem da se ovakve stvari ne događaju samo u kulturi i umetnosti, da ih ima, verovatno, i u ekonomiji, i na starim jugoslovenskim i na novim postjugoslovenskim principima.
Konačno, kakav je vaš lični odnos prema Jugoslaviji?
Možda je na to najbolji odgovor činjenica da kad god krenem u neku od novih država nastalih od Jugoslavije, ja zaboravim da ponesem pasoš. Za mene je Jugoslavija deo mog identiteta. Skoro polovinu života provela sam u toj zemlji. Letovala sam u Dubrovniku, sa ekskurzije u slovenačko selo Brežice bežala sam sa drugaricama u Zagreb, da tražimo mesta koja u svojim pesmama pominje Džoni Štulić, imala sam prvog dečka u Sarajevu, pratila muzičku scenu u Zagrebu i Rijeci, išla u sarajevsku Kinoteku i scenu „Obala\"... Mogla bih ovakve stvari da nabrajam do sutra. Dakle, kao što se svako seća detinjstva i mladosti sa puno sete, tako se i ja sećam te Jugoslavije, socijalnog, egzistencijalnog i kulturnog okvira mog detinjstva i moje mladosti, i smatram da su nam multikulturalizam i bogatstvo te zemlje davali širinu pogleda ne samo na nju nego i na svet. Imam još jednu asocijaciju na Jugoslaviju. Kad mi se postavi pitanje o Jugoslaviji, uvek se prvo setim naslova knjige Rejmona Karvera O čemu govorimo kad govorimo o ljubavi. To su divne, jednostavne priče o malim ljudima, u kojima ima i lepote, i težine, i drame, i sreće, i nesreće, neke od ljubavnih priča su pune tuge, neke ljubavi i brakovi su pred raspadom... Eto, meni je Jugoslavija Karverova O čemu govorimo kada govorimo o ljubavi.
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2) Il feticcio dell’Indipendentismo e il suo segreto (di classe) (di Stefano Paterna 06/01/2018)
3) L’impasse dell’indipendentismo: il caso catalano (di Stefano Paterna 02/12/2017)
4) Repressione in Catalogna: l’Unione Europea si riscopre franchista (di Rete Dei Comunisti, 4 novembre 2017)
5) Il “cuneo catalano” mostra cos’è l’Unione Europea (di Dante Barontini, 4.11.2017)
... CatComu-Podem ... schierata per il diritto a decidere e che ha cercato di spostare il focus della questione nazionale alle questioni sociali, arretra in voti e seggi... la CUP ottiene risultati migliori nei quartieri popolari più vicini al centro, dove c’è una forte presenza sia di fasce sottoproletarie sia di giovani lavoratori precari dei servizi. CatComu-Podem invece raccoglie più consensi negli storici quartieri operai - come quelli a nord-est costruiti intorno alla SEAT – in cui la questione nazionale è molto meno sentita o, peggio, porta voti ai Ciudadanos... le elezioni si sono svolte in un pesante clima di repressione. Restano agli arresti o latitanti i leader dei partiti e delle organizzazioni civiche indipendentiste...
https://www.lacittafutura.it/esteri/la-catalogna-da-puigdemont-a-puigdemont
... Qualche bandiera tricolore della repubblica degli anni \'30 segnala la partecipazione di compagni a favore di una spagna federale plurinazionale. Le bandiere catalane con la stella rossa e quelle dell’indipendentismo radicale di sinistra con la stella rossa si affiancano lungo tutto il corteo...
https://www.lacittafutura.it/esteri/la-repubblica-che-non-c-e-reportage-da-barcellona.html
Los paramilitares ucranianos, que se ofrecieron por video para acabar con los independentistas catalanes, son cruzados cristianos que reconocen colaborar con grupos talibanes para acabar con el gobierno ruso...
http://www.limesonline.com/carta-delegazioni-diplomatiche-del-governo-della-catalogna-europa-nord-america/102657
... Nel rifarsi direttamente a Maciá (e non al suo ex capo, Jordi Pujol) e quindi sostenendo implicitamente il progetto di annessione di Andorra, di una parte della Francia e d’Italia, Carles Puigdemont non ha mai cercato di nascondere i suoi appoggi anglosassoni. Giornalista, ha creato un mensile per mantenere i suoi sponsor al corrente sull’evoluzione della sua lotta. Non è ovviamente in catalano né in spagnolo, ma in inglese: Catalonia Today, di cui sua moglie, la rumena Marcela Topor, è diventata capo-redattrice. Allo stesso modo anima associazioni che promuovono l’indipendenza catalana, non in Spagna, ma all’estero, che fa finanziare da George Soros...
http://www.voltairenet.org/article198584.html
Fa davvero rabbrividire vedere tanti nella “sinistra antagonista” continuare ad inneggiare ad una “indipendenza della Catalogna” che rischia oggi di sfociare in un’altra Jugoslavia...
La Slovénie sera-t-elle le premier pays d’Europe à reconnaître l’indépendance de la Catalogne ? Barcelone pourrait en tout cas s’inspirer du « modèle slovène » de 1991, impliquant le report de la déclaration d’indépendance, puis des négociations avec le pouvoir central avec une médiation internationale. Pourtant, la comparaison a ses limites : la Constitution yougoslave reconnaissait en effet le droit des républiques à la sécession...
Girano in rete impropri paragoni tra la dichiarazione di indipendenza della Catalogna e la creazione delle repubbliche popolari nel Donbass.
E\' opportuno precisare che, al contrario di quanto è successo in Catalogna con la rivendicazione dell\'indipendenza dalla Spagna, la richiesta iniziale delle regioni russofone dell\'Est dell\'Ucraina era quella dell\'autonomia nell\'ambito dello stato ucraino* (nato, questo, da una decisione, presa dai nazionalisti ucraini in combutta con Eltsin dopo il suo colpo di Stato, che ha violato la decisione espressa, a grande maggioranza, dal popolo della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina di rimanere nell\'URSS, attraverso il referendum del marzo 1991) e, in particolare del rispetto della lingua, della cultura e dell\'identità peculiare delle sue popolazioni, a grande maggioranza russe e russofone.. E ciò avveniva in conseguenza delle prime misure approvate dal governo golpista che si proponevano di impedire persino l\'uso della lingua russa..
E\' stato in seguito al rifiuto di accettare le richieste avanzate e allo scatenamento di una repressione armata senza precedenti (appoggiata da USA/UE/NATO) contro il popolo antifascista della Novorossija che è stato avviato il processo che ha portato alla proclamazione delle repubbliche popolari attraverso un referendum. E ancora oggi, lo stesso Partito Comunista di Ucraina si sta battendo con coraggio contro l\'isteria nazionalista della giunta golpista di Kiev per ottenere un assetto federale dello stato, rispettoso di tutte le autonomie, le culture e le identità, con l\'attribuzione al russo dello status di lingua ufficiale. Forse è troppo tardi per giungere a una simile soluzione della questione, ma questa rimane la posizione ufficiale dei compagni comunisti ucraini.
Inoltre, c\'è anche da rilevare che la stessa Federazione Russa continua a considerare l\'Est dell\'Ucraina parte del paese confinante e non ha mai avanzato alcuna richiesta di annessione (al contrario di quanto è avvenuto in Crimea, una regione storicamente russa che solo negli anni 50 dello scorso secolo venne consegnata da Krusciov alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, pur nell\'ambito dell\'URSS, che con un referendum è tornata alla Russia).
Ragion per cui, si può pensarla come si vuole dell\'indipendenza della Catalogna, anche scambiando lucciole per lanterne e pensando che siamo di fronte alla creazione del Venezuela bolivariano in Europa occidentale. Ma per cortesia, non si metta di mezzo il Donbass. O almeno, prima di parlarne, se proprio non si vuole studiare, almeno ci si informi.
* \"Nella notte del 22 febbraio 2014 decine di patrioti del Donbass sono intervenuti in difesa del monumento a Vladimir Lenin, simbolo dei lavoratori di Donetsk, e non hanno consentito ai fascisti ucraini di portare a compimento la demolizione della statua. Insieme ai difensori del monumento c\'erano anche i comunisti, che per primi avevano organizzato e allestito una tendopoli. Vicino al monumento decine di migliaia di persone hanno organizzato manifestazioni di condanna del colpo di stato a Kiev.. I partecipanti all\'azione hanno avanzato alle autorità la richiesta di svolgere un referendum sulla struttura federale dell\'Ucraina, che permettesse di garantire un corso di politica estera basato sulla collaborazione con i paesi della CSI, e in primo luogo con la Federazione Russa. Ma Kiev e la dirigenza della regione di Donetsk non hanno voluto ascoltare la richiesta del popolo\" (dalle tesi programmatiche del Partito Comunista della Repubblica Popolare di Donetsk)
Mi permetto di citare ciò che Lenin disse dell’emiro dell’Afghanistan, un reazionario che nel 1920 si batteva contro gli inglesi… Lenin disse che aveva fatto più danni all’imperialismo quell’emiro che tutta la socialdemocrazia e la sinistra europea…
Per favore, a cento anni dalla Rivoluzione contro Il Capitale, come la definì Gramsci, non usate Marx e Lenin in senso scolastico e soprattutto da menscevichi.
Le rotture del sistema avvengono oggi su faglie non previste dal manuale delle giovani marmotte marxiste-leniniste. E sono piene di ambiguità e contraddizioni… ma sono rotture.. E in questo caso lo stato confusionale dei poteri forti UE dimostra che la rottura c’è.
E poi con chi stareste voi, con un popolo che si ribella, ripeto con ambiguità e contraddizioni, e che in questa ribellione matura, o con il Re e e i postfranchisti che lo reprimono? Siete sicuri di potervi chiamare fuori da tutto questo? Aggiungo che quando Fidel ed il Che sbarcarono dal Granma a Cuba dicendo “liberiamo la Patria”, il partito comunista di allora, di cui nessuno di loro faceva parte, li definì come avventuristi piccolo borghesi.
Sono stato nel Donbass; non ho visto il socialismo, che non c’è, ma un popolo antifascista e progressista che lotta per la propria autodeterminazione… Cosa dovevano fare? Aspettare la rivoluzione in tutta l’Ucraina e intanto farsi massacrare?
Lenin scriveva che per la rivoluzione vale il motto di Napoleone: si comincia lo scontro e poi si vede…
Per favore compagni non date i voti a chi ci prova nella condizione reale in cui sta, soprattutto da un paese, il nostro, che dopo essere stato per decenni all’avanguardia dei conflitti in Europa oggi è alla più triste retroguardia.
Cari compagni non fate i pedanti, ma siate generosi…
Per nostro interesse, prima di tutto.
da misionverdad.com
Traduzione di Marco Pondrelli per Marx21.it
Come contributo alla riflessione sulle vicende complesse che vedono scontrarsi, sul futuro della Catalogna, le forze secessioniste della regione, da un lato, e il Governo autoritario insieme alla retrograda monarchia borbonica, dall\'altro, pubblichiamo un articolo di Tony Cartalucci*, che analizza alcune rilevanti implicazioni internazionali della questione, con l\'augurio che possa richiamare l\'attenzione dei comunisti e delle forze progressiste che sembrano in questo momento dividersi, a volte anche in modo aspro, in merito alla valutazione della situazione e delle prospettive che si stanno profilando per l\'importante regione fino ad oggi parte dello Stato spagnolo.
L\'articolo è stato pubblicato nel sito Misión Verdad, particolarmente impegnato sul fronte dell\'informazione a difesa della Rivoluzione Bolivariana e nel contrasto dell\'offensiva mediatica del mainstream dominante in Occidente al servizio dell\'offensiva imperialista in corso in America Latina e nel resto del mondo. (Marx21.it)
L\'indipendenza catalana potrebbe essere buona o cattiva: dipenderà dal popolo catalano se andrà bene o se altrimenti, come probabile, andrà male.
I titoli ed i commenti dei media orientali ed occidentali si sono concentrati principalmente sul referendum per l\'indipendenza catalana, le azioni della polizia spagnola e il tentativo di impedire le elezioni.
Senza dubbio poco è stato detto rispetto alle implicazioni dell\'indipendenza catalana. Cosa vogliono quei politici che cercano l\'indipendenza catalana? Creeranno una Catalogna per il bene del proprio popolo? Oppure serviranno l\'Unione Europea (UE) e la NATO in forma più efficiente e diligente di come lo potrebbe fare una Spagna unita?
Ci sono cinque punti che quelli che seguono questo conflitto devono conoscere e tenere in considerazione mentre gli eventi si sviluppano:
1. La Catalogna ha una straordinaria economia industrializzata in relazione ad altre regioni della Spagna, con un Prodotto Interno Lordo (PIL) ed una popolazione che supera di poco Scozia e Singapore ed è molto probabile che possa mantenere la sua indipendenza dalla Spagna.
2. La NATO sembra ansiosa di incoraggiare l\'indipendenza ed accogliere quella che pensano essere una robusta capacità militare da aggregare alle sue guerre di aggressione globale.
Un articolo pubblicato nel 2014 dall\'Atlantic Council (un think-tank della NATO finanziato da Fortune 500) intitolato “Le implicazioni militari della secessione catalana e scozzese” afferma che:
“La Catalogna ha una popolazione di 7,3 milioni di abitanti, con più di 300 miliardi di dollari di PIL. Spendendo un 1,6% di questo PIL per la difesa fornirebbe circa 4,5 miliardi di dollari, quasi quanto il bilancio della Danimarca, che ha delle forze armate efficienti e prestigiose. I piani militari catalani sono molto vaghi, però fino ad ora enfatizzano il ruolo della marina. Con gli eccellenti porti di Barcellona e Tarragona, la Catalogna si caratterizza come un piccolo potere navale, \'con il Mediterraneo come nostro ambiente strategico e nel quadro della NATO\', come affermano i think-tank della difesa nazionalista. Daipiani pur non ancora sviluppati si deduce la creazione di un gruppo di sicurezza costiera con all\'inizio qualche centinaio di marinai. Dopo alcuni anni, la Catalogna potrà assumere la responsabilità come \'attore di peso nel mediterraneo\' con aerei marini e piccole unità di combattimento di superficie. Eventualmente l\'ambizione nazionalista potrà includere un gruppo di spedizione con trasporto leggero e qualche centinaio di marinai, per assumere un ruolo importante nella sicurezza collettiva”.
La nota dell\'Atlantic Council conclude enfaticamente che:
“Per quanto emerge dai pochi documenti che sono usciti, la posizione dei separatisti volge uno sguardo prezioso e rinfrescante in merito alla specializzazione della difesa collettiva: costruire una marina che sia complessivamente incentrata sugli eventi costieri”.
3. Politici catalani pro-indipendenza sembrano appoggiare in modo entusiasta l\'ingresso della Catalogna nella NATO.
In un articolo intitolato “il Primo Ministro catalano conferma l\'impegno e l\'adesione alla NATO per la sicurezza collettiva” si diceva:
“Il Primo Ministro Artur Mas conferma esplicitamente che la Catalogna cerca un\'adesione alla NATO. In una recente intervista con il quotidiano italiano La Repubblica, Artur Mas ha chiarito che la Catalogna indipendente concepisce sé stessa nel cuore della NATO. Questo è in linea con l\'impegno della Catalogna con la comunità internazionale, il principio di sicurezza collettiva, la legislazione internazionale ed il diritto del mare”
L\'articolo segnalava anche che:
La Catalogna cerca la sua libertà, non vuole evitare le responsabilità che le si presenteranno, ma vuole esercitarla nella sua totalità assieme ai suoi soci ed alleati. I catalani capiscono bene che la libertà non arriverà senza un prezzo e che sebbene l\'indipendenza significhi il governo del popolo, dal popolo e per il popolo, invece del governo straniero, vuole anche dire che loro potranno guardare in un\'altra direzione quando apparirà una crisi o una sfida. I catalani capiscono che quando verrà il prossimo Afghanistan, anche il sangue catalano sarà versato”.
In sostanza i politici catalani sembrano essere molto compromessi non solo con la NATO, ma anche con le guerre di aggressione e interventiste che questa provoca, e sono pronti a spargere il sangue del loro popolo per aiutare la NATO a combatterle..
4. Alcuni politici catalani hanno cominciato a pianificare l\'integrazione alla NATO.
Il gruppo di lavoro dell\'Assemblea Nazionale Catalana per la Difesa ha dichiarato in un documento del 2014 intitolato “Le dimensioni delle Forze di Difesa Catalane: Forze Navali (riepilogo esecutivo)”:
“Il Mediterraneo: il nostro ambiente strategico. La NATO: il nostro quadro operativo.
La Catalogna deve partecipare a SNMG” (Gruppo Marittimo Permanente della NATO 2; precedentemente Forza Navale Permanente del Mediterraneo) un componente della Forza di Reazione della NATO, la NRF (nella sua sigla inglese).
Sarà anche conveniente partecipare al SNMCMG2 (Gruppo Permanente numero 2).
5. Come per il “Kurdistan” qualsiasi tipo di “indipendenza” perde tutto il suo significato se lo Stato che ne deriva si ritrova profondamente dipendente ed integrato con l\'egemonia occidentale e con le sue istituzioni (sopratutto per gli Stati membri o prossimi), sia il curdo che il catalano.
Che questi politici catalani abbiano già espresso in forma entusiasta ed aperta il loro giuramento di sangue e soldi agli interessi stranieri ed alle guerre che si combattono in tutto il mondo, suggerisce l\'idea che un qualsiasi tipo di “indipendenza” della Catalogna è in realtà l\'idea di una Catalogna che diventa più dipendente e subordinata a un potere superiore ed anche più lontano.
Riflettendo più a fondo
Questi cinque punti dovrebbero essere presi in considerazione da chi si schiera a favore e contro l\'indipendenza catalana. Mentre la Catalogna potrebbe creare per se stessa una indipendenza significativa e duratura fondata sulla pace e la prosperità del suo popolo, pare che molti in posizione di vertice stiano semplicemente tentando di spostare la subordinazione della Catalogna da Madrid a Bruxelles.
Restano senza risposte molte domande sull\'economia catalana; inclusa quella in merito a ciò che potrebbe fare una Catalogna indipendente, cosa potrebbe fare per alimentare corporazioni straniere di grandi dimensioni che cercano di evitare le barriere e gli ostacoli nell\'attuale clima economico spagnolo e sfruttare la Catalogna indipendente, il suo popolo, i suoi mercati e le sue risorse. Purtroppo queste politiche economiche ed i suoi risultati potrebbero concretizzarsi e solo molto tempo dopo sarà possibile per il popolo catalano fare qualcosa.
La popolazione catalana che si batte per l\'indipendenza dovrebbe trovare ed utilizzare le opportunità socio-economiche locali, necessarie per dirigere una nazione potenzialmente indipendente verso una traiettoria che meglio serva ad essa ed al suo futuro, e non a un manipolo di politici catalani più che ben disposti a servire gli interessi di Bruxelles, Londra o Washington.
* Tony Cartalucci è un ricercatore di geopolitica che lavora in Thailandia e collabora principalmente sui portaliLand Destroyer, The New Atlas y New Eastern Outlook. Questo articolo è tratto da Land Destroyer, pubblicato il 1° ottobre. La traduzione per Misión Verdad è di Diego Sequera.
“Siamo tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe”.
Oggi il sonno sembra essere quello dell’Unione europea: la crisi catalana, da qualunque parte la si guardi, è forse la peggiore della sua storia, ancora maggiore della Brexit.
L’intrigo catalano e la chiarezza italiana senza effetti
La “questione Catalogna” fa emergere le contraddizioni analitiche e teoriche della variegata realtà della sinistra ital
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La lotta per l’autodeterminazione, di nuovo, rappresenta in vari territori dell’Europa un formidabile motore di mobilitazione popolare e costituisce uno strumento attraverso il quale alcune classi sociali – in particolare la piccola borghesia e le classi subalterne colpite da anni di austerity – manifestano un disagio e un desiderio di rottura nei confronti dell’attuale assetto istituzionale dominato dallo svuotamento della democrazia formale a favore di una governance ordoliberista gestita da istituzioni sovranazionali che non prevedono la legittimazione e il consenso popolare.
In generale si può affermare che, se il processo d’integrazione ha svuotato di sovranità i governi e le istituzioni nazionali, espropriate a vantaggio delle istituzioni comunitarie (formali e informali), nel continente è in corso un processo di ricentralizzazione che accentua il carattere autoritario e reazionario degli stati amplificandone le funzioni coercitive e di controllo, sia nei confronti di eventuali ribellioni di natura sociale sia di qualunque altra contraddizione possa mettere a rischio una stabilità interna indispensabile a consentire al polo imperialista europeo di reggere una competizione internazionale sempre più feroce.
La vicenda catalana ha messo, finora, in evidenza la rigidità di una Unione Europea che di fronte al manifestarsi di un conflitto nazionale al suo interno non sa e non può fare altro che sostenere incondizionatamente lo Stato-Nazione di riferimento.
La questione nazionale si pone oggi, nel continente europeo, sia a partire dal recupero della sovranità popolare in quegli stati che fanno parte dell’Unione Europea e che ne sono stati espropriati, come i Pigs, o che pur non facendone parte sono già ingabbiati all’interno del suo spazio economico e normativo – si veda la sponda sud del Mediterraneo – sia in relazione al diritto all’autodeterminazione delle nazioni senza stato che invece proprio negli Stati trovano un muro, una barriera invalicabile sostenuta dall’Unione Europea e dalle sue istituzioni.
Non può sfuggire che uno dei momenti fondativi, costitutivi dell’Unione Europea è stata la disgregazione violenta della Jugoslavia da parte di una Germania che ha soffiato sul fuoco dei nazionalismi pur di assorbire nella sua orbita alcuni territori a spese dell’ex stato federale. Ma quel principio di autodeterminazione della Croazia, della Slovenia e della Bosnia, difeso manu militari dalla costituenda Unione Europea – oltre che dagli Stati Uniti – non è ora riconosciuto da Bruxelles ai catalani mentre rispetto agli scozzesi si dimostra una certa tolleranza dopo la Brexit decisa da Londra.
D’altra parte, l’UE non ha esitato, pur di allargare fino a Kiev la sua area di influenza, a sostenere un golpe reazionario e a sdoganare i fascisti e i neonazisti ucraini appoggiando al contempo una criminale guerra contro le popolazioni russe dell’est del paese il cui il diritto all’autodeterminazione, di nuovo, Bruxelles non vuole riconoscere. In Palestina intanto l’occupazione israeliana si fa ancora più feroce grazie anche alla complicità di un’amministrazione Trump che provocatoriamente ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale del cosiddetto ‘Stato Ebraico’.
I comunisti hanno, nel corso della loro storia, affrontato la questione nazionale in diversi modi, attraverso diverse chiavi di lettura, a seconda delle epoche, dei contesti, delle necessità concrete del momento. Non si può quindi affermare che esista, all’interno del movimento comunista, un’unica chiave di lettura su questo tema. Ci dobbiamo quindi affidare dall’analisi concreta della situazione concreta, forti dell’analisi e dell’esperienza storica di quei leader e di quei movimenti, in particolare Lenin, che con il diritto delle nazioni all’autodeterminazione si confrontarono direttamente all’interno di un contesto rivoluzionario.
Su questi temi invitiamo tutti a confrontarsi in un incontro previsto a Roma il prossimo 13 gennaio.
Nei prossimi giorni, inoltre, il nuovo numero della rivista Contropiano conterrà un documento della Rete dei Comunisti sull’analisi di fase a livello internazionale ed un altro contributo che ricostruisce l’evoluzione del pensiero di Lenin proprio sulla Questione Nazionale.
*** ***
I comunisti, l’Unione Europea e l’autodeterminazione dei popoli
Il caso catalano interroga i comunisti sull’attualità della questione nazionale
Sabato 13 gennaio, ore 16.30
Impact Hub Roma, via dello Scalo San Lorenzo 67
Coordina: Giampietro Simonetto – Coordinamento Nazionale Rete dei Comunisti
Relazione di Marco Santopadre – Coordinamento Nazionale Rete dei Comunisti
Interventi di:
Maurizio Vezzosi – giornalista, esperto di Donbass
Bassam Saleh – attivista palestinese
Eleonora Forenza – Europarlamentare PRC
Marco Morra – attivista Laboratorio Casamatta Napoli
All’iniziativa sono invitati a partecipare e ad intervenire: Partito Comunista Italiano, FGCI, Collettivo Genova City Strike, Collettivo Militant, Sinistra Classe Rivoluzione, Associazione Marx XXI, Fronte Popolare, Laboratorio Casamatta…
Parafrasando Winston Churchill si potrebbe dire, a proposito degli indipendentisti catalani di sinistra: “Tra indipendenza e socialismo avete scelto la prima. Non l’otterrete e non avrete il secondo”.
I risultati elettorali delle elezioni regionali catalane del 21 dicembre mi pare si possa dire abbiano pienamente confermato i dubbi e le cautele in materia di indipendentismo e sinistra di classe. La Cup, Candidatura di Unità Popolare, quasi dimezza il suo capitale di consensi tra il 2015 e oggi, perdendo il 3,5% dei voti; mentre la sinistra non indipendentista della sindaca Ada Colau, CatComu-Podem perde anch’essa seggi nel parlamento di Barcellona. Il risultato non può rendere felici, ma spinge a comprenderne le ragioni.
L’indipendentismo e le sue radici di classe: al sud e al nord del mondo
Dietro i partiti ci sono sempre degli attori più concreti, solidi e meno formali, costituiti dalle classi sociali, dagli uomini e donne che le compongono e dai loro interessi materiali, dalle loro aspirazioni e prospettive. La regola vale anche per i processi di costruzione di uno Stato indipendente. A questo proposito diviene di fondamentale importanza la collocazione sulla cartina mondiale del processo di indipendenza di una nazione dall’altra. Ovviamente, non per un criterio meramente geografico, ma per la sua disposizione nell’arco della catena internazionale della divisione del lavoro.
Così appaiono diversi i processi di liberazione nazionale avvenuti in America Latina o nel mondo arabo (Cuba, Algeria, Egitto solo per fare alcuni esempi) da quelli che si stanno producendo attualmente nel cuore dell’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio). Nel primo caso, i processi rivoluzionari che portarono alla creazione di stati indipendenti videro tra le forze protagoniste anche le borghesie nazionali: nel caso del mondo arabo, dove si era in assenza di una forte classe operaia, queste forze espressero anche la direzione dei movimenti di liberazione. Ma nei paesi in questione la liberazione nazionale coincideva con la crescita delle forze produttive industriali, fino ad allora compresse e sacrificate sull’altare degli interessi dell’industria della metropoli coloniale o neocoloniale. Si trattava, pertanto, da un punto di vista marxista, di borghesie che avevano un oggettivo ruolo progressivo.
Di tutt’altro segno, invece, la natura e il ruolo che la borghesia (soprattutto la piccola borghesia) gioca negli attuali movimenti indipendentisti nei paesi imperialisti, ovvero nei paesi pienamente maturi dell’area capitalista. Qui non ci sono forze produttive da liberare, c’è soltanto l’effetto disgregatore sulle rispettive società delle politiche liberiste applicate dall’Unione Europea, con il loro mix letale di tagli alla spesa pubblica, aumento dello sfruttamento e della precarietà del lavoro e tensione degli apparati produttivi all’aumento delle esportazioni. In queste aree, contraddistinte da una storia e da una cultura relativamente autonome, la piccola borghesia è in enorme difficoltà: le sue micro-imprese non reggono il confronto con i grandi colossi multinazionali della produzione e soprattutto della distribuzione, si chiudono i battenti e la minaccia della proletarizzazione si staglia ben chiara dinanzi agli occhi di commercianti, piccoli imprenditori, politici regionali di professione.
Il proletariato, che non ha una precisa coscienza del suo ruolo e della sua importanza, subisce pesantemente gli effetti della crisi che in varie forme perdura dal 2008 e affida la cura dei propri interessi alla piccola borghesia, richiedendo genericamente l’aumento della spesa pubblica e del welfare. In questo contesto è forte la tentazione di fare da soli; di gestire le proprie risorse senza l’intermediazione e la ridistribuzione da parte dell’apparato statale centrale, ma di mantenere tuttavia i vantaggi della propria collocazione all’interno dell’area imperialista. Nel caso catalano è questa la posizione della maggioranza del movimento indipendentista, ovvero di JuntsperCat del fuggiasco Puigdemont e di Esquerra Republicana de Catalunya: indipendenza da Madrid, ma salda appartenenza alla Ue.
Paralisi e divisione della sinistra in Catalogna
La traduzione elettorale e politica di questa situazione sociale e di classe si è avuta lo scorso 21 dicembre, come ben chiaramente riportato nel pezzo sopra citato. Il risultato di Ciudadanos, partito politico di impronta radicalmente liberista e di destra (ma unionista e spagnolista) è indicativo e particolarmente inquietante: 25,3 per cento risucchiando la destra del Partito Popolare e sfondando nei settori operai composti da forza-lavoro immigrata dal resto del territorio dello stato spagnolo.
Ovvero: se la guida del movimento è piccolo-borghese; se le richieste non sono di modificazione strutturale dei rapporti di produzione, ma di mera redistribuzione territoriale sulla base di una pur legittima e distinta storia culturale e linguistica; i proletari si dividono in base all’appartenenza nazionale e la loro rappresentazione politica (la sinistra di classe) si divide; le destre si irrobustiscono e appaiono come le opzioni più concrete e realistiche.
Naturalmente, non è possibile sottacere il ruolo della repressione di Madrid nella produzione dell’esito elettorale del 21 dicembre. Una repressione neo-franchista che va condannata e che rischia di tracimare in senso puramente reazionario e antidemocratico. Tuttavia, l’alternativa ai nazionalismi e alla deriva autoritaria esiste: la sinistra spagnola nel suo complesso potrebbe rialzare la bandiera unificante della Repubblica contro il ruolo nefasto della Monarchia e l’eredità dell’accordo con il franchismo morente; del riconoscimento pieno dei diritti di autonomia di tutti i popoli presenti sul suo territorio; della ricostruzione di uno stato sociale e popolare fuori e contro l’Unione Europea. Per farlo c’è bisogno di coraggio e (da comunisti) di rinunciare ad ogni approccio ideologico, di falsa coscienza, anche quella della cosiddetta indipendenza nazionale senza contenuti di classe.
di Stefano Paterna 02/12/2017
“Bussando alle porte del Paradiso”, cantava Bob Dylan. E così hanno fatto gli indipendentisti catalani il 1° ottobre scorso con il referendum sull’indipendenza, ma le porte non si sono aperte sul Paradiso della libertà, ma solo per far passare il pugno duro della repressione del governo Rajoy, con l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione Spagnola e il conseguente commissariamento del governo regionale catalano (Generalitat), l’arresto di otto ex suoi ministri (tra i quali spicca il vicepresidente Oriol Junqueras, leader del partito di Centrosinistra Erc) e il mandato d’arresto per l’ex presidente catalano Carles Pugdemont, del partito di Centrodestra Pdecat, fuggito in Belgio. A questi arresti vanno aggiunti quelli Jordi Sanchez e Jordi Cuixart delle due associazioni indipendentiste, Anc e Omnium e la repressione da parte della Guardia Civil nella giornata del referendum per impedirne l’effettuazione.
Nel frattempo, l’Unione Europea si è completamente schierata a fianco del governo di destra di Madrid, mentre a favore degli indipendentisti si sono più o meno apertamente poste le forze della Sinistra radicale internazionale. Tuttavia, anche all’interno della Sinistra di classe si è aperto un dibattito sulle vicende catalane e in generale sugli aspetti controversi dell’indipendentismo, mentre anche in Spagna e in particolare in Catalogna il tema divide anche il campo delle classe popolari come ben evidenzia il recente e bel reportage da Barcellona pubblicato da questo giornale. L’intento di questo articolo è appunto quello di mantenere vivo il dibattito sul tema, non schiacciandosi su un acritico sostegno delle posizioni pro-indipendenza, ma ovviamente mantenendo un fermo no alla repressione spagnolista di Rajoy.
Innanzitutto un po’ di tradizione…
Lenin e Rosa Luxemburg. Due giganti del socialismo rivoluzionario avevano opinioni del tutto contrapposte sul fenomeno dell’indipendentismo nazionale. Il primo era a favore dell’autoderminazione dei popoli a tal punto da mettere in gioco la stessa esistenza della Rivoluzione d’Ottobre, pur di mantenere in piedi la possibilità di libera secessione delle nazionalità oppresse dall’ormai defunto impero russo. La Luxemburg, al contrario, giudicava reazionario il nazionalismo polacco allora sostenuto dal PPS, Partito Socialista Polacco, nonostante fosse anch’essa polacca e per questo diede vita all’internazionalista SDKP, Socialdemocrazia del Regno di Polonia. Il marxismo era, per Rosa, internazionalista per vocazione e ogni cedimento alle piccole patrie che negasse la realtà di un mercato ormai esteso a livello mondiale ne era un tradimento.
Dal punto di vista strategico, sono convinto che la ragione fosse dalla parte di Lenin: come si può proclamare il primo Stato socialista del mondo e costringervi dentro quelle che fino a ieri sono state delle nazionalità oppresse? Per conquistare la fiducia dei lavoratori delle nazionalità oppresse è necessario garantir loro la possibilità di andarsene. Quella scommessa, vinta, consentì poi all’Urss di presentarsi come alleata dei giovani popoli colonizzati in lotta per la loro indipendenza nazionale contro gli imperialismi.
Tuttavia, si dibatteva allora tra Rosa e Lenin di nazionalità oppresse da secoli di zarismo. Diverso mi pare ora il caso di nazionalità incluse in stati dell’Occidente sviluppato.
Gratta, gratta e salta fuori il piccolo borghese…
Nel 2006, il governo del Psoe guidato da Zapatero riconobbe alla Generalitat catalana maggiori poteri in ambito amministrativo e fiscale, ma quattro anni dopo il Tribunale Costituzionale Spagnolo consultato su iniziativa della Destra guidata da Rajoy ne dichiarò l’incostituzionalità. Questo è l’evento che ha dato il via all’indipendentismo con il tentato referendum del 2014 e tutto ciò che lo ha seguito. Salta agli occhi, pertanto, che una delle radici principali della questione catalana è quella relativa al trattenimento della raccolta fiscale(esattamente come per le regioni leghiste \"par excellence\" Lombardia e Veneto). L\'altra radice evidentemente è quella del taglio dello Stato Sociale in Catalogna che però è stato praticato anche dalla borghesia locale e dalle forze politiche che la rappresentano. Queste ultime (Erc, Convergencia e Uniò ora Pdecat) sono state spregiudicatamente in grado di scaricare le loro responsabilità, nascondendosi dietro la questione fiscale e nazionale. Questa “radice”, a mio giudizio, spiega l\'egemonia della piccola borghesia e delle sue forze politiche sul movimento, nonostante la marcata presenza di forze ideologicamente anticapitaliste come la Cup che, tuttavia, nell’ultimo periodo ha dovuto affievolire le sue richieste sociali per privilegiare l’aspetto nazionale e ottenere, infine, nulla più che una formale dichiarazione di indipendenza.
I meriti e i limiti dell’indipendentismo
È necessario, però, riconoscere che la questione indipendentista catalana ha scosso lo Stato spagnolo e i comunisti debbono partire da questo dato di fatto. Non è pensabile, cioè, un ritorno alla situazione precedente al referendum del 1° di ottobre senza scadere nella più pura e “nera” reazione di stampo franchista. Da questo punto di vista, dal punto di vista delle classi popolari, dei dominati, l’indipendenza catalana è stata un potente stimolo alla trasformazione dello stato delle cose esistenti. Ma, fermo restando il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano da esprimere in un referendum non condizionato dalla repressione, uno stimolo oggettivamente senza sbocchi positivi.
Dati i rapporti di forza militari (perché gli Stati si creano e si abbattono generalmente in questo modo) la “palla” non è più nella disponibilità delle forze politiche catalane. Tra queste ultime, l\'ala sinistra dell\'indipendentismo, se intende ottenere qualche risultato, deve necessariamente passare dalla formale (e attualmente inutile) dichiarazione di indipendenza a una proposta politica che riunifichi il fronte proletario diviso: i lavoratori spagnoli e la sinistra di classe spagnola non possono essere attratti dalla proposta indipendentista e i primi sono facilmente manipolabili dalla Destra di Rajoy se si rimane su di un semplice piano identitario.
Un fronte della Sinistra e delle classi popolari potrebbe agglutinarsi intorno a una proposta di nuova costituzione per la Spagna di tipo federale che riconosca pieni diritti a tutte le nazionalità e superi definitivamente l\'eredità centralista del franchismo e, infine, dia ampia garanzia di diritti sociali per tutti. Una proposta del genere è già stata avanzata dai comunisti catalani, spagnoli e da Podemos, mentre altri settori della Sinistra catalana, come quelli rappresentati dalla sindaca di Barcellona Ada Colau, potrebbero convergervi.
Di certo, il progetto di una Spagna nuova ha bisogno di un fronte anticapitalista unito: oltre l’indipendenza nazionale per l’indipendenza di classe.
In tempi record, che confermano il carattere preordinato e spudoratamente politico della misura, otto ministri del governo catalano – scelto da una maggioranza parlamentare democraticamente eletta dai cittadini – sono stati arrestati per ordine di un Tribunale Speciale ereditato dal franchismo e rinchiusi in prigioni fuori dal territorio catalano.
Neanche si trattasse di serial killer o di attentatori dello Stato Islamico…
Una sollecitudine che la magistratura e il governo spagnoli si sono ben guardati dal dimostrare contro quegli esponenti politici di Madrid protagonisti di ripetuti casi di corruzione che coinvolgono anche la famiglia reale.
E’ la prima volta che dei responsabili di un governo vengono imprigionati nell’Unione Europea per degli atti politici realizzati nel corso del loro mandato e in obbedienza alla volontà popolare espressa nel corso di un referendum democratico.
Uno dei ministri, che si era dimesso il giorno precedente alla dichiarazione d’indipendenza non condividendo la decisione dei suoi colleghi, si è risparmiato la prigione in cambio di una cauzione di 50 mila euro. Quando è arrivato a Madrid per essere interrogato dai giudici è stato accolto dagli slogan di un gruppo di nazionalisti e e fascisti spagnoli che lo hanno apostrofato al grido di “frocio” e “vigliacco”.
inizia quindi con un’altra raffica di arresti la campagna elettorale che dovrebbe portare alle elezioni regionali del 21 dicembre, imposte con la forza dal governo spagnolo con la complicità di Ciudadanos e Psoe (provocando le dimissioni dal partito socialista catalano di numerosi sindaci e consiglieri comunali in polemica con il sostegno di Pedro Sanchez al governo di estrema destra) e senza alcuna mobilitazione da parte delle cosiddette sinistre federaliste che pure si dicono contrarie all’applicazione dell’articolo 155 contro l’autogoverno catalano..
Al carcere sono scampati per ora Puigdemont e altri 4 ministri, ma solo perché hanno deciso di rifugiarsi in Belgio nel tentativo di internazionalizzare la crisi e costringere l’Unione Europea, sostenitrice della repressione di Madrid, a farsi carico del problema. Quella Unione Europea che di nuovo, attraverso i suoi portavoce, ha definito gli arresti politici realizzati da Madrid – e che si sommmano a quelli dei due presidenti di due grandi associazioni di massa indipendentiste realizzati alcune settimane fa – “una questione giudiziaria interna alla Spagna”. Contrariamente a quanto affermano alcuni analisti Bruxelles “non si volta dall’altra parte” rispetto al fascismo spagnolo, ma osserva attentamente e, in nome della stabilità e della difesa a oltranza dello status quo, non esita ad avallare una vandea neofranchista che nei prossimi giorni potrebbe portare ad altri arresti e al condizionamento delle elezioni imposte in Catalogna dopo lo scioglimento coatto del Parlament e del Govern di Barcellona. Non stupisce che il sentimento europeista all’interno della base sociale indipendentista, tradizionalmente molto forte nei settori più moderati, si stia gradualmente affievolendo. Lo iato tra le altisonanti dichiarazioni di democrazia e di difesa della libertà da parte dell’Unione Europea e dei suoi rappresentanti non reggono di fronte al cinico e inaccettabile sostegno di Bruxelles ad una repressione che non ha eguali nella storia recente del continente europeo, in barba allo stato di diritto, alla volontà popolare, alla divisione dei poteri, alle più elementari garanzie democratiche.
Presto in carcere potrebbero andarci anche i dirigenti della sinistra indipendentista, dei Comitati per la Difesa dei Referendum, gli attivisti sociali e sindacali, e non più solo i ministri del governo catalano o i leader delle associazioni indipendentiste. Significativa appare, da questo punto di vista, la richiesta da parte della Confindustria Catalana – ferocemente contraria all’indipendenza – che ha chiesto a Madrid di proibire e reprimere lo sciopero generale indetto da alcuni sindacati, in particolare la CSC (aderente alla Federazione Sindacale Mondiale) per il prossimo 8 novembre, a dimostrazione che all’interno della società catalana la faglia tra indipendentisti e unionisti ha un carattere di classe e non solo ideologico.
Di fronte all’escalation in atto a Barcellona e al pieno sostegno dell’Ue alla svolta neofranchista di Madrid perde qualsiasi credibilità ogni forza di sinistra, progressista e democratica che, dentro e fuori lo Stato Spagnolo, alla propria condanna di principio della repressione non faccia seguire comportamenti reali, nelle piazze così come nelle istituzioni.
La parola d’ordine delle mobilitazioni non può non associare la richiesta di liberazione dei prigionieri politici catalani e la condanna del fascismo di Madrid, con il sostegno ad una rottura da parte del popolo catalano, sicuramente di tipo nazionale, che però la stessa repressione spagnola ed europea contribuiscono a caricare di significati sociali e di classe.
La battuta sarebbe scontata (“uno spettro s’aggira per l’Unione Europea”), ma il soggetto andrebbe cambiato. Quel fantasma, in questo momento è l’autodeterminazione dei popoli, pilastro – nel bene e nel male – del Novecento mondiale.
Visto che ormai si preferisce designare questo principio con il termine dispregiativo di “sovranismo”, ci sembra utile riportare la definizione contenuta nell’enciclopedia Treccani, come era solito fare qualsiasi “bravo giornalista”:
“Principio in base al quale i popoli hanno diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e di essere liberi da ogni dominazione esterna, in particolare dal dominio coloniale (autodeterminazione esterna). Proposto durante la Rivoluzione francese e poi sostenuto, con diverse accezioni, da statisti quali Lenin e Wilson, tale principio implica la considerazione dei diritti dei popoli, in contrapposizione a quella degli Stati intesi come apparati di governo (Stato. Diritto internazionale). In tal senso, si pone potenzialmente in conflitto con la concezione tradizionale della sovranità statale; la sua attuazione deve inoltre essere contemperata con il principio dell’integrità territoriale degli Stati”.
Un principio condiviso ufficialmente da imperialisti liberisti e rivoluzionari di professione, insomma, anche se spesso e volentieri ignorato dai primi.
Nel vedere le immagini del presidente catalano destituito, Carles Puigdemont, mentre passeggia a Bruxelles sotto palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea (il “governo” dei 27 paesi membri), il fantasma è apparso in carne e ossa.
Puigdemont e i quattro ex ministri catalani rimasti con lui in Belgio – Antoni Comin, Clara Ponsatì, Meritxell Serret e Lluis Puig – sono infatti ora ufficialmente ricercati con mandato di cattura internazionale, consegnato nelle stesse ore alle autorità del Belgio per ottenerne l’estradizione.
Più che con le parole pronunciate dagli indipendentisti catalani nelle scorse settimane, insomma, è direttamente il governo spagnolo – per il tramite di una magistratura assolutamente “dipendente” – a chiamare in causa l’Unione Europea, i trattati, i “valori condivisi”. E lo fa con la stupida iattanza fascista ancora inscritta in una Costituzione franchista appena emendata (libere elezioni e diritti civili, ossia un voto ogni cinque anni e movida libera), ma mai mutata nei pilastri portanti, a cominciare dal ruolo della monarchia (niente affatto di “rappresentanza”, come ha fatto vedere Felipe). Una Costituzione accettabile dall’Unione Europea solo a patto di non guardarci dentro.
Al di là degli incerti aspetti costituzionali, comunque, l’indefesso fascismo dello Stato spagnolo è apparso in mondovisione il 1 ottobre con la Guardia Civil impegnata nell’assaltare i seggi elettorali e nel manganellare la popolazione schierata pacificamente a loro difesa.. E ora anche nei maltrattamenti subiti – ancora in diretta tv! – dai ministri catalani arrestati. Un video diffuso dal quotidiano spagnolo La Vanguardia mostra infatti agenti spagnoli della Audiencia Nacional che insultano Junqueras augurandogli sevizie sessuali in prigione.
Nelle stesse ore la ley mordaza viene applicata estensivamente, portando persino all’arresto di alcune persone per i loro commenti sui social…
Coloro che, in Belgio, dovranno decidere se consegnare Puigdemont e gli altri allo Stato spagnolo debbono fare i conti con questo innegabile contesto “anti-democratico”, oltre che con reati contestati assai poco consueti nel diritto europeo: ribellione, sedizione, malversazione, abuso di potere e disobbedienza. Malversazione (aver speso soldi pubblici per il referendum) e abuso di potere difficilmente comportano una carcerazione preventiva, fuori dalla Spagna. Mentre sedizione, ribellione e disobbedienza sono fin troppo chiaramente “comportamenti politici” magari scomodi per qualsiasi governo, ma dall’incerto profilo penale. Specie se – come in Catalogna – manifestati con il ricorso sistematico alla totale non violenza.
Il carattere completamente politico dei “reati” è peraltro confermato dallo stesso governo spagnolo, il cui portavoce Inigo Mendez de Vigo ha spiegato che “Finché non c’è condanna definitiva chiunque abbia i diritti civili intatti può presentarsi alle elezioni”. Dunque Puigdemont, Oriol Junqueras e anche i primi due prigionieri politici del dopo-referendum – “i due Jordi”, Sanchez e Cuixart – potranno candidarsi alle elezioni del 21 dicembre per “rinnovare” il Parlament di Barcellona.
Ci sarebbe ovviamente molto da discutere sulla “libera competizione elettorale” tra candidati accompagnati dalla Guardia Civil (quelli dei partiti “sovranisti spagnoli”: popolari, “socialisti” del Psoe, e Ciudadanos) e candidati in carcere o comunque osteggiati dal potere centrale (i media catalani di proprietà pubblica sono stati “invasi” e messi sotto controllo). Ma anche in queste condizioni infami i sondaggi danno per ora in ulteriore crescita il consenso ai partiti indipendentisti (PdeCat, Esquerra Repubblicana e Cup) a scapito ovviamente del fronte avverso e del divisissimo Podemos-Podem.
A Natale, insomma, la situazione potrebbe essere questa: parlamento e governo catalani in mano agli indipendentisti, conferma della dichiarazione di indipendenza e arresto dei nuovi ministri (magari equamente divisi tra quelli ancora in carcere e i nuovi entrati dalla libertà).
Qualunque decisione prenda il Belgio in merito all’estradizione dei cinque ec ministri catalani, insomma, sarà una decisione sbagliata.
Se li riconsegna a Rajoy certifica che nell’Unione Europea sono vietate tutte le posizioni politiche, democraticamente e pacificamente espresse, che risultano inaccettabili per i governi dei singoli paesi. L’Unione Europea – che continua a trincerarsi dietro la formula “è una questione interna alla Spagna” – certificherà che questa costruzione si preoccupa solo di costruire un mercato regolato in modo diseguale, secondo i rapporti di forza economici, ma non possiede alcuna visione condivisa della democrazia politica e degli interessi non convergenti dei singoli popoli che l’abitano. Una Unione che tratta insomma i cittadini esattamente con lo stesso atteggiamento con cui tratta la composizione del “parmesan” e il suo “diritto” a finire sulle nostre tavole come spacciato per parmigiano reggiano.
Se invece non riconsegnerà Puigdemont e soci all’imbufalito Rajoy aprirà un contenzioso tra paesi membri prevedibilmente molto aspro e dalle conseguenze imprevedibili. C’è infatti da ricordare che Gerry Adams, presidente del Sinn Fein e unico parlamentare a sedere contemporaneamente nel parlamento irlandese e in quello dell’Irlanda del Nord (formalmente Gran Bretagna), ha nei giorni scorsi appoggiato la dichiarazione di indipendenza catalana ricordando che “il diritto all’autodeterminazione dei popoli è una pietra angolare del diritto internazionale e questa dichiarazione deve essere pertanto rispettata”.
Tanto più che – dal punto di vista della stessa Unione Europea – non ha alcun senso logico opporsi all’autodeterminazione di una regione che, a maggioranza, vorrebbe comunque restare dentro la Ue (e i nostri lettori sanno benissimo che questa non è la nostra posizione, né quella della Cup). Non paradossalmente, proprio il totale e cieco appoggio della Ue a Rajoy potrebbe far crescere la consapevolezza generale che la rottura della stessa Ue è premessa necessaria per qualsiasi trasformazione, sociale e politica, europea e nazionale .
Negli oliati e indifferenti meccanismi tecnocratici della Ue il “cuneo catalano” si è dunque infilato con la forza di un popolo pacifico ma determinato. Dovremmo tutti adoperarci affinché non venga stritolato, non soltanto solidarizzando, ma attivandoci sul pano politico. Perché nell’Unione Europea tutti stiamo nella stessa condizione dei catalani: siamo infatti espropriati di qualsiasi possibilità di decidere collettivamente sia del nostro futuro che del nostro presente.
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[IMMAGINE: da La Repubblica
http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7559.jpg ]
Complice il prosecco e qualche panettone di troppo, la mattina del 4 gennaio qualcosa dev’essere andato storto nella redazione di Repubblica. D’improvviso, senza accorgersene, ingolfati dai festeggiamenti del Capodanno, ecco apparire per un brevissimo lasso di tempo la verità. Come sempre, questa si presentava senza clamore, senza schiamazzo, con la consueta eleganza delle cose semplici: «Siria, le narrazioni fasulle dell’”Osservatorio siriano sui diritti” che copre i crimini dei cosiddetti “ribelli”». Il titolo, degno del Pulitzer: in una frase racchiuso il significato di sei anni di guerra civile. Lo svolgimento ripete semplicemente quanto ormai accertato da chiunque abbia almeno capito dove si situi la Siria sul mappamondo: «Dunque, la verità a quanto pare, è che sono i cosiddetti “ribelli”, terroristi senza scrupoli, ad affamare i civili, privandoli degli aiuti a loro inviati, usandoli come scudi umani e come oggetto di un’ignobile mistificazione della realtà».
[IMMAGINE: da La Repubblica, 4.1.2018
http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7558.jpg ]
E poi il silenzio, l’oblio. Nel pomeriggio, nessuna notizia dell’articolo, del suo autore, di tutta la faccenda. In compenso, uno stralunato articolo di scuse verso i lettori, colpevoli di aver letto per qualche ora la verità. Espulso dalla rete, come mai avvenuto, cancellato da ogni memoria. Se ne salvano pochi screenshot recuperati qua e là nella rete:
[IMMAGINE: da La Repubblica, 4.1.2018
http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7561.jpg ]
Altre poche ore, ed ecco lo sconfortato atto di contrizione, la penitenza pubblica, l’autoaccusa.
[IMMAGINE: \"autocritica\" di Carlo Ciavoni, 5..1.2018
http://www.militant-blog.org/wp-content/uploads/2018/01/IMG_7562.jpg ]
Il processo si è risolto per il meglio, l’imputato ha dichiarato di sua sponte la sua colpevolezza, possiamo tornare a raccontarvi la nostra realtà: «Messa da parte ogni pretesa di assoluta indipendenza, a fornire le notizie dalle zone che resistevano ad Assad sono stati per mesi i vari Media center gestiti da attivisti locali». La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Viva il giornalismo.
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La nuova puntata si può ascoltare online alla pagina: http://www.radiocittaperta.it/djmix/voce-jugoslava-26-dicembre-2017/
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"Od Vardara do Triglava - Dal fiume Vardar al monte Triglav"
Od utorka svake sedmice, na sajtu http://www.radiocittaperta.it , slušajte emisiju "Jugoslavenski glas". Emisija je dvojezična, po potrebi i vremenu na raspolaganju. Podržite taj slobodni i nezavisni glas! Pišite nam na Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli. i potražite na www.cnj.it . Odazovite se!
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Program 26. XII 2017 Programma
Kratke vijesti:
Srbija: Borba protiv trgovine izbeglica / Spomenik D. Mihajloviću u Beogradu.
Kosmet: Haradinaj: Rusija ne može u dijalog, davno se povukla. M. Drecun; Tači bacio rukavicu i Vašingtonu i Brislu. Tači, sud za zločine OVK naziva „istorijskom nepravdom“ / Novi zločin u Kosovskoj Mitrovici.
Crna Gora: Podgorica slavi (skoru) pobjedu za „svoj“ jezik. Iliti, psihopatologija crnogorska (iz Jugoinfo-a. Usputno pitanje: kojim jezikom govore Austrijanci?)
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Notizie in breve:
Serbia: Lotta alla tratta di esseri umani / A Belgrado vogliono innalzare un monumento a Draža Mihajlović.
Montenegro: Podgorica vince la battaglia per la (sua) lingua, ovvero: Psicopatologia montenegrina (da Jugoinfo. Una domanda ex passant: in che lingua parlano gli Austriaci?).
A risentirci al prossimo Anno.
Sretna Nova Godina - - - Buon Anno Nuovo
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Program 26. XII 2017 Programma
Kratke vijesti:
(Izvori: www.standard.rs , edit.hr la voce del popolo)
- "Vreme za Nemačku da počne da se uči vodjstvu"
- Crna Gora: Uskoro Deklaracija o pomirenju četnika i partizana
- Dodik: Razilaženje RS je potpuno promašena priča. To nije moglo ni pre 10 godina (odgovor američkom diplomati Brajanu Hojtu)
- Božićna poslanica SPC: Kosovo i Metohija nam je dar od Gospoda kao večni zalog
- Spor izmedju Slovenije i Hrvatske o Piranskom zaljevu. Riješio bi ga Petar Janjić Tromblon...
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Notizie in breve:
(Fonti: www.standard.rs , edit.hr la voce del popolo)
- La politica della Merkel comincia a preoccupare gli USA. "Se la Germania vuole primeggiare nella politica internazionale è tempo che riveda l'immagine reale del mondo."
- Montenegro: verso la Dichiarazione sulla conciliazione cetnico-partigiana. Ambigua dichiarazione di Milan Knežević del "Partito Democratico Popolare" (sic)
- Dodik: La cancellazione della Repubblica Srpska è una storia completamente fallita. Non si potè fare 10 anni fa, tantomeno ora! (In risposta al diplomatico USA Bryan Hoyt)
- Messaggio natalizio della COS-a: "Il Kosovo-Metohia è un regalo del Signore in pegno eterno". La dichiarazione del metropolita Amfilohije suscita forti polemiche
- Il Golfo di Pirano, conteso tra la Slovenia e la Croazia. Gli USA (Trump) gelano Lubiana: "Trovate un accordo!". Vorrebbe risolvere la questione Petar Janjić Tromblon, un reduce della "difesa" di Vukovar
La nuova puntata si può ascoltare online alla pagina: http://www.radiocittaperta.it/djmix/voce-jugoslava-16-gennaio-2018/
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Program 16.I.2018 Programma
Kratke vijesti:
- Ексклузивни интервју: Шинзо Абе, премијер Јапана: "Srbija drži ključ stabilnosti na Zapadnom Balkanu"
- Србија први пут добила право да извози руски гас
- "Kolo" odjeknulo Zlatnom salom Muzikferajna
- Veselji preti: Ići ćemo do Niša.
Весељи је рекао да нема међународне правде без правде за Рачак.
- Црногорци отимају Острог од СПЦ
- Македонија ратификовала споразум о пријатељству с Бугарском
- Mattarella "riješava" spor Piranskog zaljeva.
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Notizie in breve "dal Monte Triglav in Slovenia al fiume Vardar in Macedonia":
- Dall'intervista al premier giapponese Shinzo Abe su "Politika", in esclusiva.
- La Serbia per la prima volta ottiene il diritto di esportare il gas russo.
da www.standard.rs
- La Bulgaria sta valutando la nuova proposta sull'oleodotto.
- Il presidente del Parlamento del Kosovo Kadri Veselji minaccia: "Arriveremo fino a Niš". - Altri vicini/cugini che lamentano di esser derubati dalla Serbia: i montenegrini vogliono la "restituzione" del bel monastero di Ostrog, proprietà della Chiesa Ortodossa Serba.
- La Macedonia ratifica l'accordo sull'amicizia con la Bulgaria, firmato nell'agosto del 2017.
da www.edit.hr/lavocedelpopolo
- Mattarella a Lubiana, dice alla presidente croata e al presidente sloveno: "Siamo uniti dallo stesso mare".
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Program 23.I.2018 Programma
Kratke vijesti:
iz www.24sata.hr
- Akcija Maslenica: U Krajini je tad zavladala potpuna panika... To je bila prekretnica u ratu i preduvjet za slavnu Oluju. Hvalospjevi Maslenici
iz www.standard.rs
- Hoće li Sarajevo udariti na Dayton?
-100.000 Grka na ulicama Soluna zbog reči „Makedonija“
- Aleksandar Vučić na Kosovu. Aleksandar Vulim, odgovara "milo za drago) francuskom Ambasadoru u Beogradu
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Notizie in breve:
- 25.mo Anniversario dell'aggressione dell'Esercito croato a Maslenica, nord Dalmazia (22.1.1993). La località fu aggredita malgrado fosse sotto la protezione delle forze UNPROFOR. Furono uccisi oltre 800 serbi, tra cui civili e soldati, 35 donne e 3 bambini sotto i 12 anni, e nella fuga altri 165 civili anziani. La ricorrenza è osannata dai media croati e dal governo.
- Sarajevo darà la spallata a Dayton?
- 100 mila greci sulle vie di Salonnico contro l'uso del termine „Macedonia“ da parte di Skopje.
- Secondo il Piano per i Balcani Ovest, il 2019 sarà "anno cruciale per la Serbia". La Serbia e il Montenegro nel migliore dei casi potrebbero diventare membri dell' UE nel 2025 ("campa cavallo"!).
- A. Vučić in Kosovo, dove proseguono le indagini sull'assassinio di O. Ivanovič. Il ministro Vulin risponde per le rime all' Ambasciatore francese a Belgrado.
- Secondo il Piano per i Balcani Ovest, il 2019 sarà l' anno cruciale per la Serbia.