Informazione


La truffa lombardo-veneta

1) Nota del Comitato Nazionale dell\'ANPI
2) L’imbroglio del referendum lombardo-veneto, di Giorgio Cremaschi
3) Le regioni andrebbero abolite, di Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro
4) 22 ottobre, referendum autonomista lombardo-veneto: c’è chi dice NO, di Fronte Popolare
5) Referendum in Lombardia e Veneto /1. Prepariamoci a votare NO, di Sergio Cararo


Vedi anche:

Die deutsche Ethno-Zentrale / Germania e separatismi: l’economia della secessione (rassegna JUGOINFO del 16.10.2017)

Lombardia e Veneto: referendum inutile? No, utilissimo…a loro! (di Pierluigia Iannuzzi, 30/09/2017)
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
https://www.lacittafutura.it/dibattito/lombardia-e-veneto-referendum-inutile-no-utilissimo-a-loro.html

Regione Lombardia: referendum sulla autonomia ed “evoluzione” del sistema sanitario lombardo (di Gaspare Jean, su Gramsci Oggi n.3/2017)
...  3 milioni di ammalati cronici lombardi riceveranno entro ottobre 2017 una lettera con indicati i Gestori accreditati che dovranno scegliere; da indiscrezioni sembra che questa lettera abbia il seguente tono: “ La Regione Lombardia fa uno sforzo notevole per far si che i malati cronici non debbano avere lunghe liste d’attesa... avrebbe potuto fare di più se fosse più autonoma e libera di stilare coi MMG una convenzione regionale e coi dipendenti un Contratto regionale invece che nazionale. Scegliete dunque il GESTORE e votate per una maggiore autonomia.”...  I gravi disagi che gli ammalati cronici lombardi hanno non sono dovuti a mancanza di maggior autonomia della Lombardia ma a scelte precise della maggioranza di centro-destra che ha puntato sulla privatizzazione, sulla centralità della medicina ospedaliera e specialistica a scapito dei distretti sanitari che sono stati aboliti, sulla esclusione dei Comuni dal Servizio Sanitario regionale, sulla mancata integrazione tra servizi sociali e sanitari...


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Fonte: ANPI News n. 260 – 10/17 ottobre 2017

Il Comitato Nazionale dell\'ANPI, 
preso atto che il 22 ottobre i cittadini delle Regioni Veneto e Lombardia saranno chiamati a votare sui quesiti proposti dalle due Regioni, con cui, in sostanza, si chiedono maggiore autonomia e maggiori poteri;
sentiti i dirigenti provinciali e regionali delle due Regioni interessate, 
osserva:
i due quesiti, pur diversi nella forma, hanno carattere meramente consultivo e mirano ad ottenere ciò che è previsto, in altra forma, dalla Costituzione italiana, che disciplina il sistema delle autonomie, per quanto interessa in questo caso, con gli artt. 5 e 116 e, in particolare, in quest\'ultimo articolo con la norma che prevede espressamente la possibilità che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni con legge dello Stato, su iniziativa delle Regioni interessate, sentiti gli Enti locali”. 
Si tratta, dunque, di referendum sprovvisti di qualsiasi utilità e comportanti oneri di spesa notevoli, su obiettivi che possono essere già raggiunti in altro modo, nelle opportune sedi e forme istituzionali. Basterebbe questo per indurre l\'ANPI ad estraniarsi rispetto a tali consultazioni. Non può esimersi, tuttavia, l\'ANPI dall\'osservare che il sistema delle autonomie, non solo è regolato da diverse disposizioni specifiche, a cominciare dall\'art. 5 e da tutta la parte che riguarda i rapporti tra i poteri centrali, le Regioni e i Comuni, ma rientra anche nella disciplina generale di cui all\'art. 2, che impone a tutti (cittadini e istituzioni) “l\'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ogni questione attinente alle autonomie non può ispirarsi a criteri particolaristi ed egoistici, ma deve potersi ricondurre anche ai doveri di solidarietà di cui, appunto, all\'art. 2.
Ogni cittadino è libero di votare come crede, ma farà bene a tener presente, sempre, i princìpi che si ricavano, in modo indiscutibile e chiarissimo, dalla Carta Costituzionale.

Roma, 14 settembre 2017


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L’imbroglio del referendum lombardo-veneto

di Giorgio Cremaschi, 17 ottobre 2017

Le stesse forze politiche che, contrapposte, si candidano al governo del paese e che si scontrano sulla nuova legge elettorale, sostengono unanimi i referendum per l’autonomia che si terranno in Lombardia e Veneto il 22 ottobre. 

Non è vero dunque che le due consultazioni siano un puro patrimonio leghista, anche se così vengono presentate. In Lombardia il referendum è stato approvato da tutto il centrodestra e dai cinque stelle. Il Partito democratico, inizialmente contrario, ha poi cambiato posizione: il sindaco Sala di Milano, il futuro candidato alla regione ora sindaco di Bergamo, Gori, insieme a tanti altri si sono pronunciati per il SI. 

Nel Veneto il PD si è astenuto sul referendum, poi ha dato indicazione per il SI, tutte le altre formazioni politiche hanno la stessa posizione dei loro omologhi lombardi. In sintesi in Lombardia e Veneto Renzi, Berlusconi, Di Maio e persino Meloni, almeno tramite i loro referenti locali, sono d’accordo con il referendum di Salvini, Maroni e Zaia. È l’unità regionale totale. Che ora il PD vorrebbe estendere anche in Emilia Romagna ed in Puglia, con analoghe consultazioni.

In Lombardia e Veneto le sole voci fortemente contrarie vengono dalla sinistra non rappresentata nei parlamentini regionali, da movimenti sociali, da sindacati di base come USB, voci troppo flebili per rompere la monotonia di una campagna elettorale inquietante, dove è in campo solo il SI sostenuto con ingenti finanziamenti dalle istituzioni regionali. 

Ma se sono tutti d’accordo i principali schieramenti politici delle due regioni, a che serve il referendum? La domanda ha una risposta scontata da parte dei presidenti regionali: il voto serve a far contare il popolo. É vero? Assolutamente no. 

I due quesiti referendari non fanno domande precise, le uniche sulle quali il pronunciamento popolare potrebbe davvero decidere e contare. Avete presente il nostro referendum costituzionale, quello sulla Brexit, quello greco sul memorandum della Troika, quello sulla indipendenza della Catalogna? Ecco, quelle consultazioni con il voto del Lombardo-Veneto non c’entrano nulla. Quelli sono stati pronunciamenti con domande chiare che esigevano altrettante risposte chiare; e infatti la politica poi ha fatto molta fatica a reggere il responso popolare, anzi a volte lo ha rinnegato proprio. 

Questo rischio, per i referendum sull’autonomia, non si corre: essi non chiedono nulla e quindi, quale che sia, la risposta popolare ad essi nulla conterà. Per quelle forze politiche italiane abituate a tradire i propri programmi un minuto dopo averli varati, questo voto è perfetto. Tutti impegnati senza veri impegni. 

Il quesito veneto è semplicissimo: volete più autonomia? Quello lombardo, evidentemente frutto di qualche consulenza giuridica più meditata, accenna al rispetto dell’unità nazionale, della Costituzione e esplicita la richiesta di maggiori risorse. 

Quali? Qui c’è l’ imbroglio. 

L’Italia ha il fiscal compact, quello che Renzi e Salvini dicono di voler cambiare, direttamente inserito nella Costituzione. La modifica dell’articolo 81 è un atto devastante della nostra democrazia, compiuto quasi alla unanimità dal parlamento precedente a quello attuale. Assieme alla costituzionalizzazione dell’austerità ci sono poi il patto di stabilità che distrugge l’autonomia di spesa degli enti locali e il controllo diretto della UE sui bilanci pubblici. 

Come si fa a chiedere più autonomia per le regioni, se tutto il meccanismo di governo imposto dalla austerità europea nega ogni libertà di spesa a tutte le istituzioni della Repubblica? 

Maroni e Zaia sono al governo delle due regioni più ricche del paese, che assieme hanno un quarto della popolazione. Immaginate una loro iniziativa istituzionale per cancellare il fiscal compact e il patto di stabilità. Questa sì che avrebbe bisogno del consenso del popolo, proprio perché si tratterebbe di imporre allo Stato una diversa politica economica, anche in conflitto con i vincoli UE. 

Ma la Lega nord e tutte le principali forze politiche italiane sono oggi “europeiste”. Meglio quindi chiedere una autonomia che in realtà non è permessa a nessuno, meglio fare domande che non vogliono dire nulla nel sistema economico governato dalla troika. Meglio un referendum finto che impegnarsi davvero in un conflitto col potere centrale. Questo si fa sui venti migranti ospitati a San Colombano, non sulle spese per lo stato sociale. 

I referendum lombardo e veneto non propongono alcuna revisione reale delle spese dello Stato e delle regioni, alludono soltanto a più soldi al nord e meno al sud; ma anche in questo imbrogliano, perché con il vincolo europeo di bilancio – che Maroni e Zaia accettano – neanche una redistribuzione iniqua delle risorse potrebbe essere fatta. Si taglia dappertutto e basta. 

Dunque il quesito sull’autonomia è fasullo, però dietro di esso se ne nasconde uno vero, che non a caso ha raccolto grande consenso nel mondo imprenditoriale. La domanda nascosta è: visto che l’austerità istituzionale vincola rigidamente il bilancio della regione, possiamo riconquistare autonomia privatizzando? 

Trasporti, servizi sociali, istruzione e soprattutto la sanità nelle due regioni a guida leghista sono sempre più regalati al mercato. I milioni di malati cronici della Lombardia saranno affidati ad un gestore privato che avrà il compito di amministrare le loro cure, naturalmente trovando il modo di farci profitti. In Veneto l’appalto ai privati della costruzione e della gestione di uno dei più grandi ospedali della regione è diventato un bengodi senza precedenti per gli affari. La regione Lombardia è più sollecita della ministra Fedeli nell’offrire alle aziende il lavoro gratis degli studenti nell’alternanza scuola lavoro.

Il “Si” chiesto da Maroni e Zaia serve dunque prima di tutto a questo: ad approvare la connessione sempre più stretta tra politica ed affari e la privatizzazione dello stato sociale e dei servizi pubblici, ove Lombardia e Veneto sono all’avanguardia. 

I due referendum autonomisti sono un imbroglio a diversi strati di inganni, il cui solo scopo è creare consenso al sistema di potere che governa le due regioni più ricche d’Italia. Che tutte le principali forze politiche delle due regioni siano d’accordo, è solo un ulteriore segno del degrado della nostra democrazia. 


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I referendum in Lombardia e Veneto. Le regioni andrebbero abolite

di Ugo Boghetta - Mimmo Porcaro, 29 settembre 2017

Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terranno due referendum promossi dai presidenti (pardon, governatori) leghisti Maroni e Zaia al fine di avere l’avallo per chiedere al Governo e al Parlamento una maggiore autonomia. E già qui si vede che si tratta di referendum farlocchi: una tale richiesta Maroni e Zaia potrebbero tranquillamente farla già da oggi, quindi quello che si vuole è un plebiscito, pura propaganda.

A questi referendum si affiancano le mozioni presentate nelle regioni del sud dall’ormai ineffabile M5S per l’istituzione della giornata della memoria delle vittime dell’Unità d’Italia. Così. Di colpo. Senza nessun preliminare ragionamento sulla complessità del processo unitario e dei suoi effetti, sulla natura di classe dell’unificazione. Aria di elezioni, insomma.

Si tratta sì delle ennesime armi di distrazioni di massa. Ma, in realtà, creano confusione e, per questo, sono cose importanti e pericolose. Sono importanti per la prospettiva del paese e delle classi popolari che lo abitano. Sono pericolose perché coincidono con gli interessi dell’imperialismo statunitense e di quello tedesco (per ora – e ancora per poco? – subordinato al primo, ma per noi non meno letale).

L’Italia vive da tempo una situazione di stallo. Più o meno dall’entrata nell’Unione Europea e dalla firma del trattato di Maastricht: 7 gennaio ’92. Come si vede il periodo coincide con il sorgere della cosiddetta seconda repubblica e degli equivoci ideologici che l’hanno generata ed accompagnata.

Ma tale confusione è entrata in una nuova fase. Da una parte avremo l’implementazione dell’Unione a “due velocità”, che accentuerà il baricentro nordico e la germanizzazione dell’Europa (e il recente risultato elettorale tedesco non interromperà il processo, ma lo renderà per noi più pesante). E tutto ciò con l’aiuto contraddittorio della Francia. È dall’avvio dell’Unione che abbiamo sempre dovuto subire gli intrighi, le volontà e l’estorsione del gatto e della volpe, ed ogni idea nostrana di giocare l’uno contro l’altra si è mostrata finora campata per aria: e non soltanto perché non c’è un Cavour. Sempre più il popolo italiano ha tutto da perdere dall’Unione. I paesi mediterranei diventeranno via via più periferici, e così quelli dell’est, che inoltre accentueranno la loro subalternità agli Usa.

Per l’altro verso, l’elezione di Trump e lo scontro in atto negli Usa, hanno reso più blanda la presa statunitense e accentuato i mutamenti e le tendenze multipolari: la Germania sa benissimo che prima o poi dovrà scegliere di percorrere di nuovo la via della politica di potenza, anche se farà di tutto per realizzarla attraverso l’Unione. Infine, terzo e quarto attore, la Russia si presenta come argine militare alle pericolosissime iniziative occidentali e la Cina come alternativa economica (“via della seta”) al deflazionismo (classista) dell’Unione europea: ed entrambi come vasti mercati per le imprese italiane e come soggetti di un ordine finanziario alternativo.

Questa situazione in sé sarebbe positiva, se soltanto si fosse in grado di sfruttarla. Essa infatti amplia gli spazi per costruire una posizione non subalterna agli uni ed agli altri (un ruolo centrale dei paesi mediterranei, o meglio ancora di una confederazione europea radicalmente modificata). Ma a tal fine dovremmo saper riconquistare un po’ di dignità e di indipendenza. In questo contesto, infatti, potremmo meglio sviluppare gli interessi nazionali (cosa a cui abbiamo fatto cenno in un recente articolo: viva la Catalogna abbasso l’Italia) e dall’altra potremmo lavorare meglio per un mondo multipolare, che è l’assetto migliore per tutti i paesi medio-piccoli e per ostacolare l’assoluta mobilità del capitale, causa prima del pluridecennale arretramento dei lavoratori.

Al contrario, se continua questo confusionismo, col nord leghista che vuole diventare il sud della Baviera, col sud che si accontenta di diventare definitivamente la piattaforma USA nel Mediterraneo, il paese rischia la disgregazione, ed ogni sua parte va incontro ed altri secoli di sudditanza.

Ovviamente queste grandi questioni si mischiano alle miserie interne ai partiti. Maroni e Zaia si muovono contro l’ipotesi nazionale di Salvini. Il PD vota Sì ai referendum al nord ed aderisce alle mozioni dei M5S al sud, da un lato mostrando di essere diventato un partito colabrodo, e dall’altro intestardendosi coerentemente con il federalismo: quello fiscale fu un frutto loro. A questo proposito, non tutti sanno che le richieste per le modifiche della “Bassanini” inserite nel recente referendum sulle modifiche Costituzionali erano state avanzate dalle Regioni stesse perché fonti di caos.

Nemmeno il M5S scherza. Al nord stanno col Sì perché si vota con i computer: uno sballo on-line! Al sud propongono una mozione che apre una questione sull’unificazione dell’Italia (cosa, come abbiamo detto, certamente controversa) scegliendo come data della giornata della memoria quella della fine del regno borbonico: un atto reazionario o di estrema stupidità. Perché non scegliere il giorno del massacro di Bronte, sanguinosa espressione del carattere classista dell’unificazione? In questo caso il messaggio storico-politico sarebbe stato chiaro. Forse troppo chiaro. Perché non celebrare il giorno in cui fu ucciso Pisacane, che al cambiamento sociale credeva davvero, e che fu massacrato da contadini istigati dai Borboni e dagli agrari (gli altri decisivi agenti – questi ultimi – di una unificazione che non fu voluta solo dai “piemontesi”)? È su queste questioni che l’Unità d’Italia al sud ha preso la piega gattopardesca che ha dato i risultati che ha dato.

Come si vede, non c’è nessun contenuto classista,progrsessita, democratico in nessuna delle due posizioni.

In ogni caso, mettere di fatto in discussione l’Unità d’Italia, frammentarla, esporla alle incursioni di interessi stranieri è da criminali. Così come lo è stata l’entrata nell’Unione e nell’euro. Ciò non può che accentuare l’autorazzismo degli italiani sempre pronti a denigrarsi: un popolo che dimentica la propria storia (e la sua complessità) non va data nessuna parte.

Ma a questo quadro generale si deve aggiungere un altro tema.

I referendum chiedono più autonomia regionale. Il fatto è che, (a parte l’uso politico che PCI e PSI ne fecero all’epoca, usando con qualche successo le Regioni da loro governate come contraltare al governo centrale democristiano) queste istituzioni sono un fallimento. Costano davvero una barca di soldi. L’unico loro ruolo è distribuire i denari della sanità, dell’assistenza e dei trasporti (80/90% del bilancio) e, nel farlo, contribuiscono non poco ad acuire le già pesanti differenze trai servizi sociali nelle diverse zone del paese. Rendono volutamente complicato il processo decisionale. Legano strettamente i partiti ed i loro uomini ai diversi gruppi di interesse. Sono composte da territori storicamente eterogenei. Non sono sentite come istituzioni veramente interessanti a livello elettorale: le votazioni importanti sono quelle nazionali e quelle locali.

Se da una parte, dunque, va fatto fallire il referendum-plebiscito chiesto da Maroni e Zaia, dall’altra bisognerebbe proporre un modello istituzionale alternativo adeguato ai tempi. Questo non può che essere uno Stato centrale autorevole ed efficace all’interno, con una politica adeguata, forte e cooperativa all’esterno. Uno Stato che sappia trasferire parte dei poteri e delle risorse delle Regioni a livello locale: Comuni e Province. E abolire le Regioni. Allo Stato quello che è dello Stato. Agli enti locali quello che è meglio che gestiscano loro.

Serve un nuovo Stato per un nuovo e diverso interesse nazionale. In fondo è qualcosa di simile a ciò che ha proposto Melénchon con France insoumise.



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22 ottobre, referendum autonomista lombardo-veneto: c’è chi dice NO 

Appello per il No al referendum consultivo: per contrastare la pericolosa ideologia dei partiti maggiori ma anche per opporsi all’inerzia di quella sinistra che cede le piazze ai fascisti.

di Fronte Popolare  09/09/2017

Il prossimo 22 ottobre gli elettori di Lombardia e Veneto saranno chiamati ad esprimersi in un referendum consultivo sulla cosiddetta autonomia. Fatto salvo che in caso di vittoria del SI oggi non cambierebbe niente (rimandiamo ad altre più puntuali riflessioni le analisi economiche e giuridiche sul tema), con questo contributo vogliamo concentrarci soprattutto sul portato ideologico della consultazione, che merita a nostro parere molta attenzione e su cui, da Milano, siamo a fare un appello alla mobilitazione a tutti i Compagni sparsi per l’Italia

Illustriamo il quadro politico odierno in Lombardia. 

Ovvia è la posizione per il SI dei leghisti promotori, dove comunque il referendum è infine uno “spottone” per Maroni in vista delle “vere elezioni” regionali del 2018.

Non stupiscono, e consideriamo pericolose, le posizioni degli altri partiti padronali, 5 Stelle e PD, che si adeguano al generale spostamento culturale del paese sempre più a destra. Dichiarazioni sulla “razza” da difendere, regole da rispettare, meno dipendenza dallo Stato centrale sono slogan che purtroppo colpiscono e raccolgono facili consensi. Mentre il PD Veneto è direttamente schierato per il SI, quello lombardo fa dichiarazioni non così nette, ma manda avanti i cavalli di razza, vale a dire diversi autorevolissimi sindaci lombardi come Sala a Milano(fra i primi a schierarsi per il SI già a primavera scorsa) oppure Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo (e già direttore di Italia 1 anni addietro); quest’ ultimo tra i fondatori di comitati di amministratori del PD per il SI.

5 stelle, a cui va riconosciuto un buon lavoro a livello di consiglio regionale, un giorno attaccano Maroni mentre l’altro sui loro siti ufficiali arrivano a dire che il referendum l’hanno scritto loro, e godono “perché si voterà in maniera elettronica”, ed alla fine del gioco i tablet rimarranno nelle scuole…riesumando antichi slogans alla Berluscones (un computer per ogni scuola, primi anni ’90!). La posizione del sito lombardo grillino (qui è arduo dire “dei loro dirigenti”) è dettata probabilmente e da “studi di settore”, ovvero, visto che l’aria che tira è sempre del tipo “a Roma rubano tutti”, viene loro imposto di schierarsi per il SI, anche se notiamo, da qualche prima inchiesta, che per molti elettori dei 5 stelle non dovrebbe essere semplice votare come lega e PD, ovvero come quella che loro chiamano la “partitocrazia”.

Anche a sinistra la situazione è complessadiverse organizzazioni hanno dichiarato che faranno “astensione attiva”, cioè campagna elettorale per NON andare al voto, “puntando” sulla presunta bassa affluenza alle urne, dove comunque il SI dovrebbe prevalere grandemente, viste le posizioni politiche espresse dei maggiori partiti. 

Noi di Fronte Popolare, quindi, ci siamo chiesti cosa fare. Considerata (purtroppo) la poca influenza, in termini assoluti numerici, della sinistra in Lombardia sul risultato finale della consultazione, noi comunisti, analizzato il quadro politico riassunto qui sopra, abbiamo deciso invece di partecipare e fare campagna elettorale per votare, e votare NO

Il fatto che la consultazione indetta per ottobre abbia carattere puramente consultivo non solo non ne diminuisce la pericolosità, ma ne sottolinea il portato insidiosamente ideologico: pensare di contenere un simile risultato mediante l\'incentivazione della bassa affluenza è pura illusione.

Ci troviamo, per citare il compagno Antonio Gramsci, in quella fase in cui “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. 

Ecco compagni, qui al Nord sentiamo, purtroppo più che altrove, il senso di questa frase di Gramsci. Per chi sta “dalla parte del torto” la situazione non è per niente facile. Chi milita, chi partecipa, chi fa qualcosa e non passa le giornate davanti alla TV, tocca con mano ogni giorno la diminuzione degli spazi di agibilità politica, sia dal punto di vista della repressione ufficiale sia da quello di quella culturale: i casi di aggressioni contro gli antifascisti in Lombardia sono in costante aumento, ancora grida vendetta l’ irruzione di fine Luglio a Palazzo Marino, il Comune di Milano, con conseguente ferimento di due compagni.

Non meno importante ricordare che questo è un referendum promosso da due regioni che contano un quarto degli italiania cui bisogna provare a rispondere e resistere. Perché quello delle maggiori autonomie gestionali di risorse NON è solo un problema lombardo, ma di tutto il Paese (già altre regioni si dicono pronte ad indire simili consultazioni).

Di fronte al consolidarsi del senso comune reazionario e fascistoide che disgrega l\'unità dei lavoratori del nostro Paese, è necessario sviluppare una forte azione democratica e antifascista di contrasto, che esige prese di posizione chiare.

Noi di Fronte Popolare faremo quindi campagna elettorale per il NO. 

Stamperemo manifesti, volantini, e siamo pronti a dare una mano in ogni comune ad ogni sincero antifascista, democratico, comunista che in ottobre, nelle forme che riterrà più opportune, vorrà fare concretamente campagna elettorale e la cui coscienza gli dirà che non si accontenta del concetto di “astensione attiva”, atteggiamento che purtroppo temiamo possa rapidamente scivolare per inerzia verso un più tragico “siccome questo referendum è una presa in giro, ad ottobre ce ne andiamo a funghi”, lasciando totalmente piazza libera a partiti che da diversi anni portano dentro le istituzioni (al governo, sia chiaro) delle grande città individui dichiaratamente fascisti e razzisti

E’ molto probabile che non vinceremo, ma vogliamo e dobbiamo far vedere nelle piazze, nei mercati e nei posti di lavoro che c’e’ ancora qualcuno, qui al nord, che non mette la testa sotto la sabbia. 

E con più calore ci rivolgiamo ai tanti antifascisti sparsi per l’Italia, cui chiediamo di darci concretamente una mano. Come scritto prima, più poteri alle regioni vuol dire meno solidarietà fra tutti i lavoratori italiani , e purtroppo già altre regioni si dicono pronte a seguire questo pessimo esempio. 

Vi chiediamo di “parlare” del 22/10, di organizzare momenti di discussione, anche nelle vostre città lontano dalla Lombardia e dal Veneto. E poi vi chiediamo, (ed oggi i tanti famigerati strumenti tecnologici sono di grande utilità) di indicare ad amici, parenti e compagni che magari vivono nelle nostre regioni, che NON tutti hanno abbandonato la battaglia, e che qui a Milano c’è ancora chi resiste, e chi volesse impegnarsi in campagna elettorale per il NO da noi troverà validi compagni e interessante materiale di propaganda. 

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Referendum in Lombardia e Veneto /1. Prepariamoci a votare NO

di Sergio Cararo, 23 agosto 2017

Il prossimo 22 ottobre, in due strategiche regioni italiane come Lombardia e Veneto si terrà un referendum consultivo sulla “autonomia” dal governo centrale. La materia di questa maggiore autonomia è tutt’altro che chiara, tenendo conto che sarebbero già sufficienti i danni provocati dalla modifica del Titolo V della Costituzione con il federalismo introdotto nel 2001 dall’allora governo di centro-sinistra e peggiorati dal governo di centro-destra nel 2009.

Il riferimento normativo a cui fanno riferimento le forze che sostengono il referendum in Lombardia e Veneto (dalla Lega a gran parte del Pd), è l’articolo 116 della Costituzione, il quale dopo la riforma del 2001 prevede al comma 3: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata”. Ma, come si può leggere, non si fa menzione di alcun referendum. Il problema è che nel 2001 è stata aperta la strada con un referendum confermativo sulla modifica del Titolo V (voluto dal governo Amato per “battere la Lega e la destra” ma che anticipò invece una sonora sconfitta del centro-sinistra.

I referendum in Lombardia e Veneto del prossimo 22 ottobre, fortemente sponsorizzati da Maroni e Zaia ma assecondati dal Pd locale, saranno referendum consultivi per cui non è previsto neppure un quorum. In altre parole una battaglia squisitamente politica in cui le due regioni (oltre all’Emilia-Romagna) in cui si concentra quel 22% di imprese che fanno l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni italiane diranno sostanzialmente: “noi siamo agganciati al cuore dell’Unione Europea e il resto del paese si fotta”. In caso di vittoria al referendum le autorità e le classi dominanti di Lombardia e Veneto aprirebbero da una posizione di forza una fase negoziale con il governo centrale.

In un certo senso la trama svelata da questi referendum fotografa una situazione di fatto: la crescente asimmetria del nostro paese. C’è da anni un nucleo geo-economico e sociale costituito da Lombardia, Emilia, Veneto che sia sul piano economico che su quello politico si è sincronizzato con la “locomotiva Germania” lavorando nella sub fornitura alle imprese tedesche e assicurando consenso sociale, ideologico, elettorale al Pd e al blocco politico-trasversale europeista. Lo si è visto con i risultati delle elezioni locali come nei risultati del referendum sulla controriforma costituzionale del 4 dicembre. Una realtà dei fatti che marginalizza Salvini come esponente di questo mondo e che lo ha portato ad abbassare le penne nelle sue ormai rimosse sparate contro l’euro e Bruxelles.

Secondo  un sondaggio realizzato dall’Api (associazione delle piccole imprese), il 74% dei rappresentanti delle piccole e medie imprese intervistati ha risposto si alla domanda se conferire maggiori poteri alla Regione Lombardia possa rappresentare un’opportunità. “Questo referendum farà capire a Roma che in Lombardia e Veneto ci sono piccoli imprenditori manifatturieri che chiedono più rispetto” dicono i padroni e padroncini delle due regioni interessate. Secondo gli intervistati nel sondaggio, al primo posto delle azioni prioritarie che la Regione Lombardia, una volta più autonoma, dovrebbe mettere in atto c’è la diminuzione delle imposte regionali (47%). Al secondo posto l’aumento dei fondi per le imprese (34%) e infine il miglioramento delle infrastrutture (19%). Insomma una regione a totale disposizione delle imprese. Ma se i “padrùn” non vedono oltre i propri interessi di bottega, figuriamoci se la loro visione possa estendersi al resto del paese. Un motivo per schierarsi e battersi per il NO nei referendum regionali in Lombardia e Veneto. (segue)
 


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Rivoluzione d’Ottobre

1) A. Catone: La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica
2) D. Losurdo: Rivoluzione d’Ottobre e democrazia


Per iniziative e documentazione nel Centenario della Rivoluzione d\'Ottobre si veda la nostra pagina dedicata:


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La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica

di Andrea Catone
12 Ottobre 2017

1. Il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la storia del mondo.

La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo. L’importanza di queste esperienze non si è esaurita nei paesi che sono stati teatro dei processi rivoluzionari; queste esperienze hanno dato nuovo impulso alla liberazione che ha coinvolto grandi masse in ogni continente.

Grazie all’Ottobre sulle bandiere del movimento dei lavoratori è scritto non solo “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” Ma “Lavoratori di tutti i paesi e popoli oppressi, unitevi!” [1]. La Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione della Terza Internazionale (Comintern), lega strettamente il proletariato occidentale e i popoli delle colonie e delle semicolonie in una lotta generale contro l’imperialismo. Grazie all’Ottobre, e al Komintern che da esso si sviluppa, sono nati nei paesi oppressi dall’imperialismo i partiti comunisti. Ottobre apre la strada alla rivoluzione cinese e alla riconquista della dignità nazionale del paese più popoloso del mondo.

Nella storia del capitalismo, come Marx ci ricorda nel capitolo 24 del I Libro del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria, il contributo della ricchezza saccheggiata nelle colonie ha costituito una base per l’accumulazione del capitale. Il capitalismo è cresciuto insieme con il colonialismo moderno ed è diventato imperialismo. La rottura della catena imperialista avviata con la Rivoluzione di Ottobre è una svolta nella storia dello sviluppo capitalistico e non solo perché la Russia è stata considerata l’anello più debole della catena imperialista, ma perché ha aperto la strada alla lotta di liberazione dei popoli d’Oriente e di tutti i popoli oppressi.

La teoria leninista dell’imperialismo ha un enorme valore scientifico e strategico perché individua il legame necessario tra il movimento dei lavoratori in Occidente e le popolazioni colonizzate. Lenin pensa globalmente, come la Seconda Internazionale non aveva mai fatto. Con l’Ottobre nasce la strategia del fronte unito dei lavoratori dei paesi capitalistici e dei popoli oppressi. Pensare la rivoluzione a livello mondiale significa che il proletariato occidentale sostiene tutte le lotte che possono indebolire il fronte imperialista. Significa anche che ogni situazione nazionale deve essere posta e compresa in un contesto internazionale.

La presenza e il prestigio dell’URSS, vittoriosa sul nazifascismo, e del suo modello di sviluppo che ha costruito un forte paese industriale dotato di armi moderne più potenti di quelle della feroce Germania hitleriana, ha rappresentato, per tutta una fase del secondo dopoguerra, un forte incentivo e un modello per i paesi che intendevano sfuggire al giogo dell’imperialismo (i nazionalismi arabi emergono con un programma avanzato di forti interventi statali – Egitto, Siria Iraq, ma, più tardi, anche Libia) e movimenti di liberazione nazionale (Angola, Mozambico, America Centrale…).

È con la Rivoluzione d’Ottobre che il movimento dei lavoratori viene globalizzato. La I e II Internazionale sono fondamentalmente europee, il Comintern è mondiale.

Da una prospettiva a lungo termine, dopo la dissoluzione dell’URSS e il crollo dei regimi socialisti in Europa nel 1989-91, e il ritorno di questi paesi al sistema capitalistico, il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi come protagonisti della scena mondiale (la Cina ne è il caso più emblematico).

2. Il crollo del 1989-1991: I partiti comunisti perdono il potere politico nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale

Nel 1989-91, dopo 70 anni in URSS e 40 anni nelle repubbliche popolari dell’Europa orientale e dei Balcani, i partiti comunisti hanno perso il potere politico, che ritorna alle mani dei capitalisti, i rapporti di proprietà borghesi vengono ripristinati e i paesi ex socialisti dell’Europa orientale sono integrati nella NATO e nella UE. Perché è successo questo? La questione rimane aperta su questo tema fondamentale. Numerosi forum internazionali sono stati tenuti dal 1991 e sono state pubblicati anche importanti lavori sulle cause del crollo delle democrazie popolari dell’Europa orientale e dell’URSS. Il sistema sovietico, che le democrazie popolari europee hanno più o meno imitato, è stato analizzato nei suoi vari aspetti: politici economici, sociali e culturali; nelle relazioni internazionali. A mio avviso, la causa principale sta nel deficit politico e ideologico che distrugge la leadership dell’URSS e porta a disastri. Un contributo molto importante in questo senso è stato dato dalla Conferenza di Pechino nel 2011 e dal libro che ne raccoglie gli atti, La storia giudicherà su questo, a cura di Li Shenming.

Il bilancio storico dell’Ottobre richiede anche un bilancio teorico, una ridefinizione critica delle categorie della rivoluzione.

3. La teoria della transizione al socialismo.

Lenin aveva chiarito che la transizione al socialismo è un processo dialettico che richiede un’intera epoca storica [2]. E dove non è stato deciso una volta per tutte chi vincerà. La storia del secolo che ci separa dall’ Ottobre conferma pienamente la concezione di Lenin e nega le teorie anti-dialettiche e ingenue che credono che il socialismo possa sostituire il capitalismo in pochi anni attraverso misure politiche e decreti. La transizione al socialismo richiede la transizione verso una nuova superiore civiltà. Una nuova civiltà non può essere creata in breve tempo, richiede un’intera epoca storica.

Perché Lenin insiste nei suoi ultimi scritti sul tema della creazione di una nuova civiltà? Che cos’è una civiltà? C’è una determinata civiltà quando un popolo ha acquisito determinati comportamenti come sua seconda natura e si è abituato a praticarli senza una coercizione esterna. Il socialismo richiede che le grandi masse di lavoratori e i gruppi subalterni (Gramsci) siano in grado di esercitare effettivamente il potere di direzione e di controllo sulla proprietà sociale ed essere in grado nei fatti di decidere cosa, in che misura e come produrre e distribuire il prodotto, essere in grado di pianificare la produzione.

Nel settembre-ottobre 1917 Lenin scrisse: “Possono i bolscevichi mantenere il potere statale?”, in cui, tra l’altro, pone la questione della capacità reale dei proletari, dei lavoratori non qualificati, di guidare lo Stato. Per l’immediato la risposta è: no. Un compito essenziale per il potere sovietico è quindi quello di costruire le condizioni perché anche una cuoca possa dirigere lo stato.

Anche Gramsci si pone chiaramente su questa scia: il socialismo deve rendere politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di ristretti gruppi intellettuali [Quaderni del carcere, Q11 §12, 1932]. Questo straordinario obiettivo non può essere raggiunto in condizioni di miseria e di basso sviluppo delle forze produttive.

I bolscevichi si trovano ad affrontare il duplice difficilissimo compito: superare l’arretratezza e allo stesso tempo costruire rapporti di produzione socialisti: una doppia transizione. Dovranno affrontare un compito totalmente nuovo nella storia dell’umanità, come la pianificazione e il calcolo economico in un’economia di transizione. I comunisti sovietici devono inventare e sperimentare una nuova economia, organizzare una nuova formazione economica e sociale. E devono farlo in condizioni estremamente difficili.

Lo stesso problema, in misura anche maggiore, avevano i comunisti in Cina dopo la conquista del potere politico nel 1949. La capacità di trovare un modo originale di sviluppo dopo la prima fase della costruzione economica e sociale (1949-1978) è stato il grande merito storico di Deng Xiaoping: quasi 40 anni dopo l’avvio del “socialismo con caratteristiche cinesi”, la RPC è diventata la seconda potenza economica mondiale (calcolando in base al PIL), sviluppando notevolmente le forze produttive.

Lo sviluppo delle forze produttive in una società di transizione verso il socialismo è tuttavia diverso da quello di una formazione economico-sociale capitalistica. La forza produttiva principale è l’essere umano. La transizione al socialismo richiede un essere umano con una conoscenza critica e una cultura politecnica – umanistica e tecnico-scientifica allo stesso tempo – e con uno stile di vita che non può essere la copia del modo di vivere americano, che tende a mantenere i subalterni nella condizione di consumatori subalterni, in uomini a una dimensione, come scrisse oltre 50 anni fa Herbert Marcuse.

Uno dei problemi più gravi che le società di transizione al socialismo si trovano ad affrontare – ognuna sulla base delle proprie caratteristiche nazionali – è quello di sviluppare le forze produttive, ma di governare questo sviluppo nella direzione della formazione di un nuovo tipo umano e di un nuovo legame sociale per una superiore forma di civiltà, la società socialista. Il fattore culturale non è meno importante di quello economico per avanzare verso la civiltà socialista.

4. Il tema della direzione politica del processo di transizione. La questione della democrazia socialista

La transizione verso una forma di democrazia superiore a quella del parlamentarismo borghese è riuscita solo in alcune situazioni e solo in parte nella storia di questo secolo. Dopo la morte di Lenin, la questione del gruppo dirigente e delle modalità e forme di selezione dei quadri non è stata affrontata in modo adeguato.

Il problema dei partiti comunisti al potere consiste nella ricerca di istituzioni e formule che possano garantire la transizione socialista. La transizione al socialismo non è un movimento spontaneo. Questa questione è stata teoricamente affrontata da Marx e sistemata da Lenin: la dittatura del proletariato, necessaria per garantire la transizione. Ma, allo stesso tempo, è necessario assicurare un meccanismo di selezione trasparente e democratico per i gruppi dirigenti, il legame stretto tra il partito e le masse, i governanti e i governati. Occorre sviluppare forme di democrazia partecipativa e crescita delle masse nella partecipazione alla direzione dello stato e dell’economia, un grande “progresso intellettuale di massa” (vedi Gramsci). La corretta selezione dei gruppi dirigenti è una delle questioni più delicate nella società di transizione.

Nella transizione al socialismo, il legame tra economia e politica deve necessariamente essere molto più stretto che nella società borghese, perché la transizione al socialismo non è un processo spontaneo, non avviene automaticamente, ma richiede una direzione politica chiara e forte. La transizione al socialismo richiede la creazione di una nuova cultura di massa, che non sia subalterna all’ideologia capitalista e imperialista: una rivoluzione culturale.

5. Le rivoluzioni socialiste vittoriose non si svolgono nei centri imperialisti, ma solo in periferia.

Il sistema capitalistico nelle sue sovrastrutture politiche e ideologiche si è rivelato più forte del proletariato dei Paesi occidentali. La rivoluzione in Occidente non si realizza, sia per la forza del capitale (si veda l’analisi di Gramsci sull’articolazione delle società borghesi occidentali e quella di Althusser sugli apparati ideologici di Stato), sia per la debolezza della strategia e dell’organizzazione del proletariato e dei partiti comunisti.

Di solito, si hanno situazioni rivoluzionarie in tempi di crisi acuta dello stato borghese. Dopo il 1918, nel primo dopoguerra europeo, nei paesi sconfitti degli imperi centrali (Ungheria, Baviera, Austria, Germania), le rivoluzioni sono rapidamente schiacciate nel sangue prima della presa del potere politico (Germania) o sopraffatte per l’incapacità di governare l’economia dei rivoluzionari (In Ungheria).

Dopo il 1945, nel II dopoguerra, la situazione sembra più favorevole grazie alla vittoria dell’URSS sul nazismo. Nei paesi dell’Europa centrale e orientale, i comunisti vanno al potere o come continuazione della resistenza antifascista nella rivoluzione socialista (Jugoslavia, Albania) o grazie a un consenso popolare fortemente sostenuto dalla presenza dell’armata rossa sovietica: Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Germania orientale. Fatta eccezione per gli ultimi due, si tratta di paesi di capitalismo periferico.

Nei paesi chiave dell’Occidente, anche quando un forte movimento anti-nazista (Italia, Francia) è stato sviluppato dai comunisti o con una forte presenza di essi, la Resistenza non si trasforma in una rivoluzione e dove è tentata ,come in Grecia, è schiacciata nel sangue dall’intervento militare britannico e occidentale.

Dopo il 1945 in Europa occidentale non ci sono crisi rivoluzionarie, anche se in due paesi con un’importante presenza dei comunisti ci sono momenti di mobilitazione di massa e di crisi del potere borghese (maggio 1968 in Francia, decennio 1968-77 in Italia). La migliore opportunità rivoluzionaria è stata in Portogallo, la “Rivoluzione dei garofani” (1974), con un ruolo importante del Partito Comunista guidato da Alvaro Cunhal, ma anche qui la borghesia interna, con il sostegno dell’imperialismo occidentale e della NATO, è in grado di ristabilire il proprio potere politico ed economico. L’ultima occasione, in una situazione di forte crisi economica, è stata in Grecia (2011-2015), dove la coalizione di sinistra ottiene il consenso elettorale e va al governo, ma subito dopo rimane ostaggio della “troika” (BCE , IMF, UE) e si riduce ad essere l’esecutrice dei suoi diktat.

Negli Stati Uniti, il cuore dei paesi imperialisti, nessun movimento di lotta (la rivolta dei campus universitari o le pantere nere negli anni ‘60) ha mai seriamente messo in discussione il potere politico o l’egemonia culturale del grande capitale. In Inghilterra, attraversata anche da grandi lotte dei lavoratori (minatori) il potere borghese non è mai messo in discussione.

Nei cento anni che ci separano dall’Ottobre il movimento comunista e dei lavoratori non riesce nel suo obiettivo principale: avviare nei paesi capitalisti più sviluppati – con la conquista del potere politico – la trasformazione del modo di produzione capitalistico nel modo di produzione socialista basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e sulla pianificazione socialista.

Quali sono le cause di questo fallimento storico?

La teoria dell’imperialismo di Lenin può spiegare alcune delle cause che ostacolano la rivoluzione in Occidente: la classe capitalistica, con le briciole della rapina imperialista, nutre “l’aristocrazia operaia” e corrompe i leader di sindacati e partiti operai, che introiettano le teorie revisioniste e negano la possibilità di uscire dall’orizzonte dei rapporti di produzione borghesi.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare il ruolo mondiale dell’imperialismo, che non è solo la rapina dei popoli sottomessi, ma è anche organizzato come un cane da guardia del potere borghese nei paesi centrali del capitalismo. Dopo il 1945, gli USA e la NATO, la più grande alleanza militare del mondo sotto il comando statunitense, hanno svolto un ruolo decisivo nel contrastare il movimento progressista e di emancipazione anche nei paesi occidentali, utilizzando il colpo di Stato (Grecia 1967) o minacciandolo (Italia, anni 1960-70). Inoltre, l’imperialismo, con le sue istituzioni economiche e finanziarie mondiali (FMI, ecc.), controlla e riconquista i paesi che vogliono liberarsi dal sistema imperialista mondiale (l’ultimo caso evidente: la Grecia 2011-2015).

Ci sono stati e ci sono immensi errori strategici e tattici commessi dai partiti comunisti in Occidente, senza una seria comprensione dei quali nessun progresso del movimento operaio sarà possibile. Oggi va preso atto che il capitalismo e il potere politico borghese si sono dimostrati molto più forti del movimento dei lavoratori, nonostante due crisi strutturali generali del capitalismo (negli anni ‘30 del XX secolo e la crisi manifestatasi a partire dal 2007-2008).

La transizione al modo di produzione socialista non è avvenuta nei tempi e nei modi che abbiamo immaginato dopo la vittoria del 1917.

Questa domanda rimane aperta. L’indagine di questo fallimento storico è un compito fondamentale per il movimento operaio e per i suoi intellettuali organici.

Questo non significa che tutta l’attività e l’elaborazione strategica del movimento operaio nei paesi centrali del capitalismo siano stati inutili e inefficaci. In particolare, la “via Italiana al Socialismo”, la strategia sviluppata dal Partito Comunista Italiano dal 1944 sulla base dell’analisi di Gramsci nei Quaderni del carcere, al di là di deviazioni e riduzionismi, è di grande importanza per la possibile transizione al socialismo in Occidente. 

Questa strategia si basava su una lunga “guerra di posizione” in cui i comunisti, al centro di un fronte popolare, di un blocco di forze sociali e politiche, gradualmente conquistano alcune “fortezze” delle istituzioni economiche e politiche capitalistiche, attuando riforme strutturali. Per il successo di questa strategia, tuttavia, il paese deve essere libero dal controllo militare ed economico dell’imperialismo, mentre attualmente tutti i paesi dell’Europa occidentale e gli ex paesi socialisti europei sono sotto il controllo militare della NATO e delle istituzioni economiche imperialiste internazionali.

L’esperienza storica di questo secolo che ci separa dal grande Ottobre russo ci insegna che ci sono possibilità concrete di avviare una transizione socialista solo se la catena imperialista è seriamente indebolita.

Oggi, la situazione mondiale è più favorevole al movimento dei lavoratori che negli anni 1990 e 2000. È gravida di grandi pericoli e minacce, ma è anche aperta alla possibilità di un rapporto di forze più favorevole all’emancipazione delle nazioni oppresse e dei popoli sfruttati. Oggi, in tutto il mondo, le cose stanno cambiando: lo strapotere dell’imperialismo statunitense, che negli ultimi 25 anni ha portato guerre di aggressione per mantenere la sua centralità unipolare, trova un freno e un limite nella ascesa economica della Cina, nell’organizzazione dei BRICS, nel programma di creare una valuta di scambio internazionale alternativa al dollaro, nelle proposte strategiche della Cina che è diventato un attore sul palcoscenico mondiale e offre al mondo un’alternativa strategica per uno sviluppo pacifico (si veda “la nuova via della seta).

Il contesto internazionale è sempre stato importante per il movimento dei lavoratori, non perché le rivoluzioni possono essere esportate (le rivoluzioni possono svilupparsi solo su una effettiva base nazionale e devono fondamentalmente basarsi sulle proprie forze in ciascun paese), ma perché la presenza di un blocco di forze in grado di contenere l’impero americano può limitare la sua aggressività e fornire un sostegno a quei paesi in cui si sviluppa un movimento per il recupero della sovranità nazionale e popolare.

In questa situazione in movimento si possono creare le condizioni per una rinascita della lotta per il socialismo in Occidente.

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NOTE

1 Si veda in proposito Cheng Enfu, Li Wei, “Il marxismo-leninismo è il metodo scientifico e la guida per conoscere e trasformare il mondo”, in Marx in Cina, quaderno speciale di MarxVentuno n. 2-3/2014. Si può anche leggere in rete in http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf.

2 Su questo, si veda anche la recentissima e fondamentale antologia di scritti di Lenin, curata da V. Giacché, con un’ampia prefazione dello stesso: Economia della rivoluzione, Il Saggiatore, Milano, 2017.


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di Domenico Losurdo

Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici. 

Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)

L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia;
divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo averlo sconfitto.

1. La democrazia quale superamento delle tre grandi discriminazioni

Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia, così come oggi la intendiamo, presuppone il suffragio universale: indipendentemente dal sesso (o genere), dal censo e dalla «razza», ogni individuo dev’essere riconosciuto quale titolare dei diritti politici, del diritto elettorale attivo e passivo, del diritto di votare per i propri rappresentanti e di essere eventualmente eletto negli organismi rappresentativi. E cioè, ai giorni nostri la democrazia, persino nel suo significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla rivoluzione bolscevica.

Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi dell’Occidente. Era Lenin invece, in Stato e rivoluzione, a denunciare l\'«esclusione delle donne» dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come «rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di novembre», scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le donne conquistavano i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano contribuito in modo essenziale o decisivo.

Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in Stato e rivoluzione Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «\"piccoli\" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale», che in paesi come la Gran Bretagna comportavano l\'esclusione dai diritti politici dello «strato inferiore propriamente proletario». Si può aggiungere che proprio nel paese classico della tradizione liberale ha tardato in modo particolare ad affermarsi pienamente il principio «una testa, un voto». Solo nel 1948 sono dileguate le ultime tracce del «voto plurale», a suo tempo teorizzato e celebrato da John Stuart Mill: i membri delle classi superiori considerati più intelligenti e più meritevoli godevano del diritto di esprimere più di un voto, ciò che faceva rientrare dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta. 

Per quanto riguarda l’Italia, sui manuali scolastici si può leggere che la discriminazione censitaria è stata cancellata nel 1912. In realtà continuavano a sussistere le «piccole» clausole di esclusione denunciate da Lenin. Ma non è questo il punto più importante. La legge varata in quell’anno concedeva graziosamente i diritti politici solo a quei cittadini di sesso maschile che, pur di modeste condizioni sociali, si fossero distinti o per «titoli di cultura e di onore» o per il valore militare mostrato nel corso della guerra contro la Libia terminata poco prima. In altre parole, non si trattava del riconoscimento di un diritto universale, bensì di una ricompensa in primo luogo per quanti avevano dato prova di coraggio e di ardore bellico nel corso di una conquista coloniale dai tratti brutali e talvolta genocidi.

In ogni caso, anche là dove il suffragio (maschile) era divenuto universale o pressoché universale, esso non valeva per la Camera Alta, che continuava a essere appannaggio della nobiltà e delle classi superiori. Nel Senato italiano vi sedevano, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti gli altri erano nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del Consiglio. Non dissimile era la composizione delle altre Camere Alte europee che, a eccezione di quella francese, non erano elettive bensì caratterizzate da un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Persino per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica francese, che pure aveva alle spalle una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso risultava da un\'elezione indiretta ed era costituito in modo tale da garantire una marcata sovra-rappresentanza alla campagna (e alla conservazione politico-sociale), a danno ovviamente di Parigi e delle maggiori città, a danno cioè dei centri urbani considerati il focolaio della rivoluzione. Anche in Gran Bretagna, nonostante la secolare tradizione liberale alle spalle, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), non aveva nulla di democratico, e netto era il controllo esercitato dall’aristocrazia sulla sfera pubblica: era una situazione non molto diversa da quella che caratterizzava Germania e Austria. È per questo che un illustre storico (Arno J. Mayer) ha parlato di persistenza dell’antico regime in Europa sino al primo conflitto mondiale (e alla rivoluzione d’ottobre e alle rivoluzioni e agli sconvolgimenti che hanno fatto seguito a essa)

In quegli anni neppure negli USA erano assenti i residui di discriminazione censitaria. Rispetto all’Europa, però, l’antico regime si presentava in una versione diversa: l’aristocrazia di classe si configurava come aristocrazia di razza. Nel Sud del paese il potere era nelle mani degli ex-proprietari di schiavi, che nulla avevano perso della loro arroganza razziale o razzista e che non a caso erano bollati dai loro avversari quali Borboni; non era certo dileguato il regime talvolta celebrato dai suoi sostenitori e talaltra criticamente analizzato dagli studiosi contemporanei come una sorta di ordinamento castale, in quanto fondato su raggruppamenti etnico-sociali resi impermeabili dal divieto di miscegenation, e cioè dal divieto di rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali, severamente condannati e puniti in quanto suscettibili di mettere in discussione la white supremacy.

2. La duplice dimensione della discriminazione razziale

E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della Rivoluzione d’Ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua vitalità in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio esclusivo di formazione dello Stato», negandolo alla stragrande maggioranza dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze inferiori» erano escluse in blocco dal godimento dei diritti politici già per il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (il paese sul quale soprattutto ci soffermeremo), i popoli di origine coloniale erano ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli civili. 

Si pensi ad esempio ai linciaggi che, tra Otto e Novecento, negli Stati Uniti erano riservati in particolare ai neri. Un illustre storico statunitense (Vann Woodward) ne ha dato una descrizione secca ma tanto più efficace e raccapricciante:

«Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.

Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scoiamento, l\'arrostimento, l\'impiccagione, i colpi d\'arma da fuoco. I souvenir per acquirenti potevano includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali della vittima, così come cartoline illustrate dell\'evento».

Vediamo qui all’opera non la democrazia propriamente detta di cui favoleggia la storiella edificante di cui ho parlato agli inizi, bensì quella che eminenti studiosi statunitensi hanno definito la Herrenvolk democracy, una democrazia riservata esclusivamente al popolo dei signori, il quale esercitava una terroristica white supremacy non solo sui popoli di origine coloniale (afroamericani, asiatici ecc.) ma talvolta anche sugli immigrati provenienti da paesi (quali l’Italia) considerati di dubbia purezza razziale.

Ancora negli anni ’30 i neri, che pure nel corso della prima guerra mondiale erano stati chiamati a combattere e a morire per la «difesa» del paese, continuavano a subire un regime di terrore che al tempo stesso funzionava come una ripugnante società dello spettacolo. Eloquenti sono di per sé i titoli e le cronache dei giornali locali del tempo. Li riprendiamo dall’antologia (100 Years of Lynchings) curata da uno studioso afroamericano (Ralph Ginzburg): «Grandi preparativi per il linciaggio di questa sera». Nessun particolare doveva essere trascurato: «Si teme che colpi d’arma da fuoco diretti al negro possano andare fuori bersaglio e colpire spettatori innocenti, che includono donne con i loro bambini in braccio»; ma se tutti si atterranno alle regole, «nessuno sarà deluso». L’inedita società dello spettacolo procedeva in modo implacabile. Vediamo altri titoli: «il linciaggio eseguito pressoché come previsto nell’annuncio pubblicitario»; «la folla applaude e ride per l’orribile morte di un negro»; «cuore e genitali recisi dal cadavere di un negro». 

A subire il linciaggio non erano solo i neri colpevoli di «stupro» ovvero, il più delle volte, di rapporti sessuali consensuali con una donna bianca. Bastava molto meno per essere condannati a morte: l’«Atlanta Constitution» dell’11 luglio 1934 informava dell’avvenuta esecuzione di un nero di 25 anni «accusato di aver scritto una lettera “indecente e insultante” a una giovane ragazza bianca della contea di Hinds»; in questo caso la «folla di cittadini armati» si era accontentata di riempire di pallottole il corpo dello sciagurato. Per di più, oltre che sui «colpevoli», la morte, inflitta in modo più o meno sadico, incombeva anche sui sospetti. Continuiamo a sfogliare i giornali dell’epoca e a leggere i titoli: «Assolto dalla giuria, poi linciato»; «Sospetto impiccato a una quercia sulla pubblica piazza di Bastrop»; «Linciato l’uomo sbagliato». Infine la violenza non si limitava a prendere di mira il responsabile o il sospetto responsabile del misfatto a lui attribuito: accadeva che, prima di procedere al suo linciaggio, venisse data alle fiamme e bruciata completamente la capanna in cui abitava la sua famiglia. 

È da aggiungere che la terza grande discriminazione finiva col colpire anche certi membri e certi settori della stessa casta o razza privilegiata. Sfogliando sempre l’antologia relativa ai cento anni di linciaggi negli USA, ci imbattiamo nel titolo di un articolo del «Galveston (Texas) Tribune» del 21 giugno 1934: «Una ragazza bianca è rinchiusa in carcere, il suo amico negro è linciato». Su quella ragazza bianca il regime di terroristica white supremacy si abbatteva in modo duplice: sia privandola della sua libertà personale, sia colpendola pesantemente nei suoi affetti.

3. Movimento comunista e lotta contro la discriminazione razziale

In che direzione, a quale movimento e a quale paese guardavano le vittime di tale orrore, per cercare solidarietà e ispirazione nella lotta di resistenza e di emancipazione? Non è difficile indovinarlo. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, gli afroamericani che aspiravano a scuotersi di dosso il giogo della white supremacy erano spesso accusati di bolscevismo, ma pronta era la replica di un militante nero che non si lasciava intimidire: «Se lottare per i nostri diritti significa essere bolscevichi, ebbene io sono bolscevico e che gli altri si rassegnino una volta per sempre».

Sono gli anni in cui i neri che diventavano militanti del Partito comunista degli USA o che visitavano la Russia sovietica facevano un’esperienza inedita e esaltante: si vedevano finalmente riconosciuti nella loro dignità umana; su un piano di parità con i loro compagni potevano partecipare alla progettazione di un mondo nuovo. Si comprende allora che essi guardassero a Stalin come al «nuovo Lincoln», al Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, all’oppressione, alla degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi continuavano a subire. Non c’è da stupirsi per questa visione. Si tenga presente che per lungo tempo, nel periodo in cui la discriminazione razziale e il regime di supremazia bianca infuriavano pressoché indisturbati all’interno degli USA e a livello mondiale nel rapporto tra metropoli capitalistica e colonie, il termine «razzismo» ha avuto una connotazione positiva, quale sinonimo di comprensione sobria e scientifica della storia e della politica, una comprensione scientifica che solo gli ingenui (per lo più socialisti o comunisti) si ostinavano a ignorare o a mettere in discussione.

Quando interveniva il momento di svolta nella storia degli afroamericani? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia inviava alla Corte Suprema, che era stata chiamata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Già per ragioni di politica estera occorreva sancire l’incostituzionalità della segregazione e della discriminazione anti-nera. Washington – osserva lo storico statunitense (Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane». In altre parole, non si poteva arginare la sovversione comunista senza mettere fine al regime di white supremacy. E dunque: la lotta ingaggiata dal movimento comunista e la paura del comunismo finivano con lo svolgere un ruolo essenziale nella cancellazione negli USA (e poi nel Sudafrica) della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia.

A questo punto s’impone una riflessione. Le opzioni politiche di ciascuno di noi possono essere le più diverse. E, tuttavia, chi voglia fondare le sue affermazioni su una sia pur elementare ricostruzione storica, deve riconoscere un punto essenziale: la storiella edificante dalla quale abbiamo preso le mosse, e che continua a essere strombazzata dall’ideologia dominante, è per l’appunto una storiella. Se per democrazia intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni, è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla Rivoluzione d’Ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale.

4. La discriminazione razziale tra USA e Terzo Reich

Se da un lato spingeva le sue vittime a riporre le loro speranze nel movimento comunista e nell’Unione Sovietica, dall’altro il regime di white supremacy vigente negli USA e a livello mondiale suscitava l’ammirazione del movimento nazista. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che poi sarebbe diventato il teorico più o meno ufficiale del Terzo Reich, celebrava gli Stati Uniti, con lo sguardo rivolto soprattutto al Sud, come uno «splendido paese del futuro» che aveva avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che si trattava allora di mettere in pratica, «con forza giovanile», senza fermarsi a mezza strada. La repubblica nord-americana aveva coraggiosamente richiamato l’attenzione sulla «questione negra» e anzi l’aveva collocata «al vertice di tutte le questioni decisive». Ebbene, una volta cancellato per i neri, l’assurdo principio dell’uguaglianza doveva essere liquidato sino in fondo: occorreva trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei».

Non c’è dubbio, il regime di white supremacy ha profondamente ispirato il nazismo e il Terzo Reich. È un’influenza che ha lasciato tracce profonde anche sul piano categoriale e linguistico. Proviamo a interrogarci sul termine-chiave suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista. In questo caso non c’è bisogno di ricerche particolarmente tormentose: è Untermensch il termine-chiave, che in anticipo priva di qualsiasi dignità umana quanti sono destinati a essere schiavizzati al servizio della razza dei signori o a essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. Ebbene, il termine Untermensch, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione dall’americano Under Man! Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta a indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», con i quali bisogna procedere a una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), Stoddard è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime, compreso Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli «indigeni» ovvero degli Untermenschen dell’Europa orientale, e impegnato nei preparativi per l’annientamento degli Untermenschen ebraici, considerati i folli ispiratori della rivoluzione bolscevica e della rivolta degli schiavi e dei popoli delle colonie. 

Ben lungi dal poter essere assimilate l’una all’altra quali nemiche mortali della democrazia, Unione Sovietica e Germania hitleriana si sono storicamente collocate su posizioni contrapposte: la prima ha svolto un ruolo d’avanguardia nella lotta contro la terza grande discriminazione (quella razziale), mentre la seconda si è distinta nella lotta per radicalizzare ed eternizzare la terza grande discriminazione e, nel far ciò, si è richiamata all’esempio costituito dagli USA. Nel complesso, l’analisi storica costringe a riconoscere il contributo essenziale o decisivo fornito dal movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni e dunque alla realizzazione di un presupposto ineludibile della democrazia.

5. Un incompiuto processo di democratizzazione

Conviene ora porsi un’ultima domanda: le tre grandi discriminazioni sono oggi del tutto dileguate? Già diversi anni fa, un eminente storico statunitense, Arthur Schlesinger Jr, che è stato anche consigliere del presidente John Kennedy, tracciava un quadro ben poco lusinghiero della democrazia nel suo paese: «L\'azione politica, una volta imperniata sull\'attivismo, s’impernia ora sulla disponibilità finanziaria». Dati i «costi spaventosamente alti delle recenti campagne elettorali», si delineava nettamente la tendenza a «limitare l’accesso alla politica a quei candidati che hanno fortune personali o che ricevono denaro da comitati d’azione politica», ovvero da «gruppi di interessi» e lobbies varie. In altre parole, era come se la discriminazione censitaria, cacciata dalla porta, fosse rientrata dalla finestra. Conviene prenderne atto: la campagna neoliberista contro i «diritti sociali ed economici», solennemente proclamati e sanciti dall\'ONU nel 1948 ma denunciati da Friedrich August von Hayek quali espressione dell\'influenza (da lui considerata rovinosa) della «rivoluzione marxista russa», ha finito con l‘investire anche i diritti politici.

Nell’atto di accusa contro la Rivoluzione d’Ottobre formulato dal patriarca del neoliberismo (e premio Nobel per l’Economia nel 1974) si può e si deve leggere un grande riconoscimento. Quella rivoluzione ha contribuito alla realizzazione dei diritti economici e sociali e all’edificazione anche in Occidente; non a caso, ai giorni nostri, al venire meno della sfida del movimento comunista corrisponde lo smantellamento dello Stato sociale nella stessa Europa, con il risultato che la discriminazione censitaria finisce col ripresentarsi in forme nuove.

E per quanto riguarda le altre due grandi discriminazioni? Non c’è tempo per un’analisi approfondita, ma non posso fare a meno di una breve osservazione a proposito della terza grande discriminazione. Certo, la storia non è l’eterno ritorno dell’identico, come pretendeva Nietzsche. Sarebbe errato e fuorviante ignorare i mutamenti intervenuti e i risultati conseguiti dalla lotta di emancipazione. Ai giorni nostri nessuno oserebbe fare professione di razzismo e proclamare ad alta voce la necessità di difendere o ristabilire la white supremacy. Non bisogna però dimenticare che, storicamente, un aspetto essenziale della terza grande discriminazione è stato la gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. L’ha ben compreso Lenin che abbiamo visto definire l’imperialismo come la pretesa di «poche nazioni elette» ovvero di poche «nazioni modello» di riservare esclusivamente a se stesse il diritto di costituirsi in Stato nazionale indipendente. È stata abbandonata una volta per sempre tale pretesa? In occasione di gravi conflitti politici e diplomatici, l’Occidente e in particolare il suo paese-guida si rivolgono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché autorizzi l’intervento militare da loro auspicato o programmato, ma al tempo stesso dichiarano che, anche in assenza di autorizzazione, essi si riservano il diritto di scatenare sovranamente la guerra contro questo o quel paese. E’ evidente che, arrogandosi il diritto di dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i paesi occidentali si attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale, mentre per i paesi da loro presi di mira il principio della sovranità statale è dichiarato superato e privo di valore. In forme nuove si riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di sovranità/popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo) che è propria dell’imperialismo e del colonialismo. Con la forza delle armi continua a esser fatto valere il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. 

Nel caso degli USA questa sedicente gerarchia è proclamata ad alta voce e viene persino religiosamente trasfigurata. Nel settembre del 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo». È un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo: «La nostra missione è senza tempo»!

Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy. Resta fermo il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni, una gerarchizzazione naturale, eterna e persino consacrata dalla volontà divina, come nella monarchia assoluta dell’Antico regime! Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la terza grande discriminazione non è dileguata. Detto altrimenti: almeno per quanto riguarda i rapporti internazionali, siamo ben lontani dalla democrazia. Il processo di democratizzazione iniziato con la rivoluzione d’ottobre è ancora ben lungi dalla sua conclusione.

Testo pubblicato dalla Casa editrice «La Scuola di Pitagora», Napoli. Ringraziamo Domenico Losurdo, Presidente dell\'Associazione Marx XXI, per la richiesta di pubblicazione nel nostro sito.

LEGGI IN FORMATO PDFhttp://www.marx21.it/documenti/losurdo_Rivoluzioneottobredemocrazia.pdf



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(italiano / english / deutsch)

Die deutsche Ethno-Zentrale


1) Die deutsche Ethno-Zentrale
2) The Power in the Center / Die Macht in der Mitte
[Muovendo dal conflitto secessionista in Catalogna, il sito web del settimanale tedesco Die Zeit ha pubblicato uno sferzante appello per lo smembramento degli Stati-nazione in Europa:
3) Die Ökonomie der Sezession / The Economy of Secession / Germania e separatismi: l’economia della secessione


=== 1 ===


Die deutsche Ethno-Zentrale
 
06.10.2017
BERLIN/FLENSBURG
 
(Eigener Bericht) - Beflügelt vom katalanischen Sezessionsreferendum treiben Mitglieder einer in Deutschland ansässigen Ethno-Organisation Autonomieforderungen für die ungarischsprachige Minderheit in Rumänien voran. In der vergangenen Woche haben bekannte Politiker der Südtiroler Volkspartei (SVP) eine Delegation der extrem rechten Partei Jobbik aus Ungarn empfangen, um ihr die Besonderheiten der Südtiroler Autonomie nahezubringen. Die SVP gehört der Föderalistischen Union Europäischer Nationalitäten (FUEN) mit Sitz in Flensburg an, einem Zusammenschluss, der größere Sonderrechte für völkisch definierte Minderheiten fordert, von staatlichen Stellen finanziert wird und eng mit dem Bundesinnenministerium kooperiert. Jobbik, eine für ihre rassistisch-antisemitische Agitation berüchtigte Partei, kündigt an, sich in Rumänien, aber auch in der Slowakei, in der Ukraine und in Serbien für eine formelle Autonomie der dortigen ungarischsprachigen Minderheiten einzusetzen. Jobbik wird nach eigenen Angaben in dieser Frage von einem Angehörigen der deutschsprachigen Minderheit Ungarns beraten, der neun Jahre lang in führender Funktion für die FUEN tätig war und in der Organisation zu den zentralen Ansprechpartnern deutscher Regierungsstellen gehörte. Bundespräsident Frank-Walter Steinmeier hat der FUEN am gestrigen Donnerstag einen persönlichen Besuch abgestattet.
In völkischer Tradition
Bei der Föderalistischen Union Europäischer Nationalitäten (FUEN) handelt es sich um einen Zusammenschluss von aktuell über 90 Organisationen aus 33 Ländern Europas, des Kaukasus und Zentralasiens, die jeweils Sprachminderheiten vertreten. Die FUEN, einst unter Führung vormaliger NS-Antisemiten gegründet, sieht sich selbst in der Tradition der deutschen Minderheitenpolitik der 1920er Jahre, die Sprachminderheiten ethnisch definierte (german-foreign-policy.com berichtete [1]); bis vor kurzem nannte sie sich selbst Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen (FUEV). Entsprechend setzt sich die FUEN bis heute dafür ein, ethnisch-\"national\" definierten Minderheiten weitreichende Sonderrechte zu verleihen. Als vergleichsweise vorbildlich gilt bei der FUEN die Autonomie der norditalienischen Provinz Bolzano-Alto Adige/Südtirol, in der die deutschsprachige Minderheit Italiens fast zwei Drittel der Bevölkerung stellt. Stärkste politische Kraft ist die Südtiroler Volkspartei (SVP), die seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs durchweg den Landeshauptmann stellt; sie ist Mitglied der FUEN, stellt einen ihrer Vizepräsidenten und beteiligt sich an der Finanzierung der Organisation. Die FUEN, die ihre Zentrale in Flensburg hat, erhält ihre Mittel unter anderem von den Bundesländern Schleswig-Holstein und Sachsen, vom Land Kärnten und von der Deutschsprachigen Gemeinschaft Belgiens; projektbezogene Gelder kommen vom Bundesinnenministerium und der ungarischen Regierung.
Schutzmacht Deutschland
Für die Berliner Regierungspolitik ist ein Zusammenschluss innerhalb der FUEN von besonderer Bedeutung, der sämtliche deutschsprachigen Mitgliedsverbände bündelt: die Arbeitsgemeinschaft Deutscher Minderheiten in der FUEN (AGDM). Ihr gehören Organisationen aus Staaten von Dänemark bis Kirgisistan an. Die AGDM, die 1991 in Budapest gegründet wurde, trifft sich jedes Jahr zu einer Jahrestagung, die gewöhnlich im Bundesinnenministerium abgehalten wird; fester Programmpunkt sind Gespräche mit dem Beauftragten der Bundesregierung für Aussiedlerfragen und nationale Minderheiten und mit anderen für die deutschsprachigen Minderheiten zuständigen Ministerialbeamten aus dem Innenministerium und dem Auswärtigen Amt. Dadurch wird die Anbindung der Minderheiten an die Berliner Politik gesichert. Die Bundesregierung tritt dabei als Schutzmacht der deutschsprachigen Minderheiten auf und nutzt dies, um Einfluss auf die innere Politik fremder Staaten zu nehmen. So berichtete Bundeskanzlerin Angela Merkel bei einer Reise nach Polen am 7. Februar Vertretern der dortigen deutschsprachigen Minderheit, sie habe bei Ministerpräsidentin Beata Szydło zu ihren Gunsten interveniert. Hauptredner der AGDM-Tagung im Juni dieses Jahres in Berlin war ein ehemaliger Führungsfunktionär der deutschsprachigen Minderheit Rumäniens, Klaus Johannis. Johannis, der als Minderheitenvertreter über Jahre hin regelmäßiger Gast in Berlin war, amtiert seit dem 21. Dezember 2014 als rumänischer Präsident.
\"Juden erfassen\"
Am 28. September haben nun prominente Politiker des FUEN- und AGDM-Mitglieds SVP eine vierköpfige Delegation der ungarischen Partei Jobbik im Landtag in Bolzano empfangen. Die extrem rechte Jobbik ist für ihre rassistisch-antisemitische Agitation und für ihre glühende Verehrung des NS-Kollaborateurs Miklós Horthy berüchtigt.[2] Márton Gyöngyösi, Abgeordneter im ungarischen Parlament und Leiter der nach Bolzano gereisten Delegation, machte vor einigen Jahren von sich reden, als er forderte, \"Menschen jüdischen Ursprungs\" in Ungarn zu \"erfassen\", weil sie \"ein gewisses Risiko für die nationale Sicherheit Ungarns\" darstellten.[3] Gyöngyösi und seine Parteikollegen trafen nun unter anderem den Vizepräsidenten des Südtiroler Landtags, Thomas Widmann (SVP), den früheren langjährigen Ministerpräsidenten Luis Durnwalder (SVP) sowie den langjährigen Leiter des Südtiroler Volksgruppen-Instituts, Christoph Pan, um sich von ihnen über Geschichte und Funktionsweise der Südtiroler Autonomie beraten zu lassen. Jobbik kündigte anschließend an, dieselben Autonomierechte für die ungarischsprachigen Minderheiten Rumäniens, der Slowakei sowie weiterer Nachbarstaaten Ungarns erkämpfen zu wollen.[4] Die SVP-Politiker und Pan wurden zu einem Gegenbesuch nach Budapest eingeladen. Pan, ein prominenter Vertreter völkischer Minderheitenkonzepte, amtierte von 1994 bis 1996 als FUEN-Präsident.
\"Ausgesprochen minderheitenfreundlich\"
Wie Jobbik berichtet, lässt sie sich in Minderheitenfragen inzwischen von Koloman Brenner beraten. Brenner, Germanistik-Dozent an der philosophisch-humanwissenschaftlichen Fakultät der Eötvös-Loránd-Universität (ELTE) in Budapest, ist ein langjähriger Funktionär der Landsmannschaft der Ungarndeutschen und als solcher seit Mitte der 1990er Jahre in der FUEN aktiv. Von 2007 bis 2016 amtierte er zudem als Vorsitzender der AGDM; in dieser Funktion war er nicht nur ein wichtiger Ansprechpartner für alle AGDM-Mitgliedsverbände, darunter die SVP, sondern auch eine zentrale Kontaktperson für die Bundesregierung. Brenner urteilt heute, Jobbik sei eine \"ausgesprochen minderheitenfreundliche\" Organisation.[5] Laut Angaben der Partei wird er bei den ungarischen Parlamentswahlen in seiner Geburtsstadt Sopron für sie kandidieren.[6]
Neue Grenzen
Während die SVP Jobbik beim Forcieren von Autonomieforderungen in Ungarns Nachbarstaaten behilflich ist, hat das Auswärtige Amt erstmals einen Vertreter der Süd-Tiroler Freiheit in Berlin empfangen. Die Süd-Tiroler Freiheit steht in direkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern, die seit den 1950er Jahren regelmäßig Terroranschläge in Italien verübten, um den Anschluss Südtirols an Österreich zu erzwingen. Die Partei, die bei den letzten Wahlen zum Südtiroler Landtag 7,2 Prozent erreichen konnte, zeigt, wie fließend der Übergang zwischen Autonomie- und Sezessionsforderungen ist. Sie hat kürzlich mit der Publikation eines \"Merkhefts für Schüler\" Aufsehen erregt. In dem Pamphlet, das kostenlos in Italien und in Österreich verteilt werden soll, ist eine Landkarte abgedruckt, die Südtirol als Teil Österreichs zeigt. Schüler sollten sich \"an diesen Anblick gewöhnen\" und auch \"daran ..., dass Südtirol nicht Italien ist\", wird der Fraktionsvorsitzende der Partei im Südtiroler Landtag, Sven Knoll, zitiert.[7] Bereits vor einem Jahr, am 24. Oktober 2016, konnte der Landesjugendsprecher der Süd-Tiroler Freiheit, Benjamin Pixner, im Auswärtigen Amt auf Einladung des Ministeriums an einer Diskussionsveranstaltung zum Thema \"Welches Europa wollen wir?\" teilnehmen. Pixner, der dabei auch mit Außenminister Frank-Walter Steinmeier zusammentraf, hatte gar nicht damit gerechnet, nach Berlin gebeten zu werden: Er war von den zuständigen Berliner Stellen als einziger Südtiroler geladen worden.[8]
[1] S. dazu Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen.
[2] S. dazu Die Ära des Revisionismus (III).
[3] Ungarischer Politiker wegen judenfeindlicher Äußerungen in der Kritik. www.welt.de 27.11.2012.
[4] As shown by the example of South Tyrol, wage union and autonomy are vital for integrating Central Europe. jobbik.com.
[5] Jobbik auf Studienreise in Südtirol. unser-mitteleuropa.com 02.10.2017.
[6] As shown by the example of South Tyrol, wage union and autonomy are vital for integrating Central Europe. jobbik.com.
[7] Schüler-Merkheft zeigt Südtirol als Teil Österreichs. diepresse.com 31.08.2017.
[8] Junge Süd-Tiroler Freiheit bei Gesprächen über Zukunft Europas in Berlin. www.suedtiroler-freiheit.com 25.10.2016.


=== 2 ===

ORIG.: Die Macht in der Mitte (11.10.2017)



The Power in the Center
 
2017/10/11
BERLIN
 
(Own report) - Using the secessionist conflict in Catalonia as a backdrop, the website of the German weekly Die Zeit published a fiery appeal for dismembering Europe\'s nation-states. For quite some time, the author, Ulrike Guérot, has been promoting the \"disappearance of the nation-state\" in Europe. The nation-state should be replaced by regions with their \"own respective identities\" that could be \"ethnically\" defined. As examples, Guérot lists regions with strong separatist tendencies such as Flanders and Tyrol. The author sees herself upholding the tradition of the \"European Federalists\" of the early post-war period, who - under the guidance of western intelligence services - drew up plans for establishing of a European economic space with free circulation of commodities as a bulwark against the East European socialist countries. Wolfgang Schäuble, as President of the Association of European Border Regions (AEBR) in the early 1980, was also promoting regionalist plans. Inspired by former Nazi functionaries, the AEBR criticized the \"nation-state\'s barrier effect\" of borders in the interests of large corporations. Current economic maps indicate which areas in the EU would form the continent\'s most powerful block if regionalization should take effect: south and central Germany as well as its bordering regions from Flanders to Northern Italy.
From the CDU to the Greens
Yesterday, the website of the German weekly, Die Zeit, published a fiery appeal to dismember Europe\'s nation-states, authored by the political scientist Ulrike Guérot. Guérot had been employed by CDU parliamentarian Karl Lamers in the first half of the 1990s and participated in formulating the Schäuble/Lamers paper, propagating the establishment of a core Europe. She subsequently became collaborator for the EU Commission President at the time, Jacques Delors, and an expert of several think tanks (German Council on Foreign Relations, German Marshall Fund, and the European Council on Foreign Relations). In 2014, she founded a European Democracy Lab at the European School of Governance. Once member of the CDU; today, she is politically close to the Greens.[1]
\"Ethnic Region\"
Since some time, Guérot has been peddling an allegedly new political concept to the German public, based on the dismemberment of Europe\'s nation-states. According to her, \"the nation-state will disappear\" [2] and will be replaced by \"50 to 60\" regions in Europe, with \"their own respective identity.\"[3] She is referring to the concept of \"ethnic regions,\"[4] i.e. an ethnically defined community of shared origins. As Guérot writes \"ethnic region and statehood are not congruent\" for example in Ireland or Cyprus; Flanders, Venetia and Tyrol are further examples. In Flanders and Venetia, respectively more prosperous regions, defining themselves linguistic-ethnic (\"Netherlander\" or \"Venetian\") are dissociating themselves from poorer regions of the country, whereas the German speaking construct \"Tyrole\" encompasses areas of Austria and Northern Italy. According to Guérot, Catalonia is also one of the regions to be liberated from its constraints under the nation-state. The Catalan movement currently pushing for secession is in fact largely defining itself ethnically. The autonomous movement has been closely cooperating with French citizens, who live outside the Spanish region of Catalonia, but also consider themselves \"ethnic Catalans.\" At their rallies one can hear \"Neither France nor Spain! Only one country, Catalonia!\"[5] Last weekend the spokesperson of the left CUP party in Spanish Catalonia complained that Spaniards from outside Catalonia had come to Barcelona to participate in a demonstration. To demonstrate in Catalonia as a \"Spaniard\" corresponds to a \"colonial logic.\"[6]
Europe of the Regions
According to Guérot, only a \"European Republic,\" wherein \"the regions assume the role of the central constitutional actors,\" can save an EU shaken by national conflicts.[7] For example, the regions should constitute \"a second chamber\" in the European Parliament - \"a European Senate.\" Guérot has repeatedly said that political competence must be redistributed between the EU and its regions. According to this concept, a center of power will be set up in Brussels, in control of foreign and military policy, while the regions - for example, in charge of commercial taxes - would financially maintain independent latitude. Of course, the latter would depend on the economic power of the respective region. Besides its ethnic constitution, a \"Europe of the Regions\" would lead to a complete disenfranchisement of its smallest units. Guérot criticizes the fact that \"the EU is full of large regions (such as North Rhine-Westphalia) which are not permitted to participate in EU decision making, while on the other hand, small countries (such as Luxembourg or Malta) are.\" That must change. For example, rather than having one vote out of 28 in the European Council, Malta would only have one out of \"50 or 60\" votes in the \"European Senate.\" It would not be able to counter any measures proposed by the EU\'s economically predominating centers.
United States of Europe
Guérot\'s concept has precursors, which had been promoted, on the one hand, by intelligence agency circles of the post-war period and by interested business circles, on the other, serving however, entirely different interests under cover of promoting an alleged regional democracy.
Guérot says herself that her model is based on the \"European Federalists,\" particularly the Swiss Denis de Rougement. Since the mid-1940s, the \"European federalists\" sought to found a \"United States of Europe,\" as a unified economic realm - serving as a bulwark against the socialist countries, in the process of forming. It was also seen as a defense against the idea of abandoning the previous economic approach, which, at the time, was also rather popular in Western Europe. This is why the federalists had initially been supported and controlled by the CIA predecessor, the Office of Strategic Services (OSS) and its director, Alan Dulles, residing in Bern, and later by the CIA itself.[8] Rougement, an OSS-affiliate and professed federalist, complained in a 1948 \"Message to the Europeans,\" that \"Europe\" was \"barricaded behind borders impeding the circulation of its commodities,\" and because of this, is threatened with economic ruin. On the other hand, \"united,\" it could, already \"tomorrow, build the greatest political entity and the largest economic unit of our times.\" From 1952 - 1966, Rougemont continued his activities also as president of the CIA-financed \"Congress for Cultural Freedom.\"
\"Loss of Identity\"
Wolfgang Schäuble has also promoted regionalist concepts. Guérot had been in contact with him in 1994 during work on the Schäuble-Lamers paper. In 1979, Schäuble became president of the Association of European Border Regions (AEBR), an organization with the objective of downgrading the significance of borders in Europe. Business interests played an important role, which is why the AEBR could find reliable supporters in industry. A \"European Charter on Border and Cross-Border Regions,\" passed by the AEBR in 1981, stipulated that the \"elimination of economic and infrastructural barriers\" must urgently be pursued. For example, the \"expansion and construction of coordinated, combined cross-border freight transport terminals\" is necessary to \"close current gaps in cross-border traffic.\" In addition, the expansion of cross-border energy networks must be promoted. This is being overblown with allegations of Europe having emerged from a \"patchwork of historical landscapes,\" with borders creating \"scars\" on Europe\'s regions, and leading to the population\'s \"loss of identity.\" The current \"nation-state\'s barrier effect\" must be reduced - if not abolished, according to the paper drawn up under Schäuble\'s AEBR presidency.[9]
German Continuities
Former Nazi functionaries were actively participating both on the AEBR\'s committees and in the immediate entourage of its planning of the \"regionalization\" of the border regions, including Gerd Jans, the former member of the Waffen SS in the Netherlands, Konrad Meyer, responsible for the Nazi\'s \"Generalplan Ost,\" Hermann Josef Abs, of the Deutsche Bank, as well as Alfred Toepfer, described by the publicist Hans-Rüdiger Minow as \"infamous for his border subversion of France\'s Alsace.\" In an extensive study, Minow describes the continuities of the Nazi\'s concepts.[10]
Germany\'s Supremacy
Guérot ultimately argues in favor of her regionalization concepts, using the allegation that through the removal of nation-states, \"Germany\'s supremacy ... can be overcome.\" The opposite is the case. Economic maps by the EU\'s Eurostat statistics administration show the regions where 
Europe\'s wealth and, therefore, Europe\'s economic power is concentrated, a block with its centers in southern and central Germany, to the west, in Flanders and spreading to segments of the Netherlands, and to the South to parts of Austria and Northern Italy and in various separate regions of Western and Northern Europe. A number of these regions maintain close relations to Germany, or to the German regions. (german-foreign-policy.com reported.[11]) This clearly German-dominated block would hardly have any difficulty controlling a \"Europe of the Regions.\"
(Here, german-foreign-policy.com documents two Eurostat economic maps. The upper map shows the brut GDP per capita, according to the Purchasing Power Parity (PPP), while the lower map depicts the primary household incomes. The colors for Germany\'s south indicate the highest values, while the colors for the furthest southwestern and eastern EU indicate the lowest. Source: Eurostat.)

For more information on this subject see: The Economy of Secession (II).
[1] Ulrike Guérot: Adorno liest man nicht am Schwimmingpool. blogs.faz.net 17.03.2015.
[2] Steffen Dobbert, Benjamin Breitegger: \"Der Nationalstaat wird verschwinden\". www.zeit.de 03.01.2017.
[3] Ulrike Guérot: Europa einfach machen - einfach Europa machen. agora42.de 25.09.2017.
[4] Ulrike Guérot: In Spaniens Krise offenbart sich eine neue EU. www.zeit.de 10.10.2017.
[5] Morten Freidel: Die Brüder im Süden haben es besser. www.faz.net 08.10.2017.
[6] Hunderttausende kontern Unabhängigkeitspläne in Katalonien. www.zeit.de 08.10.2017.
[7] Ulrike Guérot: In Spaniens Krise offenbart sich eine neue EU. www.zeit.de 10.10.2017.
[8], [9], [10] Hans-Rüdiger Minow: Zwei Wege - Eine Katastrophe. Flugschrift No. 1. Aachen 2016.
[11] See The Economy of Secession (II).



=== 3 ===


Die Ökonomie der Sezession (I)
 
04.10.2017
MILANO/VENEZIA/BOLZANO/ANTWERPEN
 
(Eigener Bericht) - Separatisten in diversen EU-Staaten begreifen das Sezessionsreferendum in Katalonien als Ansporn und intensivieren ihre Aktivitäten. Bereits am 22. Oktober werden die beiden reichsten Regionen Italiens, die Lombardei und Venetien, je ein eigenes Referendum über eine Ausweitung ihrer Autonomie gegenüber der Regierung in Rom abhalten. Zentrale Ursache ist wie in Katalonien das Bestreben, den eigenen Wohlstand zu wahren und die Umverteilung ihrer Steuergelder an ärmere Gebiete insbesondere im Süden des Landes zu reduzieren oder zu beenden. Identische Motive befeuern Sezessionisten im niederländischsprachigen Teil Belgiens, in Flandern; die dortige Regionalregierung unterhält gute Beziehungen zur Regionalregierung Kataloniens. Auch im deutschsprachigen Separatismus Norditaliens (Südtirol), der bei den letzten Landtagswahlen über 25 Prozent der Stimmen auf sich vereinen konnte, werden neue Forderungen nach einer Abspaltung von Italien und dem Anschluss an Österreich laut. Viele Separatismen in der EU sind von Deutschland jahrzehntelang direkt oder indirekt gefördert worden - ökonomisch und politisch.
Die nächsten Referenden
Die nächsten Referenden, die den inneren Zusammenhalt eines EU-Staates beschädigen dürften, finden bereits in weniger als drei Wochen in Norditalien statt. Am 22. Oktober werden die Bürger der Lombardei und Venetiens entscheiden, ob die beiden Regionen größere Autonomierechte erhalten sollen. Mit Blick auf die Eskalation in Katalonien beschwören italienische Medien derzeit die Unterschiede zwischen den Referenden: Während es in Katalonien unter Bruch der spanischen Verfassung um die Abspaltung der Region ging, werden in der Lombardei und in Venetien nur Autonomieverhandlungen mit der Zentralregierung angestrebt - strikt im Rahmen der italienischen Verfassung. Allerdings ist die Dynamik der Entwicklung mit derjenigen in Katalonien, wo vor gut einem Jahrzehnt ebenfalls noch nicht die Abspaltung, sondern lediglich eine größere Autonomie mehrheitsfähig war, durchaus vergleichbar.
Die reichsten Regionen
Sowohl die Lombardei wie auch Venetien zeichnen sich durch einen weit überdurchschnittlichen Reichtum aus, der - wie im Falle Kataloniens - mit Umverteilungsleistungen zugunsten ärmerer Gebiete meist im Süden des Landes verbunden ist; das wiederum schürt Wohlstandschauvinismus und führt zu Bestrebungen, den Abfluss der Gelder zu stoppen. Die Lombardei verfügt nach eigenen Angaben über das höchste Bruttoinlandsprodukt pro Kopf in Italien; in der Rangliste der EU-Staaten schöbe sie sich mit 36.600 Euro pro Einwohner im Jahr auf Platz fünf - noch vor Deutschland (35.800 Euro) und weit vor dem Durchschnitt Italiens (27.800 Euro). Die Lombardei exportierte im Jahr 2015 Waren im Wert von 111,23 Milliarden Euro; das waren 27,2 Prozent der italienischen Gesamtausfuhr (408,66 Milliarden Euro), mehr als jede andere italienische Region erreichte. Auf Platz zwei lag mit Exporten im Wert von 57,52 Milliarden Euro Venetien, das das drittgrößte Bruttoinlandsprodukt Italiens erzielt - nach der Lombardei und der Hauptstadtregion Latium. Aus der Lombardei fließen, wie es in einer von ihrer Regionalregierung verbreiteten Broschüre heißt, jährlich 54 Milliarden Euro netto an den Zentralstaat ab, ein Vielfaches des Vergleichswerts in Katalonien, den die Publikation auf rund acht Milliarden Euro beziffert. Aus Venetien werden demnach ebenfalls hohe Nettosummen an Rom gezahlt - um die 15,5 Milliarden Euro pro Jahr.[1]
Von der Autonomie zur Abspaltung
Das Bestreben, die Mittelabflüsse zu verringern, begünstigt schon seit Jahrzehnten politische Kräfte, die zwischen dem Verlangen nach größerer Autonomie und der Forderung, sich von Italien abzuspalten, changieren. Bereits 1984 entstand mit der Lega Lombarda die Keimzelle der späteren Lega Nord, die lange für die Abspaltung Norditaliens plädierte, aktuell allerdings eher auf stärkere Autonomie setzt. Die Übergänge sind fließend. Parteichef Matteo Salvini zieht gegenwärtig die Ausdehnung der Lega Nord auf die Mitte und den Süden des Landes in Betracht und würde dazu wohl Zugeständnisse in puncto Autonomie machen; doch auch in dieser Frage ist der Machtkampf in der Partei nicht entschieden. Die Lega Nord stellt aktuell die Regierungschefs in der Lombardei sowie in Venetien. In Venetien sind dabei Abspaltungstendenzen deutlich erkennbar. Dort wurde 2014 ein informelles, nicht repräsentatives und weithin kritisiertes Online-Referendum abgehalten, dessen Resultate zwar nicht zuverlässig waren, in der Tendenz allerdings von Umfragen bestätigt wurden. Demnach gäbe es in der Bevölkerung Venetiens eine knappe Mehrheit für die Abspaltung der Region von Italien. Von der Entwicklung in Katalonien wird der Separatismus nun auch hier befeuert.
Der flämische Separatismus
Dasselbe trifft auf die belgische Region Flandern zu. Der niederländischsprachige Separatismus in dem Gebiet hat alte Wurzeln, die bis ins 19. Jahrhundert zurückreichen; er wird jedoch seit einigen Jahrzehnten ebenfalls durch Wohlstandschauvinismus und durch den Kampf gegen staatliche Umverteilung an die Hauptstadtregion Brüssel sowie vor allem an die Region Wallonie geprägt. Flandern erwirtschaftete 2014 rund 58 Prozent des belgischen Bruttoinlandsprodukts, die französischsprachige Region Wallonie lediglich 24 Prozent; für die verbleibenden 18 Prozent kam die Hauptstadtregion Brüssel auf, die zweisprachig ist. Das Bruttoinlandsprodukt pro Kopf lag in Flandern mit 36.300 Euro im Jahr weit über dem Vergleichswert in der Wallonie (26.100 Euro), deren Arbeitslosenquote (rund zwölf Prozent) diejenige Flanderns (rund fünf Prozent) beträchtlich übertraf. Mehrere Parteien, insbesondere der extrem rechte Vlaams Belang und die konservative Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), setzen sich prinzipiell für die Abspaltung Flanderns von Belgien ein, wobei die N-VA, die nicht nur den Ministerpräsidenten der flämischen Regionalregierung und den Bürgermeister der größten flämischen Stadt, Antwerpens, sondern auch einige Minister in der aktuellen belgischen Regierung stellt, sich gegenwärtig aus taktischen Gründen zurückhält. Die Region Flandern kooperiert seit 1992 mit der Region Katalonien; beide Seiten haben im Juli 2015 eine gemeinsame Erklärung unterzeichnet, die eine weitere Intensivierung ihrer Zusammenarbeit vorsieht. Die beiden Regionen haben sich im Vorfeld des katalanischen Sezessionsreferendums eng miteinander abgestimmt; vergangene Woche etwa traf sich die katalanische Parlamentspräsidentin vor der Abstimmung zu letzten Absprachen mit ihrem flämischen Amtskollegen Jan Peumans.
Präzedenzfall Katalonien
Neben den großen Sezessionsbewegungen in Norditalien und Belgien ziehen auch kleinere Abspaltungsorganisationen Nutzen aus dem katalanischen Referendum, darunter etwa Separatisten in Norditaliens Autonomer Provinz Bolzano-Alto Adige (Südtirol). \"Heute Katalonien, morgen Süd-Tirol!\", heißt es etwa in einem gestern publizierten Manifest der \"Süd-Tiroler Freiheit\", einer Partei der deutschsprachigen Minderheit Norditaliens, die in direkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern steht; diese verübten seit den 1950er Jahren immer wieder Sprengstoffanschläge in Italien, um den Anschluss der Provinz Bolzano-Alto Adige an Österreich zu erzwingen. Die Süd-Tiroler Freiheit erhielt bei den letzten Wahlen zum Südtiroler Landtag 7,2 Prozent der Stimmen; rechnet man die 17,9 Prozent hinzu, die die Partei \"Die Freiheitlichen\" erhielt, dann liegen die deutschsprachigen Separatisten in Südtirol insgesamt bei rund 25 Prozent. Wie die Süd-Tiroler Freiheit berichtet, habe sie im Jahr 2013 ein Referendum abgehalten, bei dem sich 92 Prozent der Teilnehmer für die Abspaltung von Italien ausgesprochen hätten.[2] Sei damals oft erklärt worden, eine Sezession sei rechtlich nicht möglich, so beweise der \"Präzedenzfall Katalonien\" nun \"das Gegenteil\", erklärt die Partei, die mitteilt, \"enge Kontakte zu Katalonien\" zu unterhalten.
Von Deutschland gefördert
Aktuell laufen die Separatismen in der EU deutschen Interessen zuwider: Sie schwächen die Union und relativieren damit deren Nutzen als machtpolitische Basis für die ausgreifende deutsche Weltpolitik. Entsprechend mahnt die Bundesregierung, eine Einigung für den Sezessionskonflikt in Katalonien zu finden. Dabei hat die Bundesrepublik die Voraussetzungen für das Erstarken der Separatismen selbst geschaffen, indem sie sie jahrzehntelang auf verschiedenste Weise förderte - teils über völkische Vorfeldorganisationen, teils auch durch eine regionalistische Wirtschaftspolitik. german-foreign-policy.com berichtet am morgigen Donnerstag.

Mehr zum Thema: Unter Separatisten.
[1] Scopri perché la Lombardia è Speciale. Regione Lombardia 2017.
[2] Selbstbestimmung nicht mehr aufzuhalten: Heute Katalonien, morgen Süd-Tirol! www.suedtiroler-freiheit.com 03.10.2017.


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Der zweite Teil: Die Ökonomie der Sezession (II) (GFP 05.10.2017)

ENG.: The Economy of Secession (II) (GFP 2017/10/05)
As can be seen in an analysis of the separatist movements in Catalonia, Lombardy and Flanders, the deliberate promotion of exclusive cooperation between German companies and prosperous areas in countries with impoverished regions has systematically facilitated the autonomist-secessionist movements in Western Europe. According to this study, Flanders, as well as Lombardy - two already economically prosperous regions - have been able to widen the gap between themselves and the impoverished regions of Belgium and Italy, also because they have played an important role in the expansion of the German economy, the strongest in the EU. Through an exclusive cooperation with the state Baden Württemberg, Catalonia and Lombardy have been able to expand their economic lead over more impoverished regions of Spain and Italy, which has spurred their respective regional elites to seek to halt their financial contributions for federal reallocations through greater autonomy or even secession. The consequences of deliberate cooperation - not with foreign nations - but only with prosperous regions, can be seen with Yugoslavia...
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/59064



Germania e separatismi: l’economia della secessione

DI STEFANO SOLARO - OTTOBRE 13, 2017

Mentre in Catalogna e, di riflesso, in tutta la Spagna è in atto una vera e propria crisi politica e civile a seguito del referendum sull’indipendenza, il sito German Foreign Policy pubblica un’analisi dei rapporti economici della Germania con alcune delle regioni che in questo momento storico sono al centro di rivendicazioni per l’autonomia.  A emergere è un quadro in cui si evidenzia come il Paese guida dell’Unione Europea abbia prima spinto e poi consolidato una relazione di interdipendenza con le zone più ricche di alcuni Stati Europei, alimentandone gli squilibri e, di conseguenza, le tensioni secessioniste.

 

 

di redazione German Foreign Policy, 05 Ottobre 2017.

 

BERLINO/BARCELONA/MILANO/ANVERSA 

 

In Europa occidentale la promozione mirata di una collaborazione esclusiva tra imprese tedesche e le regioni più ricche di nazioni ove ampie parti del paese sono in condizioni di impoverimento, ha sistematicamente favorito il rafforzamento dei movimenti autonomisti-secessionisti. Questa evidenza è frutto di un’analisi dei separatismi in Catalogna, Lombardia e Fiandre. Mentre giocavano un ruolo decisivo nell’espansione della più forte economia Europea, quella tedesca, due regioni economicamente rilevanti come Fiandre e Lombardia aumentavano il già consistente divario con le zone più povere di Belgio e Italia.

 

Attraverso un’esclusiva collaborazione con il Land del Baden-Württemberg, Catalogna e Lombardia hanno lasciato indietro le regioni più in difficoltà di Spagna e  Italia.

 

Ciò ha alimentato gli sforzi delle rispettive élite regionali per bloccare il flusso di redistribuzione nazionale dei fondi statali attraverso la strada di una maggiore autonomia o, in ultima analisi, della secessione. Le conseguenze di una cooperazione mirata non con interi Stati stranieri, ma solo con le regioni economicamente più avanzate, sono già note dall’esperienza dell’ex Jugoslavia.

 

“Forte Germania, forte Anversa”

 

La regione delle Fiandre, la parte olandese del Belgio, le cui spinte separatiste sono state per lungo tempo tra le più forti all’interno dell’UE, ha tratto particolare guadagno dalla sua stretta collaborazione con la Germania. La Repubblica Federale Tedesca è l’acquirente principale dell’export fiammingo; lo scorso anno, su un valore totale delle esportazioni di 302,4 miliardi di dollari, il contributo della Germania è stato di oltre 50 miliardi. Inoltre, le imprese tedesche sono tra i più importanti investitori del Paese. Il nucleo delle relazioni economiche tedesche-fiamminghe è il porto di Anversa, il secondo più grande d’Europa dopo il porto di Rotterdam. La sua importanza per l’economia delle esportazioni tedesca è evidente dal fatto che, di 214 milioni di tonnellate, quasi un terzo, ben 68 milioni, sono state spedite dalla Germania o trasportate nel Paese tedesco. Inoltre, numerose aziende tedesche, come BASF e Bayer, hanno investito miliardi in sedi o magazzini nei pressi del porto di Anversa.

 

Senza una forte Germania non può esistere una forte Anversa“, affermava con forza qualche anno fa il rappresentante del porto nella Repubblica federale. Considerato che l’economia tedesca prospera e gode di ininterrotti benefici grazie alla zona Euro, anche l’economia delle Fiandre sperimenta una crescita più rapida rispetto a quella della Vallonia – l’area meridionale è infatti maggiormente focalizzata sui rapporti con la Francia.

 

In questo modo in Belgio il divario di ricchezza tra regioni finisce per animare sempre più le rivendicazioni secessioniste.

 

“Allineati con la Germania”

 

Anche la Lombardia, la regione economicamente più ricca d’Italia, ha vantaggi considerevoli dai suoi rapporti con la Repubblica Federale tedesca. La Germania è il principale partner commerciale, con un volume di scambi pari a quasi 40 miliardi di euro. Secondo gli esperti, le imprese lombarde sono tradizionalmente “allineate per una stretta cooperazione con la Germania meridionale“, che è “un gateway fondamentale per l’Europa settentrionale e orientale“. In realtà è la regione a rappresentare il punto di snodo centrale per le aziende tedesche in Italia, raccogliendo circa un terzo delle esportazioni dalla Germania sul territorio nazionale. Di un totale di circa 3.000 aziende tedesche che hanno una filiale in Italia, circa la metà si sono stabilite in Lombardia. Società di primo piano come BASF, Bayer, Bosch, BMW, Deutsche Bank, SAP e Siemens hanno aperto la propria sede italiana a Milano o nei dintorni cittadini. Inoltre, si trova a Milano anche la sede di Unicredit, il più importante gruppo bancario italiano, che ha acquisito la Hypovereinsbank di Monaco di Baviera nel 2005.

 

La forza dell’economia tedesca contribuisce significativamente alla crescita della Lombardia, in particolare rispetto alle regioni più deboli del Paese.

Punto di appoggio principale

 

Il commercio con la Germania è di grande importanza anche per la Catalogna. Nel 2015 sono arrivate dalla Repubblica Federale il 18,3 % delle importazioni catalane, decisamente più che da qualsiasi altro Paese. Allo stesso tempo la Germania è il secondo più grande acquirente delle esportazioni catalane. In Catalogna oltre il 10% degli investimenti provengono dalla Repubblica Federale. La regione è poi il principale punto di appoggio per le aziende tedesche in Spagna. La metà delle 1.600 aziende spagnole con partecipazione tedesca hanno la sede in Catalogna, come ad esempio, BASF, Bayer, Boehringer, Henkel, Merck e Siemens. Anche Seat, la consociata di Volkswagen, ha sede a Martorell, vicino a Barcellona. Come Fiandre e Lombardia, la Catalogna trae benefici dalla prosperità del suo partner commerciale più importante, ovvero l’economia tedesca. Nonostante la crisi dei Paesi del Sud Europa, questa tendenza è diventata ancora più marcata negli ultimi anni per via della posizione dominante della Repubblica federale nell’UE.

 

A chi ha venga dato

 

Il fatto che le aziende tedesche cooperino esclusivamente con le regioni economicamente forti e, quindi, contribuiscano ad aumentare ulteriormente il divario di ricchezza nei Paesi in questione, non è soltanto la conseguenza di un processo naturale, quanto una dinamica incoraggiata da obiettivi politici. Un esempio è la comunità di lavoro “Quattro Motori per l’Europa”, fondata nel 1988 e che comprende, oltre al Land tedesco del Baden-Wuerttemberg, le regioni della Catalogna, Lombardia e Rodano-Alpi (Francia). Il suo obiettivo è quello di estendere la cooperazione economica tra le aree coinvolte, concentrandosi, ad esempio, sul miglioramento delle infrastrutture di trasporto e di telecomunicazione, e promuovendo una stretta collaborazione in materia di ricerca e tecnologia. La finalità dell’accordo?

 

Aumentare notevolmente “la competitività” dei “quattro motori”.

 

I membri del gruppo accettano, almeno implicitamente, che in nazioni da regioni economicamente asimmetriche, come Spagna e Italia, crescano significativamente le differenze tra i membri dei “Quattro Motori”, già relativamente benestanti, e le aree più povere dei rispettivi Paesi.
 
Come in Jugoslavia

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1937-2017 – 80 ANNI DALLA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA CROATO


Oltre 100 persone si sono riunite ad Anindol, presso Zagabria, per celebrare l\'ottantesimo anniversario della nascita del Partito Comunista Croato. Tra i partecipanti, il rappresentante del comune di Samobor, promotore dell\'evento, il rappresentante del principale partito di opposizione SDP, vari altri partiti socialisti, comunisti e di sinistra, oltre alle formazioni antifasciste e partigiane di Croazia, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, e il Coro partigiano di Zagabria che si è esibito con canzoni rivoluzionarie, tra cui “Padaj Silo i Nepravdo”.


Le formazioni antifasciste e socialiste croate hanno commemorato questo evento che vide Tito, in segreto assieme ad altri 16 comunisti, fondare il partito che si sarebbe poi federato agli altri partiti comunisti jugoslavi e assieme ai quali sconfisse i fascisti ed instaurò uno stato socialista.


Gli intervenuti hanno voluto ricordare come il movimento socialista in questi territori fosse iniziato al seguito della I Guerra mondiale, sull\'eco della Rivoluzione d\'ottobre; che alle elezioni nel Regno di Jugoslavia il Partito Comunista finì in terza posizione, prima di venir messo fuorilegge; che Tito al ritorno dall\'URSS negli anni \'30 si occupò di diffondere le organizzazioni del partito in tutta la Jugoslavia, fondando anche partiti comunisti nazionali, al fine di creare con successo un fronte unico contro il fascismo.


In particolare il compagno Kapuralin (Partito Socialista dei Lavoratori) ha ricordato che il partito all\'inizio era piccolo, ma ben organizzato qualitativamente, e che seppe sfruttare l\'occupazione straniera non solo per condurre la liberazione nazionale, bensì per industrializzare il nuovo stato ed elevare il livello culturale del popolo:

Se non ci fosse stato il compagno Tito, l\'unità e la fratellanza, i suoi comunisti, il coraggio e la convinzione, già allora gli stivali stranieri ci avrebbero calpestato, e altra gente avrebbe governato sopra noi, come succede oggi.


La rappresentante dello SRP, Vesna Konigsknecht, ha brillantemente riassunto cosa significa la lotta antifascista:


Per mascherare le contraddizioni sociali, e sconfiggere l\'unità della classe lavoratrice, le società capitaliste ricorrono a mistificazioni sull\'unità nazionale, incoraggiano la convinzione che l\'appartenenza nazionale è d\'importanza critica, insistono sulle differenze tra i popoli.

Il fascismo compare nel capitalismo; è la conseguenza del modo in cui il capitalismo funziona, della sua volontà di sconfiggere l\'unità e la solidarietà di classe attraverso il mito dell\'unità nazionale.

Maggiori le differenze all\'interno di una società, maggiore la tensione. Con una recrudescenza delle tensioni, più ferocemente si tira in ballo l\'unità nazionale. L\'esplosione avviene non là dove necessario – nel campo degli interessi contrapposti tra capitale e lavoro – ma là dove la tensione è canalizzata, nel campo del nazionalismo. Degli interessi nazionali si parla sempre più aggressivamente ed esclusivamente, e molto facilmente si scivola – nel fascismo.


Da noi l\'antifascismo è arrivato assieme al socialismo. Ogni antifascismo, se pensato coerentemente, dev\'essere anticapitalista, perché il fascismo è figlio del capitalismo. E perciò, chi non vuole affrontare il capitalismo, che taccia sul fascismo!


Il Partito Comunista Croato, come frazione del PC Jugoslavo, si era chiaramente schierato dalla parte degli interessi della classe lavoratrice. Non voleva creare un movimento di resistenza (per combattere il fascismo e ripristinare lo status quo ante) ma condurre una guerra di liberazione popolare. Mentre combatteva l\'occupatore, si organizzava, sviluppava un nuovo potere, e creava un nuovo sistema sociale – il socialismo.


Commemorando l\'80esimo anniversario del PC Croato, ci ricordiamo che i nostri antifascisti lottarono sì per liberare il paese, ma anche per modificare i rapporti di classe. L\'antifascismo è lotta di classe. Doveva e deve esserlo. Ieri, oggi, per sempre!


Di seguito alcuni estratti dei discorsi degli altri partecipanti.


Non ci arrenderemo mai, la lotta è continua, non vi sfiduciate. Alle persone di sinistra dico – uniamo le nostre forze perché solo così la Lotta Popolare di Liberazione fu vinta.


Tutte le conquiste del sistema socialista – la solidarietà, il lavoro sicuro, l\'educazione e sanità universali e gratuiti, pensioni dignitose – oggi vengono affidate al mercato. Ogni giorno siamo testimoni dell\'inumanità del capitale, del mercato, della corsa alla produttività e al profitto. Per questo vengono distrutti i monumenti al mondo diverso che fu – per cercare di perpetuare il più a lungo possibile questo sistema che serve solo una minoranza.


La lotta condotta dal Partito Comunista fu non solo lotta di liberazione, ma allo stesso tempo lotta per la libertà dei lavoratori.


Noi a Samobor con onore ci ricordiamo del giorno in cui 80 anni fa un gruppo di uomini coraggiosi con a capo il compagno Tito fondò il Partito Comunista Croato. Con l\'obiettivo di una società migliore, per l\'uguaglianza delle donne e per correggere tutte le inguistizie.


Bisogna difendere gli interessi della classe lavoratrice, ma anche la libertà nazionale, l\'uguaglianza e la fratellanza tra i popoli.



--- A cura di Andrea Degobbis.
Sulla celebrazione di questo anniversario si veda anche: https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8765



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(srpskohrvatski / english / italiano / castellano
Segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico)


La Catalogna vista dai Balcani

... Il leader dei liberali di Vojvodina Nenad Čanak è stato a Barcellona nel giorno del Referendum ...


0) LINK IMPORTANTI SEGNALATI
1“Merkel responsible for Kosovo precedent and dividing Serbian people” (by Živadin Jovanović, 11 October 2017)
2) The Economy of Secession (German Foreign Policy)
3) Vučić e il Referendum in Catalogna / Srbija zbog Katalonije traži izvinjenje Brisela (Politika / RFE)


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LINK IMPORTANTI SEGNALATI:

La CUP invita Puigdemont a ribadire la proclamazione della Repubblica (di Cup-Cc, 14.10.2017)
... non abbiamo dalla nostra parte grandi poteri economici, né la UE è disposta ad ammettere che il diritto all’autodeterminazione è un diritto fondamentale dei popoli. Però altrettatnto sicuramente, restare immobili davanti alle sue minacce, i suoi rifiuti e la sua autorità, non ci permetterà d’esistere come popolo, non ci permetterà di governarci e neppure ci permetterà di avanzare nella conquista di maggiori diritti e libertà. Al contrario, li perderemo...

Il referendum del 1° ottobre in Catalogna e le responsabilità della sinistra (di Ferran Gallego | da investigaction.net, 14 Ottobre 2017)
... Uno dei fattori più rilevanti di questa crisi è che ha permesso alle cose di compiersi attraverso i canali politici ed ideologici entro i quali si è sviluppata, è stata ed è l\'assenza di analisi di classe. Non c\'è stata la prospettiva che doveva essere offerta da un\'organizzazione capace di operare come un intellettuale collettivo... La Repubblica federale, purtroppo, è stata l\'opzione meno presentata nel dibattito che ha egemonizzato questi settori della Catalogna e della Spagna intera... 

Ciclo di interviste e testimonianza dalla Catalogna #RadioCatalunyaLliure (di Contropiano.org, 11-13.10.2017)
... interviste quotidiane organizzate da Noi Restiamo direttamente dalla Catalunya in lotta. Una serie di colloqui con uomini e donne che stanno costruendo il loro riscatto...

Tra forza e ragione, la lotta in Catalogna (di Dante Barontini, 11 ottobre 2017)
... in Catalogna si è selezionata e formata, nel corso degli anni, una sinistra radicale capace di saldare insieme questioni sociali e questione nazionale, collegando i temi classici (lavoro, pensioni, occupazione, salario, ecc) con la dipendenza da uno Stato spagnolo mai definitivamente uscito dal franchismo. Una sinistra tanto radicata, oltretutto, da imporre una analoga radicalizzazione dell’agenda politica catalana, da sempre in mano all’ala “autonomista” del centrodestra... Il grande capitale multinazionale catalano (sia finanziario che industriale, con le banche Caixa e Sabadell, il colosso delle infrastrutture Abertis, la filiale iberica di Volkswagen, ecc) ha decisamente osteggiato ogni spinta indipendentista... Buona parte delle speranze dei moderati erano infatti riposte “nell’Europa”, immaginata per decenni come la superstruttura “civilizzatrice” in grado di far superare anche alla Spagna il sistema di potere ereditato pari pari dal regime franchista...

Catalogna: Parigi si schiera con Madrid (PTV News 09.10.17)

\'Istra nije Katalonija, mi samo želimo svoj novac\' (Sanjin Španović, 09. listopada 2017.)
Predsjednik IDS-a Boris Miletić za Express govori o prijedlogu zakona koji su ovaj tjedan uputili u saborsku proceduru...
[parlano gli autonomisti istriani: \"Noi vogliamo solo i nostri soldi\"]

Puigdemont come Tsipras? La Catalogna davanti a un bivio (di Marco Santopadre, 8 ottobre 2017)
... per ottenere l’indipendenza occorre rompere non solo con lo Stato Spagnolo ma anche con gli interessi delle elites catalane oltre che con quella vera e propria gabbia di popoli e settori popolari che è l’Unione Europea. Altrimenti Puigdemont potrebbe essere il nuovo Tsipras, e la finestra aperta coraggiosamente dal popolo catalano verso il cambiamento e la trasformazione sociale potrebbe chiudersi e rimanere sbarrata per chissà quanto tempo.

Intervista al responsabile dei giovani comunisti in Catalogna: «se ci combattiamo fra lavoratori, vincono i padroni» (Tinta Roja / Senza Tregua, 7 ottobre 2017)
... La concezione dell’interclassismo, della fiducia in chi ti sfrutta, nel restare uniti per un bene comune non sono indirizzi politici propri della classe lavoratrice. Se diciamo che il “processo” ha un carattere borghese è anche per questa ragione...

Indipendentismo e Costituzione (di Alba Vastano, 7/10/2017)
L’indipendentismo è sempre da perorare come diritto della volontà popolare o, in specifiche situazioni, è illegittimo perché contrasta con la Costituzione? Ne risponde il giurista Paolo Maddalena
Catalogna e indipendentismo dei ricchi: vero o falso? (di Paolo Rizzi, 7/10/2017)
Alcuni dati di fatto per non parlare in maniera astratta dell\'indipendentismo catalano.
https://www.lacittafutura.it/editoriali/catalogna-e-indipendentismo-dei-ricchi-vero-o-falso.html

Il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano (di Ramon Mantovani, 5 ott 2017)
... La sinistra politica spagnola, che oggi è rappresentata dall’unità fra Podemos e Izquierda Unida, e che è repubblicana, federalista e favorevole al diritto all’autodeterminazione dei diversi popoli spagnoli non può, a mio avviso, che prendere atto del fatto che la prima vera spallata al “regime del 78”, alla monarchia e allo stesso PP è arrivata con la via unilaterale all’autodeterminazione dei catalani. La Storia non segue linee rette. Per quanto mi riguarda, non essendo indipendentista, avrei preferito che la transizione si fosse chiusa con l’instaurazione di una repubblica federale. Ma se un popolo, con il massimo clamore e in forme inedite (di solito i processi di autodeterminazione si son fatti con le armi in pugno) e pacifiche, rivendica il diritto a decidere per se stesso e nel contempo mette in difficoltà uno stato non antifranchista e pesantemente autoritario, non gli si può dire che rompere la legalità è un errore...
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=31186

Internazionalismo e indipendenza, una questione di classe (di Francesco Piccioni, 5/10/2017)
... La storia dell’indipendenza finlandese, insomma, insegna quantomeno che per il vertice della Rivoluzione russa il problema non esisteva come definizioni astratte, ma come soluzioni concrete. Fermo restando il principio per cui non si può imporre a un popolo di farsi comandare da altri. L’internazionalismo proletario, insomma, prevede il consenso ad unirsi...

Comunistes de Catalunya: Unità a difesa delle istituzioni catalane (editoriale di Realitat, organo di informazione dei Comunisti di Catalogna, 5 ottobre 2017)
... L’emancipazione nazionale della Catalogna è inseparabile dall’emancipazione sociale della classe lavoratrice e delle classi popolari che formano la maggioranza della cittadinanza. Una cittadinanza in maggioranza resa precaria e destinata alla povertà salariata, come conseguenza delle politiche attive di de-industrializzazione, de-localizzazione e privatizzazione delle risorse pubbliche. Questa emancipazione è un obiettivo che ha bisogno di una strategia di approfondimento democratico a lungo termine e nonostante che per qualcuno sia difficile accettarlo anche di una strategia di conflitto di classe.

Il vaso di Pandora si è aperto anche in Europa (PTV News 03.10.17)

Rivolta catalana, crisi europea (di Dante Barontini, 3 ottobre 2017)
... Quel diritto all’autodeterminazione che era stato brandito con forza militare ed economica per disgregare l’Urss e gli altri paesi plurinazionali dell’Est europeo viene ora invocato da una nazione interna a uno Stato membro dell’Unione. Ora non va più bene, ora è (o lo si vorrebbe presentare) come “sovranismo” deteriore.
Ancora peggio. La maggioranza delle forze indipendentiste catalane sarebbe favorevole a rimanere come Stato autonomo all’interno della Ue. Dunque non ci sarebbe – dall’angolo visuale di Bruxelles – nessuno “strappo irrecuperabile” alla tessitura tecnoburocratica in atto da decenni. Basterebbe ricontrattare gli stessi trattati con la nuova entità, oltretutto da una posizione di assoluta forza (non caso le grandi imprese multinazionali presenti sul territorio catalano sono contrarie al processo indipendentista). Non cambierebbe granché… Ma una simile scelta manderebbe in crisi totale il quarto paese della Ue, che dovrebbe perdere il 25% del Pil e veder crescere – come già sta avvenendo da decenni – analoghe spinte da Euskadi e Galizia...

Catalogna: la dignità contro la vergogna. Una grana per l’UE e le oligarchie (di Rete Dei Comunisti, 2 ottobre 2017)
... Certamente il movimento indipendentista catalano è composito: si va dalle correnti anarchiche e comuniste ai socialdemocratici fino ai liberali e ai democristiani. Ma lo scontro per l’egemonia è aperto, e la sinistra anticapitalista ha molte carte da giocare, potendo contare su una radicalizzazione dello scontro e su una popolazione che sperimenta la disobbedienza, la mobilitazione permanente e in alcuni casi anche la creazione di un contropotere nazionale ma anche di classe...

La secessione catalana: un’analisi economica e finanziaria (di Senza Soste, 2 ottobre 2017)
... una cosa sembra chiara: senza una visione chiara di quale modello economico promuovere, e quale sistema politico a supporto, a sinistra ci vuole la giusta cautela in questa vicenda.

Austerity and Secession (GFP 2017/10/02)
... Catalonia has accumulated the largest debts of all of the Spanish regions - €60.4 billion, approx. 30 percent of Catalonia\'s GDP.[9] This sharp rise in debts, generated by austerity and the crisis, have become a separate issue in the Madrid/Barcelona dispute. Catalan politicians threaten to refuse to accept responsibility for Catalonia\'s share of Spain\'s debts, if the region secedes...
ORIG: Austerität und Sezession (GFP 02.10.2017)
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59687

C. Black: \"L\'ipocrisia e l\'immoralità della NATO è palese e visibile al mondo ogni giorno\" (di Alessandro Bianchi, 02/10/2017)
Christopher Black, , esperto di diritto internazionale, all\'AntiDiplomatico: \"L’indipendenza della Catalogna spaccherebbe ancora di più le forze lavoratrici spagnole come blocco e indebolirebbe le loro rivendicazioni in termini di diritti e Welfare\"...
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-c_black_lipocrisia_e_limmoralit_della_nato__palese_e_visibile_al_mondo_ogni_giorno/5496_21628/

Parlamento europeo riconosce legalità referendum in Catalogna (1.10.2017)
Il referendum d’indipendenza della Catalogna è legale, ma tali attività vanno tenute con il consenso delle autorità centrali, ritiene il leader del partito dei “Verdi” austriaco, il vice presidente del Parlamento Europeo Ulrike Lunacek...
https://it.sputniknews.com/mondo/201710015090533-referendum-Catalogna-Parlamento/

La democrazia popolare torna a vivere in Catalunya (di Redazione Contropiano, 1 ottobre 2017)
... si arriva a negare con la forza il diritto di esprimersi con il voto all’interno dell’Unione Europea e con il pieno appoggio della tecnoburocrazia di Bruxelles, degli Stati nazionali e di tutte le forze di governo nei vari paesi dell’Unione. E’ una contraddizione che vede dichiarare “illegale” la richiesta di far esprimere un intero popolo con il voto. Ovvero con l’unica caratteristica residua del concetto di “democrazia” sbandierato da cancellerie e televisioni...

La independencia catalana: cinco cosas para pensar (TONY CARTALUCCI, 1 Oct 2017)
1. Cataluña tiene una formidable economía industrializada...
2. La OTAN pareciera estar ansiosa por alentar la independencia y le daría la bienvenida a lo que ellos esperan sería una capacidad militar robusta para agregarle a sus guerras de agresión global.
Un artículo publicado por el Atlantic Council (un think-tank de la OTAN financiado por los Fortune 500) de 2014 titulado “Las implicaciones militares de la secesiones catalana y escocesa” [ http://www.atlanticcouncil.org/blogs/defense-industrialist/the-military-implications-of-scottish-and-catalonian-secession ] ...
3. Los políticos catalanes pro-independencia parecen apoyar de forma entusiasta el ingreso de Cataluña a la OTAN.
4. Algunos políticos catalanes han comenzado a planificar su integración en la OTAN.
5. Como “Kurdistán”, cualquier tipo de “independencia” pierde todo significado si el Estado resultante se encuentra a sí mismo profundamente dependiente e imbricado...
http://www.investigaction.net/es/la-independencia-catalana-cinco-cosas-para-pensar/
ORIG.: Catalan Independence: 5 Things to Think About (by TONY CARTALUCCI, 1 Oct 2017)
Catalan independence can be good or bad - it depends on the Catalan people to make it good, or else it likely will be bad...
https://landdestroyer.blogspot.it/2017/10/catalan-independence-5-things-to-think.html

Catalogna: autodeterminazione e prospettiva repubblicana e federale secondo i comunisti (di Alessio Arena, 30/09/2017)
Intervista a Nuria Lozano Montoya, responsabile statale del settore plurinazionalità di Izquierda Unida ed esponente del Bloc de Comunistes de Catalunya...
https://www.lacittafutura.it/esteri/catalogna-autodeterminazione-e-prospettiva-repubblicana-e-federale-secondo-i-comunisti.html

Si al referendum a Catalunya: “vivere vuol dire prendere partito” (di Andrea Quaranta, 30 settembre 2017)
... la nuova Repubblica rappresenterebbe anche una straordinaria opportunità per riaprire il dibattito sulla natura dell’Unione Europea e per la costruzione di uno spazio politico continentale finalmente irriducibile alle esigenze del capitale finanziario e imperialista...

Intervista al Segretario dei Comunisti Catalani alla vigilia del voto del 1° Ottobre (settembre 29, 2017)
Intervista al Segretario politico dei Comunisti Catalani – Partito Comunista dei Popoli di Spagna (PCPE), Albert Camarasa... \"Il diritto all’autodeterminazione è un nobile obiettivo che noi comunisti incorporiamo nelle nostre tesi. E’ stato un diritto promosso dall’Unione Sovietica e i successivi paesi socialisti. Ma che si condivida l’obiettivo non vuol dire che si condiva il cammino per raggiungerlo. Oggi ci sono due vie verso l’autodeterminazione, una fattibile e l’altra che non porta ad essa. L’indipendentismo sta scegliendo la seconda... L’unica via fattibile in cui si può applicare l’autodeterminazione per la Catalogna è quella che passa per rovesciare la classe borghese dominante che detiene il potere in Spagna. Con la presa del potere da parte della classe operaia si distruggeranno le basi materiali che perpetuano l’oppressione nazionale e la Catalogna potrà esser ciò che decidono liberamente i catalani.\"
http://www.lariscossa.com/2017/09/29/intervista-al-segretario-dei-comunisti-catalani-alla-vigilia-del-voto-del-1-ottobre/

Catalogna è Europa (carta di Laura Canali, 22.9.2017)
L’economia della comunità autonoma catalana ha una dimensione prevalentemente europea. Un dato che Barcellona non può sottovalutare in ottica secessionista...

Per la Repubblica Federale, Democratica e Solidale (di Ginés Fernández González, direttore di “Mundo Obrero”, 19 settembre 2017)
... per potere costruire un nuovo paese dobbiamo rompere con due vincoli: l\'UE e l\'euro, e il Regime del 78. Recuperare la sovranità e realizzare la rottura democratica rispetto ai contesti che impediscono qualsiasi processo di trasformazione sociale al servizio dei lavoratori e delle lavoratrici e del popolo. Di fronte alla restaurazione borbonica, abbiamo detto, rottura democratica repubblicana. Di fronte alla rigenerazione, rivoluzione democratica... proponiamo un processo costituente che presupponga la rottura con la situazione economica, sociale e istituzionale che ha sostenuto il sistema monarchico dal 1978 e che ci porti a una nuova Costituzione sulla base della democrazia partecipativa...

The Military Implications of Scottish and Catalonian Secession (by JAMES HASIK, AUGUST 26, 2014)
... NATO members should treat neither case lightly, but the independence of Catalonia would pose fewer military problems for the alliance than that of Scotland...

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Tra i nostri post passati relativi a questione catalana e dintorni raccomandiamo in particolare:

La Serbia accusa l\'Unione Europea di ipocrisia sull\'indipendenza catalana (Visnjica broj 998 su JUGOINFO)

Il cortocircuito della Catalogna (di Andrea Martocchia, 1.10.2017)
pubblicato anche su Contropiano e Marx21:

La vertigine catalana (rassegna JUGOINFO del 30.9.2017)
1) George Soros finanzia l’indipendentismo catalano / George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana
2) A proposito del referendum in Catalogna (George Gastaud, PRCF)
3) Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»
4) L’Unione Europea contro la Catalogna: bene censura e repressione (M. Santopadre)
5) Indipendenza della Catalogna e lotte di classe: intervista a Quim Arrufat (Cup)

Interpretazioni divergenti della questione catalana (rassegna JUGOINFO del 26.9.2017)
0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone


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1Živadin Jovanović

Dietmar Hartwig, former head of the EU (EEC) Monitoring Mission in Kosovo and Metohija (ECMM) in his 2007 warning letter:
“MERKEL RESPONSIBLE FOR KOSOVO PRECEDENT AND DIVIDING SERBIAN PEOPLE”

It seems that the recent developments in Europe, and in particular the push of secessionism (Catalonia), rings a bell, or rather is reminiscent of certain events. The ensuing ones are shedding more light on the roles of the EU (EEC), the USA and Germany. To what extent have they been guided by the principles of the international law and democracy in the Kosovo crisis? How much did they appreciate the reports of their (expensive) missions in Kosovo and Metohija (КDОМ, КVМ, ЕCMM) depicting the realities on the ground? To what extent have they been defending the right to self-determination and human rights and to what extent abusing separatism for expansion of geopolitical interests? 

As strategies are slow to evolve, recollections of the past may help better understanding of the interests and roles of the EU in the ongoing Kosovo negotiations in Brussels. 

Over a longer period of time, the leading members of both NATO and the EU have been supporting the terrorist KLA in Kosovo and Metohija. Allied, they launched an armed aggression against Serbia (the FRY) in 1999 which, pursuant to the same principles of the international law  (eagerly invoked these days by the EU officials), was tantamount to a crime against peace and humanity! To sum it up, the countries and integrations whose spokespersons swear to this day that they have always been upholding the same principles and rule-based policies, back in 1999 had provoked the strongest blow to the global legal order and to the United Nations since the end of World War II. The policies pursued by governments of those countries and by integrations thereof during the Yugoslav and the Kosovo crises have stimulated the spread of secessions, the expansion of Islamic extremism, Wahhabism and terrorism in Europe and the rest of the world. By disregarding and violating the principles enshrined in the Helsinki Final Act, in the UN Charter and in international conventions and treaties, they have induced a lasting instability in the Balkans as the most vulnerable part of Europe. Presently, they are exerting pressure against Serbia, the one they have been demolishing, deceiving and humiliating by recognizing the forcible capture of her state territory in the form of an engineered unilateral and illegal secession of Kosovo, and requesting that Serbia erases it all from track-record and forgets it all “for the sake of her European future”! What kind of future could possibly be built upon such foundations!?

The separatist and terrorist genie that the leading countries of NATO and the EU have unleashed from the bottle in Kosovo and Metohija back in 1998/99 for the purpose of furthering the geopolitical goals of the USA and some European powers, such as Germany and the UK, for example, keeps spreading over Europe, while the EU and NATO believe they would be able to push it back into the bottle and clear they names and revive their dented unity by scarifying once again (interests of) Serbia! The real tragedy for Europe is the reasoning that truth is only what the EU commissioners and spokespersons declare to be the truth. The dominance of such reasoning is preventing the genuine understanding of historical maelstrom that has engulfed the Old Continent!

“War on the FRY was waged to rectify an erroneous decision of General Eisenhower from the Second World War. Therefore, due to strategic reasons, the U.S. soldiers have to be stationed there.” This quote was the explanation given by American representatives at a NATO conference held in late April 2000 in Bratislava, and noted by Willy Wimmer, former State Secretary in the German ministry of Defense, in his report to Chancellor Gerhard Schroeder dated 2 May 2000.

The first point in this report is an explicit U.S. request that its allies (NATO members) recognize ‘independent state of Kosovo’ as soon as possible, whereas the tenth, last point, reads that ‘the right to self-determination takes precedence over all others”. Should one wonder any further about the present referendum on secession of Catalonia?

Wimmer’s report also notes the U.S. declared position at the Bratislava Conference was that the 1999 NATO attack on Yugoslavia without UN SC authorization is ‘a precedent to be invoked by anyone at any time, and which is going to be invoked’. This renders any allegations of a principled and rule-based policy utterly dubious, when the aggression executed in violation of the UN Charter is declared to be a precedent, and the unilateral secession of Kosovo directly resulting from such aggression is declared to be ‘a unique case’?!

In the eve of NATO 1999 aggression on Yugoslavia two major international missions had been placed in the Province of Kosove and Metohija. One was under auspices of OSCE known as Kosovo Verification Mission (KVM), headed by American diplomat William Walker and the other under the auspices of EEC (EU) known as European Community Monitoring Mission (ECMM), headed by German diplomat Dietmar Hartwig. The later conveyed the often repeated assessment of the leader of KVM and his entourage that:  “There is no such thing as high costs to deploy NATO in Kosovo. Any cost is acceptable.”

After Kosovo Albanian leadership declared unilateral illegal secession in 2006, Dietmar Hartwig in 2007 sent four letters to the German Chancellor Angela Merkel urging her that Germany should not recognize such unilateral act.  In his letter of October 26, 2007 to Chancellor Merkel, Hartwig, among other points, says: “Not a single report (of ЕCMM) submitted from late November 1998 up to the evacuation (of ЕCMM, KVM) just before the war broke out (1999), contains any account of Serbs having committed any major or systematic crimes against Albanians, and not a single report refers to any genocide or similar crimes… Quite the contrary, my (ECMM) reports have repeatedly communicated that, considering the increasingly more frequent KLA attacks against the Serbian executive authorities, their law enforcement kept demonstrating remarkable restraint and discipline. This was a clear and persistently reiterated goal of the Serbian administration - to abide to the Milošević-Holbrooke Agreement (of October 13,1998) to the letter so not to provide any excuse to the international community for an intervention. In the phase of taking over the Regional Office in Priština, colleagues from various other missions – KDOM, U.S., British, Russian, etc. – confirmed that there were huge ‘discrepancies in perception’ between what said missions (and, to a certain degree, embassies as well) have been reporting to their respective governments and what the latter thereafter chose to release to the media and the public of their respective countries. This discrepancy could, ultimately, only be understood as an input to general preparations for war against Kosovo/Yugoslavia. The fact is that, until the time of my departure from Kosovo, there has never happened anything of what have been relentlessly claimed by the media and, with no less intensity, the politics, too. Accordingly, until 20 March (1999) there was no reason for military intervention, which renders illegitimate any measures undertaken thereafter by the international community.”

“The collective behavior of the EU Member States prior to, and after the war broke out, certainly gives rise to a serious concern, because the truth was lacking, and the credibility of the international community was damaged. However, the matter of my concern is exclusively the role of the FR of Germany and its role in this war and its political objective to separate Kosovo from Serbia…”

“The daily political news reporting over the previous months (before October 2007) made it progressively more evident that Germany not only supports the American desire to see Kosovo independent, but also actively engages on its own in dividing the Serbs…You are to be considered responsible for this. The same goes for your foreign minister, in particular, who knows perfectly well what is going on in Kosovo, and is presently pursuing your political directives by tirelessly advocating Kosovo’s independence and, thus, its secession from Serbia. Instruct him, rather, to promote a durable solution for the Kosovo issue which is in line with the international law… It is only if all states choose to observe the applicable rights, we can have the foundations for the common life of all nations. Should Kosovo become independent, it will be perpetuated as the place of restlessness… Contribute to achieving the solution for Kosovo on the basis of the endorsed UNSC Resolution 1244 pursuant to which Kosovo remains a province of Serbia. American wishes and active efforts to see Kosovo secede from Serbia and see Kosovo and Kosovo Albanians achieve full independence, are contrary to the international law, politically deprecated and, on top of all, irresponsibly expensive…”

“Kosovo’s secession from Serbia guided by ethnic criterion would constitute a dangerous precedent and a signal for other ethnic communities in other countries, including in EU Member States, who could rightfully request the‘Kosovo solution’” – says Dietmar Hartwig in concluding his letter to Chancellor Merkel.
Enough said about the ‘humanitarian intervention’ and the concerns for the protection of rights of the Albanian population as the features of the “uniqueness of the Kosovo case”. American Military base “Bondsteel” in the vicinity of the town of Uroševac, surely by a pure chance, happens to be among the largest U.S. military bases outside the U.S.A! Perhaps their anxiety over being potentially spied on from the Serbian-Russian Humanitarian Center in Niš merely confirms that the “Bondsteel’s” ’mandate’ is strictly local, humanitarian and just for short time?!

It was the U.S.A, the EU and NATO, not Serbia, who froze the conflict following the armed aggression of 1999. They and kept it frozen for the past 18 years by not allowing complete implementation of UN SC resolution 1244. The forced Serbia to fulfill all its commitments insisting on the legally obliging character of the resolution while exempting themselves and the Albanians from any obligation stated therein. They realize that the full implementation of UNSC Resolution 1244 equaled preservation of integrity of Serbia, which is exactly what they do not want since it goes against their geopolitical concept of expanding to the East. Especially now, when the West is undergoing a transition from which it may not emerge as mighty as it was during the uni-polar world order. 

At the present the West demands that Serbia ‘unfreezes’ Kosovo “independence procerss”. How? By compelling Serbia to sign a ‘legally binding agreement’ with Priština, to recognize a illegal unilateral secession, legalize illegal 1999 aggression, accept the consequences of violent ethnic cleansing of over 250.000 Serbs from Kosovo and Metohija and essentially assume responsibility for all that!

1The Author is President of the Belgrade Forum for a World of Equals, Federal Minister for Foreign Affairs of FR of Yugoslavia (1998-2000)



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ORIG: Die Ökonomie der Sezession (II) (GFP 05.10.2017)

Siehe auch den ersten Teil: Die Ökonomie der Sezession (I) (GFP 04.10.2017)
Separatisten in diversen EU-Staaten begreifen das Sezessionsreferendum in Katalonien als Ansporn und intensivieren ihre Aktivitäten. Bereits am 22. Oktober werden die beiden reichsten Regionen Italiens, die Lombardei und Venetien, je ein eigenes Referendum über eine Ausweitung ihrer Autonomie gegenüber der Regierung in Rom abhalten. Zentrale Ursache ist wie in Katalonien das Bestreben, den eigenen Wohlstand zu wahren und die Umverteilung ihrer Steuergelder an ärmere Gebiete insbesondere im Süden des Landes zu reduzieren oder zu beenden. Identische Motive befeuern Sezessionisten im niederländischsprachigen Teil Belgiens, in Flandern..

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The Economy of Secession (II)
 
2017/10/05
BERLIN/BARCELONA/MILAN/ANTWERP
 
(Own report) - As can be seen in an analysis of the separatist movements in Catalonia, Lombardy and Flanders, the deliberate promotion of exclusive cooperation between German companies and prosperous areas in countries with impoverished regions has systematically facilitated the autonomist-secessionist movements in Western Europe. According to this study, Flanders, as well as Lombardy - two already economically prosperous regions - have been able to widen the gap between themselves and the impoverished regions of Belgium and Italy, also because they have played an important role in the expansion of the German economy, the strongest in the EU. Through an exclusive cooperation with the state Baden Württemberg, Catalonia and Lombardy have been able to expand their economic lead over more impoverished regions of Spain and Italy, which has spurred their respective regional elites to seek to halt their financial contributions for federal reallocations through greater autonomy or even secession. The consequences of deliberate cooperation - not with foreign nations - but only with prosperous regions, can be seen with Yugoslavia.
\"Strong Germany, Strong Antwerp\"
Flanders, the Dutch-speaking region of Belgium, whose separatism has long been one of the strongest secessionist movements in the EU, is particularly benefiting from its close cooperation with Germany. The Federal Republic of Germany is the most important market for Flemish exports. €50 billion of Flanders\' €302.4 billion in total exports, last year, were to customers in Germany.[1] German investors are among the most important in the region. The port of Antwerp, Europe\'s second largest, after Rotterdam, is the centerpiece of German-Flemish economic relations. Its significance to Germany\'s export economy is demonstrated by the fact that, in 2015, nearly one third of the 214 million tons - 68 million tons - transshipped from the port had originated in or was shipped to Germany. Numerous German companies, for example, BASF and Bayer have invested billions in the Antwerp Port. Years ago, a representative of the Antwerp Port in the Federal Republic of Germany proclaimed that \"without a strong Germany, there can be no strong Antwerp.\"[2] Because the German economy is benefiting from the EU and the euro zone and is flourishing uninterruptedly, Flanders\' economy is also growing more strongly than its southern Belgium counterpart, Wallonia, oriented more on France. This is why the prosperity gap in Belgium is growing, fueling a secessionist drive.
\"Focused on Germany\"
Lombardy, Italy\'s most prosperous region also derives special benefit from its relations with Germany. With its nearly €40 billion trade volume, Germany is Lombardy\'s most important trade partner. Lombard companies are traditionally \"focused on cooperation with southern Germany,\" considered \"their gateway to northern and eastern Europe,\" according to experts.[3] Conversely, this region is German companies\' main point of departure for Italy. It absorbs approximately one third of the German exports entering the country. Of the approximately 3,000 German companies with subsidiaries in Italy, nearly half are settled in Lombardy. Top-ranking German companies, such as BASF, Bayer, Bosch, BMW, Deutsche Bank, SAP and Siemens, among others, have their Italian headquarters in or near Milan.[4] Unicredit, Italy\'s largest bank, which had absorbed Munich\'s Hypovereinsbank in 2005, is also based in Mil

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Dello stesso autore raccomandiamo anche la lettura del saggio in cinque parti:

Perché l\'uscita dall\'euro è internazionalista

Parte Prima. L\'ideologia dominante è il cosmopolitismo non il nazionalismo 
http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/notizia/Economia/2017/3/24/49123-perche-luscita-dalleuro-e-internazionalista-intervento-di/
http://contropiano.org/fattore-k/2017/07/04/perche-luscita-dalleuro-internazionalista-093581
http://www.resistenze.org/sito/os/ep/osephc27-019036.htm
Parte Seconda. Nazione, Stato e imperialismo europeo
http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2017/6/20/49642-perche-luscita-dalleuro-e-internazionalista-intervento-di/
https://www.sinistrainrete.info/europa/10046-domenico-moro-perche-l-uscita-dall-euro-e-internazionalista-2.html
http://contropiano.org/fattore-k/2017/07/10/perche-luscita-dalleuro-e-internazionalista-parte-ii-093776
http://www.resistenze.org/sito/os/ep/osephf20-019337.htm
Parte Terza. Oltre il rifiuto del politico. L\'euro come anello fondamentale del recupero della lotta politica

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Quale antifascismo nell’epoca dell’euro e della democrazia oligarchica?

Pubblicato il 1 ott 2017

di Domenico Moro
Sul fascismo e sulla polemica sui recenti provvedimenti di legge credo sia necessaria qualche precisazione. Ogni provvedimento formale di legge che vada contro simboli e organizzazioni fasciste, più o meno espliciti, va accolto con favore e anzi caldeggiato. È in atto una rinascita di questo tipo di organizzazioni, che rappresentano, comunque e sempre, un grave pericolo. Queste organizzazioni, anche se hanno, almeno per il momento, prospettive limitate, possono prosperare nel clima di crisi e di peggioramento delle condizioni sociali che si sta affermando. Di fatto, esse non rappresentano agli occhi di chi ha il potere vero, quello economico, una opzione credibile di gestione complessiva del sistema, ma sono sempre un pedone della scacchiera che si può usare, e si usa già oggi strumentalmente, per distrarre l’attenzione delle masse verso pericoli fittizi, creare confusione e accentuare le contraddizioni presenti all’interno delle classi subalterne. Premesso questo, il termine fascismo è usato da tempo estensivamente, per definire varie forme di autoritarismo e/o violenza politica. Se questo è più o meno comprensibile sul piano della polemica politica, tuttavia non mi sembra molto utile ai fini della comprensione della realtà, delle sue specificità attuali e quindi della capacità di sviluppare una lotta efficace sulla distanza.
Come vedremo più avanti, l’antifascismo è oggi, forse più che negli anni ’60 e ‘70, la base necessaria a una politica di sinistra e di perseguimento degli interessi delle classi subalterne. A patto, però, di capire le differenze e soprattutto le analogie con l’oggi del fascismo storico e della forma fascista di governo e di non restringere la funzione dell’antifascismo al contrasto (per quanto necessario, lo ripetiamo) a simboli e gruppi più facilmente identificabili direttamente con quella tradizione.

 

  1. Specificità del fascismo
Sono diverse le forme di governo che, pur non essendo assimilabili al fascismo, sono autoritarie e fanno uso di violenza più o meno esplicita e diffusa. Sarebbe bene chiarire che il fascismo, inteso come forma specifica di governo politico, non è solamente o specificatamente caratterizzato da autoritarismo e violenza. In primo luogo, nel modello fascista queste caratteristiche sono spinte agli estremi e sono esplicitate in modo aperto, attraverso una contro-mobilitazione di massa e l’organizzazione di unità paramilitari. Non è di poco conto che nel fascismo il Parlamento sia progressivamente abolito (dalla legge Acerbo che assegnava i due terzi dei voti alla lista che avesse ottenuto un quarto dei voti nel 1923, fino alla trasformazione del Parlamento in Camera dei fasci e delle corporazioni nel 1939), che siano eliminati partiti, sindacati, elezioni, libertà di stampa, divisione dei poteri, ecc. e che esistano milizie paramilitari fasciste istituzionalizzate. Soprattutto, tali caratteristiche hanno un segno sociale preciso: sono dirette per conto dell’élite del capitale contro i subalterni, in particolare contro il movimento dei salariati – sindacati, partiti, organizzazioni di vario tipo -, allo scopo di disarticolarne la capacità di resistenza. In secondo luogo, il fascismo è il prodotto necessario di una fase storica ben precisa e per certi aspetti diversa da quella attuale, a partire dal livello dei rapporti di produzione capitalistici, una fase in cui l’accumulazione e le imprese operano soprattutto su base nazionale, mentre oggi operano in gran parte su una base multinazionale. Il fascismo è stata la forma della lotta di classe e della riorganizzazione dell’accumulazione da parte dell’élite del capitale nazionale in un periodo di crisi e di capitalismo autarchico e non globalizzato, in cui prevalgono gli imperi territoriali a base nazionale e non l’imperialismo delle multinazionali, in cui esistono una alternativa reale di sistema nell’Urss e forti organizzazioni socialiste e comuniste in Occidente. Non da ultimo, è un sistema sorto dopo una guerra spaventosa, in paesi sconfitti o consumati da questa (e dalla crisi del ’29), come la Germania e l’Italia, e in cui ci si prepara al regolamento dei conti del secondo round, la guerra europea tra imperi (senza preoccuparsi di far esplodere il debito pubblico) e non a una sorta di nuovo “Grande gioco” delle guerre per procura contro Paesi terzi. Tanto per non fare confusioni, il fascismo è stata la forma di governo di paesi imperialisti, centrali nel sistema economico mondiale, ed è ben diverso, ad esempio, dalle dittature militari del Sud America o di Paesi africani o asiatici periferici, generalmente espressione di borghesie dipendenti (la borghesia compradora) o direttamente degli interessi dei Paesi imperialisti dominanti.

 

  1. Analogie e differenze tra l’oggi e il periodo fascista
Oggi, il modello egemone di dominio di classe, proprio nei Paesi imperialisti e dominanti, è quello, secondo la definizione di Agamben, della democrazia governamentale, in cui l’esecutivo prevale sul parlamento, o, secondo un’altra definizione possibile, della democrazia oligarchica. Del resto, l’analogia dell’attualità con il fascismo sta nel fatto che esso, analogamente alla democrazia oligarchica, è espressione diretta – l’uno senza mediazioni di classe, l’altra con mediazioni ridotte e addomesticate – del dominio del vertice del capitale industriale e bancario. Gli strumenti, però, sono diversi, perché la fase di sviluppo del capitale è diversa. Oggi, i meccanismi democratici formali sono conservati, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra, sempre però sul piano formale e non sostanziale, sui diritti civili, a copertura del drastico peggioramento delle condizioni materiali e democratiche della maggioranza della popolazione. Tuttavia, il dominio di classe è tanto più saldo quanto più i suoi meccanismi appaiono “neutrali” e “oggettivi”. I meccanismi della “lotta di classe democratica”, il patto sociale tra capitale e lavoro salariato, sancito dalle Costituzioni antifasciste dopo la seconda guerra mondiale, è saltato. È saltato grazie non alla violenza aperta ma grazie a una serie di modifiche, all’apparenza democratiche, e presunte neutrali e necessarie dal punto di vista della sostenibilità economica (l’”eccesso” di debito pubblico e quindi di spesa sociale). Queste misure si concretizzano nell’introduzione di leggi elettorali maggioritarie, nella modifica dei regolamenti parlamentari (che enfatizzano il ruolo dei decreti legge governativi sulle leggi parlamentari), e soprattutto dell’uso di meccanismi “oggettivi”, che vedono il mercato e le sue regole, al centro del processo decisionale.
Mentre in altri paesi – Usa e Regno Unito – la controrivoluzione conservatrice si è attuata senza strumenti esterni allo stato nazione, in Europa continentale, dove c’erano rapporti di forza e una storia specifici, è stata usata l’integrazione europea, cioè i trattati, i vincoli alla spesa e la gabbia dell’euro, cioè elementi “esterni” e “oggettivi”. Insomma, non c’è stato bisogno, come fece Mussolini, di porre fine prima con la violenza e poi formalmente con una legge al governo parlamentare svincolando l’esecutivo da qualsiasi limitazione, perché è stato, molto più semplicemente, bypassato. Anzi, è stato molto meglio conservarlo, con le mani legate e ridotto a camera di compensazione dei contrasti tra fazioni dell’élite, che svelare in modo aperto la natura repressiva del potere. Da questo punto di vista, il fascismo, al di là della specificità della fase in cui è sorto, ha dimostrato tutti i suoi limiti, relativi alla rigidità del processo di governo, ad esempio per la impossibilità di avvicendamento del personale di governo, e alla difficoltà di mediare tra le componenti del capitale. L’attacco ai politici, individuati come causa dei problemi (anche in questo c’è un’analogia della critica alla casta odierna con il fascismo e il suo antiparlamentarismo e la sua polemica contro i politici traditori e corrotti) è inserito all’interno di una subordinazione della politica all’economia, che poi è la subordinazione dei corpi intermedi, mentre le decisioni oggettive sono prese dai governi in consessi europei e/o internazionali.
Oggi, la diffusione a livello di massa del nazionalismo e della xenofobia sono in gran parte il prodotto dell’Europa. In parole semplici, la Le Pen è il prodotto dei Macron, o meglio di chi gli sta dietro, cioè l’élite del capitale. Pretendere di curare il male, rappresentato dalla prima, con il secondo è come curare la febbre, cioè il sintomo, inoculando altre dosi di virus, cioè con la causa. Ma c’è dell’altro, più importante. L’Europa determina la ripresa del vero nazionalismo – non quello plebeo e populista – ma quello concreto degli interessi geostrategici e economici, mediante l’aumento dei divari tra potenze europee e la riduzione della domanda interna, che accentuano la tendenza all’espansione estera. Ne consegue la modifica dei rapporti di forza pregressi e quindi l’aumento della competizione e della concorrenza, non solo tra capitali ma anche tra stati, e della aggressività militare. In sostanza si afferma, pur nel contesto della globalizzazione e dell’ideologia cosmopolita, un nuovo nazionalismo. L’aggressione della Francia contro la Libia di Gheddafi, al fine di scalzare l’Italia dal controllo di petrolio e appalti, non sono dovute Le Pen, ma al “democratico” Sarkozy, mentre lo stop alla acquisizione dei cantieri navali francesi da parte di Fincantieri non è dovuta alla nazionalista Le Pen ma a Macron, all’alfiere dell’internazionalismo liberale e dell’europeismo.

 

  1. Quale antifascismo oggi e perché è importante
Dunque, se, da una parte, va condotta una lotta contro il fascismo tradizionale e classico, utilizzando ogni strumento possibile, non va dimenticato che il problema centrale è rappresentato dalla democrazia oligarchica e dai suoi meccanismi. Questa è la forma del dominio da parte dell’élite economica, così come, negli anni ’20 e ’30, con condizioni storiche e sociali molto diverse, lo era il fascismo. La vera analogia sta nell’essere entrambi espressione diretta e immediata (sottolineo: diretta e immediata) del potere oligarchico dello strato di vertice del capitale, associato all’élite burocratica e tecnica statale (e, oggi in Europa, anche sovrastatale). La classe socio-economica che ormai quasi cento anni fa, nel ’22, trovò espressione nel fascismo oggi, mutata essa stessa, lo trova nelle forme della democrazia oligarchica e nei meccanismi dell’integrazione europea. È per questa ragione che l’antifascismo è non solo attuale, ma è ancora più attuale oggi rispetto a qualche decennio fa. Non solo e non tanto per prevenire lo sviluppo dei gruppi dichiaratamente fascisti e di estrema destra, che pure stanno rialzando la testa e vanno contrastati. E certamente non perché in Italia sia possibile una opzione fascista, scartata a favore di altre forme di soluzione delle contraddizioni sociali già negli anni ’60 e ’70, in contesti ben più “caldi” di quelli odierni. Ma perché lo strato di vertice del capitale, come negli anni ’20 e ’30 in Italia e Germania durante il fascismo, sta affermando il suo dominio senza mediazioni o con mediazioni corporative e non di classe, ricreando analoghe situazioni e meccanismi di concentrazione del potere politico all’interno e di espansione, anche aggressiva e militare, all’esterno. In entrambi i casi il sistema parlamentare è sostituito da un sistema governamentale, in cui è l’esecutivo (e all’interno di esso il premier) a dominare, egemonizzato nel fascismo dalla persona del duce o del führer (ma in Italia con una sorta di diarchia con la monarchia), oggi in modo più direttamente “elitario” e oligarchico.
Del resto, non è un caso che nel mirino della strategia di controriforma del capitale internazionale, come prova il documento The euro area adjustement: about halfway theredella banca J.P. Morgan (2013), venga indicata la necessità di modificare le costituzioni antifasciste in quanto incompatibili con l’integrazione europea (1). Non solo perché le Costituzioni sono contro il fascismo, ma soprattutto perché, essendo il prodotto della lotta contro il fascismo, esprimono contenuti che entrano in contraddizione con gli interessi dell’élite capitalistica. I gruppuscoli fascisti rialzano la testa perché annusano l’aria di cambiamento, e sentono affinità elettive con il contesto. Non si può essere antifascisti, in modo concreto e adeguato all’attualità, senza capire il ruolo non solo del neoliberismo ma degli strumenti concreti con cui si è attuato in Italia e in Europa occidentale, attraverso le leggi elettorali maggioritarie, la concentrazione del potere mediatico nelle mani dei grandi gruppi, la creazione di forme partito leggere e personalistiche, e soprattutto attraverso la leva dell’integrazione economica e valutaria europea. Non si può difendere la Costituzione o pensare alla sua attuazione senza affrontare il contesto dei vincoli europei e il fatto che il suo stesso testo è gravemente minato dall’introduzione dell’obbligo del paraggio in bilancio. Pretendere di essere antifascisti oggi senza capire tutto questo vuol dire pensare l’antifascismo soltanto come memoria storica, cosa che pure è importante, e non come componente vitale e perciò più forte del nostro essere e del nostro agire nel presente.
Il punto principale, va sempre ricordato, è sempre quello di capire la forma e le specificità del dominio (comprese analogie e differenze con il passato), per poterlo affrontare con efficacia.

Note
1 Report di JP Morgan (28 maggio 2013).



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Gabriele D\'Annunzio lo slavofobo

1) 1919, D\'Annunzio e gli slavi: \"il flutto della barbarie schiava giungerebbe su Trieste\"
2) La Repubblica di Croazia sulla celebrazione della marcia su Fiume (di Marco Barone, settembre 2017)


Si vedano anche:

La Profezia di Gabriele D\'Annunzio sul destino dello Stato jugoslavo (1920)

Inchiesta sul Monumento a D\'Annunzio ed ai Legionari in #Monfalcone: Dal fiumanesimo, al fascismo, a Gladio (2014)
Tra Ronchi e Monfalcone esiste un monumento falsamente eretto il 12 settembre 1960, dedicato ai legionari di D\'Annunzio ed a quella impresa di Fiume che per molti suoi determinanti aspetti ha anticipato la marcia su Roma e le violenze che hanno subito in primis le popolazioni di quella che oggi chiamiamo ex Jugoslavia..Dopo diversi mesi di analisi di diversi documenti e non solo, nasce l\'inchiesta sul monumento a D\'Annunzio ed ai Legionari in Monfalcone che spiega i collegamenti che sussistono dal fiumanesimo al fascismo e gladio intorno a quel manufatto ancora oggi contestato...
http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/09/inchiesta-sul-monumento-dannunzio-ed-ai.html
IL DOCUMENTO a cura di Marco Barone e Luca Meneghesso IN FORMATO PDF:


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D\'Annunzio e gli slavi: \"il flutto della barbarie schiava giungerebbe su Trieste\"

di Marco Barone, 9 ottobre 2017

19 ottobre 1919 una lettera che ha come destinatari principali i fiumani dal titolo Italia e Vita. Una lettera dove emergono concetti ed aspetti che connoteranno quell\'imperialismo italiano che porterà all\'invasione del Balcani con tutte le conseguenze nefaste che la storia ci ha ben insegnato. Una lettera, con un linguaggio semplicemente incomprensibile  in molti passaggi, e con uno stile assurdo, dove si eleva bene quel senso di disprezzo verso gli slavi che verrà rimarcata dal poeta amante della guerra in diverse occasioni. 
Un D\'Annunzio che esalta lo spirito degli italiani che hanno difeso l\'italianità di Fiume, del Carnaro, dove \"voi spiegaste nel vento del Carnaro il tricolore italiano, in faccia ai Croati che dal governatore ungaro avevano ricevuto il potere civico per inizio di quella frode più tardi proseguita sopra le navi imperiali in Pola nostra.\"
Uno spirito dell\'italianità che sarebbe stato presente in diverse località, \"per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe.\"
Rimarcando che \"l’istinto profondo della razza vi avverte che una falsa libertà è peggiore d’una servitù rivoltosa.\" 
Un D\'Annunzio che prova a giustificare il perchè della necessità di mantenere sotto il dominio italiano alcune zone strategiche: \"a settentrione di Fiume, essi debbono includere Idria, affinché la torbida Balcania non prema le spalle di Gorizia e di Tolmino. \"
Od ancora \" Come Idria, Postumia aspetta a noi. Se non la tenessimo, il flutto della gente balcanica, il flutto della barbarie schiava, giungerebbe a una ventina di chilometri dalle mura di Trieste.\"

Ed un nuovo elogio ( si fa per dire) di D\'Annunzio nei confronti degli slavi, che continua a ritenere come inferiori rispetto alla cultura latina, italiana :

\"Col distretto di Postumia lasceremmo in mano degli Schiavi meridionali il valico di Longatico, quello di Nauporto e forse quello di Prevaldo, che costituiscono da tempo immemorabile la vera Porta d’Italia, la soglia latina calcata dalle incursioni boreali e orientali dei Barbari di ogni evo.\"

Un disprezzo non politico, ma verso un popolo che connoterà quel razzismo che si scaglierà contro chi aveva come colpa  quello di non appartenere alla \"razza\" latina, italiana.
Marco Barone



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La Repubblica di Croazia dica no alla celebrazione della marcia su Fiume. Lettera all’Ambasciata

di Marco Barone, 5 settembre 2017

Alla cortese attenzione dell\'AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA DI CROAZIA
Via Luigi Bodio 74/76
00191 Roma
ITALIA E-Mail: vrhrim@...


Pregiatissimo Ambasciatore, 
la contatto in qualità di cittadino della Repubblica italiana nonché di residente nel Comune di Ronchi dei Legionari (Gorizia) in Friuli Venezia Giulia. 
La contatto poichè Lei è il massimo rappresentante della Repubblica di Croazia in Italia e deve essere informato su quanto accade puntualmente da diversi anni nel Comune di Ronchi ogni 12 settembre. 
Il 12 settembre del 1919 Gabriele D’Annunzio partì casualmente dal Comune di Ronchi per occupare militarmente la città di Fiume ( Rijeka ). Fatto storico che diversi intellettuali italiani, come Pasolini, definirono una “pagliacciata narcisistica” ed importanti storici come marcia che ha anticipato quella fascista su Roma, per gesti, modalità e ritualità. 
Impresa nazionalistica capeggiata da una persona guerrafondaia, come D’Annunzio e razzista nei confronti del popolo croato. Cosi si rivolgeva verso i croati ed il popolo slavo: \"il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato oppure (…) \" quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso\" ... oppure da Gli ultimi saranno i primi, 4 maggio 1919 (…) \"Fuori la schiaveria bastarda e le sue lordure e le sue mandre di porci!\". Concetti che saranno fatti propri dal dittatore fascista Mussolini. 
Il Comune di Ronchi deve la sua attuale denominazione, “dei legionari” proprio a quella marcia. Denominazione che venne conseguita sotto il fascismo dopo l’aver omaggiato Mussolini con la cittadinanza onoraria, cosa che è stata revocata solo recentemente. Ma la comunità di Ronchi è sempre stata complessivamente contraria ad omaggiare sia D’Annunzio che quella marcia, basta pensare che il monumento che è stato costruito per ricordare e celebrare l’occupazione militare di Fiume da parte dell’Italia per mano di D’Annunzio è stato realizzato nel confinante Comune di Monfalcone perché il Comune di Ronchi non diede la propria disponibilità stante il carattere fascista di quella marcia e la storia partigiana di Ronchi.
Il noto scrittore Boris Pahor in merito a questa vicenda nel 2014 ha avuto modo di sottolineare in sostanza che dei legionari non ha più, oggi ragione e diritto di esistere, tolta la cittadinanza onoraria a Mussolini è altrettanto naturale togliere la denominazione dei Legionari di Ronchi, ben tenendo conto anche del fatto che oggi popoli e paesi come l’Italia, Slovenia e Croazia vivono in amicizia, e che Ronchi è un territorio multietnico, multiculturale e vista anche la presenza dell’aeroporto, sarebbe il caso di accogliere, chi giunge in questi luoghi, in modo diverso e non con la denominazione dei Legionari. 
Se D\'Annunzio da alcuni viene considerato come un valore d\'Italia, per molti cittadini non lo è. Perchè razzista prima di tutto ed offensivo contro gli amici e fratelli croati. Ogni 12 settembre dei nazionalisti si riuniscono presso il monumento dedicato a D’Annunzio per la marcia di occupazione di Fiume, con anche alcune delegazioni che provengono dalla città di Fiume. Celebrazione storica ma dal chiaro connotato politico. Celebrazione a cui partecipano anche amministratori locali con la fascia tricolore a rappresentare, dunque, la Repubblica italiana. 
Perché celebrare quella marcia significa rivendicare l’italianità di Fiume. Atto totalmente irrispettoso nei confronti della Repubblica di Croazia e della città di Fiume. Atto storico e politico che certamente non corre nella direzione di favorire i rapporti tra Italia e Croazia per i motivi come succintamente esposti. 
Nel 2019 ci sarà il centenario per tale evento e circolano voci che qualcuno vorrebbe promuovere un pellegrinaggio storico/politico dal Comune di Ronchi alla città croata di Fiume per celebrare quell’occupazione militare. 
Tutte questioni che favoriscono sentimenti nazionalistici che compromettono in modo rilevante quella edificazione di una Europa di pace e fratellanza ed amicizia tra popoli che stiamo tutti insieme e con fatica cercando di realizzare. 
Tanto premesso
si chiede all’Ambasciata della Repubblica di Croazia, nella persona dell\'Ambasciatore, di sollecitare l’intervento della Repubblica di Croazia nei confronti delle autorità italiane perché non abbiano più luogo cerimonie, celebrazioni, della marcia di occupazione su Fiume e che non venga considerato più come un “valore” d\'Italia la figura di D’Annunzio stante le sue parole altamente offensive e razziste come manifestate nei confronti del popolo croato.
Confidando in un suo cortese riscontro, nel nome della fratellanza ed amicizia tra i popoli, le porgo i più cordiali saluti. 

Marco Barone 
Ronchi (Gorizia), 5 settembre 2017 

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Celebrazione di D\'Annunzio e Fiume, risponde l\'Ambasciata croata: Basta celebrazioni ci attiveremo

di Marco Barone, 18 settembre 2017

Il cinque settembre, come è noto, avevo scritto una lettera all\'Ambasciata della Repubblica di Croazia con sede in Roma in merito a quanto puntualmente ogni anno avviene in Monfalcone. Si celebra l\'occupazione militare di Fiume ed un poeta razzista nei confronti dei croati quale D\'Annunzio. Mi ero sempre chiesto ma perchè la Repubblica di Croazia tace? Probabilmente perchè non era a conoscenza di quanto accade in Italia? Per tagliare la testa al toro ho scritto la lettera di cui in premessa e mi ha risposto gentilmente ed in tempi anche rapidi il Ministro Plenipotenziario dell\'Ambasciata della Repubblica di Croazia Mladenka Šarac-Rončević. 

Questo il testo della sua risposta, come si potrà vedere chiaro, conciso: 

\"Ringraziamo della Sua mail del 5 settembre 2017. Condividiamo la Sua opinione che simili anniversari danneggiano l\'atmosfera dei rapporti amichevoli tra i nostri due paesi e che celebrarli incita sentimenti nazionalistici. L\'Ambasciata della Repubblica di Croazia a Roma da parte sua intraprenderà tutto il possibile nell\'ambito delle proprie competenze, e apprezzeremmo altrettanto il Suo ulteriore impegno nella questione. Siamo sicuri che Lei, come stimato cittadino della Repubblica Italiana, insieme ad altri Suoi concittadini, può, più di tutti, contribuire al cambiamento di tale clima e alla ancora migliore costruzione dei rapporti di buon vicinato, in particolare nelle zone multietniche adiacenti ai confini.\"

Nella mia lettera concludevo, dopo aver evidenziato che quelle celebrazioni del 12 settembre per Fiume e D\'Annunzio \"favoriscono sentimenti nazionalistici che compromettono in modo rilevante quella edificazione di una Europa di pace e fratellanza ed amicizia tra popoli che stiamo tutti insieme e con fatica cercando di realizzare\" in questo modo: chiedo all’Ambasciata della Repubblica di Croazia, nella persona dell\'Ambasciatore, di sollecitare l’intervento della Repubblica di Croazia nei confronti delle autorità italiane perché non abbiano più luogo cerimonie, celebrazioni, della marcia di occupazione su Fiume e che non venga considerato più come un “valore” d\'Italia la figura di D’Annunzio stante le sue parole altamente offensive e razziste come manifestate in modo eloquente soprattutto nei confronti dei croati.



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Roma, venerdì 13 ottobre 2017
presso il CSOA Ex Snia, Via Prenestina

nell\'ambito della settima edizione di Logos / Festa della Parola – parola di questa edizione: Rivoluzione!

*** Giornata dedicata alla Rivoluzione d’Ottobre ***

Al termine della mattina:
LUKA BOGDANIĆ (Università di Zagabria) terrà una lezione rivolta principalmente agli studenti, sul tema
\"Lenin: l\'autodeterminazione dei popoli e la Rivoluzione del 1917\"

Alle ore 18.00:
\"L’Ottobre siamo noi. L’immaginario collettivo alla prova di una data storica: cosa si sogna, oggi, quando si pensa alla Rivoluzione?\"
con LUKA BOGDANIĆ (Università di Zagabria),  Virginia Pili (curatrice de I quattro anni che cambiarono il mondo), Salvatore Ricciardi, Franco Piperno, modera Cristiano Armati 

Gli incontri con Luka Bogdanić saranno anche occasione per ricordare la figura di Jasna Tkalec, mamma di Luka oltre che nostra compagna di Jugocoord Jasna Tkalec (1941-2017: https://www.cnj.it/home/index.php?option=com_content&view=article&id=8706:jasna-tkalec&catid=30&lang=it&Itemid=206 ).



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Soros e l\'Ucraina / 3

documentazione in ordine cronologico inverso

1) Soros, sobillatore di conflitti. Il caso dell\'Ucraina (KPU, 26.9.2017)
2) Ucraina ed Europa, che cosa fare? (di George Soros, 26 settembre 2015)
3) Le lettere di Soros e il “manovratore” della crisi ucraina (di Giampaolo Rossi, 2 luglio 2015)
4) Soros: “l’Ucraina è oggi ciò che deve diventare domani l’Unione Europea” (O. Renault, 13.03.2015)


Si vedano anche:

Le ONG umanitarie (2). La rete di George Soros / SOROS IN UCRAINA (di Maria Grazia Bruzzone, 07/05/2017)

Leaked memo proves George Soros ruled Ukraine in 2014, minutes from “Breakfast with US Ambassador Geoffrey Pyatt” (ALEX CHRISTOFOROU, August 20, 2016)
http://theduran.com/leaked-memo-proves-george-soros-ruled-ukraine-in-2014-minutes-from-breakfast-with-us-ambassador-geoffrey-pyatt/
TRAD.: George Soros e la distruzione dell’Ucraina (Alex Christoforou, The Duran 20/8/2016)
Potere e controllo di George Soros sull’Ucraina di Majdan vanno oltre ogni immaginazione...
https://aurorasito.wordpress.com/2016/08/21/george-soros-e-la-distruzione-dellucraina/

Source: Soros : L’Europe doit devenir comme l’Ukraine ! (Olivier Renault pour Novorossia Vision, 13/3/2015)
A la conférence de sécurité de Munich du mois de février 2015, George Soros a fait des révélations sur ce que doivent devenir les pays de la zone euro...
http://novorossia.vision/fr/soros-l-europe-doit-devenir-comme-l-ukraine/

Siehe auch: Münchner Sicherheitskonferenz. Forderung an Starinvestor: \"Geben Sie eine Milliarde für die Ukraine, Herr Soros!\"
Samstag, 07.02.2015, 12:35 · von FOCUS-Online-Redakteurin Linda Wurster(München)
http://www.focus.de/politik/ausland/ukraine-krise/auftritt-auf-muenchner-sicherheitskonferenz-forderung-an-starinvestor-geben-sie-eine-milliarde-fuer-die-ukraine-herr-soros_id_4460280.html

Soros e l\'Ucraina / 2 (rassegna JUGOINFO 19.1.2015)

Soros e l\'Ucraina / 1 (rassegna JUGOINFO 8.1.2015)


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Soros, sobillatore di conflitti. Il caso dell\'Ucraina

26 Settembre 2017

di Partito Comunista di Ucraina

da kpu.ua

Traduzione dal russo di Mauro Gemma

“Attraverso numerosissime organizzazioni cosiddette non profit, create e finanziate da governi stranieri, in primo luogo dal Dipartimento di Stato USA, ma anche da vari “fondi caritatevoli”, come, ad esempio, il Fondo Soros, nel corso di due decenni si è attuato un intenso lavoro allo scopo di riformattare la coscienza degli ucraini, in particolare giovani, di dividere il nostro paese su basi etniche, linguistiche, religiose, di elevare il neonazismo e la russofobia al rango di ideologia nazionale... In questi anni in Ucraina è stata formata una “quinta colonna”, i cui rappresentanti si sono impadroniti delle strutture statali e degli organi di potere locale” (PETRO SIMONENKO).

Il 20 agosto nel sito web della Casa Bianca è stata pubblicata una petizione di cittadini statunitensi che chiede al presidente di dichiarare George Soros un “terrorista” e di bloccare tutti i beni delle sue organizzazioni in conformità con la “Legge sulla confisca delle proprietà dei terroristi”. Nella petizione si afferma che da Soros sono state create e finanziate decine di organizzazioni, il cui unico scopo è quello di disgregare con i metodi del terrore l\'ordine costituzionale degli Stati Uniti, di porre sotto la sua influenza le strutture del Partito Democratico e del governo federale. Le prime 100.000 firme necessarie perché l\'amministrazione presidenziale USA esamini la petizione, sono state raccolte molto prima del termine stabilito di 1 mese, scrive Capital.

Oggi riguardo a Soros, neppure i suoi più fidati (il che significa a libro paga) agenti non negano l\'evidenza dell\'aperta ingerenza del “miliardario filantropo” negli affari interni di altri stati. Tuttavia, essi trovano sempre una spiegazione nella presunta lotta di Soros per i “valori umani universali” che non avrebbero un ambito prettamente nazionale. Noi non intendiamo impegnarci in dibattiti teorici e ideologici, ma semplicemente rilevare che i “difensori dei diritti a comando”  di Soros si ritrovano regolarmente coinvolti nei processi indirizzati al rovesciamento di governi in carica in tutto il mondo.

(…) Le attività delle organizzazioni non governative finanziate da George Soros ora hanno già provocato il conflitto (con un diverso grado di asprezza) dei governi all\'interno dell\'UE di Romania, Slovacchia e Bulgaria – e anche di quelli di Serbia e Azerbaigian - con il “filantropo”.

Ma l\'ottantasettenne George Soros, ha apparentemente fiducia nella sua immortalità e continua a suscitare conflitti – dalle proteste pacifiche ai sanguinosi massacri – in tutto il mondo.

E\' difficile valutare in modo inequivocabile l\'affidabilità delle informazioni sul coinvolgimento di Soros nell\'attuale conflitto che contrappone buddisti e musulmani in Myanmar, nello stato di Rakhine, le cui cause sono da ricercare, come al solito, nella presenza del petrolio in una zona di contrasti etnici e nel desiderio di contrapporre la Cina, che ha buoni rapporti con il Myanmar, al mondo islamico.

Tuttavia, la partecipazione di Soros all\'organizzazione della “riunione solenne” di Mikho Saakashvili sul confine polacco-ucraino, non va messa in dubbio, se consideriamo l\'elenco dei principali partecipanti che, a iniziare dallo stesso ex presidente della Georgia, sono “affiliati” alle strutture del miliardario...

Si tratta, in primo luogo del gruppo georgiano, guidato dall\'ex procuratore generale aggiunto David Sakvaleridze che, come tutta la leadership georgiana dei tempi della presidenza di Mikhail Saakashvili, riceveva uno stipendio dai fondi creati da Soros (e ci sono tutte le ragioni  per affermare che il finanziamento, ora però per altri personaggi, stia continuando). Poi c\'è il gruppo degli “euro-ottimisti” guidati dai giornalisti Mustafa Nayem, Serghey Leschenko e Svetlana Zalischuk che hanno passato molti anni a utilizzare i fondi di Soros “per lo sviluppo della democrazia in Ucraina”. Qui va aggiunto anche il gruppo dei nazional-liberali del “Pacchetto di rianimazione delle riforme”, i cui leaders sono il vice speaker Oksana Syroed e la parlamentare Anna Golko, da molti anni destinatarie dei finanziamenti del fondo “Rinascimento”; la seconda assume regolarmente la funzione de facto di rappresentante di Soros nella Rada Suprema ucraina.

Anche Valentin Nalivaychenko e una serie di combattenti “sociali” contro la corruzione si rivolgono al Partito Democratico diretto da Joe Biden e Hillary Clinton, i quali prestano ascolto alle opinioni del miliardario (ovviamente in cambio di iniezioni generose di fondi elettorali).

Si può ricordare che nel 2015 il presidente Petro Poroshenko ha insignito George Soros dell\'Ordine della Libertà: “per il rafforzamento dell\'autorità dell\'Ucraina”. Ma Soros non aveva bisogno dell\'onorificenza, ma, secondo quanto egli stesso ha dichiarato, di terra ucraina da sfruttare...

“Particolare zelo nell\'intervento sul mercato dei terreni è stato mostrato da figure della cerchia dell\'ex ministro delle Finanze dell\'Ucraina, la cittadina degli Stati Uniti Natalya Yares\'ko e dall\'ex ministro dello Sviluppo Economico, il cittadino della Lituania Aivaras Abromavicius. A una veloce apertura del mercato della terra, allo scopo di concentrare in mani private le grandi proprietà terriere, sono interessate le compagnie di investimento straniere Horizon Capital e East Capital,   a cui sono direttamente legati Yares\'ko e Abromavicius.

...All\'esterno dell\'Ucraina ci sono anche altri potenti super-oligarchi interessati al sequestro delle terre ucraine. Così, il noto George Soros ha recentemente espresso il desiderio di investire, a questo scopo, 1 miliardo di dollari. Ha mostrato interesse per le nostre terre anche il fondo di investimento Rothschild, che da molto tempo può contare sulla collaborazione della famiglia di Poroshenko”.

(Dalla Dichiarazione del Presidium del CC del Partito Comunista di Ucraina)


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Ucraina ed Europa, che cosa fare?

Il finanziere e la riflessione sulle cinque crisi Ue (migranti, Grecia, euro, Ucraina, Brexit)

di George Soros, 26 settembre 2015

A causa dei difetti strutturali dell’euro, le autorità europee sono dovute diventare esperte nell’arte dell’arrangiarsi tra una crisi e l’altra. Tale pratica è conosciuta in gergo come “menare il can per l’aia”, anche se, ad essere precisi, il cane continua a ritornare indietro. Ma l’Europa ora deve affrontare per lo meno cinque crisi allo stesso momento: quattro interne - l’euro, la Grecia, i migranti e il referendum britannico sul rimanere o meno nell’UE - ed una esterna, l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina. Le varie crisi tendono a rinforzarsi vicendevolmente. Sia le opinioni pubbliche che le autorità sono sopraffatte. Che si può fare per arrestare e invertire il processo di disintegrazione? E’ ovvio che non si riesce a risolvere cinque crisi tutte allo stesso momento. Bisogna in certo modo assegnare priorità ad alcune di esse senza però trascurarne nessuna. Io ho sempre sostenuto con forza che l’Ucraina merita priorità assoluta. 

La Ue e le crisi interne


Le crisi interne tendono a dividere l’UE in paesi debitori e creditori, il Regno Unito e il resto d’Europa, nonché in paesi “arrivo” e paesi “destinazione”. D’altra parte, una minaccia esteriore come l’aggressione russa contro l’Ucraina dovrebbe unire l’UE. C’è una nuova Ucraina che è determinata a diventare l’opposto della vecchia Ucraina. La vecchia Ucraina aveva molto in comune con la vecchia Grecia, che si è rivelata così difficile da riformare: un’economia dominata da oligarchi ed una classe politica che sfruttava la sua posizione ai fini di guadagni personali piuttosto che del servizio pubblico. In contrasto, invece, la nuova Ucraina si ispira allo spirito della Rivolta di Piazza Maidan nel febbraio 2014 e cerca di riformare radicalmente il paese. Trattando l’Ucraina alla stregua di una Grecia di second’ordine, che non è nemmeno un membro dell’UE, l’Europa corre il rischio di far ridiventare la nuova Ucraina ancora una volta la vecchia Ucraina di sempre, e questo sarebbe un gravissimo errore, in quanto la nuova Ucraina è una delle risorse di maggior valore che l’Europa ha, sia per contrastare l’aggressione russa che per ritrovare lo spirito di solidarietà che caratterizzava l’Europa agli inizi. Ritengo di essere nella posizione di sostenere con forza questa tesi, dal momento che ho una profonda conoscenza della nuova Ucraina sia grazie alla mia Fondazione che al mio diretto coinvolgimento nel paese. All’inizio dell’anno ho sviluppato quella che ho chiamato “una strategia vincente per l’Ucraina” e l’ho distribuita tra le autorità europee. Ho anche descritto le linee della strategia in queste pagine. (* «A new policy to rescue Ucraine» The New York Review, 5 febbraio 2015) . Sostenevo che le sanzioni contro la Russia sono necessarie ma non sufficienti. Il presidente Vladimir Putin ha sviluppato una riuscita interpretazione dell’attuale situazione, con la quale difendersi dalle sanzioni. Sostiene infatti che tutte le difficoltà economiche e politiche che la Russia fronteggia sono dovute all’ostilità dei paesi occidentali, che vogliono negare alla Russia la sua dovuta posizione nel mondo. 

La Russia

La Russia è pertanto la vittima di tale aggressione. Questa tesi piace alla popolazione patriota, cui viene richiesto di sopportare le difficoltà in termini di instabilità finanziaria e scarsità di beni causate dalle sanzioni. In realtà, tali difficoltà rafforzano la sua tesi, e l’unico vero modo di smentire Putin è il migliorare l’equilibrio tra le sanzioni contro la Russia e l’appoggio all’Ucraina. La mia “strategia vincente” implica un’efficace assistenza finanziaria all’Ucraina, che abbinerebbe un supporto budgettario di larga scala ed un’abbordabile assicurazione contro il rischio politico, nonché vari incentivi per il settore privato. Combinate alla radicale riforma politica ed economica che la nuova Ucraina è intenzionata ad introdurre, queste misure le consentirebbero di diventare un paese interessante ai fini degli investimenti. Il cardine delle riforme economiche è la ristrutturazione di Naftogaz, azienda statale che detiene il monopolio del gas. Ci si sposterebbe dagli attuali prezzi mantenuti artificialmente bassi a veri prezzi di mercato e si introdurrebbero aiuti alle famiglie bisognose per l’acquisto del gas. Le riforme politiche sono incentrate sul creare un sistema giudiziario e dei mass-media che siano onesti, indipendenti e competenti, il lottare contro la corruzione, nonché l’istituire una pubblica amministrazione che sia al servizio della gente piuttosto che al suo sfruttamento. Queste riforme sarebbero anche gradite a una grande fetta della popolazione russa, che esigerebbe un simile approccio, e questo aspetto è precisamente quello che Putin teme. E’ proprio per questa ragione che ha tentato così radicalmente di destabilizzare la nuova Ucraina. 

Ucraina


Se gli alleati dell’Ucraina abbinassero le sanzioni contro la Russia ad un effettivo sostegno alla nuova Ucraina, non ci potrebbe essere propaganda che oscurasse il fatto che i problemi economici e politici russi non sono che il risultato delle politiche di Putin. Naturalmente, in diretta violazione dell’accordo Minsk-2 dell’11 febbraio 2015, Putin potrebbe impedire il successo della nuova Ucraina con un intervento militare di larga portata, ma ciò segnerebbe una sua sconfitta politica, esporrebbe la falsità della sua interpretazione del conflitto ucraino; inoltre, la conquista militare di parte dell’est dell’Ucraina sottoporrebbe la Russia ad un notevole onere economico e politico. Il presidente Putin ha guadagnato un temporaneo vantaggio tattico sull’Ucraina perché è pronto a rischiare una guerra di larga scala e perfino nucleare, mentre gli alleati dell’Ucraina sono determinati ad evitare il conflitto militare diretto con la Russia. Ciò gli ha consentito di alternare a suo piacimento una sorta di pace ibrida e di guerra altrettanto ibrida, ed egli ha totalmente sfruttato tale vantaggio. L’Ucraina non può prevalere militarmente sulla Russia in quanto il presidente Putin può mobilizzare sul campo di battaglia forze armate che sono maggiori e meglio attrezzate di quelle a disposizione dell’Ucraina e dei suoi alleati. Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha dovuto imparare la lezione a sue spese. Ma sicuramente l’Europa e gli USA possono superare la Russia finanziariamente. Queste considerazioni a favore di un sostegno europeo e statunitense hanno avuto un certo impatto sugli alleati dell’Ucraina ma la mia affermazione circa la loro volontà di fornire un sostegno finanziario di larga portata si è rivelata errata, almeno fino ad ora. Attribuisco questo fatto a due fattori: il primo è la crisi greca, una diretta conseguenza della crisi dell’euro ed un cattivo esempio per l’Unione Europea da seguire in Ucraina. 

L’euro

L’altro fattore è l’accordo di Minsk stesso che, per ragioni che spiego oltre, ha indotto le autorità europee a continuare a mantenere l’Ucraina in condizioni finanziarie di ristrettezza. La crisi dell’euro ha determinato una grave scarsità di fondi a scopo di budget. Il budget europeo di 145 miliardi di euro è solo all’incirca l’uno per cento del PIL degli stati membri, ma la crescita dell’Europa è assolutamente minima e i gli stati membri stanno ventilando di ridurre i propri contributi al bilancio europeo. La carenza di fondi si fa sentire più acuta nella zona euro, che non ha un bilancio a sè stante. Le autorità europee, sotto la guida della Germania, hanno mal gestito la crisi greca; all’inizio hanno erogato prestiti di emergenza a tassi di interesse molto elevati, hanno imposto il loro programma di riforme e lo hanno micro gestito invece di lasciare che fosse la Grecia stessa a prendersi la responsabilità ed il controllo delle riforme - e sempre i prestiti sono risultati inadeguati nell’ammontare ed erogati troppo tardi. Le autorità greche non sono peraltro esenti da responsabilità, anche se la colpa principale rimane della Germania, in funzione della sua leadership. Il debito nazionale greco è diventato insostenibile ma le autorità europee non sono disposte a ridurre i loro prestiti alla Grecia. Su questo punto, una disputa tra gli stati membri e il Fondo Monetario Internazionale ha fortemente complicato le negoziazioni recenti ed attuali. Le autorità hanno corretto alcuni dei loro errori, quali ad esempio l’insistenza nel richiedere il “bail in”, la riduzione del valore dell’obbligazione, piuttosto che il “bail out”, il salvataggio. Ma continuano a ripetere altri errori. Il più grave di questi è stato il trattare l’Ucraina come fosse la Grecia. La nuova Ucraina sta cercando di essere il contrario della Grecia e, nonostante non sia uno stato membro, sta attivamente difendendo l’Unione Europea contro la minaccia militare e politica russa. Come ho sostenuto nella mia proposta originale per una strategia vincente, gli aiuti all’Ucraina dovrebbero essere considerati a stregua di spese per la difesa. In questa luce, l’attuale contributo di 3.4 miliardi di euro da parte dell’UE al pacchetto di aiuti del FMI a favore dell’Ucraina è assolutamente inadeguato. 

Lo strumento fiscale Ue


L’UE ha lo strumento fiscale adatto (il meccanismo dell’assistenza macro finanziaria) che, una volta apportate le necessarie modifiche, potrebbe venire utilizzato per superare la mancanza di fondi nel bilancio europeo. Tale meccanismo consente all’UE di prendere fondi a prestito sui mercati finanziari, utilizzando il suo quasi inutilizzato rating a tripla A. Il budget dell’UE deve stanziare solo il 9% dell’ammontare dei prestiti all’Ucraina come riserva non cash obbligatoria a fronte della possibilità di una futura inadempienza. A paragone, le regole di bilancio statunitense prevedono un 44% di riserva non cash obbligatoria sulla recente garanzia sul credito di 1 miliardo di dollari che gli USA hanno fatto all’Ucraina. Pertanto l’onere di budget sul contributo di 2 miliardi di dollari al pacchetto di aiuti del FMI è in realtà più grande di quello dell’UE. Ma l’accordo sul meccanismo di assistenza macro finanziaria è scaduto nel 2009, coll’introduzione del trattato di Lisbona, e necessita di essere rinnovato per un uso su più larga scala. Lo stanziamento dell’1 per cento del bilancio europeo a favore della difesa dell’Ucraina sembra adeguato; ciò consentirebbe all’UE di contribuire fino a 14 miliardi di euro all’anno al pacchetto di aiuti del FMI ed il contributo sarebbe sufficiente a che l’Europa possa fare “tutto ciò che è necessario” a sostegno del successo ucraino. L’accordo Minsk-2 del febbraio 2015 ha fatto seguito ad una pesante sconfitta inflitta all’Ucraina da parte dei separatisti, largamente assistiti dalla Russia. L’Ucraina cercava un cessate il fuoco e ha negoziato in condizioni di coercizione. 

L’accordo Minsk-2 


L’accordo Minsk-2 garantiva uno stato speciale alle enclave separatiste nella regione del Donbass nell’est dell’Ucraina e prevedeva anche che l’Ucraina le sovvenzionasse. Il presidente Putin seppe sfruttare il suo vantaggio e mantenne deliberatamente ambiguo il testo dell’accordo, che richiedeva che il governo ucraino negoziasse con rappresentanti della regione del Donbass, pur senza precisare chi fossero. L’accordo fu firmato dai presidenti Putin, Poroshenko e François Hollande nonché dalla Cancelliera Angela Merkel. Ciò costituì una trappola per questi ultimi due, che volevano che un accordo che portasse le loro firme tenesse; in caso di fallimento, doveva essere la Russia ad esserne responsabile, non l’Ucraina. Erano anche ansiosi di evitare il confronto militare. Questo atteggiamento li portò a tollerare violazioni della tregua da parte dei Russi e dei separatisti e, nel mentre, insistere che l’Ucraina dovesse seguire gli accordi presi alla lettera. Nell’assumere una posizione neutrale sulla questione del come il presidente Poroshenko avrebbe potuto rispettare le richieste dell’ambiguo accordo, Hollande e la Merkel hanno di fatto rinforzato il vantaggio di Putin. Dopo il raggiungimento dell’accordo, l’Ucraina ha sfiorato il collasso finanziario a causa del ritardo con cui fu erogato, l’11 marzo 2015, il secondo pacchetto di aiuti finanziari del FMI. Il punto massimo della crisi fu raggiunto in febbraio, quando il popolo ucraino perse la fiducia nella moneta nazionale, la grivnia. Le transazioni ufficiali vennero sospese e la quotazione in quel momento sul mercato nero era tra 30 e 40 grivnie per un dollaro. Da allora, la moneta ha recuperato e ora il valore è di circa 20-25 grivnie per un dollaro. 

Fattori economici

Una precaria stabilità finanziaria è stata pertanto ristabilita, ma solo al prezzo di una accelerata contrazione economica. Il crollo improvviso del valore di scambio ha comportato un aumento dell’inflazione, il peggioramento della qualità di vita e un sostanziale calo delle importazioni; questo ha influito positivamente sulla riduzione del deficit import/export. Contemporaneamente il bilancio ha risentito positivamente delle minori spese in oneri sociali per la popolazione e stipendi per la pubblica amministrazione. Quando ho visitato l’Ucraina lo scorso aprile, ho notato un’allarmante contraddizione tra la realtà oggettiva, che stava chiaramente deteriorando, e lo zelo riformista della nuova Ucraina che era sotto enorme pressione economica, politica e militare ma che ancora procedeva con le riforme, che stavano raggiungendo effetti cumulativi. Durante il 2014 il programma di riforme per una nuova Ucraina era allo stato di progetto; solo nel 2015 si è visto il risultato di un notevole numero di leggi approvate al fine di soddisfare i requisiti imposti dal FMI e, più recentemente, l’accordo di Minsk. Ciò nonostante, gli oligarchi - quegli industriali che utilizzano la loro influenza politica per arricchirsi - erano più esperti nel difendere i propri interessi di quanto lo fossero i riformisti nel frenarli. Proprio quando l’economia era sull’orlo del baratro e le tensioni politiche a livelli altissimi, il governo ha dovuto far fronte alla sfida del più potente oligarca, Igor Kolomoisky, che ha cercato di usare la sua personale forza militare per mantenere il suo controllo di una società del gruppo Naftogaz. 

Gli oligarchi

Il governo fu messo in condizione di opporre resistenza e riuscì a sconfiggerlo. Quello fu un punto di svolta. Da allora, la banca centrale ha esercitato uno stretto controllo del Sistema creditizio, anche se per la ricapitalizzazione degli istituti di credito ci vorrà del tempo. Altri oligarchi, tra cui principalmente Dmytro Firtash e Rinat Akhmetov, sono stati richiamati all’ordine. Purtroppo questo avviene per casi specifici e non per diretta applicazione di leggi al riguardo. Tentativi di riformare la polizia, introdurre servizi online nel governo e trasparenza nelle acquisizioni e appalti ufficiali stanno facendo progressi. Ma i riformatori stando incontrando difficoltà ad ogni passo e la popolazione in generale è sempre più scontenta della lentezza delle riforme e del continuo peggioramento della qualità della vita. Pertanto la pressione sotto cui operano i riformatori continua ad aumentare e può raggiungere un punto di rottura in qualsiasi momento. La crisi greca ha grandemente intensificato i problemi ucraini col distrarre l’attenzione delle autorità europee dall’Ucraina e col rinforzare la loro tendenza a trattarla come fosse un’altra Grecia. L’effetto sulla cancelliera Merkel è stato particolarmente deleterio. Lei si è comportata come una vera leader europea nel fronteggiare il presidente Putin ma allo stesso tempo è rimasta esitante sul dare un sincero aiuto all’Ucraina. Quando si è trattato della Grecia, ha abbandonato la sua caratteristica cautela allo scopo di evitare che la Grecia uscisse dalla zona euro. Questa posizione le ha causato conflitti con il proprio partito e il suo Ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, che aveva il sostegno del suo partito. 

Accordo ambiguo

Nonostante sia riuscita, almeno per il momento, a mantenere la Grecia in zona euro, ha investito molto del suo capitale politico nel processo. La sua mancanza sarà molto sentita dalla nuova Ucraina, che necessita di tutto il sostegno che riesce ad ottenere per aderire alle richieste degli accordi di Minsk. L’ambiguità dell’accordo ha forzato entrambe le parti in una farsa dove il compito è passare all’altra parte la patata bollente (l’obbligo di fare la mossa successiva). Kiev ha imparato la lezione velocemente. Su spinta dei suoi alleati, ha istituito lo stato speciale delle enclave della Donbass passando una legge che faceva riferimento all’ambiguo testo dell’accordo di Minsk, parola per parola. Questo ha creato problemi finanziari al presidente Putin, privando le enclave di finanziamenti fino a quando non fossero disposte ad indire elezioni in linea con la legge ucraina. Ma sarebbe rischioso da parte degli alleati dell’Ucraina di spingere troppo il presidente Poroshenko a fare concessioni unilaterali ai separatisti. Come recentemente dimostrato dallo spargimento di sangue di fronte al parlamento ucraino, gli elementi ultranazionalisti sono sul punto di ribellarsi. In breve, la condizione politica ed economica della nuova Ucraina è estremamente precaria. Un esame critico dei recenti negoziati con la Grecia rivela dove questi abbiano fallito. La Grecia non avrebbe dovuto avere precedenza sull’Ucraina e l’Ucraina non avrebbe dovuto essere trattata come ancora un’altra Grecia. Una simile analisi dell’accordo di Minsk conduce ad una conclusione più equivoca. Gli alleati europei dell’Ucraina sono caduti in una trappola ma la conseguente situazione di impasse ha portato un importante beneficio: ha bloccato la Russia dal portare le sue violazioni del cessate il fuoco oltre il punto in cui possa negarle. Sarebbe un peccato perdere tale vantaggio. 

L’Ue e l’Ucraina

Questa analisi conduce logicamente ad una nuova strategia vincente per l’Ucraina, che merita di ritornare in cima alla lista delle priorità europee proprio perché la nuova Ucraina è una delle sue grandi risorse. Si dovrebbe cercare in tutti i modi non solo di mantenere la nuova Ucraina, ma di assicurarne il successo. Se grazie agli aiuti all’Ucraina l’UE riuscisse a respingere in modo effettivo la minaccia russa, allora gran parte degli altri problemi dell’UE si sistemerebbero; se fallisse, gli altri obiettivi si allontanerebbero sempre di più. Come si può assicurare il successo della nuova Ucraina? L’analisi sulla quale si basava l’originale strategia vincente è tuttora valida. E’ sempre stato ed è tuttora chiaro che il presidente Putin può sempre dimostrare alla Russia di essere più potente dell’Ucraina e dei suoi alleati, incrementando il suo utilizzo della forza. L’Ucraina non è in grado di prevalere militarmente sulla Russia. Ciò significa che non può riappropriarsi del territorio perso, per lo meno nel breve periodo, ma può mantenere la sua integrità morale e politica. E quando si è davanti ad una tale scelta, la seconda opzione è di gran lunga la più importante. La nuova Ucraina è impaziente di imbarcarsi in radicali riforme politico-economiche. Dispone di una vasta popolazione e di un esercito di provata efficienza desideroso di difendere l’Unione Europea per il tramite della autodifesa. Inoltre, lo spirito di volontariato e di sacrificio personale, sul quale si fonda la nuova Ucraina, è un bene altamente deperibile: una volta perso, ci vorrà almeno una generazione per ripristinarlo. 

Merkel

La cancelliera Merkel ha posto l’integrità politica e morale della nuova Ucraina sotto enorme pressione forzando il presidente Poroshenko ad osservare l’accordo di Minsk alla lettera, anche se il presidente Putin non lo fa. Peraltro la conseguenza positiva è il contenimento del conflitto armato, e tale buon risultato deve essere mantenuto. Il raggiungimento di un certo grado di stabilità politica e militare deve essere uno degli obiettivi di una strategia vincente. E’ la seconda parte della strategia vincente che manca. Gli alleati dell’Ucraina devono decidere e dichiarare che faranno “tutto ciò che è necessario” per consentire all’Ucraina non solo di sopravvivere, ma di introdurre lungimiranti riforme politico-economiche e prosperare, nonostante l’opposizione del presidente Putin. Questo approccio necessiterebbe di sostanziali maggiori finanziamenti di quelli disponibili nel budget europeo. I due rami di questa “strategia vincente” aggiornata - il mantenere il conflitto militare sotto controllo e l’erogare adeguati finanziamenti all’Ucraina per compiere riforme radicali - devono venire gestiti con cautela, in quanto potrebbero interferire tra loro. La strategia originale richiedeva agli alleati dell’Ucraina di dichiarare il loro impegno a fare “tutto ciò che è necessario” alla fine di giugno, in concomitanza all’estensione delle sanzioni contro la Russia. L’UE ha mancato quella scadenza. La prossima occasione si presenterà alla fine dell’anno e dovrebbe essere condizionata alla promessa di ridurre le sanzioni se la Russia rispetta gli obblighi secondo gli accordi di Minsk. L’offerta di una significativa ricompensa materiale alla Russia per rispettare gli accordi di Minsk, nonché l’uscita salva faccia dal conflitto con l’Ucraina accresceranno le possibilità di successo. Negli ultimi mesi, la prospettiva che l’accordo di Minsk possa tenere è visibilmente migliorata. La debolezza dei prezzi del petrolio e l’ulteriore ribasso del rublo hanno ulteriormente posto pressione sull’economia russa. Ma il fattore decisivo è stato il declino nella produzione russa di petrolio, che è costantemente calata anno dopo anno e, per la prima volta, sia la quantità che la qualità della produzione petrolifera è calata quest’anno nei mesi di giugno e luglio. 

Effetto delle sanzioni

Questo significa che le sanzioni stanno avendo effetto e che la mancanza di parti di ricambio porta ad un accelerato esaurimento delle esistenti aree petrolifere. Putin potrebbe risarcire i suoi compari per le loro perdite finanziarie, permettendo loro di prendersi le proprietà degli oligarchi meno affidabili; ma l’unica via per arrestare il generale declino dell’industria petrolifera è riuscire a far rimuovere alcune delle sanzioni dall’occidente. Questa considerazione ha ora maggior peso della minaccia costituita dalla futura prosperità ucraina. Il fatto che il periodo di massima tensione sia passato senza un attacco militare di larga scala indica che Putin ha deciso di utilizzare mezzi più sofisticati per destabilizzare la nuova Ucraina. E’ perciò ancora più essenziale che gli alleati dell’Ucraina adottino la strategia vincente modificata che ho qui delineato. Il cambiamento nell’atteggiamento di Putin dà loro un più ampio margine di manovra. Gli alleati possono fornire un immediato sostegno finanziario all’Ucraina, così da alleviarne la pressione economica e politica, senza provocare contromosse da parte della Russia. E devono altresì preparare il terreno per una dichiarazione entro la fine dell’anno che prometta di fare il necessario per assicurare il successo della nuova Ucraina. Ciò significa che devono cominciare a stabilire un piano di lavori per un nuovo Meccanismo di Assistenza Macro finanziaria ora, in quanto ci vorranno parecchi mesi per completare il processo, che non può cominciare senza la previa approvazione del Ministro delle Finanze tedesco. Ci sono dei positivi segni che la cancelliera Merkel si sta muovendo nella giusta direzione. Lei si è spinta ben oltre i canoni dell’opinione pubblica tedesca e del mondo industriale e finanziario quando ha usato la sua posizione di potere nel forgiare l’unanimità europea sull’imposizione di sanzioni alla Russia. L’opinione pubblica tedesca si riallineò con lei solo dopo che l’aereo malese precipitò in Ucraina. Decise di assumersi un rischio politico non caratteristico con il fine di mantenere la Grecia in zona euro. Dovette fronteggiare un’intensa opposizione interna, ma ciò non le impedì di compiere un altro coraggioso passo annunciando che la Germania avrebbe accolto e gestito non meno di 800.000 migranti nel 2015. Facendo questo, la Germania ha dato un positivo esempio da seguire da parte degli altri stati membri; ha anche implicitamente abbandonato il Regolamento di Dublino, che impone ai richiedenti asilo di essere registrati e di rimanere nel paese di ingresso, causando pertanto attrito tra i paesi di “arrivo” e “destinazione”. 

Migranti

Questo ha comportato un sostanziale cambiamento nell’atteggiamento pubblico verso i richiedenti asilo. C’è stata un’effusione di compassione che, scaturita in Germania, si è diffusa nel resto d’Europa. Se questa tendenza si rafforzasse, potrebbe portare a una positiva risoluzione della crisi dei migranti. La cancelliera Merkel ha correttamente osservato che la crisi dei migranti avrebbe potuto distruggere l’UE, in primo luogo decretando il fallimento degli accordi di Schengen, che sanciscono la libera circolazione all’interno dell’unione, ed in fase successiva danneggiando il mercato comune. Una continuazione idonea delle sue recenti assunzioni di rischi sarebbe l’abbinamento di fermezza nei confronti della Russia con maggiore fiducia e sostegno all’Ucraina. Gli USA sono già maggiormente dediti alla nuova Ucraina che la maggior parte dei governi europei; il presidente Obama potrebbe avere un ruolo molto importante nel persuadere la cancelliera Merkel a muoversi in tale direzione. Con il loro sostegno abbinato, la nuova strategia vincente per l’Ucraina ha una realistica possibilità di successo. E il successo dell’Ucraina dovrebbe fornire l’impulso all’UE a trovare una soluzione positiva agli altri problemi che deve affrontare. La coraggiosa iniziativa della cancelliera Merkel nei confronti dei richiedenti asilo potrebbe avere degli effetti di lunga gittata. Ha sfidato il partito tedesco opposto all’euro, ma tale partito era già diviso sull’opposizione all’immigrazione ed è probabile che possa sciogliersi, vista l’enorme compassione pubblica per i richiedenti asilo. A sua volta, questo potrebbe incoraggiare il presidente Hollande a sfidare il Fronte Nazionale in Francia, partito diviso dall’ostilità tra il suo fondatore e la figlia; e potrebbe ispirare il primo ministro Cameron a placare con successo l’agitazione anti-immigratoria dello UKIP. Lo scenario politico europeo potrebbe trasformarsi. C’è il pericolo che la preoccupazione europea per la crisi dei migranti possa ancora una volta distogliere l’attenzione da quella che, a mio parere, è una questione ancora più importante: il destino della nuova Ucraina. Questo costituirebbe un tragico errore. Come ho spiegato qui, la nuova Ucraina è la più importante delle risorse che l’Europa ha, la sua perdita comporterebbe un danno irreparabile: potrebbe crearsi uno stato fallito di più di 40 milioni di abitanti, che diventerebbe un’altra fonte di rifugiati politici. Invece, aiutando la nuova Ucraina, l’Unione Europea potrebbe salvare se stessa. Facendo “tutto quello che è necessario” per aiutare la nuova Ucraina non solo a sopravvivere ma a prosperare, l’UE raggiungerebbe due obiettivi: si tutelerebbe dalla Russia di Putin e ritroverebbe lo spirito di cooperazione e solidarietà che alimentava i sogni e gli ideali dei popoli europei quando l’unione fu costituita. La cancelliera Merkel ha già riacceso quello spirito nei confronti dei migranti. Salvare la nuova Ucraina davvero trasformerebbe il paesaggio politico europeo.


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Le lettere di Soros e il “manovratore” della crisi ucraina



di Giampaolo Rossi, 2 luglio 2015

TRE LETTERE HACKERATE
Si chiamano CyberBerkut e sono un gruppo di “hacker” ucraini filo-russi. Negli ultimi tempi ne hanno combinate di tutti i colori: sono stati loro a rendere pubblica su You Tube la famosa telefonata tra Victoria Nuland (responsabile per l’Eurasia della Casa Bianca) e l’ambasciatore americano a Kiev; e sempre loro hanno hackerato siti Nato, violato la mail dell’ambasciata Usa e di molti ministeri ucraini, bloccato telefonini di esponenti del governo di Kiev, danneggiato sistemi informatici.

Un mese fa sono penetrati nel server  del Presidente ucraino Poroshenko e hanno tirato fuori tre documenti firmati da George Soros, il multimiliardario finanziere e filantropo espressione della tecnocrazia illuminata.

Sono tre file importanti che fanno capire chi tiene le fila della strategia occidentalista a Kiev:

  1. una lettera, datata dicembre 2014, indirizzata a Poroshenko e al Primo Ministro Yatsenyuk
  2. un documento, datato marzo 2015, nel quale Soros (che si firma ironicamente: “autoproclamato difensore della nuova Ucraina”) delinea la “strategia globale a breve e medio termine”
  3. un documento non datato di analisi militare.

Nella lettera a Poroshenko, Soros racconta delle pressioni da lui fatte sull’Unione Europea (Juncker e Tusk) e sul Fmi (Lagarde) per concedere ulteriori aiuti all’Ucraina “che ha bisogno di un pacchetto finanziario più grande dei 15 miliardi di dollari attualmente previsto per mantenere il tenore di vita a un livello tollerabile”; ma perché il prestito arrivi occorrono segnali più sostanziosi “nell’intraprendere riforme radicali”. Per fortuna i tre ministri della “nuova Ucraina” (cioè vale a dire i tre tecnocrati stranieri che Soros e Washington hanno messo al governo di Kiev) sono pronti a metterle in campo.

In attesa della decisione del Consiglio d’Europa d’impegnarsi con il FMI, Sorospreannuncia che interverrà personalmente sul ministro del Tesoro americano Jack Law affinché la Fed attui un accordo di currency swap di tre mesi con la Banca Nazionale Ucraina.

(sui tre ministri stranieri e su altre verità interessanti della crisi Ucraina che i media non vi raccontano, vi invito a perdere quattro dei vostri minuti per questo docu-video realizzato per Il Giornale.it; un viaggio senza ritorno dalle vostre certezze).

UN’ANALISI DELIRANTE
Gli altri due documenti chiariscono chi sta alimentando il rischio di una guerra dell’Occidente contro la Russia.
Nel documento di strategia, Soros analizza lo scenario compelssivo e spiega come intende intervenire.
Secondo il finanziere, a Putin non interesserebbe una vittoria militare che gli consegnerebbe solo una parte dell’Ucraina, ma preferirebbe il crollo finanziario (con conseguente caos politico) che destabilizzi tutta l’Ucraina.
Lo scenario che Soros dipinge è delirante: se l’Ucraina crolla, Putin diventerebbe un pericolo per l’intera Europa. Quindi occorre fare tutto il possibile per aiutare la “nuova Ucraina” (cioè la sua) attraverso una doppia strategia: militare (in carico agli Stati Uniti) ed economica (in carico all’Europa).

Da un punto di vista militare gli Usa devono:

  • dare all’Ucraina “assistenza militare letale (…) per resistere alla forza schiacciante di Russia”.
  • rifornire l’Ucraina di armi difensive di sofisticazione pari per contrastare quelle avversarie; “nel linguaggio del poker l’America deve andare al vedo, ma senza rilanciare”
  • addestrare personale ucraino  in paesi esteri (per esempio in Romania), in modo da dissimulare l’attività Nato in Ucraina.

Da un punto di vista economico l’Europa deve:

  • mantenere e rafforzare le sanzioni occidentali contro Mosca (sanzioni che, ricordiamo, secondo l’Istat nei soli primi quattro mesi del 2015 sono costati alle imprese italiane due miliardi di euro)
  • ripristinare “una minima stabilità monetaria e il funzionamento del sistema bancario” preservando l’integrità e l’autonomia della National Bank of Ukraine
  • firmare un accordo quadro  “per destinare 1 miliardo di euro all’anno all’Ucraina da parte della Commissione Europea.

In altre parole gli Usa dovrebbe impegnarsi militarmente in Ucraina più di quanto s’impegnano contro l’Isis; e l’Europa dovrebbe fare economicamente per Kiev quello che non fa per Atene.

LA FONDAZIONE PER LA RINASCITA INTERNAZIONALE
L’interesse di Soros per l’Ucraina non è cosa recente. Furono i suoi soldi (sotto forma di Fondazioni umanitarie e controllo sui media) a finanziare la rivoluzione arancione del 2004 che spinse al potere il suo amico banchiere Juščenko.

L’ingerenza di Soros sugli eventi ucraini è ammessa da lui stesso; in questa intervista alla Cnn del 2014 conferma di aver “creato una Fondazione in Ucraina prima che il paese diventasse indipendente dalla Russia”. La Fondazione “è tuttora attiva; e ha svolto un ruolo importante negli eventi attuali”.
La Fondazione di cui parla Soros è la International Renaissance Foundation, da lui stesso definita “ramo ucraino della Fondazione Soros”, citata nei documenti pubblicati come finanziatore unico del Consiglio Nazionale delle Riforme (NRC) organismo governativo composto da Parlamento, Presidente e società civile e che ora sarà inserita nel Project Management Office l’ente che dovrà gestire i progetti economici ucraini e le attività di riforme statali.

Appare sempre più chiaro che il conflitto in atto tra Occidente e Russia, è voluto e alimentato da circoli finanziari di cui Soros è il referente principale. Liquidare tutto questo come “complottismo” è solo un modo stupido per non ammettere il deficit democratico e il controllo sempre maggiore che una tecnocrazia illegittima esercita sulla sovranità popolare e sui destini delle nazioni; è questo il vero pericolo per l’Europa.



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SOROS: “L’UCRAINA E’ OGGI CIO’ CHE DEVE DIVENTARE DOMANI L’UNIONE EUROPEA”

DI OLIVIER RENAULT

metatv.org

Alla conferenza della sicurezza di Monaco del mese di febbraio 2015, George Soros ha fatto delle rivelazioni su ciò che devono diventare i Paesi della zona euro. A fine febbraio in Ucraina é stata proposta una legge per vietare agli abitanti di criticare o di emettere dichiarazioni contrarie alla politica condotta dal paese. L’Ucraina sembra diventare un terreno di prova per i Paesi che costituiscono l’Unione Europea. L’avvenire della UE con il TTIP (il Partnenariato transatlantico del commercio e dell’investimento), che deve passare di forza senza un referendum popolare sotto la presidenza lettone del Consiglio dell’Unione europea nel 2015, sarà simile a ciò che l’Ucraina è oggi.



Puniti con 3 anni di prigione.

In Ucraina gli abitanti che giudicano la politica del governo di Kiev inumana, suicida, nazista o semplicemente non conforme ai diritti fondamentali, sono minacciati di morte da gruppi che li mettono all’indice e sono passibili di 3 anni di prigione. Da parte di Kiev dunque la democrazia non esiste e non deve esistere in questo nuovo Paese . Più che mai la volontà di secessione degli abitanti del Donbass si trova giustificata, tanto quanto la posizione di Mosca verso la Novorussia. Un membro del partito comunista francese, che ha tradotto alcune riflessioni del partito comunista ucraino che é vietato citare a Kiev, preoccupato dall’avere visto Poroshenko partecipare alla manifestazione di sostegno alla libertà d’espressione a Parigi, la marcia per Charlie, punta il dito su una situazione pericolosa. Leggiamo ciò che scrive: “il deputato del Fronte Popolare Konstantin Mateyshenko, ha deposto un progetto di legge al Parlamento ucraino (Verkhovna Rada) che condanna chiunque critichi il governo. La legge n°2225 propone di modificare il Codice Penale ucraino riguardo gli atti deliberati per sabotare l’autorità dello stato e del governo“. Nell’articolo del comunista francese si legge, “La libertà d’espressione imprigionata. Gli atti illeciti, socialmente pericolosi, che portano danno all’Ucraina come Stato sovrano, l’abuso, la calunnia o altre azioni mirate a sabotare l’autorità dei poteri pubblici, i governi, le associazioni dei cittadini, o qualsiasi elemento strutturale dell’amministrazione pubblica (i suoi organi competenti), devono essere puniti con lavoro coatto per un massimo di due anni e da due mesi a tre anni di detenzione. Alcuni organi di stampa si sono opposti a questa legge ed hanno denunciato la volontà di ridurre la libertà d’espressione. Un’ironia per un governo ritenuto esprimere i valori occidentali ed europei. Tanto più che il presidente ucraino, Petro Poroshenko, era venuto a Parigi per sostenere la libertà d’espressione”.

La fonte é il partito comunista ucraino: “I comunisti (KPU) denunciano la volontà di schiacciare ogni forma di opposizione e di legittimare la repressione politica”. Petro Simonenko, primo segretario del Partito Comunista d’Ucraina (KPU) non é sorpreso da questa legge. “Quando un regime politico porta attacchi senza precedenti contro i diritti dei cittadini, contro i salari, scatena una guerra contro il proprio popolo, ciò causa un’opposizione attiva da parte della popolazione. I deputati del partito al potere (Fronte Popolare) hanno dunque  introdotto un progetto di legge che prevede una punizione per i cittadini che criticano il governo a tutti i livelli. Criticare il governo o il parlamento ci manda in prigione. Denunciare l’inefficacia dei funzionari ci manda in prigione. Lottare contro la corruzione del potere, che mina la propria stessa credibilità, ci manda in prigione. Non vi piacciono le gang e le atrocità naziste nel paese e criticate un’*associazione di cittadini*? Siete passibili di detenzione” dichiara Petro Simonenko. “Infatti, sono convinto” dichiara il leader comunista “che il progetto di legge N°2225 miri a distruggere ogni opposizione, esso viola i diritti civili fondamentali, specialmente Europei”.

“Il progetto di legge N°2225 é una strada diretta verso la dittatura. E’ l’inizio della persecuzione dei giudici che rifiuteranno di piegarsi alle ingiunzioni del potere. L’ultimo esempio viene dai giudici del tribunale amministrativo del distretto di Kiev, che hanno rifiutato la proibizione del partito comunista. Ma l’Europa e gli Stati Uniti volgono deliberatamente gli occhi altrove, per loro esistono due pesi e due misure”.

La televisione russa mostra come esempio il caso di un’insegnante universitaria della città di Leopoli, che fu Lemberg sotto l’Impero Austriaco, minacciata di morte dai suoi stessi studenti. L’insegnante si era soltanto mostrata critica verso la guerra in Ucraina. “Le autorità hanno incitato gli studenti dell’università a radunarsi contro la donna e a perseguitarla. L’insegnante deve nascondersi dai suoi studenti

(Message over 64 KB, truncated)


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[Un intervento dell\'ex presidente montenegrino e premier jugoslavo Bulatović sulla eredità politica di Milošević, e polemiche attorno al 30.mo anniversario dell\'VIII. Comitato Centrale della Lega dei Comunisti della Serbia, sul quale si è tenuta anche una iniziativa-dibattito a Belgrado il 22.9.2017 al Press Centar UNS, con interventi di P. Škundić, Z. Andjelković Baki, A. Rastović e R. Radinović, il cui video è visionabile all\'indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=ZCmA2m7rkRE ]


Pitanje Miloševićevog nasledja

1) Godišnjica Osme sednice ЦКСК Србије
2) M. Bulatović: Да ли је вријеме за изјашњавање о Милошевићевом наслеђу?


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Isto pogledaj: 
30 godina od 8. CK SKS (Press centar UNS / Udruzenje Sloboda, 22.9.2017.)

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http://www.sloboda.org.rs/reagovanje8sednica.html

Реаговање Удружења „Слобода“ на дводневну емисију РТС о Осмој седници ЦКСК Србије  

ПЕРФИДНЕ ОБМАНЕ И ЛАЖИ ЖУТЕ ТЕЛЕВИЗИЈЕ

Како се перфидно манипулише, изврћу историјске чињенице, покушава безочно обманути јавност на штету Србије и српског народа, показала је РТС у дводневној емисији 3.и 4.октобра, посвећеној чувеној Осмој седници ЦК СК Србије.  
Кристално је јасно да је емисија припремана и рађена са очитом намером да се сатанизује и оцрни Слободан Милошевић и свенародна подршка политици која је раскрстила и рекла ДОСТА, старој политици разбијања, понижавања и издавања Србије.  
Тако је више од две трећине емисије посвећено члановима поражене струје Ивана Стамболића и њиховој наводној истини. Очита је намера стварних аутора ове злонамерне и тенденциозне пашквиле, директора Драгана Бујошевића и главног уредника Ненада Стефановића. Зато није ни мало чудно да су им фаворити и савезници: Азем Власи, који бесрамно устврди да тада Србе и Црногорце на Космету нико није малтретирао; Дража Марковић, Живан Берисављевић, Борис Мужевић... тадашњи велики демократе и пророци.  
Време је најбољи показатељ а историја учитељица живота.  
Поражена струја са Осме седнице, која се преко ЖУТЕ странке Петооктобарским пучем, диригованим и финансираним од оних који су бомбама убијали и разарали Србију, а који су је од тада зајахали уништавајући и пљачкајући Српску државу и народ, покушава да српској јавности, као кукавичје јаје, наметне лажну и искривљену слику новије српске историје и стварности.  
Очито да то они чине, како многи у Србији тврде, обимно користећи “пронатовску РТС“, у којој имају велико и пресудно упориште. Добро зна српска јавност истину о Осмој седници и догађајима од пре тридесет година. Уосталом први пут до тада седницу је преносила Телевизија Београд.  
Овом смишљеном и преваранском пашквилом уредништво РТС је директно оптужило Србију и српски народ за распад Југославије, налазећи главне и блиске савезнике међу албанским сепаратистима и војвођанским аутономашима, који данас бесрамно цртају заставе Каталоније широм Војводине.  
Jош увек је доста живих судионика и новинара који су пратили ову историјску седницу, али, њихова аутентична сведочења не занимају Националну Телевизију... За њих је кључни сведок и арбитар, а уствари стварни аутор, нико други до њихов главни уредник Ненад Стефановић. То је еклатантан пример злоупотребе и приватизације Јавног сервиса свих грађана Србије.  
Осма седница није била, како тврдите, никаква „борба за власт“, “обрачун другова“, или „обрачун две струје у врху Државе и Партије“, наводни „обрачун између „демократске и ауторитарне Србије“...  
Осма седница је била сублимирани напор да се одговори на вишегодишњу кризу. Кључни проблем, као и данас, било је стање на Космету, где су Албанци насиљем над Србима и Црногорцима драматично мењали демографску структуру становништва, тежећи насилном отцепљењу и стварању албанске државе на српској територији. Косово и Метохија су били врх леденог брега, чији су појавни облици сепаратизма ескалирали до те мере да су се морали решавали брзо и ефикасно због животне угрожености српског народа. То је истина и никакве манипулације и лажи жуте пронатовске елите то не могу променити. То не може променити ни такозвани Јавни сервис грађана Србије, са чијом се злонамерном уређивачком политиком, ни ми, као и Александар Вучић, председник Републике Србије, ни у чему не слажемо. Уверени смо да је то мишљење и већине грађана Србије.  
Овом перфидном преваром, препуном лажи и манипулација, кројењем и прекрајањем изјава појединих учесника Осме седнице, РТС повампирује катастрофалну ДОС-овску политику, подржавајући терористе и сепаратисте, осуђујући актуелну политику Председника и Владе Србије окренуту помирењу у региону. Уредништво Радио телевизије Србије је овим показало и доказало чији је јавни сервис.  
И на крају: Осма, нити било која седница не ствара лидера, нити вођу. Лидера и вођу може створити само народ. 

[Udruzenje Sloboda, 7.10.2017.]


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Да ли је вријеме за изјашњавање о Милошевићевом наслеђу?

Пише: Момир Булатовић 

Улога Слободана Милошевића је била вишеструко значајна и немогуће ју је и даље третирати прећуткивањем.


Позив Александра Вучића, предсједника Републике Србије, на широки дијалог око Косова и Метохије са циљем да се утврди највиши могући степен националног јединства о том животно важном питању, заслужио је пажњу и реакције многих актера политичког живота. Не само у Србији. Разумије се да су ствари тек на почетку и да ће бити нужно наставак пропратити са највећом пажњом.

Власт има последњу реч о Косову

Позив на дијалог са првог мјеста у државној управи увијек заслужује похвалу, а нарочито када се ради о сложеном, а важном питању као што су одлуке о државној политици према Космету, као саставном дијелу територије и услову очувања државног јединства Србије. Посебно ако је намјера позивара да заиста саслуша све аргументе и уколико посједује способност да их, заједно са најширом јавношћу, оцијени по значају. Дијалог би тада постигао пуни смисао будући да би одлуке, које свакако морају донијети изабрани представници државе, имале веће шансе да буду озбиљно промишљене и усклађене са виталним државним интересима. Али, важно је имати у виду – било дијалога, или не, био он плодотворан или јалов, одлуке ће увијек припадати актуелном државном врху. И слава и срамота.

Кључне ријечи позива биле су реалност (која мора бити уважена) и митови (којих се, коначно, треба ослободити). То допунско објашњење није појаснило, већ је додатно повећало недоумице. Јер, већ се то видјело, реалност није једнозначна и за све актере иста. За неке су митови реалност, а реалност је за друге митска. Ипак, у том очекиваном колоплету истина и заблуда, стварности и привида, појављују се питања о којима се најрадије ћути. Иако се односе на несумњиву и прилично болну реалност, нераскидиво везану уз тему расправе.

Једно од њих је оцјена политике коју је према КиМ спроводио и персонификовао Слободан Милошевић. Од измјена Устава Србије и повратка КиМ у јединствени државни поредак, до оружане борбе против терористичке ОВК и НАТО агресора. Да ли је он био ратни злочинац, или борац за очување своје државе? До када може да траје завјера ћутања о чињеници да је, супротно законима ове државе, Слободан Милошевић био изручен Хашком трибуналу, да би тамо био свирепо уморен?

Да ли је 5. октобар 2000. године био почетак новог демократског „прољећа“ или се радило о наставку агресије коју је извршио НАТО? Коначно, од каквог је значаја чињеница да је Зоран Ђинђић, премијер Србије и дугогодишњи миљеник Запада, убијен у времену када је показао пуну одлучност да брани Косово и Метохију као нераздвојни дио Србије?

Питање Милошевићевог наслеђа

Неки одговори су већ дати, иако тек у назнакама. Након превише времена, државни врх Србије се придружио обиљежавању успомене на херојство војника са Кошара. Уз обећање да ће им убрзо бити посвећено трајно и достојно обиљежје. Коначно! Јер су такви хероји све то и још много више заслужили. Али ако су они хероји (што је несумњиво), зар такви нису и њихови команданти генерали Лазаревић и Павковић? И њихов врховни командант – Слободан Милошевић! Зар није тачно да је тзв. Ослободилачка војска Косова (ОВК) била на листи терористичких организација Стејт департмента САД у време када је СР Југославија почела борбу против ње?

Да ли је већ заборављено признање наших ондашњих противника, дато још 2005. године изјавом Строуба Талбота, замјеника државног секретара у Клинтоновој администрацији и главног америчког преговарача током рата?

„Док су нације широм региона тежиле да реформишу своју привреду, ублаже етничке тензије и успоставе грађанско друштво, Београд као да је уживао у континуираном кретању у супротном правцу. Није нимало чудо што су се Југославија и НАТО нашли у сукобу. Најбоље објашњење за рат који је НАТО започео јесте отпор Југославије ширим трендовима политичких и економских реформи, а не тежак положај косовских Албанаца.“

Улога Слободана Милошевића је, дакле, била вишеструко значајна и немогуће ју је и даље третирати прећуткивањем. Претходни предсједници Србије, Борис Тадић и Томислав Николић, ипак су се били опредијелили да о њој не говоре. Разумије се, то је више рекло о њима и њиховим способностима, него о самом Слободану Милошевићу. На реду је Александар Вучић. Готово да је прозвао сам себе.




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(english / deutsch / italiano)

3 ottobre 1990–2017: l\'Anschluss della DDR

1) Interview with the GDR’s Margot Honecker (2015)
2) Germania, Merkel in imbarazzo. Cresce la nostalgia per la Ddr (AffariItaliani.it, 2016)
3) FLASHBACK: Erich Honecker beim chilenischen Botschafter (1992)


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Interview with the GDR’s Margot Honecker — ‘The past was brought back’

By Workers World staff posted on November 16, 2015

Concerning the counterrevolution in 1989 in the German Democratic Republic (GDR), the return of capitalist disorder after its demise, holding a scientific world outlook, and the struggle of the Greek people against the dictatorship of the monopolies. An interview with Margot Honecker.

Interview: Antonis Polychronakis

Margot Honecker, born in 1927, former minister of education of the German Democratic Republic and widow of longtime Socialist Unity Party (SED) Secretary General and GDR State Chairperson Erich Honecker (1912-1994), had not commented publicly for a long time from her self-chosen place of exile near Santiago de Chile. In October, however, the Athenian and Macedonian News Agency (ANA-MPA) published the following interview in highly abbreviated form (the long version, published here, was reserved for subscribers). The German daily newspaper Junge Welt published the complete interview exclusively in the German language, and thanks the Greek colleagues for their kind permission to print. 

Workers World thanks both Junge Welt and the Greek journalists for permission to publish this interview, which contains much information about the history of the German Democratic Republic and its position on the front line of the class war between two social systems from 1945 to 1989. Translation from German by Greg Butterfield and John Catalinotto.

Antonis Polychronakis: How did the events of 1989 come about? How did you and your spouse personally experience them?

Margot Honecker: If you mean by “the events of 1989,” those of the fall of that year, and particularly the events in the GDR, which I describe as a counterrevolution, one would have to write books about it. And many indeed have already been written. That cannot be described adequately with a brief answer. Perhaps only this: There was an objective link between foreign and internal political factors. The arms race the United States in the Reagan era forced upon the Soviet Union reached its desired objective: that the Soviet Union armed itself to death. The consequent economic burden for the USSR led to serious social dislocations in the country, which meant that the leading power of the socialist camp could hardly do justice to its domestic and foreign policy responsibilities. The Soviet Union tried to regain mastery of its situation through reforms, and these were initially well intended. But soon the so-called reformers grabbed hold of the central foundations of politics and economics and steered a course toward economic disaster and the destabilization of society. The end result was the surrender of all Soviet achievements. It was not only that these changes were applauded in the West. Also, in some socialist countries neighboring the GDR, “reformers” were active and were supported by the West.

The GDR was involved in this global conflict. In the end, it was part of the socialist community. And in the 1980s, the GDR was also faced with the need to develop or correct its economic policies. There were shortcomings in supply, deficits in social life, which led to dissatisfaction. We have not always done our homework properly — partly from our own inability, partly we were blocked.

Obviously, we were unable to convince people and make them conscious of the actual social progress we made compared with a capitalist society dependent on exploitation, oppression and war. So many in the GDR believed they could join together the glittering world of commodities under capitalism and the social security of socialism. But, as Erich Honecker said in various speeches, capitalism and socialism are as hard to unite as fire and water.

How did we personally experience this? With concern for the future of all those people who had built with their labor this peaceful democratic republic, which had taken the difficult path, starting from the ruins of the fascist war and Nazi ideology. And personally, after his resignation in October, my husband was relieved of all his political functions. I resigned as national education minister even before the GDR Council of Ministers resigned in early November.

AP: How do you explain the “uprising” of the East Germans, as it is called in the West?

MH: It was not an “uprising.” There were demonstrations, but the workers were working on their jobs, the children went to school, social life continued. Most people who went into the streets in the fall of 1989 were expressing their dissatisfaction. They wanted to make changes and improvements. They wanted a better GDR. They were not demonstrating for its abolition. Not even the opposition wanted that. That there were also hostile forces among the opposition, which mainly gathered under the roof of the Church, cannot be denied. It is clear that the Federal Republic of Germany (FRG, West Germany–Junge Welt) was able to manipulate those who were discontented and finally to steer the movement for a better GDR. From the cry of “We are the people!” it became “We are one people!” In this way they found the lever they had been looking for since the beginning of the existence of the GDR, that of their declared intention to “liberate” the citizens in the East. Regarding this, we should remember: The Western powers have — working in conjunction with German capital and its pliant politicians — first split Germany and then baptized the German Federal Republic. That contradicted the sense of the provisions of international law making up the Potsdam Agreement of the four victorious powers in 1945, which required a unified democratic Germany.

We, that is, all the progressive forces of Germany, wanted the entire Germany to be a democratic, anti-fascist state. We never surrendered this goal, but were unable to reach it. The founding of the GDR was the result. Resurgent German imperialism fought by all means against it, and in 1989 it saw its opportunity to eliminate the GDR, the other Germany. For forty years it had failed to do this. It was only when the Soviet Union, which had allied with us, then dropped the GDR, that the Federal Republic was successful.

What ignited the fuse on the powder keg in 1989 was the increasing exodus of citizens of the German Democratic Republic to the Federal Republic of Germany. The West used all means available to fuel this. We had not managed to put plans to ease travel restrictions into place early enough. Even before 1989, GDR citizens had gone to the West, which reached out and recruited highly educated people. The motives for going to the West were different. Of course, the appeal of consumerism and free travel played a major role. West German propaganda never tired of claiming that those who left the GDR were voting with their feet against socialism. From 1990 until today, however, there are three million people who moved there from Eastern Germany, although now the same political conditions exist in the West as in the East. Why?

In the GDR there was no bloodshed, no civil war, no poverty or misery, all these reasons why today hundreds of thousands of people are leaving their homes in the Middle East (West Asia–WW) or in Africa to flee to Europe.

AP: In the West it was referred to as a “peaceful revolution,” but how could a “revolution” have been possible at all in a socialist state?

MH: A revolution, as I understand it, is a profound social upheaval aimed at the radical transformation of social relations and the liberation of the masses from exploitation and oppression. In this respect, overcoming the reactionary imperialist relations in Russia in 1917, or the creation of an anti-fascist democratic order in 1945 in the Soviet occupation zone in Germany, were revolutions. Capital was deprived of its power to continue to rule over the people. If a reversal is carried out of the social and production relations that had been overcome earlier, and that’s what happened, that cannot be considered a revolution. It is, on the contrary, a counterrevolution.

Let me remind you that the socialist GDR was a guarantee of peace in Europe. It never sent its sons and daughters to war. The Federal Republic of Germany, however, participates in bloody wars that the U.S. and NATO instigate throughout the world. French Socialist Jean Jaurès (1859-1914–JW) underlined this connection: “Capitalism carries war within itself like the clouds carry rain.” And not only that. Capitalism also carries the seeds of fascism in itself. We had eradicated the economic roots of war and fascism in the GDR. The west of the country remained capitalist. In 1990, the GDR was absorbed into this society, which has caused so much harm in German history. The past was brought back. No one can name that “revolution.” 

AP: In your view, what role did [former general secretary of the Communist Party of the Soviet Union–WW] Mikhail Gorbachev play in this development?

MH: A few years ago, Gorbachev said during a lecture in Ankara that he had begun in 1985 to overcome communism. You can believe that or not. It is clear that, with his policy, he gambled away recklessly what the peoples of the Soviet Union and the other socialist countries had created at great sacrifice. The world was not changed for the better by the disappearance of the Soviet Union. Bloody wars, violence and terrorism are on the agenda. The judgment of history about the work of Gorbachev will not be positive.

AP: On November 9, 1989, the “anti-fascist protective wall,” the Berlin Wall, as the border was called in the West, fell. This year the 25th anniversary of “German Unity” was celebrated. Was the wall’s construction in 1961 necessary or was it a mistake?

MH: The construction of the “wall” was necessary; otherwise, there would have been war. The situation in the world was tense. The U.S. acted aggressively. With the pretext that there was a threat from the East, they further upgraded their military. In the attack against Cuba in the Bay of Pigs [April 1961–WW], the United States had just suffered a defeat. Since the end of World War II, Berlin smouldered, an unresolved issue. There were constant provocations. In June 1961, Khrushchev and Kennedy met in Vienna to negotiate the cessation of nuclear weapons tests and the conclusion of a peace treaty with Germany and the resolution of the West Berlin question. It came to a confrontation. The tone between the great powers intensified. Military maneuvers were held. The threat of war was in the air. And in this situation the border closing had to be taken up.

This was no arbitrary measure by the GDR. This border was a result of World War II, which German imperialism had instigated. The course of the boundaries of the [occupation] zone had been decided in the summer of 1945 by the victorious powers. The formation of a separate West German state, the FRG, (on May 23, 1949–JW), however, completed the division of Germany, and the line of demarcation between the Western zones and the Soviet-occupied zone was a state border.

This was not simply a state border, however, let alone an internal German border, as it always was called in the West. It was the western border of the Warsaw Pact, the Eastern defense alliance, and the eastern border of NATO. Those were the two most powerful military blocs of the world, which were carrying out a Cold War.

The border ran through Berlin — through the city — with its four sectors assigned to the four victorious powers in 1945. But the border in Berlin was open. Therefore, Berlin remained a permanent object of dangerous confrontations among the victorious powers, to the detriment of Berlin and to the detriment of the GDR.

The Political Advisory Committee, which was the governing body of the Warsaw Treaty states, decided in the summer of 1961 to close the border in Berlin and the western state border after they decided a military confrontation could no longer be ruled out. I do not think that one can call the prevention of a possible third world war a mistake.

The creation of clear conditions on the front lines of NATO and the Warsaw Pact facilitated the then incipient détente. It led to the Conference on Security and Cooperation in Europe, whose final accord was signed in 1975 in Helsinki, also by the GDR. It was an attempt to create a system of collective security on the continent. However, as we see today, with the fall of the Soviet Union and stepping up of the eastward expansion of NATO by the United States, this security structure has been destroyed.

AP: Where did you and your spouse witness the opening of the border?

MH: From our apartment.

AP: In your opinion, was (the recently deceased former secretary of the SED Central Committee for Information Science and Media Politics–JW) Günter Schabowski’s announcement of the opening of the border an accident, or was it, as (former West Berlin mayor–JW) Walter Momper claimed during an interview with Berlin Mayor Erhard Krack, known about or planned in advance?

MH: That is beyond my knowledge.

AP: What do you say about those who died at the Berlin Wall?

Yes, people died at the Berlin Wall — refugees and GDR border guards. For every person who has a violent death, it is regrettable. Everyone who died while trying to cross the border illegally was one too many. It brought suffering to the families. The political leaders grieved the death of the young people not less than their relatives, because these youth were not conscious of their responsibility for their own lives or, seduced by Western agents, accepted the risk to cross the border illegally.

After 1990, border guards were put on trial, although they had acted according to the law of the GDR. Even the leaders were tried and imprisoned, including party and state officials who had suffered years in Nazi penitentiaries and concentration camps because they had fought fascism. They were sentenced by FRG justice, which had never removed the fascists from its ranks.

AP: What was good in the GDR, and what should the socialist government have done better in order to save the “first socialist state on German soil”?

MH: In this state, each person had a place. All children could attend school free of charge, they received vocational training or studied, and were guaranteed a job after training. Work was more than just a means to earn money. Men and women received equal pay for equal work and performance. Equality for women was not just on paper. Care for children and the elderly was the law. Medical care was free, cultural and leisure activities affordable. Social security was a matter of course. We knew no beggars or homelessness. There was a sense of solidarity. People felt responsible not only for themselves, but worked in various democratic bodies on the basis of common interests.

The GDR was not a paradise. There were defects that complicated daily life, shortcomings in supply, and deficiencies in everyday political life. There were decisions made at various levels in which the people concerned were not always included. However, compared with the conditions now prevailing in most capitalist countries, it was close to heaven. More and more people who experienced life in the GDR understand that. After 25 years, a generation has now grown up which has no living memory of the GDR, because they’re too young. This suits the FRG propaganda: Forget about it. The longer the GDR is history, the thicker the lies that are spread about it.

To return to your question. We would have done much better had we talked openly with the people about the serious issues, about the worsening situation. You need to include them in solving problems. But whether we could have saved the GDR under the circumstances prevailing at that time — that’s doubtful.

AP: Much is said about the Stasi. How do you explain its existence in a workers’ and peasants’ state?

MH: First of all: It was necessary. The first workers’ and peasants’ state on German soil was a thorn in the capitalists’ side. They fought it by every means. From the outset, the GDR was under attack. Sabotage, infiltration by agents who did not shy away from acts of terrorism, was the order of the day. All the intelligence services in the world were sitting in West Berlin. On Teufelsberg [A hill in West Berlin, site of a major National Security Agency surveillance station during the Cold War–WW], the Americans listened hundreds of kilometers into the East. 

The GDR maintained foreign intelligence and defense under the umbrella of the Ministry of State Security. That was a legitimate and legal institution, which exists in all other countries on earth. The “Stasi” was blown up into a monster after 1990, its employees denounced, lies spread about them and their institution, books printed, films produced and museums set up to spread horror stories about the terrors that the “Stasi” allegedly committed. 

Slowly citizens are recognizing that monitoring and spying by secret services today is far more intense and total than anything the small GDR could afford or want. As long as the GDR had to resist the attacks of hostile forces, state security was a necessity. There’s no longer a GDR, so you do not need a “Stasi” any more. I think intelligence services are currently not only more dangerous than they were then, but also unnecessary. They ought to be abolished worldwide.

AP: You are personally accused of militarizing schools in the GDR as minister of education by introducing civil defense lessons. Is that true? 

MH: It’s not surprising, however, that I’m not accused of having participated in an education system where all children between three and six years attended preschool and then primary school, where they were taught by well-trained educators in the spirit of humanism, peace and respect for other peoples. Yet because there were a few hours of civil defense classes, does that mean I militarized the whole education system?

The introduction of these classes sprang from a common opinion of the responsible ministers, myself included, that it would be useful to provide some basic knowledge before military service, in accordance with our legal obligation for 18 months of mandatory service for young men in high school. Maybe it was not our best idea, but hindsight is always easier.

AP: Do you remain loyal to Marxism-Leninism and still call yourself a communist, and, if so, why?

MH: I not only consider myself one — I am a communist. Loyalty is probably not the appropriate term.  Marxism-Leninism is an ideology, a method of investigation to understand the world, the laws according to which it moves, so you can orient yourself in the world. Some believe in a divine will, others in a predetermined fate. We communists are materialists. We follow a scientific outlook, which assumes that the society and everything that arises in it are the work of human beings. Exploitation and oppression are neither divinely ordained, nor are these evils acceptable. We have to fight for a humane, fair, peaceful world, and today that is more urgent than ever. We must refuse to allow that people perish from war, hunger and disease, and that natural resources and the livelihood of the people be depleted or destroyed by ruthless capitalist exploitation, solely for profit. If humanity is to have a future, the power of the banks and corporations must be broken. They will not give up their power voluntarily.

AP: Do you still maintain contact with your former comrades, such as the German Communist Party (DKP) or the Greek Communist Party (KKE), or with others?

MH: I am most closely associated with the German Communist Party and the Communist Party of Germany (KPD), as well as comrades from the Left Party. I have many contacts with citizens in Germany — people I have never met in person — who write to me today. Some visit me here in Santiago de Chile. Thanks to the Internet, I have connections in all directions and they inform me about everything that happens in the world. To live in the Andes in South America doesn’t mean to sit on the moon.

AP: How do you evaluate the current developments in Europe, especially in Greece, both the economic — keyword: tough austerity – and political — keyword: Syriza in power — situation?

MH: Objection: Syriza indeed took over the government, and won again, but it has no power. The power in Greece still belongs to domestic and increasingly to foreign capital.

This Europe is divided between those above and those below, between rich and poor, between wealthy and impoverished countries. The rivalries of the great powers for dominance and profits are increasing. From the beginning, this Europe has been a project of monopoly capital, an imperialist structure to consolidate its power. The policy of democratic and social degradation is enshrined in the EU treaties, dictated by the interests of multinational corporations. The strong states push the weak to the edge, into the abyss.

Among the left there was an idea that this Europe could be reformed. But the extortionate attitude of the European authorities towards Greece has demonstrated that this is an illusion. Those who dictate to the Greeks demand privatization according to the model of the GDR economy, by means of a trust agency and privatization. In the GDR, this instrument has done great evil. Factories were shut down and powerful enterprises returned to the corporations from which they had once been taken by referendum after the war and transferred to public ownership. The result was a massive deindustrialization of the GDR. Hundreds of thousands lost their jobs overnight. Pure capitalism was imposed on the GDR, the East. Also in West Germany, the rights won by the workers began to be dismantled, because the socialist state next door had disappeared. 

With concern, I watch the dictatorship of the monopolies growing steadily and aiming to raise German imperialism to the hegemonial power of the continent. Twice between 1914 and 1945 they tried to achieve this goal at gunpoint and failed. They have never given up their quest for world domination, and have always been and are ready to plunge into military adventures.

I’ve followed the development of Syriza with sympathy, as I join in sympathy with every protest against the dictatorship of the monopolies, any movement that tries to halt this capitalism using democratic rules.

But we must be realistic. The “International of the Powerful” still faces no strong power on the side of the downtrodden and oppressed. Consistent and effective activity by the anti-monopoly left is lacking in European countries, nor is there adequate international solidarity and common alliances.

In Greece, the Empire struck hard and smashed the illusion that this Europe could be reformed. Through these methods no other Europe can arise.

AP: Is socialism still an alternative in general and for Europe in particular?

MH: What else! If humanity does not want to sink into barbarism, it is the only alternative.

AP: How are you living now? You lost the lawsuit against the Federal Republic of Germany for your confiscated assets.

MH: “Confiscated assets” sounds like a big deal. It concerned our savings. We — like all citizens of the GDR — had savings in the bank. You may know that citizens of the GDR had their pensions reduced arbitrarily, and this injustice continues to this day. I receive a normal retirement pension, because even for me, the legal rules for all German citizens apply.

AP: Do you have a message for the Greek people suffering from the harsh measures of the so-called institutions?

MH: I think with feelings of solidarity, sympathy and respect for the people living there. I share some warm memories with Greece, even though I was never there. When I hear Greece, I think of Manolis Glezos, who took down the swastika flag from the Acropolis, as I fought in Germany against the same fascist enemy. I think of the Greeks who were given asylum in the GDR, especially the Greek children who found a home with us, when the fascist colonels staged a coup in 1967. I think of Mikis Theodorakis, whom hundreds of thousands of children from the GDR sent solidarity cards to in jail. His music, the music for the “Canto General” of the Chilean, Pablo Neruda, which rang in the GDR, also moved me.

Greece has survived many difficult trials in its history. I think it will survive this too. We say: those who fight may lose — but those who do not fight have already lost. And the Greeks know how to fight for their rights and for their home, as they have proven repeatedly in their history. The solidarity of many friends around the world is with them.

(Source: www.jungewelt.de/2015/11-11/059.php)


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Germania, Merkel in imbarazzo. Cresce la nostalgia per la Ddr

L\'INCHIESTA DI AFFARITALIANI.IT - A dividere la Repubblica Federale non è solo la politica sui migranti. C\'è dell\'altro. Un qualcosa che è intrinseco nella società teutonica, tanto da far arrossire molti politici da Berlino a Monaco di Baviera

Sabato, 30 gennaio 2016

Di Alberto Maggi (@AlbertoMaggi74)


Siamo proprio sicuri che la Germania di Angela Merkel, quella che vuole impartire lezioni a tutta Europa (Italia compresa), sia un paese forte e unito? Non proprio. E a dividere la Repubblica Federale non è solo la politica sui migranti, con il 40% dei tedeschi che vorrebbe le dimissioni della Cancelliera. C\'è dell\'altro. Un qualcosa che è intrinseco nella società teutonica, tanto da far arrossire molti politici da Berlino a Monaco di Baviera. Quest\'anno, a novembre, saranno passati ben 27 anni dalla caduta del Muro del Berlino, eppure basta andare sulla East Side Gallery (la galleria a cielo aperto del Muro) a Friedrichshain, vicino al Oberbaumbrücke, per poter acquistare un vero e proprio frullato (o gelato) originale made in Ddr. Sembra quasi uno scherzo, invece non lo è. E il tutto viene preparato seguendo alla lettera la ricetta originale dell\'Est. La macchina del ghiaccio è una Elke del 1982, anch\'essa originalissima.

Da qualche mese i turisti, ma soprattutto moltissimi ex cittadini della Germania Orientale, vengono quasi ogni giorno alla \'Ddr Softeis\' per gustare il sapore del passato. Un passato ufficialmente morto e sepolto, ma che in molti cittadini continua a vivere. Più forte di prima. L\'abbigliamento di chi lavora nella gelateria Ddr è tipico dei Pionieri, l\'organizzazione socialista dei giovani comunisti del vecchio regime tedesco-orientale. La musica sparata ad alto volume è rigorosamente dell\'Est (prima del 1990, ovviamente). Ci sono tantissimi altri esempi, nati tutti negli ultimi mesi, di come lo stato nello stato, ovvero la vecchia Germania Orientale nell\'attuale Germania di Angela, continui a vivere. Molto successo sta avendo anche il DDR-Hostel, un ostello per giovani dove tutto è come ai tempi della Ddr. C\'è perfino una stanza chiamati Stasi, l\'ex polizia segreta sulla quale tanti film sono stati girati.

Ciò che sta accadendo in Germania viene studiato a livello sociale e politico. Nessun partito, tantomeno la Linke, l\'estrema sinistra che ha inglobato i post-comunisti della Pds-Sed, vogliono il ritorno della divisione, del Muro e dei due stati. Eppure dilaga la Ostalgie, termine con il quale si indica la nostalgia per la Ddr, in modo forse superiore di quanto non accadesse dieci o quindici anni fa. E la riscoperta del passato non riguarda soltanto gli anziani o comunque chi realmente ha vissuto sotto il regime comunista, ma anche le nuove generazioni nate dopo il 1990. E\' il segno che qualcosa è andato storto. L\'idea che il capitalismo occidentale potesse in pochi lustri cancellare 40 anni di socialismo reale è una pia illusione. La Merkel evita di parlare di questo fenomeno. Per lei, cresciuta nella Ddr e protagonista della svolta con Kohl nel \'90 che porta all\'annesione alla Repubblica Federale, è un tabù imbarazzante e quindi un argomento da evitare assolutamente.

Ma chi vive in Germania, specie in Sassonia o in Turingia o nel Brandeburgo, così come a Berlino Est (ex), sa perfettamente che l\'Eldorado dell\'Ovest ricco e opulento era solo una favola. La Germania resta il paese locomotiva dell\'Europa ma al suo interno le divisioni, economiche e culturali, sono ancora enormi e per certi versi perfino aumentate negli ultimi anni. Alla base di quel 40% che vorrebbe le dimissioni della Merkel non c\'è solo la politica verso i migranti ma anche il fallimento, almeno parziale, di un processo di unificazione del paese che a quasi trent\'anni dalle immagini ormai sbiadite delle Trabant che varcavano i confini Est-Ovest è ancora in alto mare. Come dimostrano i frullati sulla East Side Gallery, le divise dei Pionieri e gli ostelli Ddr.


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... la ciliegina numero 1000 sarà quella della secessione del Veneto e di tutti gli altri? O quella dell\'Unione Europea che salta in aria? Nemesi storica: chi di secessione ferisce di secessione perisce ...

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_serbia_accusa_lunione_europea_di_ipocrisia_sullindipendenza_catalana/82_21644/

La Serbia accusa l\'Unione Europea di ipocrisia sull\'indipendenza catalana

«La domanda che ogni cittadino della Serbia ha per l\'Unione europea oggi è: come mai nel caso della Catalogna il referendum sull\'indipendenza non è valido, mentre nel caso del Kosovo il processo di secessione è stato autorizzato anche senza un referendum»

03/10/2017 – da teleSUR

Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha criticato l\'Unione Europea accusandola di «doppio standard e ipocrisia» per aver bocciato il referendum catalano riconoscendo nel contempo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo dalla Serbia nel 2008. 
«La domanda che ogni cittadino della Serbia ha per l\'Unione europea oggi è: come mai nel caso della Catalogna il referendum sull\'indipendenza non è valido, mentre nel caso del Kosovo il processo di secessione è stato autorizzato anche senza un referendum», ha chiesto Vucic durante una conferenza stampa a Belgrado.
«Quindi, la Catalogna non può e il Kosovo può - non sarà mai data una risposta su questo dato ai serbi ... questo è il miglior esempio dei doppio standard e dell\'ipocrisia della politica mondiale».



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