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LE REPUBBLICHE BALTICHE EX SOVIETICHE TRA INTEGRAZIONE EUROPEA E
“APARTHEID”

a cura di Mauro Gemma

 
ESTONIA

Con un territorio di 45.000 Kmq e una popolazione di solo 1,3 milioni
di abitanti (che per oltre il 60% parlano una lingua simile al
finlandese), l’Estonia è la più piccola delle repubbliche baltiche ex
sovietiche. Essa ha fatto parte dell’impero zarista fino al 1917, anno
in cui venne coinvolta nel processo rivoluzionario che portò alla
temporanea presa del potere da parte del movimento comunista. Ma già
agli inizi del 1918, l’avanzata tedesca ebbe la meglio sul potere
sovietico e, sebbene formalmente all’Estonia fosse garantita
l’indipendenza, venne instaurato un regime di occupazione che mirava
alla “germanizzazione” del paese e alla restituzione degli antichi
privilegi alla nobiltà feudale. In seguito all’armistizio
sovietico-tedesco, il paese venne rioccupato da truppe bolsceviche. Ma,
con l’aiuto di contingenti stranieri e russi “bianchi” e della flotta
britannica, il governo provvisorio estone, nel febbraio del 1919,
riuscì a sgomberare tutto il territorio e a riaffermare l’indipendenza
del paese, che durò fino al 1940. I governi che si succedettero furono
tutti caratterizzati da tendenze conservatrici. Nel 1932 fu varata una
riforma che trasformava il parlamento in senso “corporativo” e fino al
1938 il paese fu sottoposto ad un regime autoritario. Sul piano
internazionale, l’Estonia, dopo aver siglato, insieme a Lituania e
Lettonia la cosiddetta “intesa baltica”, nel 1939, stretta tra URSS e
Germania, strinse un patto di mutua assistenza con l’Unione Sovietica.
Nel giugno del 1940, i sovietici entrarono nel paese. Il 22 luglio
dello stesso anno, l’Estonia diventava parte integrante dell’URSS. Dal
1941 al 1944, in seguito all’occupazione nazista, l’Estonia fu teatro
di una sanguinosa guerra civile che vide contrapposti i sostenitori
della resistenza antifascista e i soldati dell’ “Armata Rossa” ai
nuclei di collaborazionisti, inquadrati direttamente nelle SS, che si
resero responsabili, come nelle altre repubbliche baltiche, di massacri
e rappresaglie in particolare contro comunisti ed ebrei. Tali
avvenimenti segnarono duramente i primi anni del dopoguerra, dopo la
sconfitta del nazismo. Ripreso il controllo, il potere sovietico adottò
una politica di dura repressione contro gli esponenti del fascismo
estone e quei settori della società che li avevano sostenuti (a
cominciare dalla grande proprietà terriera), che fu accompagnata da
deportazioni e dall’esodo di molti estoni, sospettati di avere
collaborato con i nazisti. Contemporaneamente, attraverso una massiccia
immigrazione dalle repubbliche slave dell’URSS, veniva avviato un
processo di “russificazione” del paese, che, inevitabilmente doveva
alimentare, tra gli estoni, fermenti nazionalistici e un forte
risentimento verso Mosca. Così, quando, con l’avvento della
“perestrojka” di Gorbaciov, fu lasciato spazio al pieno manifestarsi
delle tendenze nazionaliste, le spinte più radicali verso la
riconquista dell’indipendenza ben presto si manifestarono
prepotentemente. Nel marzo del 1991, dopo che anche le componenti
maggioritarie del partito comunista e della repubblica si erano
schierate apertamente per l’opzione secessionista, nel corso del
cosiddetto “referendum sull’Unione” il 78% della popolazione si
pronunciava a favore dell’indipendenza. La definitiva separazione da
Mosca avveniva il 20 agosto 1991, in seguito al fallito golpe che
avrebbe aperto la strada allo smantellamento dell’URSS. Il partito
comunista veniva dichiarato fuorilegge e non sarebbe stato più
riammesso. L’Estonia indipendente otteneva in breve tempo il
riconoscimento della comunità internazionale e della stessa Russia, le
cui truppe avrebbero definitivamente lasciato il paese nell’agosto del
1994. Sul piano economico la scelta dell’Estonia si concretizzò
nell’abbandono delle forme sovietiche di proprietà, nel ripristino
della proprietà privata dei mezzi di produzione e in una politica di
liberalizzazione dei prezzi e di progressivo inserimento nei meccanismi
di mercato capitalistico. Nonostante il paese avesse rappresentato una
delle più prospere repubbliche dell’ex URSS (e fosse stata protagonista
di innovativi tentativi di “riforma economica” già negli anni ’70), la
brusca interruzione dei rapporti con il mercato sovietico, tradizionale
sbocco delle sue produzioni e da cui l’Estonia dipendeva per gli
approvvigionamenti energetici, ha comportato in pratica il collasso del
sistema industriale, la costosa scelta di dipendenza economica
dall’occidente e pesanti conseguenze sul piano sociale, che si fanno
tuttora sentire, e che potrebbero venire addirittura acutizzati
dall’avanzare dei processi di integrazione nella costruzione europea. A
farne le spese è stata in particolare la componente russa della
popolazione (600.000), che rappresentava parte significativa della
classe operaia presente nel paese. I russi e i “russofoni”, che sono
venuti a trovarsi improvvisamente nella condizione di “occupanti”, non
solo hanno pagato le conseguenze più serie della ristrutturazione
economica, ma si sono visti privare di tutti i diritti di cittadinanza,
compreso il diritto al lavoro a pari dignità con la popolazione
autoctona e persino il diritto di voto. Tale comportamento dell’Estonia
ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni per i “diritti
umani” e delle stesse autorità russe, ma non sembra avere intaccato il
giudizio positivo dell’UE, che sta alla base dell’accettazione di
questo paese baltico nel consesso europeo. In tal modo, la pratica
assenza di un elettorato russo di una certa consistenza (l’unico
partito della minoranza russa presente alle elezioni, il conservatore
“Partito Unitario del Popolo Estone”, non supera il 2% dei voti),
spiega in parte perché sia le elezioni presidenziali che quelle
parlamentari abbiano visto un sostanziale equilibrio tra forze di
centro-sinistra e centro-destra etnicamente estoni e sostanzialmente
allineate nell’accettazione del nuovo corso economico e nella ricerca
di interlocutori internazionali a occidente, nella NATO e nell’Unione
Europea. Tale processo di avvicinamento all’occidente ha avuto il suo
completamento nell’adesione dell’Estonia alla NATO (fortemente
osteggiata dalla Russia, per la pericolosissima vicinanza delle future
installazioni dell’Alleanza Atlantica ai centri nevralgici del paese),
formalizzata al vertice NATO di Praga del novembre 2002, e
nell’ingresso nell’Unione Europea, ratificato dal referendum svoltosi
nel settembre del 2003. Al termine di un ciclo politico che ha visto
alternarsi forze borghesi più o meno moderate, che vede alla presidenza
della repubblica il “leader” dell’indipendenza Arnold Ruutel (già
segretario del locale Partito Comunista!), solo il 58,2% dei cittadini
chiamati al voto ha eletto nel marzo del 2003 un parlamento largamente
dominato da partiti centristi e di destra moderata (“Partito di centro
estone”, “Res Publica”, “Partito delle riforme estone” e “Unione del
popolo estone”). Da aprile 2003, capo del governo (espresso dalla
coalizione tra “Res Publica” e il “Partito delle riforme”), è stato
eletto il trentaseienne Juhan Parts, uomo particolarmente legato agli
interessi degli Stati Uniti nella regione baltica. L’unico partito che
si definisca di sinistra alternativa, operante in Estonia, è il
“Partito Social Democratico del Lavoro Estone” (ESDTP), che conta 1.250
iscritti ed è presieduto attualmente da Tiit Toomsalu. L’ESDTP ha
ottenuto solo lo 0,4% dei voti nelle elezioni parlamentari. Il piccolo
partito, che si è opposto all’ingresso dell’Estonia nella NATO e
nell’UE e che si è battuto per i diritti civili della minoranza russa,
ha aderito sia al “Forum della nuova sinistra europea” che al “Partito
della Sinistra Europea” costituitosi l’11 gennaio 2004 a Berlino. 
            

LETTONIA

La Lettonia, con i suoi circa 65.000 Kmq e 2,3 milioni di abitanti,
rappresenta lo stato intermedio tra i tre già facenti parte dell’URSS,
che si affacciano sul Mar Baltico. Solo il 57% della popolazione è
costituito da lettoni, che parlano una lingua appartenente al gruppo
baltico. Oltre il 33% è rappresentato da russi e “russofoni”, e circa
l’8% da altre componenti slave (bielorussi, ucraini) che, nel periodo
sovietico, in generale hanno sempre considerato il russo come loro
prima lingua.      

La Lettonia, costituitasi stato indipendente nel 1918 alla caduta
dell’impero zarista, alla vigilia dell’invasione nazista dell’URSS, nel
1940, venne occupata dall’ “Armata Rossa” e proclamata repubblica
sovietica. Dal 1941 al 1944 il paese fu sottoposto all’occupazione
nazista, che si manifestò con particolare ferocia nei confronti della
resistenza e nelle operazioni di sterminio degli ebrei, che portarono
all’eliminazione fisica di oltre 90.000 persone di religione israelita.
Nelle loro azioni, i nazisti erano affiancati da consistenti gruppi di
collaborazionisti lettoni, inquadrati nei reparti delle SS, che, al
momento dell’arruolamento, dovevano prestare giuramento direttamente a
Hitler. Queste formazioni, note agli storici della resistenza per la
loro ferocia, si resero protagoniste di massacri inenarrabili, che
avevano come obiettivo, oltre agli ebrei, i militanti comunisti e gli
appartenenti alle minoranze. In seguito alla liberazione del paese da
parte dell’ “Armata Rossa”, molti fascisti cercarono rifugio nelle
folte foreste che coprono il territorio della Lettonia, proclamandosi
“fratelli dei boschi”, e, con l’aiuto dei proprietari terrieri e di
settori della popolazione contadina (una vera e propria “Vandea”),
cercarono di opporre una disperata resistenza, che si manifestava in
attentati terroristici e in uccisioni individuali: centinaia di
comunisti, impegnati nella costruzione del potere sovietico, vennero
così massacrati nei primi anni del dopoguerra, fino a quando il
movimento terroristico fascista (a cui non sono certo attribuibili le
caratteristiche di “movimento di liberazione nazionale” sbandierate
dalle attuali autorità, impegnate in una preoccupante operazione di
riabilitazione storica del collaborazionismo lettone) venne
definitivamente represso. Seguirono, in epoca staliniana, una serie di
misure particolarmente severe che comportarono la deportazione in altre
repubbliche di circa 200.000 persone e l’immigrazione massiccia in
Lettonia di russi, bielorussi e ucraini, che andarono a costituire il
nerbo del locale proletariato industriale. Anche se, a partire dagli
anni ’60, la situazione parve normalizzarsi, attraverso un deciso
rilancio dell’economia e del settore industriale ed un significativo
innalzamento del livello di vita e delle prestazioni sociali, le
tensioni postbelliche non arrivarono mai ad una definitiva
composizione. Così quando, con la “perestrojka”, i fermenti
nazionalisti e anticomunisti affiorarono in superficie, le tendenze
“revansciste” e separatiste, guidate dal cosiddetto “Fronte popolare”,
ripresero vigore, fino ad invocare l’indipendenza, attraverso la
proclamazione della sovranità nel maggio del 1989 e la definitiva
divisione dall’URSS, avvenuta nell’agosto del 1991.

Da quel momento, la Lettonia, subito riconosciuta dall’Occidente, e
guidata allora dal movimento moderato nazionalista “Via Lettone”, si
incamminò sulla strada delle riforme capitalistiche, rompendo i legami
con il mercato sovietico, che le avevano permesso di diventare, insieme
all’Estonia, la più prospera repubblica dell’Unione Sovietica, e ad
avviare trasformazioni strutturali in senso liberista, che dovevano
portare in breve tempo all’esplodere di una crisi economica di vaste
proporzioni. A pagarne le conseguenze è stata in primo luogo la classe
operaia, che ha assistito allo smantellamento di un apparato
produttivo, che aveva perso i tradizionali mercati di sbocco. E, dal
momento che il proletariato è rappresentato in larga parte da cittadini
russi o “russofoni”, la “questione sociale” è venuta così mescolandosi
con la “questione nazionale”. Fin dal 1991, i governi che si sono
succeduti hanno praticato una politica che, non solo ha teso ad
impedire la riorganizzazione di un forte movimento operaio (attraverso,
innanzitutto, la messa al bando del Partito Comunista e
l’incarcerazione dei suoi massimi dirigenti, costretti a lunghi anni di
detenzione e spesso condannati retroattivamente per la loro
partecipazione alla repressione del collaborazionismo locale
nell’immediato dopoguerra: tanto da sollevare l’indignazione dello
stesso presidente russo Putin, che ha definito questi anziani
partigiani “valorosi combattenti della Grande Guerra Patriottica”), ma
che ha puntato (tra le proteste di alcune organizzazioni umanitarie, ma
nella sostanziale indifferenza delle istituzioni internazionali) alla
realizzazione di una vera e propria “pulizia etnica”. Dopo il 1991, in
Lettonia oltre mezzo milione di cittadini appartenenti alle minoranze
nazionali è stato privato dei diritti civili. Costoro non beneficiano
né del diritto di voto, né del diritto di impiego nella funzione
pubblica. Non godono della pensione e vengono discriminati nelle
richieste di affitto e di lavoro. Sul loro passaporto figura
addirittura la dicitura “non cittadino”. Il governo è arrivato al punto
di adottare una legge che viola il diritto fondamentale
all’insegnamento nella propria lingua madre. Secondo la nuova
legislazione, solamente le scuole che insegnano in lingua lettone
verranno sovvenzionate. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio
regime di “apartheid”, a cui l’Unione Europea (ma, dispiace affermarlo,
la stessa sinistra del continente, con l’eccezione dei comunisti greci
e di alcune componenti comuniste italiane e belghe) non hanno saputo
rispondere se non con qualche timida reprimenda.

Tutto ciò non ha impedito che la Lettonia venisse accolta nel “salotto
buono” del mondo occidentale, attraverso il suo inserimento nelle
strutture sia della NATO che dell’Unione Europea. Così, tra il novembre
del 2002 e la fine del 2003, la Lettonia, che ha pagato il suo ingresso
nel consesso occidentale con costi sociali inauditi (ad esempio, il
sistema agricolo rischia il collasso con l’entrata in vigore dei
vincoli europei), si è ritrovata tra i paesi legati al carro delle
avventure americane nel mondo, con l’obbligo di destinare cifre ingenti
del suo bilancio alle spese militari e ad inviare truppe in giro per il
mondo, in caso di richiesta (un piccolo contingente lettone è presente
in Iraq).

Né il presidente della repubblica Vaira Vike-Freiberga, né i governi
che si sono succeduti in questi 12 anni non si sono mai opposti a tale
corso della politica nazionale. E, più di tutti, l’ultimo di
centro-destra che, dopo le elezioni dell’ottobre 2002, è diretto da
Einars Repse ed esprime una coalizione formata al Saeima (parlamento)
da “Nuova Era” ( con il 23,9%, partito di maggioranza relativa), dal
“Primo partito di Lettonia” (9,6%) e da altre formazioni minori di
orientamento conservatore. Anche in occasione del referendum per
l’adesione all’Unione Europea, salutato dalla retorica “europeista”
come espressione della volontà popolare lettone, è stato impedito ad
oltre il 20% degli abitanti di votare. Al contrario delle altre
repubbliche baltiche, in Lettonia i comunisti (fuorilegge, anche dopo
l’ingresso nell’UE) hanno cercato di riorganizzarsi, attraverso nuove
coperture legali. Nel gennaio del 1994 è stato così fondato il Partito
Socialista di Lettonia (LSP), alla cui guida, dopo una lunga
detenzione, è stato eletto Alfred Rubiks, leader del Partito Comunista
di Lettonia fino all’agosto 1991. Il Partito Socialista, decisamente
contrario all’integrazione nel sistema occidentale di alleanze, si
pronuncia per la creazione di un sistema “protetto socialmente sulla
base della teoria marxista” e intende difendere “gli interessi politici
e sociali del popolo lavoratore”. Il Partito Socialista è
particolarmente attivo nella lotta in difesa dei valori antifascisti e
contro il regime di “apartheid”, attraverso l’organizzazione di
incisive lotte, che hanno mobilitato decine di migliaia di persone,
ottenendo anche qualche parziale risultato. Il Partito Socialista è la
più importante tra le forze di sinistra ( le altre sono il “Partito
della concordia del popolo”, difensore dei diritti civili, e il
“Movimento per l’uguaglianza”, in rappresentanza della minoranza russa)
che hanno dato vita alla coalizione “Per i diritti dell’uomo in una
Lettonia unita”, che, nelle ultime elezioni, è diventata la seconda
forza politica con il 19,1% dei voti (rispetto al 14,2% della
precedente consultazione). La coalizione ha preso parte, in veste di
osservatore, alla riunione di Berlino in cui è nato il “Partito della
Sinistra Europea”, decidendo di non aderirvi.             

 
LITUANIA

La Lituania, con una superficie di 65.200 Kmq e una popolazione di 3,5
milioni di abitanti, è la più meridionale delle repubbliche baltiche ex
sovietiche. A differenza di Lettonia ed Estonia, in questa repubblica
oltre l’80% della popolazione è costituita da lituani (8,7% di russi e
7% di polacchi), in gran parte cattolici, che parlano una lingua del
gruppo baltico. Annessa alla Russia alla fine del 1700, occupata dai
tedeschi durante la prima guerra mondiale, la Lituania riconquistò
l’indipendenza nel 1918. Governata, a partire dal 1926 dal regime
autoritario di Antanas Smetona, la Lituania adottò una costituzione di
tipo corporativo (fascista) nel 1938. Dopo l’accordo sovietico-tedesco,
la Lituania, come le altre repubbliche baltiche, fu inclusa nell’Unione
Sovietica, dopo avere ottenuto la restituzione dell’attuale capitale
Vilnius, fino ad allora sotto controllo polacco. L’occupazione nazista
(1941-1944), appoggiata dalle feroci formazioni fasciste locali (si
distinse il padre di Vytautas Landsbergis, il leader più conosciuto del
movimento indipendentista che riconquistò l’indipendenza nel 1991), si
rese responsabile, fra l’altro, del massacro e della deportazione nei
campi di sterminio di oltre 240.000 ebrei, che costituivano una delle
più significative comunità israelitiche europee. Il periodo postbellico
di potere sovietico, caratterizzato da un rilevante afflusso di
investimenti e di risorse energetiche, nonostante un livello di
industrializzazione meno elevato che in Lettonia ed Estonia, ha
favorito una significativa crescita dell’economia, in particolare del
settore agro-industriale (l’agricoltura lituana era tra le più
produttive dell’URSS), ponendo la Lituania ai primi posti per livelli
di benessere tra le repubbliche sovietiche. La “sovietizzazione”
comportò una fase particolarmente dura di repressione dei fermenti
nazionalistici, caratterizzato anche da deportazioni di cittadini
lituani. Il processo di “russificazione” fu però meno rilevante che
negli altri paesi del Baltico. Per questa ragione la Lituania, in cui
un ruolo di particolare rilievo nella conservazione delle tradizioni
nazionali è stato svolto dalla locale Chiesa cattolica, è stato il
primo paese a proclamare l’indipendenza, confermata dall’adesione quasi
plebiscitaria (90%) alla richiesta di distacco da Mosca nel referendum
del marzo 1991. Solo il collasso dell’URSS ha però portato al
riconoscimento internazionale del nuovo stato, alla cui guida si è
trovato, nell’agosto ’91, il movimento nazionalista di destra (Sajudis)
di Vytautas Landsbergis. Fu subito avviato un processo di restaurazione
capitalistica, improntato al liberismo più sfrenato, da cui sono presto
derivati gravissimi squilibri economici e sociali. L’inflazione
galoppante, la penuria di combustibile (dovuta alla brusca interruzione
delle relazioni economiche con il mercato ex sovietico), che arrivò
addirittura a provocare la totale mancanza di riscaldamento, e la crisi
del settore agricolo, seguita al riassetto proprietario dopo la
privatizzazione delle terre, alimentarono un vasto malcontento
popolare, che portò, nel 1992, alla clamorosa disfatta del “Sajudis” e
alla vittoria degli ex comunisti di Algirdas Brazauskas (“Partito
democratico del lavoro”, negli anni seguenti, trasformatosi in “Partito
socialdemocratico lituano”, aderente all’Internazionale Socialista, che
insieme ad altre forze minori, tra cui l’ “Unione lituano-russa” in
rappresentanza della minoranza russofona, ha dato vita alla cosiddetta
“Coalizione socialdemocratica”) favorevoli a riforme più caute e
graduali. Nel corso degli anni ’90, che hanno visto l’alternarsi di
governi di centro-destra e di centro-sinistra, la linea predominante di
politica estera è stata la ricerca dell’integrazione della Lituania
nell’ambito delle alleanze occidentali. Sono proprio i governi
“socialdemocratici”, del resto, quelli che più si sono attivati
(trovando sostegno nella stessa “Internazionale Socialista”) per
avvicinare il paese all’Unione Europea e alla NATO. Lo stesso
Brazauskas ha fatto della “vocazione europea e occidentale” della
Lituania uno dei suoi “cavalli di battaglia” e, dal 2001, in seguito
alla vittoria elettorale nelle elezioni dell’ottobre 2000, è alla guida
del governo di coalizione tra i “socialdemocratici” e la “Nuova Unione
dei social-liberali”, che ha sancito l’ingresso formale ( tra il 2002 e
il 2003) della repubblica baltica nel sistema di alleanze
dell’Occidente. Durante il premierato di Brazauskas, nel gennaio del
2003, al ballottaggio, Rolandas Pauskas, del Partito liberaldemocratico
lettone, batteva il presidente della repubblica uscente Valdas Adamkus,
facoltoso emigrato negli USA, eletto a sorpresa nel 1998. Il nuovo
presidente della repubblica si è trovato ben presto al centro di un
clamoroso scandalo, per i suoi legami con ambienti della mafia russa,
e, nell’ultimo scorcio del 2003, in seguito a grandi manifestazioni
popolari, ha dovuto subire l’avvio delle procedure di “impeachment”. In
Lituania, anche per una più limitata presenza della componente russa
che, in generale, rappresentava il nucleo operaio delle strutture
comuniste, quando le repubbliche baltiche facevano parte dell’URSS, la
sinistra è oggi elettoralmente rappresentata in modo quasi esclusivo
dal “Partito socialdemocratico lituano”. Il Partito Comunista Lituano
(PCL), messo brutalmente fuorilegge all’indomani dell’indipendenza, non
ha più riacquistato una veste legale (il piccolo Partito Socialista di
Lituania, costituito da alcuni militanti comunisti e presieduto da
Mindaugas Stakvilevicius, svolge un ruolo molto marginale). Molti
militanti comunisti, costretti alla più assoluta clandestinità, sono
stati sottoposti a persecuzioni di ogni tipo, purtroppo passate
inosservate persino alla gran parte della sinistra antagonista europea.
Dirigenti del PCL sono stati sottoposti a torture e maltrattamenti, ed
altri, nei primi anni ’90, sono stati persino rapiti in Bielorussia,
dove si erano rifugiati, in conseguenza di un blitz, effettuato dai
servizi segreti lituani. Solo negli ultimi mesi del 2003, grazie
all’iniziativa del Partito Comunista di Grecia (l’unico che, in sede
europea, si è finora battuto con vigore e coerenza contro le ricorrenti
violazioni dei diritti umani nei paesi ex socialisti del nostro
continente), Stratis Korakas, parlamentare europeo di questo partito ha
potuto fare visita agli anziani leader del PCL (Mikolas Burakiavitsious
e Giuozas Kuolialis), tuttora detenuti nelle carceri di Vilnius,
chiedendone il rilascio immediato e sollecitando l’interessamento degli
organismi competenti europei, che, naturalmente, è ancora una volta
venuto meno.

AMERICA AMERICA

"L'America e' l'unica nazione della storia ad essere passata
direttamente dalla barbarie alla degenerazione senza l'intervallo
consueto della civilta'"

(Georges Clemenceau, primo ministro di Francia all'inizio del XX secolo
e nel corso della I Guerra Mondiale)

"America is the only Nation in history which has gone directly from
barbarism to degeneration without the usual interval of civilization"

Georges Clemenceau cited by Geoffrey Wasteneys at
http://www.artel.co.yu/en/reakcije_citalaca/2004-01-08.html

PERICOLOSE SIMILITUDINI

"La battaglia di Algeri" e quella di Bagdad

WASHINGTON - La «Battaglia d'Algeri», il film del 1966 con cui Gillo
Pontecorvo ha raccontato la resistenza algerina contro
l'esercito coloniale francese, torna, in versione restaurata, nelle
sale cinematografiche Usa. Molti critici hanno segnalato le molte
similitudini con l'attuale situazione in Iraq.

(Da "Il Messaggero" dell'11/01/04. Segnalato da Pino sulla mailing list
Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli. )

LA GUERRA E' ORRORE MA ALCUNI ORRORI SONO PIU' UGUALI DEGLI ALTRI

<<Noi dobbiamo avere il coraggio non solo, come
stiamo facendo, di dire la verità, ma - e su questo punto
insisto - di non trovare alcun elemento di giustificazione
nell'orrore che gli oppressori avevano realizzato
precedentemente per giustificare l'orrore che vi fu dopo...>>

Fausto Bertinotti, riferendosi alle "foibe", nell'intervento conclusivo
del Convegno di Rifondazione comunista
LA GUERRA E' ORRORE (Venezia, sabato 13 dicembre 2003,
Aula Magna di Architettura)

<<Auschwitz (...) e' il genocidio. Hiroshima no. Questa differenza c'è
e conta. Hiroshima non aveva come fine l'annientamento. Era un modo
terribile e violento di opporsi ad esso.>>

Fausto Bertinotti nell'intervento conclusivo del Convegno di
Rifondazione comunista LA GUERRA E' ORRORE (Venezia, sabato 13 dicembre
2003, Aula Magna di Architettura)


Sui complessi di colpa di Fausto Bertinotti per i presunti crimini
commessi dai partigiani jugoslavi vedi anche il commento di Claudia
Cernigoi:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3088

CROAZIA: PARTITO DI MAGGIORANZA DIFFONDE CALENDARI 2004 CON L'IMMAGINE
DI ANTE PAVELIC

Ante Pavelic, "duce" dello Stato Croato Indipendente nazifascista
(1941-1944) sotto il quale furono sterminati centinaia di migliaia di
non-cattolici e di antifascisti con il concorso attivo del clero,
appare sulle pagine di un calendario promozionale dell'HDZ.
L'HDZ, fondato da Franjo Tudjman e dall'attuale presidente dello Stato
croato Stipe Mesic, ha recentemente riottenuto la maggioranza
elettorale ed il governo grazie al sostegno fattivo degli Stati Uniti
d'America ed alla legittimazione della Unione Europea.

Una pagina del calendario si puo' vedere alla URL:
http://www.slobodan-milosevic.org/images/KalendarPavelicHDZV.jpg

Testi consigliati:
"L'ARCIVESCOVO DEL GENOCIDIO", di Marco Aurelio Rivelli, ed. Kaos,
Milano 1999
http://www.kaosedizioni.com/schnomedio_arcivgenocidio.htm
"IL FASCISMO E GLI USTASCIA 1929-1941: Il separatismo croato in
Italia", di Pasquale Juso, Gangemi Editore, 1998
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2814

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http://www.slobodan-milosevic.org/news/ihr011103.htm

HDZ distributed calendars with Pavelić portrait

Index.hr / vijesti.net (Croatia) - Saturday, 10. January 2004 11:34

The HDZ of Sesvete distributed on New Year's a calendar titled
"Historical Croatia," with the page for every month bore an image of a
notable Croatian historical figure, from [medieval princes] Trpimir,
Domagoj and Branimir, to Franjo Tuđman, whose picture graces the
December 2004 page.

Interestingly, the HDZ received two different versions of the
calendar. Of some 300 calendars they ordered from Široki Brijeg [in
Bosnia], the Sesvete branch of HDZ received 150 with the photo of
Ustaša fuehrer Ante Pavelić on the October page, while the rest had
the picture of Ljudevita Gaja and the Illyrian movement.

Chairman of Sesvete HDZ Ivan Dujmović said he had ordered the calendar
after seeing the Illyrian version, and that they were distributing the
calendars to their members and sympathizers only after ripping out the
pages with Pavelić, quotes Jutarnji list. The paper added that several
hours after giving this statement, Dujmović denied they had received
two versions of the calendar, and said they had none with the picture
of Pavelić.

Spokesman for the HDZ said that the party had nothing to do with these
calendars, and that this must have been a provocation, while the
Sesvete HDZ branch claimed Pavelić had to have been a plant by the
rival Croatian Bloc.


http://www.slobodan-milosevic.org/images/KalendarPavelicHDZV.jpg
 
photo credit: Jutarnji list


Original URL: http://www.index.hr/clanak.aspx?id=179986
Translated by: Nebojsa Malic
Posted for Fair Use only.

http://www.balkanalysis.com/modules.php?name=News&file=print&sid=231

The Holocaust in Macedonia, 1941-1945

Date: Saturday, January 10 @ 02:00:00 EST
Topic: Macedonia Articles


This article by guest author and noted Balkan historian Carl
Savich was originally published by www.serbianna.com. (more information
about Mr. Savich is available there). It serves as a compelling
reminder of the extent and scope of genocide carried out in Macedonia
by the Nazis and their collaborators.

Introduction
 
Over 7,000 Macedonians Jews were killed during the Holocaust in
Macedonia, 1941-1944, rounded up and deported by German, Bulgarian, and
Albanian forces. Macedonia was annexed and divided between Greater
Albania and Greater Bulgaria following the invasion and occupation of
Yugoslavia in April, 1941 by Germany and Axis allies Italy, Hungary,
Albania, and Bulgaria. The Tetovo, Gostivar, Struga, Kichevo, and Debar
districts of Western Macedonia were annexed and incorporated into an
enlarged Albanian state, or Greater Albania, sponsored by Adolf Hitler
and Benito Mussolini. Eastern Macedonia, including the capital Skopje,
Bitola, and Shtip, were annexed to Greater Bulgaria. Western Macedonia
was occupied by the Italian Army and was under Italian administration
until the Italian surrender in 1943 when it was re-occupied by Germany.
In conjunction with the Balli Kombetar, the Italian occupation forces
formed the fascist Albanian Ljuboten battalion which the German forces
retained after 1943. In 1944, Germany formed the Albanian Skanderbeg
Waffen SS Division which occupied Kosovo, Southern Serbia, Montenegro,
and Western Macedonia. The Macedonian Orthodox, Serbian Orthodox, Roma,
and Macedonian Jewish populations were the targets or victims of
genocide and extermination. The Macedonian and Serbian nationalities
were de-recognized by the Bulgarian occupation forces. The Bulgarian
occupation regime categorized the Macedonian Slav population as
Bulgarian. In the Greater Albania region of Western Macedonia, the
Macedonian Orthodox, Serbian Orthodox, Roma, and Jewish populations
were similarly targeted for elimination and deportation.

The Jewish Population of Macedonia

The total Jewish population of Macedonia in 1941 was approximately
7,800-8,000, concentrated in the Macedonian cities of Skopje, Bitola,
and Shtip, which were in the Bulgarian zone of occupation, Eastern or
Greater Bulgaria. There were also 300 Jewish refugees in Macedonia from
Belgrade, Serbia, who had escaped to Skopje. The Bulgarian police and
military forces rounded up over 7,000 Macedonian Jews who they then
turned over to the German forces who deported them to the Treblinka
concentration camp in railroad cars in March, 1943. During World War
II, over 7,000 Macedonian Jews were killed during the Holocaust.

Jews have lived in Macedonia since Roman times. A Greek inscription on
a pillar of a church which had been a former synagogue in Stobi near
Bitola showed evidence of Jewish settlement in the 2nd and 3rd
centuries. This historical record is preserved in the national museum
of Belgrade, Serbia. In the medieval period, Jews lived in Bitola,
Skopje, Ochrid, and Struga. During the reign of Serbian Tsar Stephen
Dushan, Jewish farmers are mentioned as living in Macedonia. Stephen
Dushan conquered Macedonia in 1353, when Macedonia was incorporated
into the medieval Serbian state. Skopje would become the capital city
of Serbia. During the 14th century, the Jewish grammarian Judah Moskoni
lived in Ochrid. During the 16th century, Jewish communities are known
to have existed in the Macedonian cities of Skopje and Bitola and the
Serbian cities of Nish, Smederevo, and Pozarevac.

During the medieval period as part of the Turkish Ottoman Empire,
Skopje (known as Uskub in Turkish, Skupi in pre-Ottoman history) became
a major commercial and trading center located on the trade route from
Constantinople and Salonika to Serbia and Bosnia. Ottoman Uskub was
inundated by Turkish Muslim settlers. Skopje was on a strategically
important military route. Jewish merchants in Skopje were involved in
various trades such as manufacturing wool clothing, commerce, and the
production of kachkaval cheese. Commerce was transacted between
Salonika and Constantinople in Skopje.

Mass Jewish migrations to Macedonia occurred following the Spanish
Inquisition and Reconquista or Reconquest in Spain and Portugal in the
late 15th century. Many of the Spanish Jews were craftsmen and
entrepreneurs and spoke their own language, Ladino, and were of the
Sephardic sect of Judaism. These Spanish and Portuguese Jewish refugees
settled in Salonika (Thessalonika) in Greece, Skopje, Bitola, Ber,
Kostur, Serres, Shtip, Kratovo, and Strumica. By the middle of the 16th
century, 3,000 Jewish households were established in Salonika, which
was called ''the mother-city of Israel''. In the 17th century, the
Jewish quarter of Skopje had its own schools, two synagogues, and walls
that surrounded it. The Jewish population of Shtip had its origins in
Salonika. During the march of Holy Roman Emperor Leopold I’s forces on
Skopje in 1689, the city was burned and destroyed. The Jews of Skopje
were forced to flee the city, while synagogues were burned down and the
wall surrounding the Jewish quarter was destroyed. Mosques and Muslim
and Ottoman Turkish structures and buildings were burned down and
destroyed. At the time of the Young Turk revolution, there was another
influx of Jewish settlers in Macedonia.

Macedonia and the Holocaust: Greater Bulgaria

Yugoslavia was invaded on April 6, 1941 by Germany, Italy, Albania,
Hungary, and Bulgaria in a joint offensive termed by Adolf Hitler
Operation Punishment. Southern Yugoslavia was invaded by German and
Bulgarian forces which occupied Macedonia. Macedonia came under
Bulgarian military occupation on April 18 when Macedonia was annexed
into a Greater Bulgaria along with Thrace. Bulgarian King Boris III,
who ruled from 1918 to 1943, and his Prime Minister from February, 1940
to September, 1943, Bogdan Filov, had signed a pact with Germany on
March 1, 1941 making Bulgaria an Axis partner in the Hitler-Filov
Accords.

Bulgarian anti-Jewish measures began on January 21, 1941 when the Law
for the Defense of the Nation was promulgated by the Bulgarian
parliament in Sofia. The Law for the Defense of the Nation restricted
the civil rights of Bulgarian Jews. On October 4, 1941, Macedonian Jews
in the Skopje and Bitola districts were forbidden to maintain any
commercial/trade/economic business or to transact any business. Jewish
businesses were to be closed down and liquidated by the end of the
year. On June 28, 1942, a law was passed which mandated that the
Bulgarian Council of Ministers implement ''all necessary steps to solve
the Jewish question and the problems involved.'' Bulgaria thus was
committed to the implementation of the Final Solution to the Jewish
Problem, what became known as the Holocaust or Shoah. Other anti-Jewish
ordinances and orders were enacted by the Bulgarian government. On
September 4, 1942, Jews living in Macedonia, Thrace, and the rest of
Greater Bulgaria were required to identify their place of residence and
their businesses. On August 26, 1942, the Bulgarian Commissariat for
the Jewish Problem, also known as the Central Commissariat for Jewish
Affairs, in consultation with the German officials in Sofia and the
Gestapo, passed an order, number 4567, that mandated that Jews wear a
yellow badge. All Macedonian Jews over the age of ten were now legally
required to wear the ''Jewish badge'', a yellow Star of David, the
Magen David, or Mogen David, to identify themselves as Jews. Macedonian
Jews were further forbidden to frequent movie theaters and cafes. Jews
were forbidden to live in the same residence with Bulgarians. Moreover,
there was a curfew for Jews forbidding them to leave their homes after
certain times or to travel city streets after certain times. Jewish
residences and Jewish residents had to be listed. Due to these
anti-Jewish measures, Jews were excluded from the social, political,
and economic life of Greater Bulgaria which resulted in the
ghettoization of the Macedonian Jews.

In the fall of 1942, Macedonians were made Bulgarian citizens, but
Macedonian Jews were excluded from citizenship. The Macedonian
national/ethnic classification was de-recognized. The Serbian
national/ethnic classification was similarly de-recognized. The
Orthodox Slavic population of Macedonia was deemed to be Bulgarian. As
in the Croatian/Bosnian Muslim Ustasha NDH, the Independent State of
Croatia, the Serbian population ceased to exist. So Jews were not the
only targets of genocide in Macedonia. Macedonians, Serbs, and Roma
were similarly targeted for extermination and genocide. The Bulgarian
government implemented a policy of Bulgarization of the Slavic Orthodox
population, both Macedonian and Serbian. Pro-Bulgarian security
battalions, known as ''Ohrana'', were established in Macedonia. For
Macedonian Jews, the deprivation of Bulgarian citizenship meant that
their property could be seized or ''sequestered'' and there could be
economic discrimination applied to them. As non-citizen aliens, they
lacked full civil rights. Their movements could be restricted, and they
could be prevented from purchasing goods and services.

On February 22, 1943, Germany and Bulgaria signed an agreement to expel
20,000 Bulgarian Jews, the Bulgarian government agreeing to deport the
Jews of the areas annexed to Greater Bulgaria, Macedonia and Thrace. In
1941, Macedonia had a total Jewish population of approximately
7,800-8,000 Jews. Skopje had a population of 3,800 Jews, Bitola had a
population of 3,300, and Shtip had a population of 550. In 1910, Bitola
(known also as Bitolj and Monastir) had a total Jewish population of
2,000. In 1941, the Jewish population of Bitola was approximately
3,500. On April 5, 1943, the Jewish population of Bitola was deported
to the German concentration/extermination camp of Treblinka in
German-occupied Poland. By 1952, one or two Jews were left in Bitola.
There had been five synagogues in Bitola, none of which remain today.
The Jewish presence in Bitola was wiped out.

The center of Jewish life, culture, and commerce in the southern
Balkans was the Greek port city of Salonika or Thessalonika or Solun,
an important commercial sea port. Many Macedonian Jews had originally
come from Salonika. There had been a Jewish presence in Salonika since
140 B.C. In 1935, Salonika had a total Jewish population of 60,000.
Thrace had a total Jewish population of 1,250 Jews who had lived there
since 1542. In Bulgaria proper there was a total Jewish population of
approximately 50,000.

On March 11, 1943, the Bulgarian Commissariat for Jewish Affairs based
in Sofia ordered the seizure and detention of the Jewish population of
Macedonia and Thrace by Bulgarian military forces, police, and
governmental agencies after consultations with the German minister in
Sofia, Alexander Beckerle. The Bulgarian government acquiesced to the
deportation of the Jewish populations of Macedonia and Thrace but did
not relent to the deportation of the Jewish population of Bulgaria
proper, due to the pressure exerted by the Bulgarian Orthodox Church
and Orthodox priests, who opposed the deportations and anti-Jewish
policies, and the pressure of public opinion, which likewise opposed
the deportations in Bulgaria proper. But there was no such compunction
or reluctance in deporting the Macedonian and Thracian Jews, regarded
as “foreign” Jews.

A total of 7,215 Macedonian Jews were seized by Bulgarian forces and
sent in wagon cars of 50-60 persons per wagon to a transit camp, the
tobacco factory, in Skopje. Eleven days later, 198 of these Jewish
deportees were released, those that were foreign nationals. A second
group released were 67 doctors, pharmacists, and their families. In the
group of deportees, there were 539 children up to three years of age,
602 children between the ages of three and ten, 1,172 children between
the ages of ten and sixteen. Thus, 2,313 children under the age of
sixteen were deported to Treblinka. None of them survived.

There were 865 elderly Macedonian Jewish deportees over the age of 60.
There were 250 severely ill deportees in the group.

The deportees were kept in deplorable conditions. Each room in the
tobacoo factory held over 500 persons. The Skopje tobacco factory
lacked adequate sanitation. Food and water were scarce. On March 22,
the first transport trains took the deportees to Treblinka. The
transport of the Macedonian Jews to Treblinka was supervised by SS
Hauptsturmfuehrer Theodor Dannecker. Bulgarian police forces guarded
the transports. The second transport was under the direction of German
Gestapo personnel. On March 25 and 29, a second and a third transport
respectively departed for Treblinka. The third transport consisted of
2,500 persons. Of the 7,144 Macedonian Jews deported to Treblinka, none
survived. Of that number, 2,313 children under the age of 16 were
killed. 100-200 Macedonian Jews survived the Holocaust in Macedonia.
The round-up and deportations were organized by the Bulgarian
Commissariat for Jewish Affairs and implemented by the Bulgarian
police. The properties, businesses, and financial holdings of
Macedonian Jews were seized by the Bulgarian government which allocated
these assets to Bulgarian organizations, institutions, and private
citizens.

Macedonia and the Holocaust: Greater Albania

Macedonia was divided between a Greater Bulgaria and a Greater Albania
during the Holocaust. The Tetovo, Gostivar, Struga, Debar, and Kichevo
regions of Western Macedonia, termed Illirida in the Greater Albania
nomenclature, were annexed to an enlarged Albanian state sponsored by
Benito Mussolini and Adolf Hitler. The Western Macedonia/Illirida
sector of Greater Albania was occupied by Italy with Albanian proxy
forces and an Albanian administration until September, 1943, when
Western Macedonia was occupied by German forces after the Italian
surrender. During the Italian occupation, the Albanian nationalist
Balli Kombetar (BK, National Union) was formed, a militant and radical
Greater Albania movement based in the Greater Albania ideology
established with the 1878 Albanian League of Prizren, that sought the
extermination and deportation of the non-Albanian populations of
Kosovo-Metohija, Western Macedonia, Montenegro, Southern Serbia, and
Chameria in Greece. The Serbian Orthodox, Macedonian Orthodox, Roma,
and Jewish populations were the targets for elimination/deportation of
the Greater Albania ideology/movement. The Italian/fascist Albanian
Ljuboten battalion was formed in the Tetovo region made up of Albanian
troops. In 1944, when Germany occupied Western Macedonia, an Albanian
Waffen SS Division was formed, the 21st Waffen Gebirgs Division der SS
“Skanderbeg”(Albanische Nr.1). The Skanderbeg Division occupied Western
Macedonia with a base in Tetovo. Remnants of the Skanderbeg Division
later were deployed in Skopje during the German retreat from the
Balkans. On August 29, 1944, Bulgaria signed an armistice with Russia
and switched sides in the war following the advance of the Russian Red
Army in the Balkans and the defeat of the German forces. The The 1st
and 2nd Bulgarian Armies attacked the retreating German forces which
included the Albanian Skanderbeg Waffen SS Division.

The first action of the Skanderbeg Division was the round-up of Kosovo
Jews in Pristina. The Kosovo Jews seized by the Albanian Skanderbeg SS
Division numbered 400 who were transported/deported by German forces to
the Bergen-Belsen concentration/extermination camp where 300 were
killed. The Albanian Skanderbeg SS Division was instrumental in making
Kosovo Juden-frei, free of Jews. The Skanderbeg Division targeted the
Serbian Orthodox population of Kosovo-Metojiha for extermination and
deportation. Albanian troops in the Skanderbeg SS Division
indiscriminately massacred Serbian civilians in Kosovo and deported
over 10,000 Kosovo Serbs, their land being taken over by Albanian
settlers from Albania proper. Thus, the Kosovo Jewish populations and
the Kosovo Serbian populations were victims of genocide during the
Greater Albania period. The Skanderbeg Division occupied Macedonia in
early September, 1944, moving into the Skopje and Kumanovo area.

Albania proper had a total Jewish population of 300 in 1930. Following
the Italian invasion and occupation of Albania on April 7, 1939,
Albanian Jews were deported to Italy. But most of the Jews killed
during the Holocaust in Albania were in the Greater Albania or ''New
Albania'' region of Kosovo-Metohija. Italian forces deported Jewish
refugees in the Pristina prison in Kosovo to the German concentration
camp in Belgrade where they were subsequently executed by the German
forces.

The Italian occupation forces in Western Macedonia installed ethnic
Albanian Dzafer Sulejmani as the president of the Tetovo District,
while Husein Derala was made the commander of police in Tetovo. The
Italian forces relied on local Albanian proxies and an Albanian civil
administration. Italian forces sponsored the nationalist Balli Kombetar
movement, and established Vulnetara, Albanian proxy police forces, and
the Albanian Ljuboten battalion, a military formation recruited by
Italian intelligence, OVRA.

As in Greater Bulgaria, the Macedonian Jews were not the only targets
of genocide and extermination. The Macedonian and Serbian Orthodox
populations were targeted for genocide and deportation. The Roma of
Macedonia were targeted as well. The Albanian High Commissioner for
Western Macedonia, Feyzi Alizoti, called for and advocated publicly the
extermination and deportation of non-Albanians in Western Macedonia.
Alizoti gave a speech in Tetovo in which he argued for the annihilation
of the non-Muslim communities of Macedonia. He called for the expulsion
and deportation of the Orthodox Macedonian and Serbian populations,
creating a pure, ethnically homogenous Illirida, an integral part of
Greater Albania.

Reichsfuehrer SS Heinrich Himmler became a sponsor of the Greater
Albania ideology. Himmler sought to create two Albanian Waffen SS
Divisions. The German-sponsored 1943 Second Albanian League of Prizen
sought to realize the objectives of the Greater Albania ideology, to
unite Albanian-inhabited areas into an ethnically pure Albanian state.
Himmler supported Greater Albania because the Albanian Ghegs were
purportedly of pure Aryan origins, i.,e., were part of the herrenvolk
or master race. Moreover, Himmler perceived the Waffen SS as
functioning as a liberation army for oppressed/repressed minorities and
nationalities seeking independence/freedom/secession/annexation.
Himmler would thus sponsor Greater Albania.

The Jewish population of Western Macedonia/Illirida, of the Macedonian
sector of Greater Albania, was not deported until September, 1943, when
German forces occupied the Italian zones. The German occupation forces
in Western Macedonia rounded-up and deported several groups of
Macedonian Jews to the concentration/extermination camps. Thus, the
Macedonian Jews of Greater Albania, Western Macedonia/Illirida, and
those of Greater Bulgaria, Eastern Macedonia, over 7,000, were deported
and killed during the Holocaust.

Conclusion

During the Holocaust in Macedonia, 1941-1944, over 7,000 Macedonian
Jews were killed. Bulgarian military/police forces in Eastern
Macedonia, part of Greater Bulgaria, rounded-up the Macedonian Jews and
turned them over to the German occupation forces who deported them in
railroad cars to the Treblinka concentration camp in Poland in March,
1943. None of the deported Macedonian Jews survived. In Western
Macedonia/Illirida, a part of Greater Albania, the German occupation
forces deported groups of Jews to the concentration camps. During the
Holocaust, 90% of the Macedonian Jewish population was killed by
German, Bulgarian, and Albanian forces. There is a total Jewish
population of 100-200 living in Macedonia today, out of a total
Macedonian population of 2 million, most of whom live in the capital
city of Skopje. Shtip has several remaining Jewish residents. There are
no synagogues in Macedonia anymore. The Jewish community of Macedonia
maintains contacts and links to the Jewish communities in Belgrade,
Serbia, and in Salonika, Greece. The Holocaust in Macedonia from 1941
to 1944, implemented by German, Bulgarian, and Albanian forces,
resulted in the destruction of the Jewish population of Macedonia.
 

Bibliography
 
Browning, Christopher. Genocide in Yugoslavia During the Holocaust.
Washington, DC: USHMM, 1994.

The Crimes of the Fascist Occupiers and Their Collaborators Against
Jews in Yugoslavia. Belgrade: Federation of Jewish Communities of
theFederal People’s Republic of Yugoslavia, 1957.

Gutman, Israel, ed. Encyclopedia of the Holocaust. 4 vols. New York:
Macmillan, 1990.

Ivanov, Pavle Zeletovic. Skenderbeg SS Divizija. Belgrade: Nova
Knjiga,  1987.

Laqueur, Walter, ed. The Holocaust Encyclopedia. New Haven and London:
Yale University Press, 2001.


This article comes from Balkanalysis.com
http://www.balkanalysis.com

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http://www.balkanalysis.com/modules.php?name=News&file=article&sid=231

http://www.politika.co.yu/2004/0112/01_04.htm

Politika (Beograd),
Ponedeljak 12. januar 2004.

POVODOM INTERNET I DRUGIH PORUKA


Crni orao nad Crnom Gorom

U Malesiji, Ulcinju, Plavu i Gusinju potpisuju se peticije za
autonomiju "albanskih regiona"


Podgorica, 11. januara

Stvar je toliko ozbiljna da je već izašla iz granica koje bi se mogle
nazvati početnim probnim inicijativama i bezazlenim namerama. U
svet se na milione adresa korisnika Internet usluga, šalju
otrovne poruke sa posebnog sajta. Sedište ovog proalbanskog
sajta za Srbiju i Crnu Goru je u Beogradu. Internet provajder
je Telekom Srbije, a računar je povezan sa istonamenskim u
Frankfurtu, američkom Ašburnu, Paolo Altu i Milipitasu.

Na sajtu Ushtria Kombetare Malit Zi-UKM, u čijem je zaglavlju znak
"albanske nacionalne vojske Crne Gore" pišu se poruke Crnoj
Gori da "ukoliko bude eksperimentisala i potcenjivala Albance,
slede problemi na Balkanu".

Komandant Meti

"Vrhovni štab UKM" smatra da su Albanci u Crnoj Gori "svedeni
na nivo Cigana", pa "ukoliko se nastavi potcenjivanje Albanaca,
spremna je gerilska akcija protiv vitalnih strateških objekata i
interesa srpsko-crnogorske pseudodržave". Poruku je potpisao
"komandant Meti".

Na pomenutom sajtu je i foto-album tzv. "ulcinjskih tigrova",
sa oznakom "nacionalne vojske Crne Gore" (UKM). Tu su fotografije
ljudi u maskirnim uniformama, koji su naoružani modernim
naoružanjem. Na fotosima ima i legendi poput onih kojoj
brigadi pripadaju, pa se pominje i brigada Taraboš. Reč je o
Tarabošu, brdu na granici sa Albanijom, gde su vođene velike
borbe u bici za Skadar.

I uz te fotose slede poruke: "Braćo i sestre, da Albaniju jedinstvenu
učinimo i, ako treba, za nju hiljade života da damo".

Zvanične crnogorske vlasti u vezi sa ovim još nisu reagovale, a nije
se oglasila ni policija da saopšti da li je reč o nekoj
provokaciji, neslanoj šali ili pretećoj zbilji.

Miodrag Vuković, jedan od čelnih ljudi Đukanovićeve Demokratske partije
socijalista, novinarima je prokomentarisao da se "ukoliko nije
provokacija, radi o izlivu ekstremizma pojedinaca te društvene
patologije. Ne potcenjujem to, ali ne mislim da bi Crna Gora
trebalo da se trese, jer joj je i do sada prećeno. Među
Albancima u Crnoj Gori nije nikada bilo radikalnog
ekstremizma... Sve u svemu, mislim da je to još jedan politički
egzibicionizam na račun crnogorske nezavisnosti".

– Narodna stranka ne zanemaruje potencijalnu opasnost da se u Crnoj
Gori dogodi scenario koji je već viđen u Makedoniji, ili na
Kosovu, iako sve to može da se desi mimo volje autohtonih
Albanaca u Crnoj Gori. Neophodno je da se o tome, pre svih,
izjasne politički predstavnici Albanaca u Crnoj Gori i na delu
se distanciraju od takvih eventualnih akcija, jer one nisu ni
u čijem interesu, ponajmanje Albanaca u Crnoj Gori – smatra Dragan
Šoć, predsednik NS.

Ferhat Dinoša, predsednik Demokratske unije Albanaca, veruje da taj
sajt ne predstavlja ništa ozbiljno: "To su igre koje su u ovom
trenutku nekome potrebne".

Mehmet Bardhi, predsednik Demokratskog saveza Albanaca u Crnoj Gori,
izjavio je da je prvi put čuo za organizaciju "nacionalna vojska
Crne Gore" i veruje da nije reč o albanskom sajtu "jer je pun
pravopisnih grešaka".

– Status Albanaca u Crnoj Gori treba definisati, jer će problemi izaći
na površinu ako se vlasti ne otvore za razgovore – uveren je
Bardhi.

– Indikativno je da se na sajtu, makar i nepotpisanom, piše o nekim
nacionalnim vojnim formacijama Albanaca u Crnoj Gori i
njihovim mogućim akcijama, a da se istovremeno pojavljuje
inicijativa iz Malesije o reorganizaciji Crne Gore po
nacionalnom principu. Bojim se da to upućuje na zaključak da
ideja o velikoj Albaniji nije mrtva i da su pojedini
ekstremno-nacionalistički krugovi iz reda Albanaca ponovo
krenuli u afirmaciju te sulude ideje – procenjuje Velizar
Kaluđerović, visoki funkcioner Socijalističke narodne partije.

Inicijativa iz Malesije

Prvo u Malesiji (kraj nastanjen uglavnom Albancima oko Tuzi), pa potom
i u drugim krajevima gde ima Albanaca u Crnoj Gori, prikupljaju
se potpisi za peticiju kojom se traži regionalizacija, odnosno
autonomija krajeva gde pretežno žive Albanci. Nik Đeljošaj iz
Malesije, jedan od začetnika te inicijative koju je do sada
podržalo mnoštvo Albanaca, izjavio je:

– Ne pristajemo ni na kakav oblik opštine, jer smo taj vid lokalne
uprave odavno prevazišli. Jedino rešenje za Albance u Crnoj
Gori je trodelna regionalizacija teritorija koje naseljavamo.
Odnosno, da Malesija, ulcinjska opština sa Krajinom, Plav i
Gusinje dobiju status regija, u okviru kojih bi delovale
subregije.

Đeljošaj je ovdašnjim medijima izjavio da je ovo dogovoreno na prvom
delu Vašingtonske konferencije iz juna prošle godine, koju je
organizovalo Nacionalno albansko-američko veće, Institut
"Albanika" iz Ljubljane u saradnji sa Centrom za strateške
studije, odnosno Janušom Bugajskim.

Najavljuje nastavak u februaru, kada će biti "definisana platforma
o regionalizaciji Crne Gore". Đeljošaj je danas pojasnio da "nije
reč o regionalizaciji po etničkom konceptu, već u
kulturno-tradicionalnom, a da pomenute regije već imaju svoje
specifičnosti".

Ferhat Dinoša je izjavio da američka administracija ne podržava
regionalizaciju Crne Gore. Dinoša, međutim, zamera crnogorskoj
vlasti što "deluje tromo u naporima da se definiše status
nacionalnih manjina".

Protivustavne ideje

– Ideja o reorganizaciji Crne Gore, ma od koga dolazila, apsolutno je
protivustavna – smatra prof. dr Blagota Mitrić, bivši predsednik
Ustavnog suda Crne Gore.

– Crna Gora je, bar formalno-pravno koncipirana kao građanska država.
Svaka reorganizacija, posebno na nacionalnoj osnovi, predstavlja
grubo kršenje ustavnog koncepta građanske države... Ovde se ne
radi ni o kakvom ustavnom pravu manjinskih naroda, kao što su:
pravo na jezik, pismo, školovanje, informisanje, nacionalni
simboli i sl.

Radi se o klasičnoj, očiglednoj povredi člana 8. Ustava Crne Gore, koji
propisuje da je teritorijalno Crna Gora jedinstvena i
neotuđiva i da se Crna Gora teritorijalno organizuje u opštine
– izjavio je Blagota Mitrić i podsetio da Crna Gora ima Savet
za zaštitu i očuvanje nacionalnog, kulturnog i svakog drugog
identiteta manjinskih naroda, kojim rukovodi predsednik
Republike.

Dragomir Bećirović

Verso la Grande Albania:
SPACCARE IL MONTENEGRO!

(italiano / english)

1. L'Armata Nazionale Albanese lancia un nuovo sito internet - per la
sua filiazione montenegrina

The Albanian National Army recently launched a Website at 
http:/www.ushtriamalitzi.it.st/
Ethnic Albanians push for Montenegrin regions (SRNA 9/1/04)
"KLA" Roving around in Montenegro? (Vecernje Novosti 20/3/01)
Montenegro census offers surprising results (AFP 19/12/03)

2. Un nuovo UCK minaccia il Montenegro

Ethnic Albanian, Self-Proclaimed Montenegrin
National Army Threatens 'Actions Against Montenegrin
Buildings And Interests'
UCK-Type Montenegrin Separatist Group Threatens
Attacks Against Government
Montenegrin Parties Condemn Threats Of Guerrilla
Attacks
Montenegrin Kosovo: Ethnic Albanian Petition Drive
Calls For Three-Way Partition Of Montenegro


=== 1 ===

http://groups.yahoo.com/group/decani/message/79061#2

---

ERP KIM Info Service
Gracanica, January 9, 2004

(Insignia of the new UKM is almost the same as UCK/KLA)

The Albanian National Army (UKM - Ushtria Kombetare Malit Zi) recently
launched a Website at 
http://www.ushtriamalitzi.it.st/

Although further comment is hardly necessary, it is obvious that
another bloody "Albanian spring" is being prepared in the region of
eastern Montenegro and the Ulcinj, Tuzi, Plav and Gusinje areas
according to the same recipe we have already seen not only in Kosovo
and Metohija but also in the Presevo Valley and northwest Macedonia.
Currently the biggest bone of contention among strategists is whether
to wait for the independence of Montenegro or launch a campaign while
the state union of Serbia-Montenegro still exists.

A bill has already been introduced in the U.S. Congress by the Albanian
lobby which emphasizes that Albanians in Montenegro are discriminated
against and seeking greater rights. The UKM (Albanian National Army in
Montenegro) apparently has an even more ambitious goal: the annexation
of parts of Montenegro to the Republic of Albania, which can be seen
from the survey on their home page where 85.1% voted in favor of
unification and only 14.8% against it.

The campaign continued with recent testimony by a sizeable group of
Albanians from Montenegro who are making liberal use of statements by
Montenegrin separatist forces desiring to withdraw from the state union
with Serbia. Déjà vu...

According to the program of the Albanian separatists who wish to create
a so-called union of Albanian territories in the Balkans, the hardest
part of the task would come after Montenegro, considered to be a small
morsel in the event of its separation from Serbia: the annexation of
northern Greece, i.e., so-called south Epirus or Chameria, which in the
opinion of the architects of pan-Albanian unification, would lead to
the drawing of the border already drawn on the map of the American
Albanian Association.

A key and central element to this strategy is the independence of
Kosovo, which would become the main cohesive element of the newly
acquired territories. Hence the impatience with the formation of an
independent state of Kosovo, which would enable the realization of a
broader regional plan with the support of powerful lobbies in the West.

Link on Albanian pretension in Chameria (northern Greece):
http://www.geocities.com/CapitolHill/Congress/1633/Cameria.HTML

---

Ethnic Albanians push for Montenegrin regions

One of the organizers of the petition said Albanians in Montenegro had
"outgrown" the form of local government provided in the republic's
municipalities. "The only solution for Albanians in Montenegro is for
the territory we inhabit to be divided into three regions," Nik
Djeljosaj was quoted as saying.

SRNA News Agency, Bijeljina
January 9, 2004

PODGORICA -- Friday - A petition has been launched among ethnic
Albanians in Montenegro calling for the creation of three regions,
Podgorica daily Vijesti reports.

One of the organizers of the petition said Albanians in Montenegro had
"outgrown" the form of local government provided in the republic's
municipalities. "The only solution for Albanians in Montenegro is for
the territory we inhabit to be divided into three regions," Nik
Djeljosaj was quoted as saying.

He announced the establishment of an NGO to work on the proposal.

The Democratic Union of Albanians, which is represented in the
Montenegrin parliament, has distanced itself from the petition, reports
Vijesti.

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Related texts:

"KLA" Roving around in Montenegro?

Kosovo terrorist syndrome spreads to Gusinje, Plav, even Podgorica.
Uniformed Albanian terrorists observed in hills of Gusinje. "KLA"
Internet threat. "UCK" graffiti in downtown Podgorica

Vecernje Novosti, Belgrade, Yugoslavia
March 20, 2001

PODGORICA (Tanjug) - Members of the self-styled "Kosovo Liberation
Army" (KLA) have been observed during the last three days in the hills
of Gusinje municipality which is located in Montenegro near the border
with Kosovo and Albania, Tanjug was advised by well-informed sources in
Podgorica.

According to the source, uniformed groups of men bearing the insignia
of the KLA" were observed on several occasions during the last three
days in the villages of Gusinje and Plav municipalities, both of which
border on Albania and have a majority population of Albanians and
Muslims.

That fear of the spread of Albanian extremism is not unjustified is
also proven by the fact that yesterday at the secondary school for
engineering technology in Podgorica, which is located near the state
police (MUP) in the city center, graffiti was painted reading
"UCK-Greater Albania" as well as several other slogans glorifying this
terrorist movement from Kosovo and Metohija.

The school responded immediately by painting over the graffiti.

Published last week on the KLA's Internet site, in addition to a map of
Greater Albania which includes many territories of the southern
Yugoslav republic [of Montenegro], was information that "in Montenegro
there are four units" of this organization "completely trained and
ready for action who are just waiting for a signal from the
headquarters in Kosovo to begin operations".

Terrorist Graffiti

In the hamlet of Gusinje, Plav municipality in the north of Montenegro,
many housing objects and businesses were painted with graffiti bearing
the signature of the so-called "Liberation Army of Plav and Gusinje",
the daily "Glas Crnogoraca" [Voice of Montenegrins] wrote in
yesterday's edition.

The paper assesses that these messages are part of the context of the
most recent developments in Macedonia and that they represent "a
serious warning to Montenegro and her security".

Translated by S. Lazovic (March 20, 2001)

---

Montenegro census offers surprising results

People who regard themselves as Montenegrins are a minority in their
own republic, according to results of a census released Friday (19
December 2003). An estimated 30 per cent described themselves as Serbs,
9.4 per cent as Bosnians, 4.3 per cent as Albanians, one per cent as
Muslims, and 0.4 per cent as Croats.

Southeast European Times (USA)
quoting AFP - 19/12/03


PODGORICA, Serbia-Montenegro -- People who regard themselves as
Montenegrins are a minority in their own republic, according to results
of a census released Friday (19 December). Of a total population of
672,656, 40.6 per cent said they were ethnic Montenegrins. That's a
decline of 30 per cent since the last census, in 1991. An estimated 30
per cent described themselves as Serbs, 9.4 per cent as Bosnians, 4.3
per cent as Albanians, one per cent as Muslims, and 0.4 per cent as
Croats. Nearly 70 per cent said they were Orthodox Christian, compared
to 20.9 per cent Muslim, and 4.2 per cent Roman Catholic.


=== 2 ===

Da: Rick Rozoff
Data: Lun 12 Gen 2004 13:17:14 Europe/Rome
A: Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli.
Oggetto: [yugoslaviainfo] New KLA-Type Groups Threatens Montenegro

1) Ethnic Albanian, Self-Proclaimed Montenegrin
National Army Threatens 'Actions Against Montenegrin
Buildings And Interests'
2) UCK-Type Montenegrin Separatist Group Threatens
Attacks Against Government
3) Montenegrin Parties Condemn Threats Of Guerrilla
Attacks
4) Montenegrin Kosovo: Ethnic Albanian Petition Drive
Calls For Three-Way Partition Of Montenegro


1)
http://www.b92.net/english/news/
index.php?&nav_category=&nav_id=26355&order=priority&style=headlines

Beta (Serbia and Montenegro) - January 12, 2004

New Albanian paramilitary group in Montenegro?

-The Albanian-language Internet site of the
Montenegrin National Army bears a great resemblance to
those of Albanian extremists in south Serbia, Kosovo
and Macedonia. It’s address is
www.ushtriamalitzi.it.st.

PODGORICA -- Saturday – A previously unknown group
calling itself the Montenegrin National Army has
warned that “experimenting with the fate of Albanians
in Montenegro” would lead to “actions aimed against
essential Montenegrin buildings and interests”.
The organisation’s Internet site claims that the
Albanian community in Montenegro and the federal state
are discriminated against and threatens to cause
“problems in the Balkans”.
Albanian political leaders in the republic say they
nothing about the newly-emerged organisation.
The Albanian-language Internet site of the Montenegrin
National Army bears a great resemblance to those of
Albanian extremists in south Serbia, Kosovo and
Macedonia. It’s address is www.ushtriamalitzi.it.st.
An unsigned article on the site claims that Albanians
have been “reduced to the level of Gypsies” in the
preamble of the Constitutional Framework of what the
site refers to as the “pseudostate” of
Serbia-Montenegro which, it claims, has been
established “on territory which is naturally
Albanian”.
“Albanians are seeking a national debate, not the
changing of borders by force…But we will pursue our
rights with all our power,” claims the organisation.
If the “undervaluing of Albanians” continues, says the
Montenegrin National Army it will take action against
the essential strategic buildings and interests of
Serbia-Montenegro.


2) http://www.tanjug.co.yu/

Tanjug (Serbia and Montenegro) - January 11, 2004

Albanian underground group issues warning to
Montenegro authorities

19:25 BELGRADE , Jan 10 (Tanjug) - Previously unheared
of ethnic Albanian underground group - the National
Army of Montenegro (UKMZ) has warned Montenegrin
authorities it would attack government institutions if
the authorities "continue to experiment with the fate
of local Albanians".
"Albanians in Montenegro are discriminated against and
this could cause serious problems in the Balkans," the
DPA agency quotes the UKMZ as saying on its web page
(www.ushtriamalitzi.it.st).


3) http://www.tanjug.co.yu/

Tanjug (Serbia and Montenegro) - January 11, 2004

Montenegrin parties condemn Albanian people's party in
Montenegro

17:34 PODGORICA , Jan 11 (Tanjug) - Montenegrin
political parties on Sunday unanimously condemned a
threat of the Albanian people's army in Montenegro
(UKM) to launch guerilla actions against vital objects
of the "Serbian-Montenegrin pseudostate" if the
underestimation of ethnic Albanians in Montenegro
continued.
Reacting to threats of the so far unknown UKM, posted
at its website, Democratic Party of Socialists ranking
official Miodrag Vukovic said that one should approach
this issue with care, but that this was not a real
danger that might jeopardise Montenegro.


4)
http://www.b92.net/english/news/
index.php?&nav_category=&nav_id=26353&order=priority&style=headlines

SRNA (Serbia and Montenegro) - January 12, 2004

Ethnic enclaves “harmful for Montenegrins and
Albanians”

-"The only solution for Albanians in Montenegro is for
the territory we inhabit to be divided into three
regions."

PODGORICA -- Saturday – Senior Democratic Party of
Socialists official Miodrag Vukovic said today that
the idea of regionalisation floated by Montenegro
Albanians this week would be extraordinary damaging to
Montenegro and even more so to Albanian residents in
the republic.
Vukovic was commenting on reports yesterday of a
petition launched among ethnic Albanians in Montenegro
calling for the creation of three regions.
One of the organisers of the petition said Albanians
in Montenegro had outgrown the form of local
government provided in the republic's municipalities.
"The only solution for Albanians in Montenegro is for
the territory we inhabit to be divided into three
regions," Nik Djeljosaj was quoted as saying.
He announced the establishment of an NGO to work on
the proposal.
Vukovic warned today that the demand for regional
divisions was an extreme one which threatened the
territorial integrity of Montenegro as well as its
ambitions for a European future.
“This is in complete contradiction of European
standards,” he added.
The Democratic Union of Albanians, which is
represented in the Montenegrin parliament, has
distanced itself from the petition, reports Vijesti.

Albania in vendita

Vedi anche / SEE ALSO: Albania on sale
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3073
1. Austrians Buy Albania’s Largest Bank
2. Albania Approves Trans-Balkan Pipeline

---

http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2707

La Raiffeisen Bank approda nel paese delle aquile

Breve cronaca della privatizzazione di una delle maggiori banche
albanesi, la Banca di Risparmio, acquistata dalla austriaca Raiffeisen
Bank per 126 milioni di dollari

(24/12/2003)

Da Tirana, scrive Artan Puto

L’evento più importante della settimana scorsa è stato la
privatizzazione della Banca Albanese di Risparmio. Il quotidiano
“Korrieri” del 18 dicembre scrive nel suo articolo che in pochi avevano
creduto che, dopo tre anni di tentativi falliti, la Banca di Risparmio
sarebbe stata venduta ad un prezzo di 126 milioni di $, e per di più
acquistata da un investitore occidentale come l’austriaca “Raiffeisen
Bank”. L’altro partecipante alla gara d’acquisto, la banca ungherese
OTP, aveva fatto un’offerta per la banca Albanese di 120 milioni di $.

“La Commissione per la Valutazione delle Offerte ha deciso di
qualificare la banca austriaca Raiffeisen perché questo istituto ha
potuto rispondere in tempo al contratto di vendita della Banca di
Risparmio approvato dal Consiglio dei Ministri”, ha dichiarato a
“Korrieri” il ministro Albanese delle finanze Kastriot Islami.

Lo stesso giorno “Shekulli”, nell’articolo dedicato a questo tema,
critica il ministero delle finanze per il modo in cui è stata condotta
la gara d’appalto per la privatizzazione della Banca di Risparmio.
Secondo il quotidiano albanese l’offerta degli austriaci era di 126
milioni di $, dei quali solo 96 milioni sarebbero stati versati in
contanti. L’altra parte - secondo “Shekulli” - verrebbe destinata come
contributo della “Raiffeisen” per lo sviluppo degli investimenti in
Kosovo, dove la banca aprirà alcune sue succursali.

Il rappresentante della banca ungherese OTP, Laszlo Wolf ha detto in
una conferenza stampa a Tirana di essere sorpreso dall’esito
dell’appalto, considerandolo come non serio. Wolf ha dichiarato che “il
governo albanese ha cambiato le condizioni della competizione
all’ultimo momento” . La busta della banca ungherese conteneva
un’offerta che ammontava a 120 milioni di $, cifra che - secondo il
giornale “Shekulli” - doveva essere versata immediatamente ed
interamente, quindi “se si tiene conto che l’offerta degli austriaci
era di 96 milioni di $ in contanti, l’offerta ungherese sarebbe stata
di circa 24 milioni di $ in più”.

Sempre “Shekulli” due giorni più tardi annuncia che c’era stato un
cambiamento nell’esito della privatizzazione della Banca di Risparmio.
La banca austriaca “Raiffeisen” aveva accettato di pagare in cash la
somma totale di 126 milioni di $. L’altro quotidiano “Korrieri” nel suo
articolo scrive che dopo due giorni di dibattiti sul prezzo più basso
della banca austriaca, quest’ultima aveva accettato di pagare in
contanti l’intera somma di 126 milioni di $, scavalcando così la banca
ungherese OTP e la sua offerta di 120 milioni. Alla fine la Commissione
per la Valutazione delle Offerte ha dichiarato l’offerta della banca
austriaca “Raiffeisen” come l’offerta vincente. Dopo di che il
direttore esecutivo della “Raiffeisen Bank” Jeff Millinkan ha
dichiarato in una conferenza stampa a Tirana il 19 dicembre che la
banca che lui rappresenta “è in grado di accettare le condizioni del
governo per l’acquisizione della Banca di Risparmio”, (“Shekulli”, 20
dicembre 2003).

Dal canto suo il governo Albanese ha approvato nella seduta del 20
dicembre la privatizzazione della Banca di Risparmio da parte della
“Raiffeisen Bank”. Secondo “Shekulli” il budget dello stato Albanese
incasserà da questa vendita un totale 147 milioni di $, dei quali:126
milioni come entrata dalla vendita ed 21 milioni di $ come ricavato
annuo della Banca di Risparmio relativo al 2003. Il primo ministro
albanese Fatos Nano nella seduta di governo che ha convalidato il
processo della privatizzazione dell’istituto albanese ha detto che “la
somma incassata da questa operazione è il migliore risultato ottenuto
nei processi di privatizzazione delle imprese strategiche dell’economia
Albanese”, (“Shekulli” 21.12.2003).

Ricordiamo che: dopo la Banca Nazionale, la Banca di Risparmio e
attualmente la banca più importante nel paese con il 63% del mercato
bancario, con la più ampia copertura geografica del paese con un totale
di assetti di circa 14 miliardi di $. Mentre la banca austriaca
“Raiffeisen” copre il 25,5% del mercato bancario austriaco, possiede il
28,2 % dei depositi ed il 22,1% dei crediti. Al giugno 2003 il suo
patrimonio finanziario era pari a 50,453 milioni di euro.

» Fonte: da Tirana, Artan Puto
© Osservatorio sui Balcani

LA STORIA DI RADIO SERBIA E MONTENEGRO
 
Radio Internazionale di Serbia e Montenegro è l'unica radiodiffusione
statale che trasmette, attraverso le onde corte, i suoi programmi verso
ogni  parte del mondo, in ben tredici lingue diverse: inglese,
francese, tedesco, russo, spagnolo, arabo, albanese, greco, bulgaro,
italiano, ungherese, cinese e serbo.
Le trasmissioni per l'estero cominciarono ad essere realizzate a
partire dall'8 marzo 1936 nell'allora Regno della Jugoslavia, con lo
scopo di combattere la propaganda fascista.
Nel novembre del 1941, durante l'occupazione di Belgrado nell'ambito
della Seconda Guerra Mondiale, cominciò con le sue trasmissioni La
Jugoslavia Libera che trasmetteva la sua programmazione dalla città di
Ufe fino all'anno 1945.
Dall'anno 1945 i programmi per gli stranieri si trasmettevano dagli
studi di Radio Belgrado.
In seguito alla decisione del Governo della Repubblica Federale
Popolare della Jugoslavia nacque Radio Jugoslavia che, con questo
status, funzionò fino a gennaio 1954, quando Radio Belgrado nuovamente
assume l'emissione del programma per lo straniero.
La decisione di creare l'Organizzazione lavorativa-informativa di Radio
Jugoslavia fu approvata il 26 gennaio 1977 e la radio, come una
Istituzione a parte, comincia col suo lavoro il 2 febbraio 1978.
A partire dall'anno 1951, il programma destinato al mondo
si trasmetteva dal centro trasmittente in Stubline, vicino Belgrado, e
dal nuovo centro di trasmissione vicino Bijeljina, nella Repubblica
Srpska, qui il centro fu terminato nel 1987.
A causa della guerra nel territorio bosniaco-herzegovino nel 1992, due
ripetitori furono trasferiti nel centro di Bijeljina nel centro onde
corte in Stubline.
Durante il bombardamento NATO sulla RF della Jugoslavia effettuato
nel 1999 fu distrutto il principale edificio del centro di trasmissione
in Stubline con tutti i suoi ripetitori.
Radio Jugoslavia-radio Internazionale Serbia e Montenegro è presente in
Internet dal marzo 1997.
L'indirizzo è:
www.radioyu.org
qui è possibile ascoltare il programma in sei lingue: - serbo, inglese,
francese, tedesco, russo e spagnolo - ed in forma scritta - è possibile
leggerlo in tredici lingue: - serbo, inglese, tedesco, russo, francese,
spagnolo, italiano, greco, bulgaro, ungherese, albanese, arabo e cinese.
Radio Jugoslavia-radio Internazionale Serbia e Montenegro a partire
dall'anno 1991, oltre al suo programma per lo straniero, trasmette un
programma locale in YU Radio, nella frequenza dei 100,4 MHz.
Questa emittente mantiene contatti regolari coi suoi ascoltatori nel
paese stesso e all'estero.
Alla redazione arrivano annualmente varie migliaia di lettere da ogni
parte del mondo.
Nella realizzazione dei programmi sono impegnati approssimativamente
190 impiegati.


Fonte: Rapporto Radio N.41 - Gennaio 2004
Periodico telematico di informazione ed approfondimenti  per gli
appassionati di radiantismo
a cura di Gianni Urso(iz8elm) e Antonio Di Maio(iz8epg )
Per informazioni: forumradio@...

Bertinotti contro la "violenza" partigiana

Le recenti dichiarazioni del segretario di Rifondazione Comunista
Fausto Bertinotti in materia di resistenza, violenza politica e “foibe”
hanno aperto un dibattito non solo all’interno del partito di
Bertinotti, ma che coinvolge tutti coloro che si identificano ancora
con i valori dell’antifascismo e di un’ideologia di sinistra.
Prima di esprimere la nostra opinione, riteniamo sia il caso di
sintetizzare quanto detto da Bertinotti a Venezia il 13 dicembre.

SINTESI DELL’INTERVENTO DI BERTINOTTI.
Tra le varie cose Bertinotti ha sostenuto che quando si parla di foibe
non ha senso parlare dei crimini del fascismo né fare la contabilità
dei morti perché non è che noi (sottintendendo il movimento comunista)
siamo migliori perché abbiamo ammazzato meno dei fascisti, ma perché
abbiamo un’altra visione del mondo, che abbiamo sbagliato nell’assumere
una posizione negazionista sulle nostre violenze con l’angelizzazione e
la retorica della resistenza. Che oggidì non è più valido il Brecht di
“noi che avremmo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non
si poté essere gentili”, ma soltanto il Brecht di “felice il popolo che
non ha bisogno di eroi”. Che il nostro nemico di oggi non è il
fascismo, ma sono la guerra ed il terrorismo.
In merito allo specifico delle “foibe”, le ha definite come un fenomeno
che investe la Venezia Giulia nel passaggio da guerra a pace. Non
servono a nulla i numeri, perché non ci sono dubbi sul fenomeno. Ci
sono due tesi manipolatorie delle cifre: quella che alza i numeri parla
di genocidio, quella che li diminuisce vuole dimostrare che si è
trattato soltanto di fascisti puniti giustamente. Invece Bertinotti
assume le tesi di Pupo e Spazzali, che contestano le due precedenti,
dicendo che si è trattato di un tipo di violenza concentratasi a
Trieste nel trapasso cruento del potere. Ma al di là del furore
popolare, si è trattato di una violenza politica organizzata legata
alla storica idea della conquista del potere tramite la distruzione dei
nemici.
Se questa interpretazione è giusta non si devono trovare
giustificazioni analizzando gli orrori del fascismo, perché un orrore
non ne giustifica un altro. Il terrorismo non è giustificabile neppure
in caso di guerra.
Il movimento deve scegliere la strada della non violenza e non
giustificare la violenza.

Queste dichiarazioni di Bertinotti, che sono già di per se stesse di
una certa gravità (e le analizzeremo in seguito nei particolari),
assumono una valenza diversa se teniamo conto di altri interventi che
le hanno precedute. Ma sono gravi soprattutto perché Bertinotti ha dato
per scontati certi fatti che scontati non sono, fidandosi
esclusivamente di quanto scritto da Pupo e Spazzali e non accettando di
considerare altre posizioni e chiarimenti di tipo storico.

“OFFENSIVA MEDIATICA”.
Su “Liberazione” del 1/11/03, un articolo di Rina Gagliardi risponde
all’“offensiva mediatica” promossa dal “Riformista” e da “Repubblica”
riguardo al problema del terrorismo e della lotta armata. Leggiamo
innanzitutto ciò che Giuseppe D’Avanzo ha scritto sulla Repubblica: “Il
nodo della violenza politica come strumento legittimo di lotta, l’idea
della politica come forza, non è stata ancora né sciolta né rimossa
negli ambiti più radicali della sinistra”. Gagliardi prosegue
riferendosi sia a D’Avanzo sia al Riformista “entrambi chiedono abiura
e pentimento, entrambi caricano il tema della violenza sulla sola
sinistra radicale, entrambi, soprattutto, rappresentano la non violenza
come rinuncia, moderatismo, rientro nell’ordine esistente e garantito
delle cose”.
Alcune delle “risposte” di Gagliardi comunque non ci piacciono molto,
ad esempio: “In verità non è mai stato vero che i gruppi armati che
insanguinarono l’Italia negli anni ‘70 e ‘80 fossero una propaggine
organica della sinistra, o una costola del PCI. Nella cultura politica
delle BR (…) il cattolicesimo ebbe per esempio un ruolo assai
significativo. Così come lo ebbe l’idea (di radice anarchica) del gesto
esemplare, a partire dal quale il popolo si sarebbe sollevato contro il
potere”. Interpretazione questa che, oltre a non essere esatta
storicamente, è anche di dubbia correttezza politica, in quanto tende a
scaricare certo tipo di responsabilità esclusivamente su forze
politiche estranee al passato dell’autrice dell’articolo.
Che ci sia una “offensiva mediatica” contro la sinistra in generale e
contro la Resistenza in particolare, lo abbiamo visto anche in una
recente trasmissione televisiva, dove, partendo dalla presentazione del
recente libro di Pansa, si passava alla critica della Resistenza in
quanto tale e non solo per gli eccessi che inevitabilmente una guerra
porta con sé, fino ad arrivare all’intervista con uno degli
organizzatori della manifestazione in sostegno alla resistenza irachena
del 13 dicembre, inquietante esempio di connubio tra associazioni di
destra e associazioni di sinistra che si schierano contro
l’imperialismo.
L’intervento di un esponente di una delle associazioni organizzatrici
(di sinistra, va precisato) si basava sul fatto che loro ritengono
sempre validi i principi ed i valori della Resistenza italiana, e che
pure il popolo iracheno, che si trova sotto un regime di occupazione
militare straniera ha diritto alla propria lotta di liberazione; ma
queste (giuste, a parer nostro) affermazioni sono state poi
strumentalizzate dal conduttore e da alcuni degli ospiti in studio, che
sono saltati alla conclusione che quelli che oggi riconoscono ancora i
valori della Resistenza, sono quelli che legittimano i terroristi che
ammazzano i nostri carabinieri in missione all’estero.
In questa “offensiva mediatica” riteniamo di inserire infine
un’intervista rilasciata a “Repubblica” da Pietro Ingrao e ripresa da
“Liberazione” il 5 novembre scorso, nella quale parte dalla condanna
per le azioni delle Brigate Rosse e finisce col parlare di lotta armata
e Resistenza. Così ha dichiarato Ingrao:
“Non mi è mai passato per la mente – anche quando agivo nel pieno della
Resistenza italiana – di uccidere Agnelli e, nemmeno nel periodo della
cospirazione, di attentare alla vita di Mussolini”. Ed anche: “Durante
decenni e decenni di militanza comunista non mi è mai passato in mente
il progetto di assassinare Agnelli e nemmeno Mussolini o Hitler. Non
era per umanitarismo. Hitler mi appariva un potere collettivo,
l’espressione di una classe. Bisognava contrapporre a ciò un altro
potere collettivo e solo ciò poteva veramente sconfiggerlo”.

Purtroppo le posizioni di Bertinotti a Venezia ci sembrano quasi un
cedimento di fronte all’offensiva mediatica denunciata da Gagliardi,
che, accogliendo le posizioni di Ingrao, vuole dimostrare l’estraneità
del partito da frange “terroristiche”, come le nuove Brigate Rosse.

NOSTRE VALUTAZIONI.
Abbiamo qui dunque alcuni punti da cui partire per le nostre
valutazioni politiche. Che oggi noi (e parlo come persona ancora legata
ad ideali comunisti) si sia contrari alla violenza come metodo di lotta
politica, è perfettamente condivisibile; che si condannino azioni
violente come gli omicidi Biagi e D’Antona è pure fuori di dubbio; che
ci si dichiari distanti dai metodi delle nuove Brigate Rosse, non ci
piove sopra. Però finisce qui: perché noi abbiamo il diritto di parlare
per noi che facciamo politica oggi in questo paese con questo governo,
che non sarà il massimo della democrazia ma non è ancora diventato
dittatura. Mentre non possiamo arrogarci il diritto di parlare, noi che
viviamo tranquilli nelle nostre tiepide case, come avrebbe detto Primo
Levi, di come avrebbero dovuto comportarsi i partigiani nel 1945, o
anche di come dovrebbero comportarsi, oggi, altri popoli che vivono
delle pesanti oppressioni.

Analizziamo ora la questione specifica della Resistenza e delle
“foibe”. Nella vecchia accezione che non si può gettare via il bambino
con l’acqua sporca, diciamo che non possiamo rinnegare la Resistenza ed
i suoi valori solo perché all’interno del movimento partigiano ci sono
state persone che hanno commesso dei crimini o delle azioni comunque
riprovevoli. Per quanto riguarda la questione delle “foibe”, diciamo
che un grossissimo danno lo hanno fatto certi storici (parliamo di Pupo
e Spazzali, che pure sono stati citati da Bertinotti come suoi termini
di riferimento) che, avallando la semplificazione divulgativa di autori
come Oliva e Rumici, hanno sancito (non si sa in base a cosa si siano
investiti del ruolo di riformatori della lingua italiana) che nel
concetto di “foibe” si possono comprendere le “violenze di massa a
danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi
nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della
Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di
vittime” (“Foibe”, edito da Bruno Mondadori). E che, di conseguenza,
sono “negazionisti” e “riduzionisti” tutti coloro che invece ritengono
che si possano definire “infoibati” soltanto coloro che letteralmente
furono uccisi e gettati nelle foibe, in gran parte per vendette
personali o nella jacquerie istriana del settembre ‘43, fenomeni che,
per questo motivo, non possono essere addebitati al movimento
partigiano o comunista nel suo insieme, dato che furono, appunto,
iniziative di tipo individuale e non programmate.
Se non accettiamo il discorso generalizzatore delle “foibe” come un
fenomeno unitario, ma analizziamo i vari modi di morte degli
“scomparsi” (la maggior parte dei triestini e goriziani che furono
arrestati e non rientrarono dalla prigionia erano militari internati
nei campi e morti di tifo o di stenti, oppure processati come criminali
di guerra e condannati a morte), cade anche il discorso di dover fare
autocritica su questi fatti. Perché come noi tutti condanniamo
l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, ma non possiamo
fare autocritica su questo, dato che è un episodio che non ci
appartiene (sta a chi ha ucciso Moro fare -se lo credono- autocritica
sul loro operato), così come il partigiano che ha ucciso per vendicare
i torti subiti personalmente, ha operato come singolo, e la
responsabilità dei suoi gesti non può ricadere su tutto il movimento,
partigiano o comunista, che non può fare autocritica su qualcosa che
non gli appartiene.
Poi andrebbe anche chiarita la questione dei “martiri” delle foibe. Una
morte ingiusta, per quanto deprecabile, non può in alcun caso
riabilitare una persona che operò in modo criminale in vita. Altrimenti
ci troveremmo a dover considerare “martire” anche Mussolini, poiché la
sua esposizione in piazzale Loreto non rappresenta certo una delle
pagine migliori della Resistenza. Ma questo discorso non può
prescindere da un altro fatto che invece Bertinotti ha dichiarato che
non si deve fare: la “contabilità” dei morti. Come possiamo, se non
proprio contabilizzando (orrenda espressione) i morti, comprendere
quanto sia sbagliato parlare di martiri per gente che spesso si macchiò
di crimini orrendi?
Ma l’affermazione più grave tra tutte quelle fatte da Bertinotti a
Venezia, è che oggi il nostro nemico non è più il fascismo, ma guerra e
terrorismo. Come se oggi non esistessero più i fascisti, come se il
capitalismo non potesse ancora servirsi di loro per opprimere le classi
inferiori nel momento in cui le leggi della democrazia non fossero più
sufficienti. Un’affermazione che appare ancora più grave se
consideriamo che nello stesso giorno a Roma si svolgeva la
manifestazione filoirachena bipartisan cui abbiamo accennato prima: e
perché mai Rifondazione dovrebbe espellere i propri iscritti che hanno
partecipato a quella manifestazione mista destra/sinistra, se il
fascismo non è più nostro nemico?
E poi, chi è che le scatena, le guerre? Nascono forse da sole, o è
piuttosto la logica imperialista del capitale a scatenare le guerre,
oggi come ieri?

Un’analisi corretta e sintetica della situazione c’è venuta invece
dall’esponente dei Comunisti italiani Galante, nel corso di una
conferenza tenutasi a Trieste il 10 dicembre. Sintetizzando, ha detto
che, avendo il movimento comunista perso la guerra fredda, adesso per
distruggerlo definitivamente sono necessarie altre cose. Fondamentali
in questo la criminalizzazione della Resistenza e la distruzione dei
valori portati avanti da essa. Da qui le campagne sulle foibe, sul
triangolo rosso; in quest’ottica rientrano i testi di Pansa e di Oliva.
Ma ci sembrerebbe terribilmente grave che in questa campagna
s’inseriscano anche le posizioni del segretario di Rifondazione che,
per dimostrare la propria estraneità alle attività delle nuove Brigate
Rosse, vada a compiere quell’abiura chiesta dal “Riformista” e da
“Repubblica”, giungendo al punto da inserirsi nell’operazione di
demonizzazione della Resistenza e del movimento comunista portato
avanti dalle persone indicate prima.

Infine un accenno polemico. Perché la cosiddetta “autocritica” che
Bertinotti intende portare avanti per “disangelizzare” la Resistenza,
ripudiando il “negazionismo” delle violenze commesse dai suoi
esponenti, parte dalla condanna delle “foibe” e non da quella del
“triangolo rosso”, delle uccisioni sommarie di Milano e del Piemonte,
eccetera? Forse perché condannando partigiani non italiani ma jugoslavi
è più facile, per motivi etnici, scaricare la responsabilità dalle
proprie spalle?
Dato che Bertinotti si basa sui testi di Pupo e Spazzali e non ne
considera altri, ignora però che proprio nelle nostre regioni, dato che
l’esercito partigiano aveva preso in un certo qual senso il potere ed
esercitava, quindi, un minimo di controllo, le esecuzioni sommarie
furono di gran lunga inferiori che altrove, proprio perché i comandi
jugoslavi non permisero quanto accadde invece in Italia, dove questo
controllo da parte delle autorità non ci fu.

Ma perché prima di fare affermazioni di tale valenza politica, un
segretario di partito non si informa meglio?


Claudia Cernigoj
Redazione de "La Nuova Alabarda" (Trieste)

http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2708


Uranio impoverito: la guerra infinita

Bidoni coperti da un sottile strato di terra. Lì sono stoccati i resti
dei proiettili all’uranio impoverito sganciati nel ’99 su Bogutovac.
Nel cuore della quotidianità della piccola località termale nel sud
della Serbia. Un reportage di Michele Nardelli.


(30/12/2003) Mirijana Pantovic, aveva 32 anni, un marito, tre figli. Se
ne è andata qualche settimana fa, uccisa da un cancro che la sua
giovane età non è riuscita a sconfiggere. La sua morte non ha fatto
notizia, ma se ne parla, con inquietudine. Così come di quella di altre
persone a Bogutovac e dintorni, una località a non molti chilometri da
Kraljevo, lungo la Ibarska, la strada statale che dalla Serbia ti porta
in Sangiaccato. E che ad un tratto, in modo inaspettato, ti butta
addosso i segni di una strana guerra, diversa da quella che ha
distrutto sistematicamente le case di Bosnia o delle Krajne. Una
stazione ferroviaria cancellata, capannoni e case distrutte, una scuola
da poco ricostruita, un posto di blocco permanente della polizia serba.

Nel duro inverno di Bogutovac non c’è un raggio di sole. Il che rende
ancor più spettrale lo scenario che hai di fronte, lungo la stretta
valle del fiume Ibar, un tempo nota per la sua splendida fortezza di
Maglic, per il Monastero di Studenica e per la ricchezza delle acque
termali che sgorgano tutt’intorno. Gli occhi e il cuore, ormai abituati
agli affreschi di questa modernità, si riprendono in fretta. Procediamo
oltre, per una stradina che sale verso la montagna, nella direzione di
Bogutovacka Banja, un centro termale dove l’acqua ricca di litio sgorga
a 27 gradi. Una potenziale risorsa del territorio nel quadro di un
progetto di cooperazione decentrata e di sviluppo locale che la
comunità trentina sta promuovendo in quell’area. Ed è lì, lungo i viali
di un centro termale piegato su se stesso dal fallimento di un modello
e dall’incuria di una transizione senza qualità, che l’attenzione viene
catturata da un annuncio funebre affisso su un albero, da un nome e
dalla giovane età della persona scomparsa. “Qui di uranio impoverito si
continua a morire” ci dice Srdjan, rappresentante del Forum Civico di
Kraljevo, organismo che raccoglie numerose Ong della zona. Sono gli
“effetti collaterali” della guerra umanitaria del 1999. In quell’area
c’erano infatti una caserma e depositi militari bombardati dalla Nato.
Obiettivi “strategici” di una guerra che con la pulizia etnica del
Kossovo non aveva niente a che vedere, prove di dominio di un apparato
militar industriale che di lì a poco avrebbe messo definitivamente le
mani sulla Casa Bianca. Lungi dal risolvere la questione kossovara, ma
lasciando dietro di sé una scia di veleno e di morte.

A suo modo anche questa è una “guerra infinita”, considerato che di
uranio impoverito si continua a morire in Bosnia, in Serbia e nel
Kossovo “liberato”. E se gli organismi della comunità internazionale
continuano a sostenere che non è acclarato alcun collegamento diretto
tra uranio impoverito e tumori in tempi così rapidi come sarebbe in
Serbia oggi, gli studi su Hadzici, comune nei pressi di Sarajevo
fortemente bombardato durante l'azione del ‘95, ci dicono il contrario:
più di 300 persone che erano ad Hadzici durante il bombardamento sono
morte solo lo scorso anno nei campi profughi di Bratonac. Di cancro e
leucemia.

Le persone che ci accompagnano ci spiegano che le aree colpite dai
missili “arricchiti” ora sono state bonificate dall’esercito e che non
dovrebbe esserci alcun pericolo. Così andiamo in uno dei luoghi dove è
stato stoccato il materiale contaminato dai bombardamenti (soprattutto
bombe inesplose e parti di bombe esplose), in fusti piombati.

Lì, sul ciglio della strada statale che poco prima abbiamo percorso,
vicino alle macerie della stazione ferroviaria, a poche decine di metri
dal letto del fiume Ibar, c’è il sito di raccolta dei fusti, una specie
di discarica a cielo aperto ricoperta di terra e con qualche presa
d’aria, senza protezione alcuna, né un cancello, né un cartello di
pericolo. E la gente ci passa attorno, i bambini con lo zainetto che
vanno a scuola, le loro madri con i sacchetti delle provviste, ogni
giorno. Perché quella è la loro terra, l’unica che hanno. Ci dicono che
lì a due passi, sotto il ponte presidiato dal posto di blocco, c’è un
missile inesploso da quattro anni e mezzo, “in attesa che gli americani
vengano a bonificarlo”.

Certo, perché il paradosso della storia è che in questi anni, nella
distrazione generale, la situazione geopolitica nei Balcani è cambiata,
tanto che oggi la Serbia è al centro nella strategia delle alleanze
degli USA nei Balcani, paese di maggior favore nei rapporti commerciali
(basti pensare alla mitica Zastava che oggi produce armi su licenza
americana) e candidato a diventare un prezioso alleato
dell’amministrazione Bush, com’è testimoniato dall’orientamento di
inviare un proprio contingente militare in Afghanistan (qui si dice che
le indicazioni per colpire il bunker di Saddam Hussein a Baghdad
venissero proprio dai servizi segreti serbi, visto che tale bunker era
di fabbricazione jugoslava).

In attesa dei militari nordamericani, il missile sotto il ponte di
Bogutovac è lì, con il suo carico di morte, a monito del nuovo ordine
mondiale.

Proseguiamo per Studenica, 40 chilometri più a sud, a ridosso di
quell’incrocio di genti e culture che è il Sangiaccato. Lo splendido
monastero dell’XI secolo è imbiancato da una leggera coltre di neve
appena caduta. Uno spettacolo di arte, cultura e natura che resiste
alla barbarie e che nonostante tutto ci fa pensare che questi luoghi
possano rinascere. Del resto, è per questo che la comunità trentina è
lì, l’idea di uno sviluppo locale autosostenibile e di un turismo
rurale che si trova a dover fare i conti con la tragedia di una guerra
infinita. In fondo non è che una forma di risarcimento. Anche alla
memoria di Mirijana.

Michele Nardelli – Osservatorio sui Balcani


Vedi anche:

Uranio impoverito: si faccia chiarezza
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» Fonte: © Osservatorio sui Balcani