Informazione


Milano, venerdì 7 ottobre 2016
alle ore 21:00 presso la Casa Rossa, Via Monte Lungo 2 (MM1 Turro)

nell'ambito del Corso multimediale 2016 di in-formazione sulle questioni internazionali e sul socialismo

ore 19:30 aperitivo popolare

ore 21:00 presentazione del libro di Jean Toschi Marazzani Visconti:

LA PORTA D'INGRESSO DELL'ISLAM

alla presenza dell'Autrice.


Altre info sulla Casa Rossa di Milano: http://casa-rossa.blogspot.it

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Jean Toschi Marazzani Visconti 
LA PORTA D'INGRESSO DELL'ISLAM
Bosnia Erzegovina: un Paese ingovernabile
Frankfurt: Zambon, 2016
Formato: 14x20,5 cm – 240 pagine – 18,00 € – ISBN 978 88 98582 32 7
zambon@...www.zambon.net

Il 14 dicembre 2015 compiva vent’anni il Trattato di Dayton, firmato a Parigi nel 1995 alla presenza dei massimi rappresentanti delle potenze occidentali. L’accordo metteva così fine a tre anni e mezzo di feroce guerra civile in Bosnia-Erzegovina. L’amministrazione Clinton considerava un grande successo aver fermato il conflitto e creato una nazione composta di tre etnie divise in due entità: la Federazione Croata - musulmana e la Republika Srpska. Però aveva distrutto il multiculturalismo in favore del nazionalismo. 
Oggi la Bosnia Erzegovina è nello stesso stato d’allora, congelata dalla costituzione imposta a Dayton, in uno stato di caos contenuto e di odio. Nel corso degli anni si sono alternati Alti Commissari europei al controllo del paese, ma anche altre nazioni sono intervenute nel delicato equilibrio. La Turchia ha una forte presenza. Ricchi finanziamenti giungono da Iran e Arabia Saudita per costruire moschee e scuole islamiche. I campi di addestramento per jihadisti sono ignorati, anche se dalla Bosnia è partito il più alto numero di combattenti per ISIS. Dodicimila islamisti, tra cui diversi terroristi dormienti, giunti dai paesi arabi per combattere a fianco dei musulmani nel 1992, sono da allora residenti in Bosnia...

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Dell'Autrice si legga anche il report "7 e 8 maggio [2016] a Banja Luka":



(srpskohrvatski / italiano)

Vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati

1) Report sul XVII Vertice MNOAL – a cura della redazione di Resistência
2) Discorso pronunciato da Raúl Castro Ruz al XVII Vertice del MNOAL
3) 11 KLJUČNIH TAČAKA DEKLARACIJE POKRETA NESVRSTANIH


Due significative foto del Vertice sono visibili alla pagina http://www.globalcir.com/vest/7360


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Il 17° Vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati (MNOAL)

20 Settembre 2016

a cura della redazione di Resistência

Traduzione di Marx21.it

Alla chiusura del 17° Vertice, i Non Allineati difendono la pace e la ricostruzione delle Nazioni Unite

E’ finito con successo nell’Isola Margherita, in Venezuela, il 17° Vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati (MNOAL), nel corso del quale l’Iran ha passato la presidenza, che sarà esercitata nei prossimi tre anni, alla Repubblica Bolivariana del Venezuela. L’incontro ha approvato la Dichiarazione di Margarita, che ha tra i suoi scopi fondamentali accelerare i processi di rifondazione del sistema dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Il presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolas Maduro, ha affermato che l’obiettivo del movimento è ottenere la democratizzazione del sistema e la trasformazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Il documento comprende 11 linee di azione. La prima è accelerare i processi di cambiamento in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), espandendo i sistemi di direzione dei popoli del Movimento dei Non Allineati, e facendo in modo che i cambiamenti  avvengano nel senso della rifondazione e non solo della trasformazione.

Il testo propone di favorire nuove alleanze, ad esempio con il gruppo dei BRICS, che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica; far avanzare programmi di lavoro in consonanza con l’Agenda 2030 dell’ONU, che ha tra i suoi assi centrali la pace e lo sradicamento della povertà come fattori inerenti lo sviluppo sostenibile.

Il documento fa anche riferimento al compito fondamentale di riprendere il programma della democratizzazione della comunicazione sociale, da parte dei paesi del Movimento, come pure quello della pace e della risoluzione dei conflitti mediante la diplomazia di pace mondiale.

Comprende anche la necessita di adottare un progetto verde per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico, e nel punto sette si enfatizza l’importanza di continuare in modo tenace l’appoggio al popolo palestinese che affronta l’illegale occupazione da parte dello Stato di Israele.

Il documento contiene nella linea d’azione otto l’appoggio incondizionato al popolo della Repubblica di Cuba, che affronta un blocco economico, commerciale e finanziario, imposto dal governo degli Stati Uniti da oltre 50 anni, e che costituisce un ostacolo allo sviluppo del popolo cubano.

Altri punti comprendono l’impulso e l’appoggio alla decolonizzazione di Porto Rico, così come la solidarietà e l’attenzione al problema dei rifugiati in Europa, prodotto dei conflitti creati dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel Medio Oriente e in Africa.

La Dichiarazione di Margarita menziona anche la lotta contro il terrorismo e i metodi di guerra non convenzionale promossi da settori che cercano di restaurare la tutela coloniale nelle nazioni determinate a essere libere , indipendenti e sovrane.

Unità

Gli oratori durante il 17° Vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati hanno sostenuto che è necessario concentrare le forze per portare gli interessi del blocco in altri organismi internazionali, come le Nazioni Unite, sempre con posizioni comuni, con un comportamento unitario che permetta di difendere i propri diritti.

E’ risuonata fortemente nelle plenarie del MNOAL la condanna del colpo di Stato in Brasile e dell’intervento in Venezuela.

Pieno successo

Il 17° Vertice del MNOAL è stato un grande successo per i 120 paesi che costituiscono questo blocco, in particolare il Venezuela, che ha brillantemente ospitato l’evento e che assumerà la presidenza nei prossimi tre anni. Un evento di straordinaria importanza per la Repubblica Bolivariana, vittima di una campagna di diffamazione e di discredito da parte dell’imperialismo statunitense e della destra internazionale, soprattutto il governo di destra e golpista di Michel Temer e del suo ministro degli Esteri José Serra che si è posto, tra gli obiettivi principali, quello di destabilizzare il paese di Bolívar e Chávez.

La Dichiarazione di Margarita ha un inequivocabile carattere di difesa e promozione della pace, della sovranità e della sicurezza per lo sviluppo delle nazioni.

Il MNOAL sorse 55 anni fa, nel 1961, e la sua origine più remota risale alla Conferenza Afroasiatica di Bandung (Indonesia), nel 1955, quando furono stabiliti i suoi principi fondamentali.

Tra questi principi emergono il rispetto dell’indipendenza, dell’autodeterminazione, della sovranità, e la promozione di relazioni di cooperazione sulla base del rispetto reciproco.

Il MNOAL svolge un grande ruolo nella preservazione della pace mondiale, ragion per cui si oppone fermamente all’esclusione sociale, difende la non ingerenza negli affari interni degli Stati, e lotta per il disarmo e ogni forma con cui si manifesta il dominio imperialista.

La presidente del Consiglio Mondiale della Pace, la brasiliana Socorro Gomes, ha partecipato al 17° Vertice del MNOAL. “I movimenti sociali e i difensori della pace in tutto il mondo ammirano il Movimento dei Paesi Non Allineati in quanto comunità di Stati nazionali ampia e rappresentativa, impegnata con i principi della sovranità nazionale e della pace e che non ha mai mancato al suo dovere di solidarietà con i popoli e le nazioni in lotta per i loro diritti”, ha dichiarato.

La presidente del CMP ha rilevato che il Movimento dei Paesi Non Allineati è “un’organizzazione politica, la cui piattaforma è sempre stata quella della lotta contro il colonialismo e l’imperialismo, per un nuovo ordine economico e politico internazionale. Sono sempre risuonate fortemente le voci dei paesi membri che si sono pronunciati su tempi scottanti della politica internazionale, in una chiara dimostrazione dell’attualità del MNOAL come coordinamento internazionale”, ha sottolineato.

Concludendo il 17° Vertice del MNOAL, il presidente Nicolás Maduro ha riaffermato la difesa della pace e ha inneggiato alla “Patria umana”.


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www.resistenze.org - osservatorio - mondo - politica e società - 19-09-16 - n. 602

L'unica alternativa di fronte agli enormi pericoli e alle sfide che abbiamo davanti è l'unità, con la solidarietà

Raúl Castro Ruz | granma.cu

19/09/2016

Discorso pronunciato dal Generale d'Esercito Raúl Castro Ruz, Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba e Presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri, nel XVII Vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati, nell'Isola di Margarita, Venezuela, il 17 settembre del 2016, "58º Anno della Rivoluzione".

Discorso pronunciato dal Generale d'Esercito Raúl Castro Ruz, Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba e Presidentedei Consigli di Stato e dei Ministri, nel XVII Vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati, nell'Isola di Margarita, Venezuela, il 17 settembre del 2016, "58º Anno della Rivoluzione".

Stimato compagno Nicolás Maduro Moros, Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela;
Capi di Stato e di Governo;
Stimati Ministri, delegati e invitati;
Signore e Signori:

Siamo 120 Stati Non Allineati e contiamo oltre che sui Principi di Bandung, con la Dichiarazione dei Propositi, Principi e Ruolo del  Movimento dei Paesi Non Allineati nella Congiuntura Internazionale attuale, approvata nel XIV Vertice a L'Avana. Non si può sottovalutare la nostra enorme forza quando attuiamo uniti.
Nello stesso Vertice del 2006 abbiamo respinto i tentativi di "cambio di regime", ed abbiamo chiamato a garantire che ogni paese rifiuti di ricorrere all' aggressione e all'uso della forza.

Sempre a L'Avana, nel gennaio del 2014 i Capi di Stato e di Governo della comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi - CELAC - con la firma del Proclama dell'America Latina e dei Caraibi come "Zona di Pace", abbiamo riaffermato l'impegno con i principi della Carta delle Nazioni Unite e del Diritto Internazionale; con la soluzione delle differenze  in forma pacifica  e nel pieno rispetto al diritto inalienabile di ogni Stato d'eleggere il suo sistema politico, economico, sociale e culturale, come condizione essenziale per assicurare la convivenza tra le nazioni.

Senza dubbio siamo testimoni dei crescenti attacchi alla sovranità e all'autodeterminazione del Venezuela. Cuba riafferma il suo sostegno senza condizioni al Governo e al popolo venezuelani, all'Unione Civico Militare e al presidente costituzionale Nicolás Maduro Moros (Applausi).
Condanniamo con energia il colpo di Stato parlamentare - giudiziario in Brasile contro la presidente Dilma Rousseff, che costituisce un'azione d'aggressione alla volontà sovrana del popolo che l'ha eletta con più di 53 milioni di voti.

La fraterna Colombia avrà tutto l'appoggio di Cuba per avanzare nel difficile cammino dell'implementazione dell'accordo e nel consolidamento della Pace, giusta e duratura, che il suo popolo merita.
Esprimiamo la nostra fiducia nel fatto che il popolo della Repubblica Araba della Sira sarà capace di risolvere le sue differenze da solo, senza ingerenze esterne indirizzate a promuovere un cambio di regime.

Compagno  Presidente:
È inaccettabile  che ancora oggi il popolo della Palestina continui a essere vittima dell'occupazione e della violenza e che la potenza occupante continui ad impedire la creazione di uno Stato Palestinese indipendente, con Gerusalemme orientale come sua capitale.

Tutti i tentativi di garantire l'autodeterminazione del sofferto popolo sarahaui sono stati frustrati e questo richiede l'azione della comunità internazionale.
Noi siamo solidali con la storica domanda del popolo di Puerto Rico a favore della sua autodeterminazione e indipendenza.
Sosteniamo anche il reclamo della Repubblica Argentina sulle isole Malvine, Sandwich del Sud e George del Sud.

Stimato compagno  Maduro:
Per Cuba, il non allineamento significa la lotta per modificare l'Ordine Economico  Internazionale imposto dalle grandi potenze, che ha portato a che 360 persone possiedano una ricchezza annuale superiore alle entrate del 45% della popolazione mondiale. La breccia tra i paesi ricchi e i poveri cresce. Il trasferimento delle tecnologie dal nord al sud è una mera aspirazione.
La globalizzazione favorisce fondamentalmente  un selezionato gruppo di paesi industrializzati. Il debito dei paesi del sud si moltiplica e somma più di 1700 bilioni di dollari.

Duemilanovecento milioni di persone sono senza lavoro e in miseria.
Milioni di bambini muoiono ogni anno a causa della fame e di malattie curabili. Quasi 800 milioni di persone non sanno leggere né scrivere, mentre più di 1.7 milioni di dollari si dedicano alle spese militari.
Non allineamento significa anche la lotta per eliminare la breccia della conoscenza e per l'uso delle tecnologie dell'informazione e le comunicazioni a favore dello sviluppo e la cooperazione.

Condanniamo la crescente militarizzazione e l'uso aggressivo contro terzi paesi. Il cambio climatico si aggrava e persistono nei paesi sviluppati indici irrazionali di produzione e consumo che minacciano le condizioni d'esistenza della nostra specie. La realizzazione dei diritti umani continua ad essere un sogno per milioni di persone in tutto il mondo.

Gli Stati Uniti e l'Europa utilizzano la manipolazione, la doppia morale, la selettività e la politicizzazione, mentre ondate di rifugiati si ammassano alle frontiere europee senza che si trovino soluzioni giuste, stabili e permanenti che proteggano la loro vita e la loro dignità.

Stimato presidente Maduro:
Sono passati 21 mesi da quando abbiamo annunciato simultaneamente con il presidente Barack Obama, la decisione di ristabilire le relazioni diplomatiche tra Ciba e gli Stati Uniti. Ci sono stati alcuni passi avanti soprattutto in ambito diplomatico e della cooperazione in temi d'interesse reciproco, ma non è stato così nella sfera economico-commerciale, per via della portata limitata, anche se positiva, delle misure adottate sino ad ora dal governo statunitense.

Cuba continuerà a reclamare l'eliminazione del blocco economico, commerciale e finanziario che provoca molti danni e privazioni e che danneggia anche molti altri paesi per la sua portata extraterritoriale. 
Continueremo a domandare che si restituisca alla nostra sovranità il territorio illegalmente occupato dalla Base Navale degli Stati Uniti in Guantánamo.

Senza questo non ci potranno essere relazioni normali, e sarà anche impossibile se non si porrà fine alle altre politiche sempre vigenti, che ledono la sovranità di Cuba, come i programmi sovversivi e ingerenti.
Ratifichiamo la volontà di sostenere relazioni di convivenza civile con gli Stati Uniti, ma Cuba non rinuncerà ad uno solo dei suoi principi, nè realizzerà concessioni inerenti alla sua sovranità e indipendenza (Applausi).
Non cederà mai alla difesa dei suoi ideali rivoluzionari e antimperialisti, né  all'appoggio dell'auto determinazione dei popoli.

Compagno  Maduro:
auguriamo tutto il successo alla fraterna  Repubblica Bolivariana del Venezuela alla guida dei Paesi Non allineati e ci complimentiamo con la  Repubblica Islamica dell'Iran per  il suo lavoro nel mandato appena terminato.
L'unica alternativa di fronte agli enormi pericoli e alle sfide che abbiamo davanti è l'unità con la solidarietà, in difesa dei nostri obiettivi e interessi comuni.

Molte grazie
(Applausi/ Versione stenografica del Consiglio di Stato – Traduzione Gioia Minuti)


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11 KLJUČNIH TAČAKA DEKLARACIJE POKRETA NESVRSTANIH: Prevazilaženje dugova i izazova koje su ostavili kolonijalizam, neokolonijalizam, neoliberalizam i divljački sistem u kojem su naše ekonomije stavljene u podređeni položaj!


UREDNIK: ERMIN KADIC
21. 09. 2016.

Predsjednik Venecuele Nikolas Maduro objavio je u subotu jedanaest glavnih ciljeva za koje će se Venecuela zalagati tokom svog predsjedavanja Pokretom nesvrstanih država, ističući da će taj mandat biti iskorišten za “snažno i odano zalaganje za sve ono za šta se bore naši narodi”.

1.- Ubrzanje procesa unutar Organizacije ujedinjenih nacija koje će dovesti do njene istinske demokratizacije: proširenje Vijeća sigurnosti UN-a, sa uključivanjem nadolazećih sila sa južne hemisfere; demokratizacija sistema biranja vladajućih organa i donošenja odluka u okviru sistema Ujedinjenih nacija, kao i zalaganje za program zasnovan na kulturi, miru i odbrani samoopredeljenja svih naroda.

Maduro je naglasio da to neće biti reforma, već ponovno osnivanje sistema Ujedinjenih nacija, sa novom bazom, koji će “imati snagu, liderstvo i glasove za odlučujući napredak u procesu konkretizacije i ubrzanja ovih procesa transformacije“.

2.- Zalaganje za priznanje novog međunarodnog ekonomskog poretka, u svjetlu pojave novih organizama, u svjetlu moćnog saveza sa organizacijom Briks (Brazil, Rusija, Indija, Kina i Južna Afrika) kao nadolazećom ekonomskom silom (…), i u svjetlu saveza sa regionalnim blokovima koji su se učvrstili u Aziji, Africi, Latinskoj Americi i Karibima.

3.- Sprovođenje konkretnih planova u okviru “Plana 2030”. Maduro je naglasio da se ovaj program, usvojen prije godinu dana, smatra “velikim prioritetom”.

Maduro je rekao da je kod ove tačke težnja da se prevaziđu dugovi i izazovi koje su ostavili kolonijalizam, neokolonijalizam, neoliberalizam i divljački sistem u kojem su naše ekonomije stavljene u podređeni položaj.

Takođe je istakao da prema posljednjim izvještajima Pokreta nesvrstanih postoji ogroman statistički napredak u društvenim kategorijama kao što su pristup hrani, zdravlje, rad i ljudska prava.

4.- Sprovođenje programa demokratizacije, poboljšanja komunikacije i razmjene informacija u okviru novog međunarodnog poretka. Naglasio je da se mora unaprijedi sve što ima veze sa komunikacijom, “zastavom koju je podigao Pokret nesvrstanih”.

Također je podsjetio da je komandant Hugo Čavez osnovao mrežu TeleSUR, koja je u vlasništvu većeg broja država, i danas predstavlja “prozor za istinu o borbama koje se vode širom Latinske Amerike i Kariba (…), vjerujemo da je došao momenat da se artikuliše sve veća moć komunikacije koju naši narodi stiču kroz bitku ideja”.

5.- Podsticanje politike koja će voditi miru, dijalogu između civilizacija i odbrani samoopredjeljenja naroda, nasuprot politici intervencionizma, ratnim prijetnjama i nekonvencionalnim modelima intervencije. Maduro je pozvao sve države članice Pokreta nesvrstanih da se postojano zalažu za rješavanje sukoba mirnim putem, to jest dijalogom i drugim diplomatskim metodama.

6.- Sprovođenje i širenje ekološkog programa zvanog “zelena agenda” koji već postoji u Južnoj Americi, jer smo “mi, Južnoamerikanci, velike žrtve globalnog zagrijavanja”; iz tog razloga je najavljen rad na nalaženju rješenja kojima bismo se suprotstavili ovom fenomenu koji pogađa planetu Zemlju.

7.- Pronalaženje rješenja za palestinsku stvar. “Moramo nastaviti bezrezervno i uporno podržavatinarod Palestine (…) To je jedna od centralnih neriješenih tema na nivou čitavog čovječanstva, a može se riješiti – na onaj način na koji je Južna Afrika (uključujući današnju Namibiju) oslobođena aparthejda”, naglasio je Maduro.

8.- Konačno okončanje progona i blokade bratske kubanske nacije od strane američke imperije, koja traje više od pet decenija, pogađajući kubanski narod na razne načine.

“Moramo da budemo uz Kubu do konačnog svršetka finansijske blokade (…) Kuba zaslužuje da joj se nadoknade sve ove godine blokade od strane vlade Sjedinjenih Država”, istakao je Maduro.

9.- Konkretizacija procesa dekolonizacije naroda Portorika.

10.- Zalaganje za rješavanje krize na Bliskom istoku, koja je proizvod imperijalističkih bombardovanja i drugih vrsta napada.

11.- Iskorijenjenje terorizma u svim oblicima. Maduro je dodao da se mora voditi borba protiv napada država koje izazivaju destabilizaciju. “Preuzimamo, sa velikim entuzijazmom, svaku inicijativu u borbi protiv terorizma u svim oblicima”, zaključio je.


(Global CIR/Princip.info)



(srpskohrvatski / italiano

Inviamo nuovamente il testo di Mirjana Jovanović Pisani che per un problema tecnico era risultato amputato nel precedente invio)


I sette morituri
GARIBALDINCI - ITALIJANSKI DOBROVOLJCI NA DRINI 1914


Riportiamo qui in anteprima un articolo di Mirjana Jovanović Pisani che uscirà in uno dei prossimi numeri della rivista belgradese Pečat. Esso narra della vicenda, pressoché sconosciuta o almeno dimenticata in Italia, dei sette volontari garibaldini che allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ben prima dell'entrata dell'Italia in quella guerra, si recarono volontari in Serbia per combattere contro l'Impero Asburgico. Di loro, cinque caddero praticamente subito in combattimento, nella remota località di Babina Glava presso il fiume Drina, al confine meridionale tra la attuale Bosnia-Erzegovina e la Serbia.

A questa storia in passato è stata dedicata scarsa letteratura. In Serbia l'interesse è forse maggiore che non in Italia, come dimostra anche la recente produzione e trasmissione di un documentario televisivo, intitolato "I SETTE MORITURI" (1). In Italia, un fascicolo fu edito dalla Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini (ANVRG) più di mezzo secolo fa (2). L'interesse appare essersi ridestato recentemente, sull'onda delle rievocazioni della Prima Guerra Mondiale in occasione del Centenario: ad esempio, un breve servizio è stato trasmesso da RAI Storia (3); ma a prendere l'iniziativa forse più importante è stata una Sezione ANPI, quella di Marino (RM), che ha prodotto un libricino illustrato scaricabile in rete (4). La cittadina di Marino, sui Castelli Romani, è infatti centrale in questa vicenda, poiché da lì provenivano alcuni dei volontari.

È giusto che l'ANPI abbia voluto fare propria la memoria di un tale episodio, visto che esso dovrebbe naturalmente rientrare nel novero della tradizione democratica e progressista del nostro paese. Infatti i "sette morituri" di Babina Glava, ispirati da concezioni repubblicane e internazionaliste, partirono clandestinamente a fine luglio 1914, a rischio di essere arrestati "ai sensi dell'Art.113 del codice penale" di un Regno sabaudo inizialmente proclamatosi neutrale perché legato alla potenze centrali, gli aggressori Austria e Germania, da un patto tanto simile a certi altri patti in virtù dei quali il nostro paese pavidamente sempre si schiererà dapprima con il più forte e più prepotente, previo poi magari pentirsene attuando tragici voltafaccia. 
L'ideale che muoveva le correnti mazziniane e garibaldine era fondato invece sulla solidarietà tra i popoli e, per quanto riguarda Italiani e Jugoslavi, come farà notare Sandro Pertini, la fratellanza << si era instaurata non soltanto negli anni duri della prima guerra mondiale, ma nel pieno del Risorgimento italiano, quando Giuseppe Mazzini nel 1857 pubblicò le sue "Lettere slave" e previde con estrema lucidità che il moto d'indipendenza degli Slavi del Sud sarebbe stato il più importante, dopo l'italiano, per l'Europa futura. "Il moto slavo" egli scriveva "dura lentamente continuo. Quando un'idea di libera patria, un'aspirazione nazionale si affaccia ad un popolo, nessuna forza può spegnerla o contenderle il più o meno lento sviluppo progressivo sino al trionfo." >> (5)

La Prima Guerra Mondiale avrà esiti comunque tragici. Per i popoli Slavi del Sud essa rappresenterà l'atto costitutivo del comune Stato jugoslavo, ma ancora nella forma immatura della monarchia Karadjordjevic e al prezzo di un numero esorbitante di morti proprio per la parte serba. Per gli Italiani la carneficina ai danni dei ceti più umili della popolazione non sarà da meno, e soprattutto grave risulterà alla fine il deturpamento dell'ideale risorgimentale, che la piccola borghesia peninsulare vorrà sempre più trasformare da moto di emancipazione sociale oltreché nazionale in volontà di prevaricazione con connotati spiccatamente militaristi e addirittura razzisti. È in tale frangente che hanno infatti origine le esagerazioni "dannunziane" relative al confine orientale italiano, dove a zone con composizione nazionale mista si volle assegnare una patente di "irredente" sulla base di concezioni rozze e a loro volta imperial-colonialiste. Il tradimento completo si avrà con il Fascismo, che mentre professava ed applicava le peggiori politiche antislave, riportava l'Italia nell'abbraccio mortale dell'imperialismo germanico. 

Proprio oggi, mentre assistiamo alla ricostruzione forzosa di una Unione Europea carolingia autocratica irrispettosa delle memorie, dei sacrifici e dei diritti dei popoli, è importante che la vicenda dei "morituri" di Babina Glava, assieme a tutto il resto della epopea risorgimentale italiana, siano finalmente liberati dalla ipoteca imposta nei decenni dalle inadeguate classi dirigenti nostrane, per essere restituiti al novero delle aspirazioni più nobili.

A. Martocchia


NOTE
(1) Documentario del regista serbo-italiano N. Lorenzin. Si vedano: https://www.youtube.com/watch?v=gunOKLHEuAI
http://www.mycity-military.com/Kantina/Sedmorica-sa-Drine-I-Sette-Morituri.html
http://www.palo.rs/zabava/sedmorica-sa-drine-i-sette-morituri/1716566/
http://www.rts.rs/page/tv/sr/story/21/rts-2/2277996/sedmorica-sa-drine---i-sette-morituri.html
(2) Asterio Mannucci: VOLONTARISMO GARIBALDINO IN SERBIA NEL 1914. Nel solco della prima guerra mondiale
Roma : Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini, \1960?! 
È in corso una traduzione di questo testo in lingua serbocroata.
(4) Ugo Onorati, Edoardo Scialis: EROI IN CAMICIA ROSSA 1914 - 2014. Cesare Colizza e i martiri di Babina Glava combattenti per la libertà dei popoli.
Marino (RM) : ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D'ITALIA, Sezione" Aurelio Del Gobbo" di Marino, 2014
DOWNLOAD: https://www.academia.edu/20088931/Eroi_in_camicia_rossa_volontari_garibaldini_in_Serbia_nel_1914?auto=download


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                                GARIBALDINCI  -  ITALIJANSKI  DOBROVOLJCI  NA  DRINI  1914
 

Mala ali značajna epizoda o italijansko-srpskoj saradnji na samom početku Prvog svetskog rata gotovo je nepoznata kod nas. Zahvaljujući dokumentima iz rimskih arhiva, biblioteka i muzeja saznalo  se podrobnije o ekspediciji garibaldinskih dobrovoljaca koji su učestvovali u borbi na Drini, gde su, osim dvojice, svi izginuli. Bili su to mladi revolucionari odgojeni na Macinijevim republikanskim idejama koje su podrazumevale kraj svakoj socijalnoj nepravdi i slobodu i ujedinjenje naroda u svojim granicama. Pripadali su naprednoj grupi Italijana za koje je Trojni savez, sklopljen u Beču 1882. god. Između Italije, Austrije i Nemačke, i obnavljan svake pete godine sve do 1912, ostao u nacionalnoj istoriji kao sramotan čin političkog podaništva zbog svog imperijalističkog karaktera i nejasnih klauzula koje su sputavale konačnu nezavisnost Italije.  Nerešeno pitanje severnih pokrajina (Trentino-Alto Adidže, Friuli-Venecija Đulija, Trst), koje su i posle ujedinjenja zemlje 1870. godine ostale pod austrijskom dominacijom, i Aneksija Bosne i Hercegovine na štetu Srbije (1908), pobuđivali su revolucionarni duh tih ljudi i pospešili njihovu odlučnost da pruže pomoć srpskom narodu u borbi za nezavisnost.

Posle Sarajevskog atentata 28. juna 1914. na prestolonaslednika Franca Ferdinanda i neprihvatljivog ultimatuma po Srbiju (23. VII 1914) od strane Austrije bilo je jasno da je rat neizbežan. Srbija, već iscrpljena u balkanskim ratovima (prvi protiv Turaka 1912, drugi protiv Bugara 1913), očekivala je pomoć od sila Antante.

Ali pre no što su se Rusija, Francuska i Engleska (koja je kolebljivo pokušavala da izbegne konflikt) odlučile da uđu u rat, organizovala se tajno u Rimu grupa hrabrih garibaldinaca i rešila da dà svoj doprinos protiv Austrije, tadašnjeg zajedničkog neprijatelja, boreći se uz srpske vojnike kod Višegrada, na vrhu zvanom Babina glava.

Vođena visokim moralnim načelom da se pomogne slabijem, ova grupa dobrovoljaca je htela ne samo da pruži hrabar primer ostaloj italijanskoj mladeži, već i da podstakne svoju zemlju da uđe u rat i okonča konflikt koji je decenijama ranije započeo Đuzepe Garibaldi (Giuseppe Garibaldi). Ovo tim pre što se društveno-politička situacija u Italiji s kraja XIX veka umnogome menjala, upravo u godinama njihovog stasavanja: jenjavali su patriotski duh i slobodarske težnje kojima su prethodnih decenija bili prožeti njihovi očevi boreći se pod Garibaldijem za oslobođenje i ujedinjenje svoje zemlje. Ovi mladi dobrovoljci su nasledili, dakle, ideale svojih predaka. Garibaldinski voluntarizam koji je, u kosmopolitskom smislu, težio ka pravdi i slobodi svih okupiranih naroda bio im je ideja-vodilja u njihovim namerama kada su se u malom mestu Marinu nedaleko od Rima, već poznatom po republikanskoj tradiciji, organizovali i tajno krenuli da se bore u srpskim redovima protiv austrougarskog agresora.

Za nameru garibaldinaca da zvanično pomognu Srbiji zalagao se u početku i general Ričoti Garibaldi (Ricciotti Garibaldi , sin Đ. Garibaldija i Anite, protagonista ranijih ratova za oslobođenje Italije i dobrovoljni učesnik u Grčkoj protiv Turaka 1913); ali ti pokušaji su ostali bez uspeha jer je italijanska vlada proglasila neutralnost zemlje i zatvorila svoje granice. Tako su se na teritoriji Italije formirali tajni komiteti (u Firenci, Savoni, Đenovi) za mobilizaciju dobrovoljaca  u pomoć Srbiji i Francuskoj.

Kada je 3. avgusta 1914. Italija proklamovala neutralnost svoje zemlje, došlo je do razmirica između italijanskih intervencionista, pristalica rata protiv Austrije, i neutralista, pristalica Trojnog saveza. Već samom objavom rata Srbiji, smatrali su intervencionisti, Austrija je pogazila ugovor o Trojnom savezu čiji je karakter trebalo da bude isključivo odbrambeni, te Italija nije morala više da ima nikakve obzire prema tom ugovoru. Stoga je, po mišljenju intervencionista, ovo bio pravi trenutak da se prekine svaka veza sa Centralnim silama. Svog junaka Guljelma Oberdana (Guglielmo Oberdan), koji je 1882. pokušao da ubije Franca Jozefa prilikom posete Trstu, ali kao žrtva špijunaže bio obešen, upoređivali su sa našim Gavrilom Principom i Nedeljkom Čabrinovićem. Za mnoge mlade italijanske revolucionare Sarajevskim atentatom osvećena je žrtva tršćanskog junaka Oberdana.

Ne čekajući na pregovore austrijska vlada je pet dana posle ultimatuma objavila rat Srbiji, a samo dan docnije, 29. jula 1914, krenuli su mladi entuzijasti iz Rima na Drinu. „Najuzvišenija obaveza me primorava da otputujem po svaku cenu još noćas. Radi se o mojoj moralnoj egzistenciji“, šalje telegram svojoj majci jedan od dobrovoljaca iz grupe i zajedno s ostalima kreće prema Bariju.

Bili su to:  Čezare Kolica (Cesare Colizza), 16. X 1884, Marino (Rim), publicista i dobrovoljni učesnik Grčko-turskog rata 1912. godine;

Frančesko Konforti (Francesco Conforti), 21. IX 1891, student prava iz Salerna, takođe garibaldinski  dobrovoljac u Grčkoj protiv Turaka, kod Trikale;

Mario Korvizjeri (Mario Corvisieri), 8. VIII 1885, Castel  Madama (Rim), garibaldinski kapetan iz Grčko-turskog rata.

Nikola Goreti (Nicola Goretti), 12. VIII 1896, Sutri (Viterbo), student, tek završio gimnaziju, najmlađi u grupi;

Vinčenco Buka (Vincenzo Bucca), 20. X 1895, Palermo, čuveni republikanac (generalni sekretar Omladinske republikanske stranke Italije);

Ugo Kolica (Ugo Colizza), 5. X 1882, Marino (Rim), docnije konzul;

Arturo Reali, 24.  IV 1892, Marino (Rim), dosledni republikanac.

Njima se docnije pridružio i Enco Poli (Enzo Polli) iz Splita.

Zbog pojačane kontrole nije im uspelo da pređu preko Barija, pa su morali da nastave za Brindizi i da preko Grčke stignu u Srbiju.

„Stiže vest da iz raznih krajeva naše zemlje treba da krenu mladi italijanski dobrovoljci za Srbiju. Moli se Vaša Visost da, uz budnu pažnju, apsolutno onemogući odlazak ovih dobrovoljaca i postupi, gde je potrebno, s prijavom po članu 113 Krivičnog zakona.“ Ovo je jedan od dokumenata Ministarstva unutrašnjih poslova Italije koji su tih dana stizali prefektima gradova Barija, Ankone, Venecije, odakle je bilo moguće eventualno prebacivanje dobrovoljaca do naše teritorije. No, to nije pokolebalo mlade garibaldince. U Brindiziju su uspeli da se ukrcaju na grčki brod „Mikale“ i stignu u Pirej, a 3. avgusta su se priključili ostalim dobrovoljcima iz Dalmacije, Crne Gore, Bosne i Srbije i došli u Atinu 4. avgusta. Tu su od srpskog konzula dobili dozvolu za ulazak na našu teritoriju. Srpske vlasti u Atini su im ponudile i finansijsku pomoć koju su oni dostojanstveno odbili obrazlažući da ne žele da budu plaćenici već dobrovoljci, i da će put nastaviti o svom trošku. Za njihov dolazak u Solun saznao je tadašnji italijanski konzul i po dužnosti uputio telegram ministru inostranih poslova koji dalje informiše ministra unutrašnjih poslova: „Konzul u Solunu me obaveštava da je grupa od desetorice Italijana otišla da se bori za Srbiju i da treba da stigne još stotinak...“

O nameri garibaldinaca da u većem broju pomognu Srbiju čitamo i iz pisma koje Čezare Kolica šalje iz Užica 17. avgusta poznatom publicisti, garibaldinskom majoru iz balkanskih ratova Mariju Ravasiniju: „...Da ne bismo izneverili naš garibaldizam, nosimo oko ruke crvenu svilenu traku, kako bismo se razlikovali od ostalih... Sutra putujemo prema bosanskoj granici i nikad kao u ovom trenutku nismo bili tako uzbuđeni u žarkom iščekivanju da se ogledamo s našim večnim neprijateljem, na strani srpskog naroda koji vodi pravedan rat. Grupa koju predvodimo Korvizjeri i ja sastavljena je  od Italijana, dezertera austrijske vojske i slovenskih studenata. Pozdravi generala (Ričotija Garibaldija) i prijatelje i reci im da ih očekujemo.“

Grupa je bila priključena komandantu, docnije generalu, Čedi Popoviću koji je imao zadatak da pod komandom pukovnika Dragomira Dimitrijevića organizuje legiju dobrovoljaca koja bi se borila uz regularne srpske trupe. Zajedno sa desnim krilom Šumadijske divizije upućena je prema granici Bosne, blizu Višegrada, gde je trebalo da onemogući napredovanje austrijskih trupa na teritoriji Velikog i Malog Storaža.

Iako slabije naoružana, uspela je četa dobrovoljaca da u neravnopravnoj borbi suzbije napredovanje mnogobrojnijeg neprijatelja i nanese mu velike gubitke.

Ovako opisuje razvoj događaja tog 20. avgusta starešina čete Stojan Radičević: „Naš protivnapad je počeo veoma uspešno. Italijanski dobrovoljci, koji su se već ranije u napadu pokazali kao vrlo hrabri, u jednom trenutku kolebljivosti neprijatelja pojurili su svi skupa prema neprijateljskoj poziciji s poklikom ’dole Austrija’, podstičući i ostale drugove. Sve moje naredbe da se vrate bile su uzaludne i već sam ih izgubio iz vida, jer su svom žestinom jurili niz dolinu neprestano pucajući...“

Po prekidu vatre Radičević je poslao izvidnicu da pronađe dobrovoljce, ali mu je stigla tužna vest: od njih sedmorice petoricu su naši mrtve. “Bili su to: Čezare Kolica, Frančesko Konforti, Mario Korvizjeri, Vinčenco Buka i Nikola Goreti sa puškama u ruci  i zadovoljnim, iskrenim osmehom na još toplim usnama...“

Kako kazuje preživeli Ugo Kolica, prvi je njemu pored nogu pao njegov brat Čezare, pogođen u glavu i grudi. Za njim  Konforti, Goreti i Buka. Korvizjerija, već teško ranjenog, izboli su Austrijanci bajonetima. Ugo Kolica je, bacivši bombu, uspeo da zađe neprijatelju za leđa i da se, zajedno s Polijem i Arturom Realijem, uz mnogo problema, nekako spasi.

Budući da su postigli cilj zbog koga su došli na srpsku teritoriju i saznavši da će Italija ući u rat protiv Austrije, preživeli Ugo Kolica i  Arturo Reali su se vratili u svoju domovinu i tamo nastavili borbu, dobivši prethodno obećanje od komandanta čete Čede Popovića da će njihovi drugovi biti sahranjeni na mestu borbe zajedno sa ostalim palim ratnicima čim srpska vojska zauzme položaje na vrhu Babina glava – što je posle nekog vremena i učinjeno od strane regularnih srpskih trupa. Da bi im se olakšao povratak, dobili su zvaničnu potvrdu na srpskom i francuskom jeziku od Štaba vrhovne komande s potpisom komandanta Dobrovoljačkog odreda Čede Popovića i pukovnika Dragutina Dimitrijevića, šefa Obaveštajnog odseka, u kojoj se navode njihova imena i priznanje za herojstvo palim i preživelim borcima.

Sva sedmorica odlikovana su zlatnom medaljom za zasluge u ratu od strane srpske vlade i kralja Petra Prvog.  Ceremonijal je održan u Rimu 1917. godine na trgu Sjena (Piazza di Siena – Villa Borghese) u prisustvu vojnih i političkih vlasti. Srpska vojna misija predala je medalje preživelim garibaldincima i porodicama odvažno palih junaka.

Adekvatno priznanje svoje otadžbine za ovaj uzvišeni čin nikada nisu dobili, iako su se mnogi republikanci, Društvo garibaldinaca i pojedini članovi porodica poginulih dobrovoljaca zalagali za to. Doktor Đirolamo Goreti (Girolamo Goretti), brat poginulog Nikole, u pismu upućenom italijanskoj vladi 1938. god. moli da se „prizna velika žrtva petorici skromnih junaka čije kosti leže zajedno s kostima hrabrih srpskih vojnika u kosturnici na Gučevu...“

Italijanska vlada dodelila im je samo ratni krst, priznanje koje dobijaju svi učesnici rata, isto ono koje su dobili garibaldinski učesnici boreći se u francuskoj pokrajini Argona pod komandom petorice unuka Đ. Garibaldija (imenom: Bruno, Kostante, Pepino, Menoti, Ričoti II), a čija je prvobitna namera, i to mnogih među njima, bila da dođu u Srbiju.

Zašto su od nje odustali?

Razlog treba tražiti u političkim previranjima tog perioda i novonastalim okolnostima na evropskoj sceni koje su Italiji otvorile nove perspektive, a nama svakako nisu išle naruku.  Zapravo, da bi uvukle Italiju u rat kao svog saveznika sile Antante su joj obećale teritorije koje su tada bile deo Austro-ugarske monarhije, između ostalog Istru, delove Dalmacije i ostrva od Paga do Mljeta. Koliko su se politička zbivanja brzo smenjivala vidi se i iz prepiske generala Ričotija Garibaldija. U pismu republikanskom publicisti Mariju Ravasiniju osuđuje Austriju smatrajući prepotentnim čin Aneksije Bosne i Hercegovine i daje pravo srpskom narodu da se tome odupre, pa čak pregovara sa srpskom delegacijom u Rimu da se tajno pošalju dobrovoljci koje bi on lično predvodio; podstiče italijansku mladež da se organizuje pod parolom  „svaki narod gospodar u svojoj zemlji, živeo srpski narod!“. A samo nekoliko dana docnije, u izmenjenim vojno-političkim okolnostima, pojavljuje se, 6. avgusta, njegovo drugo pismo u listu „Mesađero“ gde kaže da je u dogovoru sa predstavnicima srpskih vlasti u Italiji odlučeno da se ne šalju više dobrovoljci   „...u tu malu ali odvažnu zemlju koja zna hrabro da brani svoju slobodu, jer je epicentar borbe pomeren prema drugim granicama...“  pozivajući da se vrati i grupa dobrovoljaca. Oni su u to vreme već bili na putu za Kragujevac, odakle su 9. avgusta svom prijatelju, takođe garibaldinskom dobrovoljcu, po imenu Vecio Mančini (Vezio Mancini), poslali čuvenu razglednicu koja se pominje s posebnim pijetetom i čiji je sadržaj, sažet u antičkom pozdravu gladijatora (morituri te salutant), nagoveštavao njihovu nameru da će se boriti do smrti.

Svoj zadatak su časno obavili.

Na italijanskom groblju u Beogradu postoji nadgrobna ploča sa već poluizbrisanim imenima i jedva čitljivom posvetom:

„Pristupivši dobrovoljno u srpske redove pali su boreći se hrabro na Babinoj glavi 20. avgusta 1914 – Njihove posmrtne ostatke razneo je ratni vihor ali neka je večna uspomena na veliku žrtvu“ („Accorsi volontari tra le file serbe caddero combattendo a Babina Glava il 20. agosto MCMXIV –  Dispersa la spoglia mortale sia perenne il ricordo del loro sacrificio“).

Uz ovu sedmoricu dobrovoljaca, jer kako prikupljena građa ukazuje više ih nije bilo iz već navedenih razloga, treba pomenuti i mnogobrojne italijanske iredentiste iz pokrajine Venecija Đulija  (Venezia Giulia), Trsta i Dalmacije - teritorija koje su tada sačinjavale Austrougarsku monarhiju, pa se stoga zvanično nisu mogli smatrati Italijanima, ali nam je obaveza da se i njih setimo jer su i oni bili među prvima u ovom revolucionarnom poduhvatu.

Valja odati priznanje i mnogim ostalim garibaldinskim dobrovoljcima koji su se, po tradiciji, borili na srpskoj strani u drugim epohama: u ustanku u Bosni (1875-76) protiv turske okupacije, u kome je u svojoj mladosti učestvovao i kralj Petar Prvi pod pseudonimon Petar Mrkonjić; u Drugom svetskom ratu bili su na strani jugoslovenskih partizana protiv nacifašizma, a svoj doprinos su dali i u nedavnim sukobima u Bosni protiv NATO agresije.

Moralna vrednost tih entuzijasta je upravo u tome što, žrtvujući svoj život, učestvuju u ratnim okršajima koji, zapravo, osporavaju sâm ratni čin kao instrument zavojevača nad narodima koji brane svoju slobodu.

 
Autor teksta:  Mirjana Jovanović Pisani




Iniziative sull'internazionalismo partigiano

1) ISLAFRAN: presentazione a Torino il 27/9
2) PARTIZANI: La Resistenza italiana in Montenegro. Presentazioni a Rimini, San Marino, Monfalcone, Udine


=== 1 ===

Torino, martedì 27 settembre 2016
alle ore 18:00 presso la Biblioteca civica Natalia Ginzburg, Via C. Lombroso 16

presentazione del libro 

ISLAFRAN 
di Ezio Zubbini

... Sulle colline delle Langhe ha combattuto una brigata internazionale di cui pochi conoscono l'esistenza:
ISLAFRAN ( I=italiani, SLA=slavi, FRAN=francesi). 
Questo racconto vuole recuperare alla memoria la vicenda, esaltate e drammatica, di questi giovani stranieri giunti da terre lontane per combattere la barbarie nazifascista.

- Interviene CLAUDIO CANAL
- letture a cura di VESNA SCEPANOVIC ...

Evento facebook: https://www.facebook.com/events/159553687826473/


=== 2 ===

Segnaliamo le prossime presentazioni del documentario

Partizani. La Resistenza italiana in Montenegro
Durata: 65′
Regia: Eric Gobetti

Nikšić, Montenegro, 9 settembre 1943. Poco dopo l’alba l’artigliere Sante Pelosin, detto Tarcisio, fa partire il primo colpo di cannone contro una colonna tedesca che avanza verso le posizioni italiane. Nelle settimane successive circa ventimila soldati italiani decidono di non arrendersi e di aderire alla Resistenza jugoslava.
I partigiani della divisione Garibaldi raccontati in questo documentario sono eroi semplici, che hanno combattuto il freddo, la fame e una devastante epidemia di tifo, pagando con tremende sofferenze una scelta di campo consapevole e coraggiosa.

Produzione: Istoreto – Istituto piemontese per la Storia della Resistenza, Torino
Musiche originali: Massimo Zamboni
Riprese: Andrea Parena, Francesca Frigo, Domenico Scarpino, Eric Gobetti
Montaggio: Andrea Parena, Enrico Giovannone
Postproduzione: Babydocfilm

RIMINI
26 settembre, ore 17.00, alla Cineteca comunale di via Gambalunga 27, Rimini

SAN MARINO
27 settembre, ore 21.00, all’ex chiesetta dell’antico monastero di Santa Chiara, contrada Omerelli 20, San Marino città
Ingresso gratuito. Evento facebook: https://www.facebook.com/events/254631401604464/

MONFALCONE (GO) 
giovedì 29 settembre 2016 alle ore 20,30 presso la Sede ANPI di via Valentinis 84
Organizza ANPI Provinciale Gorizia in collaborazione con Forum Gorizia
UDINE
venerdì 30 settembre 2016 alle ore 20:30 presso Visionario, Via Fabio Asquini 33
La proiezione, patrocinata dall''Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, sarà introdotta da interventi dell'autore Eric Gobetti, autore di numerosi studi sull'area ex Jugoslava e da Federico Tenca Montini, dottorando presso l'Università di Zagabria. Il costo del biglietto, ridotto, è di 3 euro.



(srpskohrvatski / français / italiano)

Panturchìa / 5
La Bosnia bosgnacca

1) Il nuovo volto della Bosnia Erzegovina. Dopo quasi tre anni di attesa pubblicati i dati del censimento 2013 (Rodolfo Toè)
2) Enver Kazaz: la turcofilia nello spazio mentale bosgnacco. Le reazioni dell’élite politica e accademica bosgnacca al recente tentativo di colpo di stato in Turchia (Eldin Hadžović)

Sullo stesso tema si vedano anche i documenti raccolti alla nostra pagina:

Altri link:

BOSNA I HERCEGOVINA: DVIJE GODINE OD POPISA REZULTATA NI NA VIDIKU (Marija Arnautović – Radio Free Europe, 30.09.2015)
... Problem je i dalje metodologija na osnovu koje će biti određen broj rezidentnih odnosno stalnih stanovnika BIH. Oko ovog pitanja tri statističke agencije, entietske i državna, ne mogu da nađu kompromis...
http://www.slobodnaevropa.org/content/dvije-godine-cekanja-na-rezultate-popisa/27279757.html

BOSNIE-HERZÉGOVINE : LA COUR EUROPÉENNE RECONNAÎT QUE LA CONSTITUTION EST « DISCRIMINATOIRE » (Courrier des Balkans | De notre correspondant à Sarajevo | mardi 14 juin 2016)
Oui, la Constitution de la Bosnie-Herzégovine est bien discriminatoire. C’est ce que confirme encore une fois la Cour européenne de Strasbourg, en donnant raison à Ilijaz Pilav, un médecin bosniaque de Srebrenica qui n’a pas pu présenter sa candidature à la présidence tripartite du pays car il réside en Republika Srpska. Un jugement historique...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/ilijaz-pilav.html

BOSNIE-HERZÉGOVINE : LES RÉSULTATS DU RECENSEMENT 2013 ENFIN PUBLIÉS (Courrier des Balkans, 30 juin 2016)
La Bosnie-Herzégovine a finalement publié ce jeudi les résultats complets du recensement de 2013. Les données confirment le changement démographique après la guerre dans les années 1990 et soulignent le nouvel équilibre entre les trois « nations constitutives » du pays, au risque de provoquer une nouvelle rupture entre Banja Luka et Sarajevo...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/bosnie-recensement-resultats.html

RECENSEMENT EN BOSNIE-HERZÉGOVINE : L’APRÈS-GUERRE A PARACHEVÉ LES DIVISIONS (Courrier des Balkans, lundi 4 juillet 2016)
Un pays vieillissant qui se vide de sa jeunesse, des villes et des régions ethniquement homogènes, des communautés nationales de plus en plus fermées sur elles-mêmes. Tel est le visage de la Bosnie-Herzégovine aujourd’hui, après les résultats du recensement de 2013, enfin publiés la semaine dernière...
http://www.courrierdesbalkans.fr/articles/recensement-en-bosnie-herzegovine-l-apres-guerre-a-paracheve-les-divisions.html

BAKIR IZETBEGOVIĆ À NOVI PAZAR POUR UNIFIER LES BOSNIAQUES, SCANDALE EN SERBIE (Radio Slobodna Evropa | Traduit par Jovana Papović | samedi 30 juillet 2016)
Bakir Izetbegović, président du Parti de l’action démocratique (SDA) et membre bosniaque de la Présidence collégiale de Bosnie-Herzégovine, était vendredi à Novi Pazar pour lancer une « coalition régionale du SDA ». Sa comparaison de Novi Pazar avec Banja Luka a provoqué un scandale en Serbie...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/izetbegovic-a-novi-pazar.html


=== 1 ===


Il nuovo volto della Bosnia Erzegovina

Dopo quasi tre anni di attesa, e a più di un ventennio dall'ultimo censimento effettuato nel paese, le autorità bosniache hanno pubblicato i dati completi del censimento 2013

05/07/2016 -  Rodolfo Toè

La sala della conferenza stampa allestita all'interno dell'Hotel Europa, a Sarajevo, pare quasi colta di sorpresa quando sullo schermo si materializza la diapositiva che tutti, visibilmente, aspettavano. Evo ih, eccoli, mormora qualcuno, riscuotendosi e iniziando febbrilmente a prendere appunti, scrivendo le cifre - le nuove cifre - che finalmente sono lì, nero su bianco, ufficialmente, dopo mesi e mesi d'illazioni.

Non importa il fatto che alle tre domande relative ad appartenenza etnica, lingua e religione, rispondere non fosse obbligatorio. Né tanto meno conta la raccomandazione di Eurostat, che aveva addirittura esortato le autorità bosniache a tralasciare la questione. Perché quello che importa alle decine di reporter presenti, ma anche alla maggior parte dell'opinione pubblica bosniaca, sono soprattutto le nuove percentuali relative alla composizione etnica della popolazione.

Le precedenti, quelle relative al 1991, erano assurte negli anni a un'importanza quasi feticistica, in una Bosnia Erzegovina dominata dagli Accordi di Dayton e dall'equilibrio delle tre "nazioni costitutive": bosgnacchi (musulmani), 43,47%; serbi 31,21%; croati 17,38 %; jugoslavi 5,54%; altre minoranze 2,4%. Questo aveva sancito l'ultimo censimento condotto prima dell'indipendenza del paese, e prima dei tre anni di guerra.

Da giovedì 30 giugno, da quando cioè l'Agenzia statistica di Bosnia Erzegovina ha pubblicato i risultati, queste percentuali possono essere aggiornate. A dichiararsi bosgnacco è infatti ora ben il 50,11% della popolazione; i serbi sono il 30,78%; i croati il 15,43%. Il resto - 2,73% del totale - è rappresentato dagli ostali, gli altri, categoria nella quale in Bosnia Erzegovina si fa ricadere chi appartiene a una minoranza oppure chi rifiuta di dichiararsi come membro delle tre nazioni costitutive. [Ma in quanti stavolta si sono rifiutati di rispondere? ndCNJ]

Venticinque anni di pulizia etnica ed emigrazione

Il primo dato che salta agli occhi, comunque, è la diminuzione della popolazione totale della Bosnia Erzegovina, come effetto congiunto del conflitto e della stagnazione del dopoguerra, che ha spinto decine di migliaia di persone a emigrare.

I dati finali sono ancora più drammatici di quanto avevano fatto presagire quelli parziali, rilasciati a novembre 2013, e che già avevano fatto parlare di "catastrofe demografica". La popolazione bosniaca è oggi di sole 3.531.159 persone, il che significa che dal 1991 il paese ha perduto 845.874 abitanti, praticamente uno su cinque.

Se la diminuzione dei residenti può essere considerata come il primo tra i lasciti della guerra e dei problemi del ventennio successivo, il secondo è però sicuramente la composizione etnica delle differenti nazioni costitutive sul territorio bosniaco. Si tratta di dati che non stupiscono nessuno, visto che la situazione sul terreno era già chiara, ma la cui contabilità è resa ufficiale per la prima volta.

Appare così chiaro che le due entità del paese, la Federazione di Bosnia Erzegovina e la Republika Srpska, sono tracciate secondo precisi confini etnici: se nella prima i bosgnacchi rappresentano infatti il 70,4% della popolazione e i croati il 22,44%; in RS la maggior parte degli abitanti si sono dichiarati come serbi (81,51%), mentre i bosgnacchi sono il 13,99% e i croati soltanto il 2,41%.

Lo stesso discorso vale anche per le municipalità: a ribadire il fatto che la pulizia etnica ha prevalso in Bosnia Erzegovina contribuisce la statistica che soltanto in sei comuni (tra cui i principali sono Mostar, Jajce e Brčko) su un totale di 143 non c'è un gruppo nazionale che costituisce la maggioranza assoluta della popolazione.

Una tendenza confermata anche nelle principali città: a Sarajevo è crollato il numero di residenti serbi e croati e la maggior parte della popolazione (80,74%) è costituita da bosgnacchi, mentre Banja Luka, il centro amministrativo della RS, è abitata quasi esclusivamente da serbi (89,57%). Mostar, la città principale dell'Erzegovina, ha visto aumentare il numero dei propri residenti bosgnacchi e croati, ma il numero di serbi è crollato, passando da 23.846 a 4.420. Il censimento, infine, conferma anche la dimensione della pulizia etnica avvenuta nei centri urbani della valle della Drina, con la popolazione di etnia bosgnacca drasticamente ridimensionata a Zvornik (da 48.102 a 19.855), Višegrad (da 13.471 a 1.043) o ancora a Srebrenica (da 27.572 a 7.248).

Questi dati, che da giorni campeggiano sui giornali bosniaci, hanno comprensibilmente attirato la maggior parte dell'attenzione dell'opinione pubblica, mettendo in secondo piano altre statistiche che pure sarebbero più importanti per stabilire quali debbano essere le priorità della politica bosniaca nell'immediato futuro. Grazie al censimento, si è infatti visto che l'età media della popolazione bosniaca è sensibilmente aumentata, da 34 anni nel 1991 a 39; o ancora che la Bosnia Erzegovina ha un tasso di analfabetismo del 2,82%, più elevato che nei paesi vicini - dati importanti (e che sono consultabili in internet a questo indirizzo), ma che, come ha sottolineato il Primo Ministro bosniaco Denis Zvizdić, "non è interesse di nessuno commentare."

Pubblicare i dati, ma a che prezzo?

La pubblicazione dei dati finali del censimento, per quanto rappresenti un passo essenziale per la Bosnia Erzegovina, secondo molti commentatori locali non è stata fatta nel migliore dei modi.

Per mesi, infatti, trovare un accordo per permettere la pubblicazione dei risultati è stato impossibile, a causa dell'opposizione dell'Istituto statistico di Republika Srpska, che contestava il metodo utilizzato per calcolare il numero di residenti stabili in una determinata area.

Alla metà del mese di maggio, tuttavia, dopo innumerevoli incontri senza risultato il direttore dell'Agenzia statistica nazionale di Bosnia Erzegovina (l'unica che, secondo la legge, è responsabile di pubblicare i dati finali) Velimir Jukić ha deciso di pubblicare i risultati finali senza trovare un compromesso con le autorità di Banja Luka.

L'effetto di una tale decisione unilaterale è che, come hanno ripetuto tutti gli esponenti dell'establishment serbo-bosniaco, questi risultati non verranno riconosciuti in Republika Srpska. La quale, anzi, starebbe pianificando di pubblicare autonomamente i dati del censimento relativi al proprio territorio.

Ciò che potrebbe rivelarsi più grave, comunque, è il fatto che la decisione di Jukić potrebbe causare una grave paralisi istituzionale, dal momento che Mladen Ivanić, il rappresentante serbo della Presidenza bosniaca, ha annunciato che assumerà delle posizioni più intransigenti su alcune questioni essenziali per la Bosnia Erzegovina al fine di proseguire nel proprio percorso di integrazione europea, in reazione alla decisione dell'Agenzia statistica bosniaca, presa senza tenere conto dell'opinione di Banja Luka.

Così, nelle settimane scorse, Ivanić ha ostacolato l'approvazione da parte della Presidenza collegiale bosniaca di due provvedimenti ritenuti essenziali per ottenere lo status di candidato UE, dopo che la Bosnia Erzegovina ha presentato la propria domanda in febbraio: l'aggiornamento dell'Accordo di Stabilizzazione e di Associazione, e la creazione di un meccanismo di coordinamento che è richiesto al paese per implementare le politiche richieste da Bruxelles.

Pubblicare i risultati del censimento è una conquista importante per uno stato che li attendeva da venticinque anni, e che ora avrà delle statistiche più affidabili per implementare le proprie politiche. Il modo in cui essi sono stati resi pubblici, tuttavia, rischia di creare nuove paralisi istituzionali nel paese - e di incrementare la distanza tra Banja Luka e Sarajevo.



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Enver Kazaz: la turcofilia nello spazio mentale bosgnacco


Enver Kazaz insegna presso la Facoltà di Filosofia di Sarajevo. In quest'intervista le reazioni dell’élite politica e accademica bosgnacca al recente tentativo di colpo di stato in Turchia

29/08/2016 -  Eldin Hadžović 

(Originariamente pubblicato dal portale Novosti   il 31 luglio 2016, titolo originale Enver Kazaz: Turkofilija je premrežila bošnjački mentalni prosto  

Professor Kazaz, è rimasto sorpreso dall’appoggio quasi unanime che l’establishment politico bosgnacco ha espresso al presidente turco Recep Tayyp Erdoğan a seguito del tentato golpe che ha recentemente scosso la Turchia – e questo nonostante giungano notizie di una crudele rappresaglia intrapresa contro i presunti golpisti, durante la quale si è arrivati persino alla sospensione della Convenzione europea dei diritti umani?

Non mi ha sorpreso tanto l’appoggio in quanto tale, perché anche altre potenze mondiali, più o meno forti, hanno espresso il loro sostegno all’autocrate di Ankara, quanto i suoi contenuti e toni. Detto ironicamente, questi semi-istruiti esponenti politici bosgnacchi hanno gridato così forte il loro appoggio a Erdoğan che sembrava che il tentato golpe fosse avvenuto in casa loro, se non addirittura nella loro camera da letto.

Da dove vengono un tale appoggio e servilismo? Che derivino dal loro amore per la democrazia è da escludere del tutto. Non hanno mai pronunciato una parola contro un regime nefasto come quello dell’Arabia Saudita, dove i poeti vengono condannati alla pena di morte solo perché sospettati di non credere in Dio.

Il cosiddetto establishment bosgnacco, che in realtà non è altro che un demi-monde politico, chiama affettuosamente Saudia quel paese. Per loro la democrazia è solo un mezzo per gonfiare i propri conti correnti. Perché allora hanno gridato? Soltanto perché volevano, ancora una volta, compiacere servilmente Erdoğan, “leader di tutti i musulmani” (come lo definì tempo fa Bakir Izetbegović), colui al quale Alija Izetbegović sul letto di morte lasciò “la Bosnia in eredità”.

Reagendo ai fatti più recenti, il figlio di Alija ha dichiarato che Erdoğan è “suo fratello”, “il nostro leader” e che “il popolo turco difende la democrazia e ha fatto sapere chi vuole al potere”. Ma non sono stati solo i politici a gridare. Lo hanno fatto anche alcuni esponenti della comunità accademica, come ad esempio Esad Duraković, o una certa Amina Šiljak-Jasenković, che si presenta come turcologa, nonostante il suo curriculum scientifico difficilmente possa esserne prova. Duraković ha parlato come se fosse il portavoce di Erdoğan, sostenendo che dietro al tentato colpo di stato ci sono i sionisti, mentre la Šiljak-Jasenković ha accusato Gülen di essere ispiratore e mandante del fallito golpe, esattamente come ha fatto lo stesso Sultano del Bosforo, come i media liberali occidentali chiamano Erdoğan.

E nessuno ha offerto neanche un singolo argomento a sostegno delle proprie affermazioni. Si è trattato solo di propaganda. Nessuno ha pronunciato nemmeno una parola sul carattere autocratico del regime di Erdoğan, sul suo tentativo di modificare la costituzione per dare più potere al Presidente, sul totale abbandono della tradizione kemalista e secolarista su cui è stata fondata la Turchia moderna, sul palese tentativo di imporre alla società turca l’islamismo come ideologia normativa, sulla cancellazione delle narrazioni umanistiche e razionalistiche a cui attinse già il tardo Impero Ottomano, come scrive intelligentemente Orhan Pamuk  nel suo romanzo “Istanbul”.

Nella discussione bosgnacca si tace del tutto sul fallito colpo di stato, sugli arresti e purghe di massa che il regime di Erdoğan sta attuando in questi giorni contro coloro che vengono bollati come “gulenisti”, scagliandosi contro professori, giudici, rettori, giornalisti e sottoponendo decine di migliaia di persone al terrore di stato, esattamente come avveniva nei regimi totalitari più tetri. La rappresaglia mediatica, poliziesca e religiosa è di tali dimensioni che si può parlare di Erdoğan come di uno stalinista di orientamento islamico. Questo lato oscuro dell’erdoganismo resta completamente invisibile nello spazio pubblico bosgnacco, in cui a discapito di un’analisi argomentata prevalgono l’emozionalismo politico e una turcofilia immedesimatrice che vuole trasformare i bosgnacchi odierni in turchi pro-Erdoğan.

Direi che l’erdoganismo e una turcofilia/islamofilia superficiale, basata sull’emozionalismo, il tutto accompagnato dal fantasma neo-ottomano, sono elementi salienti dell’attuale discussione in seno alle élite politiche, accademiche, religiose e mediatiche bosgnacche.

Ovviamente, ogni forma di violenza, e soprattutto un colpo di stato, deve essere condannata pubblicamente se si pretende di difendere i valori democratici. Ma allo stesso modo deve essere condannata anche la violenza di un apparato statale repressivo nei confronti delle persone la cui colpa non è stata provata. Le presunte élite bosgnacche, col loro tifare all’unisono per Erdoğan, tengono il proprio popolo in una specie di schiavitù mentale, impedendogli ogni emancipazione dalle loro narrazioni militariste.


Durante la guerra in Bosnia, gli sciovinisti serbi e croati bollavano i bosgnacchi con l’epiteto ingiurioso di “turchi”, mentre l’establishment musulmano di allora, compreso lo stesso Alija Izetbegović, insisteva sull’esistenza di una specifica identità bosgnacca, rigettando con disgusto il paragone con i turchi. Con la fine della guerra questo atteggiamento è cambiato, sicché siamo stati testimoni di varie manifestazioni della “turchizzazione dei bosgnacchi”. Da dove viene questa turcofilia così marcata dei bosgnacchi?

Non sono sicuro che il signor Izetbegović abbia mai perseguito una politica sistematica, tantomeno tesa a delineare una forma moderna dell’identità nazionale bosgnacca. Prima di morire lasciò la Bosnia in eredità a Erdoğan, come ho già menzionato. Le uniche caratteristiche persistenti della sua concezione politica dell’identità nazionale bosgnacca sono antimodernismo e anticomunismo, oltre alla nozione di Islam come fondamento dell’identità nazionale.

Parliamo di un personaggio che nel 1994, proprio in Arabia Saudita, fu insignito del premio “Pensatore islamico dell’anno”, e che con l’avanzare della guerra scelse di abbandonare i principi contenuti nella cosiddetta Piattaforma della Presidenza della Repubblica di Bosnia Erzegovina, un documento adottato nel 1992 con il quale ci si proponeva di definire gli obiettivi della difesa del paese dall’aggressione, pensando la Bosnia, in termini ideologici, come un paese civile, laico e multietnico.

È vero che a quel tempo Izetbegović padre spese qualche stentata parola sul fatto che i bosgnacchi non erano turchi, come se la questione fosse in discussione, ma al contempo si apprestava, ben volentieri, a formare le brigate musulmane. Disse quella cosa solo per contrastare quell’ideologia aggressiva e sciovinista propagata dalle autorità serbe e croate che, alimentandosi dall’islamofobia e turcofobia, costituiva una sorta di preparazione propagandistica dei crimini di guerra contro la popolazione bosgnacca.

Alija Izetbegović non perseguiva una politica sistematica, bensì cercava di togliere autorità agli organi dello stato, creando un intero sistema di istituzioni parastatali che avevano il compito di fornire appoggio logistico all’esercito della BiH. Detto in parole povere, la sua politica identitaria era caotica e inconsistente, quindi un calembour narrativo e simbolico che suo figlio ridurrà ad un erdoganismo volgare e un fantasma ideologico neo-ottomano. Per essere del tutto precisi: Bakir Izetbegović non offre nessuna ideologia, solo un fantasma erdoganista. Egli è uno schietto e autoritario pragmatico. La turchizzazione aggressiva dei bosgnacchi, come la chiama lei, a me sembra piuttosto un’erdoganizzazione volgare delle élite bosgnacche, smarrite nella propria semi-ignoranza. In più, questo amore tra Erdoğan e Izetbegović non è accompagnato da una cooperazione economica. Oggi la Turchia investe capitali irrisori in Bosnia, mentre aiuta in maniera notevole l’economia di alcuni altri paesi della regione, come la Serbia o la Romania.


Quanta ironia vi è nel fatto che sia proprio il figlio di Alija Izetbegović ad essere paladino della diffusione della turcofilia tra i bosgnacchi, che poi assomiglia irresistibilmente alla russofilia dei nazionalisti serbi?

Sì, le odierne élite bosgnacche, seppur inclini all’(auto)vittimizzazione, nel costruire la propria identità nazionale si ispirano al modello narrativo delle élite scioviniste serbe. Ed è un vero paradosso: l’allora vittima sta copiando il modello narrativo della costruzione identitaria dal proprio carnefice. La turcofilia ha avviluppato come una rete lo spazio mentale bosgnacco, esattamente come la russofilia avviluppa quello serbo, e la germanofilia quello croato. La guerra mentale tra queste “filie” dimostra che tutte e tre le etnie costituenti la Bosnia in realtà si stanno autocolonizzando. Semplicemente non riescono ad andare oltre, perché il loro potenziale intellettuale equivale al nulla.


Cosa ci dice tutto ciò sull’identità nazionale bosgnacca?

Dal calembour narrativo a cui assistiamo è possibile estrapolare processi di arcaizzazione, ghettizzazione, vittimizzazione, reislamizzazione, clericalizzazione, arabofilizzazione, turchizzazione, militarizzazione, mascolinizzazione, debosnizzazione dell’odierna identità nazionale bosgnacca. Ma per descrivere questi processi servirebbe molto più spazio di quanto ne abbiamo a disposizione. Ciò che è comunque importante sottolineare è che l’identità nazionale bosgnacca cominciò a formarsi nel XIX secolo parallelamente al processo di deottomanizzazione e accettazione dei valori del razionalismo e dell’umanesimo europeo. Il paradosso sta nel fatto che le odierne élite bosgnacche sono più arcaiche e conservatrici di quelle del XIX secolo che cercarono di europeizzare la comunità musulmana bosniaca di allora, ponendo le fondamenta del suo evolversi in una nazione.


È d’accordo sul fatto che, parallelamente ai processi da lei elencati, il nazionalismo bosgnacco sia diventato più aggressivo, e manifestamente più simile all’isteria nazional-sciovinista che nei primi anni Novanta pervase Belgrado e Zagabria, oppure pensa che questa spinta nazionalista sia da sempre esistita nella comunità bosgnacca?

Nei Balcani ogni nazionalismo è aggressivo, e basta poco perché si trasformi in sciovinismo. Nel momento in cui un’ideologia nazionalista conquista un considerevole potere, e quella bosgnacca lo ha di fatto conquistato nei territori su cui esercita la propria influenza, diventa aggressiva nei confronti di ogni forma di alterità.

Il carattere militante del nazionalismo bosgnacco si rispecchia maggiormente nel modo in cui i media controllati prima da Alija e successivamente da Bakir Izetbegović prendevano, e continuano a prendere di mira gli intellettuali non-bosgnacchi distintisi per il loro enorme capitale simbolico – intellettuale, letterario e filobosniaco: Marko Vešović, Ivan Lovrenović, Miljenko Jergović, e più di recente anche Nenad Veličković.


La Facoltà presso la quale lei insegna, così come l’intera Università di Sarajevo, ha un ruolo fondamentale nei processi di cui abbiamo parlato. Può indicarci quali sono i principali attori di questi processi e quali i loro ruoli?

La Facoltà di Filosofia di Sarajevo condivide il destino dell’intera società bosniaca, afflitta da una grave decadenza dei valori. Senza nulla togliere alle lodevoli eccezioni, vi è da sottolineare che molti professori della suddetta facoltà contribuiscono con la propria produzione scientifica a plasmare l’immaginario simbolico dell’identità collettiva dei bosgnacchi radicali.

In questo senso, l’Università di Sarajevo e altre università chiamiamole “bosgnacche” non si distinguono affatto da quelle “serbe” e “croate” nella Bosnia Erzegovina. Le università bosniache, esattamente come l’intero sistema educativo, sono fucina di narrazioni nazionaliste, ma anche luogo dove nascono le loro critiche scientificamente responsabili, seppur poche. Ed è per questo che, giocando con la lingua, io chiamo le università bosniache uniZVERiteti invece che univerziteti [zver in bosniaco significa bestia, ndt.], o nella variante croata sveMUČILIŠTA invece che sveučilišta [dal termine mučilište che significa luogo di tortura, ndt.].


Qual è, in questo contesto, il ruolo della Comunità islamica della Bosnia Erzegovina?

Dopo essere stata dispoticamente guidata da Mustafa Cerić, la più grande peste sociale bosgnacca a cavallo dei due millenni, il nuovo reis Kavazović è in gran parte riuscito a depoliticizzare questa comunità. Tuttavia, nemmeno lui è immune dal fare escursioni in campo politico. Le istituzioni religiose degli slavi meridionali sono inclini a impossessarsi del potere politico. Il reis Kavazović si distingue per aver assunto un atteggiamento diverso nei confronti di questo fascino della religione politica, che tende a trasformare il Dio metafisico in una bandiera politica. La religionizzazione dell’ideologia e l’ideologizzazione della religione hanno cancellato il Dio metafisico dall’ortodossia, dal cattolicesimo e dall’islam. Perché una comunità religiosa dovrebbe rinunciare al potere seducente di un Dio politico e ideologico per ritornare a quello metafisico?


I dati dell’ultimo censimento della popolazione della Bosnia Erzegovina sono stati pubblicati quasi tre anni dopo il suo svolgimento, indicando ciò di cui siamo tutti ormai da tempo consapevoli: la Bosnia Erzegovina non è più una società multietnica, bensì un semplice insieme di tre territori monoetnici. Come commenta il fatto che le élite bosgnacche preferiscono compiacersi della “vittoria dei bosgnacchi nel censimento”, piuttosto che preoccuparsi per la “purezza etnica” di Sarajevo?

Sulla morte di una Bosnia multietnica, confermata dai dati del censimento, ho scritto recentemente. Il censimento ha mostrato come la Bosnia Erzegovina di oggi sia una federazione trietnica composta dai territori etnicamente più omogenei al mondo. Le élite bosgnacche, così come quelle serbe e croate, di questo non parlano affatto, bensì cercano di usare i risultati del censimento per dimostrare la sussistenza del proprio diritto ad abitare un territorio etnicamente omogeneo.

Dietro ai discorsi delle élite bosgnacche sulla “vittoria dei bosgnacchi” nel censimento si cela un retroscena ideologico che affonda le sue radici nel fantasma di un grande stato. E la Bosnia trietnica si presenta come compimento delle aspirazioni belliche. Per quanto possa suonare amaramente ironico, se nel censimento c’è un vincitore, questo è il criminale di guerra Radovan Karadžić. La Bosnia Erzegovina di oggi vive in bilico tra il desiderio delle élite politiche di modificare la costituzione in modo da poter raggiungere, in tempo di pace, gli obiettivi rimasti irrealizzati durante la guerra e un percorso verso l'Unione europea che sembra irrealizzabile. Questa incertezza sta facendo scomparire gli ultimi rimasugli di quello che una volta era un paese multietnico.  




GUERRA GUERRA GUERRA

1) Siria e dintorni
– Siria: Obama bombarda la tregua (LINKS)
– Perche' non aderiamo all'appello ed alla manifestazione del 24 settembre (Lista Comitato No Guerra No Nato e Rete No War Roma)
– I crimini degli Usa in Siria e quei sedicenti 'sinistri alternativi" sempre dalla parte sbagliata della storia... (Mauro Gemma)
2) Libia e dintorni
– L’Italia e’ in guerra (Rete campana contro la guerra e il militarismo)
– I miliziani di Misurata che l’Italia va a curare sono criminali di guerra (Marinella Correggia, Il Manifesto del 16.9.2016)
3) Esplosive mail della Clinton (Manlio Dinucci, Il Manifesto del 20.9.2016)


Si veda anche:

Videocorso per smascherare le bufale di guerra (SiBiaLiRia 9.9.2016)
“Tu dammi le fotografie e io ti darò la guerra” tuonava l’editore William Hearst al suo fotografo Frederick Remington che, nel 1898, non trovava a Cuba nessuna scena che giustificasse una invasione USA.
Da allora molte cose sono cambiate, ovviamente in peggio. E oggi, secondo Sheldon Rampton – già autore di un libro che ha fatto scuola – soltanto negli USA, le organizzazioni governative e gli istituti, organizzazioni e fondazioni ad esse aggregate spenderebbero annualmente più di un miliardo di dollari per promuovere, tramite la Rete, le guerre dell’Impero. Un lavoro condotto, spesso con maestria, da legioni di giornalisti, pubblicitari, esperti in video… e che gli ignari utenti della Rete (un miliardo e mezzo di persone solo Facebook) provvedono a diffondere in ogni dove.
Per cercare di arginare questo fiume di menzogne, pochi attivisti NoWar e qualche giornalista ancora onesto si industriano nell’analizzare e smascherare le “bufale” che – sopratutto dopo la guerra alla Libia del 2011 – ci vengono tutti i giorni propinate. E per far crescere questa fondamentale rete di controinformazione Sibialiria ha realizzato un videocorso che illustra alcuni segreti di bottega per smascherare queste bufale.
Qui sotto le prime due puntate.
Prima puntata (Sibia Liria, 8 set 2016)
Seconda puntata (Sibia Liria, 8 set 2016)


=== 1: Siria e dintorni ===

ISIS Air Force: gli aerei di Obama fanno strage di soldati siriani (PandoraTV, 18 set 2016)
Mentre l'attenzione del mondo è deviata da un attentato a Manhattan, è in atto una svolta drammatica della guerra siriana. Un raid aereo USA uccide decine di militari e all'istante parte l'offensiva ISIS. Mosca accusa Washington: li protegge...

Siria: Obama bombarda la tregua. Usa in (colpevole) confusione (di Marco Santopadre, 19 settembre 2016)
... Un grosso, ennesimo regalo dell'amministrazione Obama ai cosiddetti 'ribelli moderati', dopo la pioggia di milioni che sono spesso serviti ad armare e addestrare miliziani passati poi ad al Qaeda o a Daesh...

Attacco Usa sulle truppe siriane, il racconto delle vittime (PandoraTV, 20 set 2016)
Sabato 17 settembre, a soli cinque giorni dall’accordo tra Russia e Usa sulla tregua in Siria, due caccia F-16 jet e due aerei di supporto A-10 della coalizione occidentale hanno lanciato quattro attacchi aerei contro le postazioni dell’esercito siriano nella montagna di Al-Tharda. Sessantadue le vittime tra i soldati siriani. Oltre 100 i feriti. La zona è ora sotto il controllo dello Stato Islamico...

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Comunicato della Lista Comitato No Guerra No Nato e della Rete No War Roma

 

PERCHE' NON ADERIAMO ALL'APPELLO ED ALLA MANIFESTAZIONE DEL 24 SETTEMBRE

Pur avendo sostenuto per anni la lotta del popolo curdo, siamo molto preoccupati delle scelte che una parte della sua dirigenza ha imposto in Siria. Queste scelte e le loro conseguenze non sono assolutamente messe in discussione dall’appello per il 24 settembre:

 

1)     Non viene minimamente condannato il fatto che l'esercito turco ha invaso uno stato indipendente, la Siria, in cui gli stessi Curdi vivono, violandone platealmente la sovranità.

2)     Non viene chiarito che gli stessi Curdi della Siria, ed i loro alleati delle "forze democratiche siriane" (spezzoni di vecchie formazioni jihadiste facenti capo al sedicente Esercito Libero Siriano), hanno per primi essi stessi violato la sovranità del loro paese consegnando nelle mani dell'alleato esercito statunitense una serie di basi su suolo siriano. 

3)     Viene taciuto che gli stessi statunitensi si servono di queste basi per attaccare e minacciare l'esercito nazionale siriano che difende l'unità, l'indipendenza e la sovranità del paese, mentre contemporaneamente l'esercito nazionale viene bombardato anche da Israele, che cura anche i feriti di Fateh al-Sham (ex al-Nusra) e dell'ISIS nei propri ospedali..
L'ultimo deliberato bombardamento dell'esercito USA sulle posizioni  dell'esercito siriano a Deir Es Zor, città assediata dalle bande dell'ISIS,  che ha causato decine di morti, favorendo così gli attacchi dell'ISIS, dovrebbe far riflettere sulle reali intenzioni degli USA. Gli Statunitensi stanno anche sabotando la tregua umanitaria concordata con la Russia, non onorando l'impegno preso di costringere le formazioni armate da loro controllate a cessare il fuoco ed a distaccarsi dai terroristi estremisti dell’ex al-Nusra ed ISIS. 


Fin dagli anni '90 i neocons USA nei loro documenti indicavano una serie di paesi da distruggere perché non compatibili con i loro sogni di domino mondiale, tra cui la Siria, la Jugoslavia, l'Iraq, l'Iran, la Libia e altri paesi. A partire dall'amministrazione di Bush jr le indicazioni dei neocons sono state adottate ufficialmente come strategia della politica estera statunitense. Di questo ci sono oltre che i fatti, varie testimonianze, a partire da una famosa intervista rilasciata nel 2008 dal generale Wesley Clark.  
Come conseguenza, fin dal 2011 è stata formata una vasta alleanza filo-imperialista con l'intento di distruggere lo stato siriano laico e progressista, uscito dalle lotte anticoloniali, così come già è stato fatto per la Jugoslavia, Libia, Iraq, Ucraina, Somalia, Costa d'Avorio, Sudan.
Di questa alleanza fanno parte USA, UE, NATO, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, e bande di mercenari jihadisti terroristi che fanno capo all’ex al-Nusra, ISIS, e presunte formazioni "moderate" legate agli USA.
Il movimento curdo siriano, che dichiara di voler lottare per una Siria democratica, dovrebbe precisare se intende portare avanti le proprie rivendicazioni nell'ambito dello stato laico e progressista siriano, che ha assicurato pieni diritti alle donne, e alle numerose religioni ed etnie presenti nel paese,  o cercare illusoriamente di realizzare le proprie aspirazioni a costo della distruzione della Siria, programmata da tempo dall'imperialismo,  con la creazione di uno staterello fantoccio, stile Kosovo.
Altrettanta chiarezza richiediamo a tutte quelle organizzazioni sedicenti pacifiste e di sinistra, che non mancano occasione di attaccare e demonizzare il governo della Siria, e che oggi trovano un facile alibi nell'adesione all'ambigua manifestazione del 24.

                        

                        Roma 19/9/2016         Lista Comitato No Guerra No Nato,   Rete No War Roma

                        Per adesioni: comitatononato@...


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I crimini degli Usa in Siria e quei sedicenti 'sinistri alternativi" sempre dalla parte sbagliata della storia...

di Mauro Gemma*

90 soldati dell'esercito del governo legittimo siriano sono stati uccisi da un raid statunitense, per stessa ammissione delle autorità USA. In compenso, la convocazione da parte russa del Consiglio di Sicurezza dell'ONU viene definita "un atto di cinismo" da parte della rappresentante americana. 

E intanto, mentre l'imperialismo statunitense prosegue la sua aggressione alla Siria in aperta violazione della tregua raggiunta in questi giorni, c'è chi, nella "sinistra" cosiddetta "radicale", si appresta a manifestare il 24 settembre con comunicati che contengono affermazioni di questo tipo: "(...) sosteniamo la lotta dei settori democratici e progressisti siriani contro il dittatore Assad. Stati Uniti e Russia, riavvicinatasi alla Turchia, hanno trovato un fragile accordo per il cessate il fuoco fatto sulle spalle della popolazione siriana (...)" (dal comunicato di adesione di "Sinistra anticapitalista" alla manifestazione della rete Kurdistan).

Siamo alle solite. Quando la situazione richiede chiarezza e determinazione da parte di tutte le forze antimperialiste e progressiste a fianco di stati e popoli che combattono per affermare la propria sovranità e diritto a decidere del proprio futuro, ecco che arrivano le sconclusionate truppe di certa "sinistra radicale" ad aggiungere la propria voce di "utili idioti" di aggressioni imperialiste, disegni secessionisti e rivoluzioni colorate.  

Nei momenti decisivi è sempre stato così. Fin dai tempi in cui, certi ultra-rivoluzionari (i signori dell'attuale "Sinistra anticapitalista", per primi) non esitavano a schierarsi con i tagliagole dell'UCK, con i bombardieri di Radio B92 di Belgrado, con i "ribelli di Bengasi", con le Pussy Riots e chi più ne ha più ne metta. Sempre dalla parte sbagliata. Sempre con chi è finanziato e foraggiato dall'imperialismo yankee.

E adesso aspettiamo solo che i sostenitori delle bande terroriste siriane al servizio degli USA, sabato prossimo riempiano le piazze di Roma, sotto lo sguardo compiaciuto di tanti sedicenti "sinistri alternativi" di casa nostra.

*Direttore di Marx 21. Fonte: L'Antidiplomatico



=== 2: Libia e dintorni ===


Una presa di posizione della Rete campana contro la guerra  sulla decisione dello scorso 13 settembre con la quale l'Italia torna ad avventurarsi in Libia. Il documento è stato pensato e formulato anche nel percorso di sostegno e diffusione della mobilitazione NO MUOS del 2 Ottobre.

Rete campana contro la guerra e il militarismo
 

L’ITALIA E’ IN GUERRA

Con la decisione dello scorso 13 settembre, l'Italia torna ad avventurarsi in Libiaoltre 300 militari, di cui 200 paracadutisti della Folgore, una portaerei, uno stormo di cacciabombardieri, diversi droni e tre basi militari impegnate in Italia (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella), per una missione che, ipocritamente spacciata come missione “umanitaria” dal nome evocativo di Ippocrate (in onore del “padre” della medicina), si configura a tutti gli effetti come una missione di guerra, con un impegno pesante in uomini e mezzi, che espone ancora di più l'Italia al rischio di ritorsioni ed accelera la militarizzazione in corso nel Mediterraneo.

L'Italia era già attivamente presente in Libia dallo scorso 10 febbraio, con l’intervento di forze speciali, al fianco di quelle britanniche, presso Misurata, in un'altra operazione dal nome altisonante (Solida Struttura), a difesa dei pozzi e delle infrastrutture petrolifere. Con lo schieramento di questo ulteriore contingente militare,  proprio nel momento in cui cresce la battaglia tra le fazioni libiche ed i loro sponsor internazionali per l’accaparramento della cosiddetta “Mezzaluna Petrolifera”,  l'Italia si conferma protagonista nell’aggressione ai Paesi dell’Africa, nord e sub-sahariana, e del Medio e Vicino Oriente. 

Oltre alla Libia, infatti, i soldati italiani sono presenti in Afghanistan, dove il contingente italiano si è addirittura rafforzato superando i 700 militari, e anche massicciamente in Iraq, non solo con un proprio contingente (500 uomini) a difesa della Diga di Mosul, ma anche nell'operazione strategica (Prima Parthica) di addestramento dell'esercito iracheno e nell'operazione delle forze speciali (Centuria) che impegna circa 100 uomini, di base a Taqaddum, non distante da Ramadi e da Falluja, con compiti di coordinamento e di sostegno alle forze armate irachene. In totale oltre 1000 militari, vale a dire, la seconda forza militare straniera nel Paese dopo quella USA.

A tutto ciò si deve aggiungere la presenza italiana nell'ambito della “Coalizione Internazionale”, a guida USA, in Siria, con compiti di appoggio logistico e di supporto militare, nella guerra civile e per procura che, da più di cinque anni a questa parte, ha già provocato più di 250 mila vittime, e il rinnovato attivismo militare del nostro Paese in Africa. La cosiddetta “lotta ai trafficanti di uomini” e la strategia di “contenimento” dei flussi migratori e di militarizzazione delle rotte dei migranti lanciata proprio durante il semestre italiano di presidenza della Unione Europea (“Processo di Karthoum”), sta “legittimando”, oltre alla massiccia partecipazione e al coordinamento delle missioni militari nel Mar Mediterraneo, gli accordi bilaterali di collaborazione militare con diversi Paesi dell’area.  

All'inizio dello scorso mese di agosto, ad es., Italia e Sudan hanno sottoscritto un protocollo di cooperazione anti-migranti, che prevede il blocco e il rimpatrio, vere e proprie deportazioni forzate, verso il Sudan. Il governo italiano, insieme a quello tedesco, sta finanziando, addestrando e supportando i reparti scelti delle forze armate sudanesi per bloccare con ogni mezzo il flusso di migranti, in fuga da guerre e povertà, verso il Mediterraneo. 

Non meno significativo è l'impegno del governo Renzi per un riarmo in grande stile dell'Europa: va in questa direzione il piano elaborato dai Ministri Gentiloni e Pinotti, anticipato nella lettera a “Le Monde” e già portato al tavolo del summit con Merkel e Hollande, per una “Schengen della Difesa”. Il piano prevede che un’avanguardia di Paesi - la troika costituita da Italia, Francia e Germania - lavori in tempi rapidi all’integrazione europea nel campo della difesa per rafforzare le capacità militari comuni ed accrescere l’autonomia di azione dell’Europa con la costituzione di un vero e proprio Esercito Europeo ed un'aggressiva struttura di Difesa Militare dell'Unione. Insieme a questo andrebbe rilanciata anche l'industria europea della difesa.  Ad es. c’è  l’accordo per lo sviluppo del drone europeo Euromale tra Francia, Germania e Italia e procede il completamento del sistema satellitare europeo Galileo che renderà i paesi aderenti alla Ue – e non solo – del tutto indipendenti dal sistema satellitare Usa, il Gps.

Ovviamente, gli stanziamenti necessari per tutto saranno fuori dal Patto di Stabilità, quotidianamente invocato per avallare le politiche antisociali di tutti i  governi europei. Già oggi, la spesa militare europea ammonta a centinaia di miliardi e i dati SIPRI ed il rapporto (http://www.iai.it/sites/default/files/pma_report.pdf) stimano per i 31 Paesi europei presi in considerazione un aumento in media nel 2016 pari all’8,3 per cento rispetto al 2015. Solo in Italia spendiamo in strutture militari, armamenti, missioni all'estero, circa 100 milioni al giorno.

Anche il fatturato militare nel continente è stratosferico; solo l’Italia nel 2015 ha esportato per un valore di oltre 8,2 miliardi di euro, un boom del 186 per cento rispetto al 2014! Si tratta di armi vendute,  per esempio,  agli Emirati Arabi e all’Arabia Saudita, che le usano per armare i gruppi della jihad e per la guerra contro lo Yemen; oppure alla Turchia e all’Egitto, dove vengono violati in modo scandaloso i diritti umani.

La necessità del riarmo dell'Europa e dell'esercito europeo è stata richiamata da un’altra italiana, Federica Mogherini. Nel minaccioso intervento dello scorso 3 settembre, a Bratislava, l'Alto Rappresentante UE, da una parte ha confermato il “pieno sostegno” al governo turco (nei giorni stessi dell'invasione della Siria da parte dell'esercito turco e della durissima repressione che in Turchia sta colpendo il popolo curdo, gli attivisti e gli oppositori al regime di Erdogan); dall'altra ha auspicato un rafforzamento, anche e soprattutto militare, dell'Unione Europea, una vera e propria “Fortezza Europa”.

A dispetto, quindi, della propaganda renziana sulla cooperazione civile e la “inclusione attraverso la cultura”, l'Italia, con i suoi oltre 7000 militari impegnati nelle missioni internazionali, è oggi uno dei Paesi al mondo più attivi sul fronte della guerra e della militarizzazione. La presenza delle forze armate italiane negli scenari più sensibili degli approvvigionamenti strategici e delle risorse energetiche (Libia, Iraq, Afghanistan) mostra chiaramente il carattere strategico ed imperialistico di questa proiezione internazionale, che nulla ha di difensivo né, tanto meno, di “umanitario”.

L’utilizzo strumentale della lotta al terrorismo, la paura diffusa a piene mani nei confronti del “pericolo islamico”, le campagne razziste e xenofobe contro gli immigrati, sono parte della macchina di propaganda finalizzata ad ottenere il consenso a questa politica di aggressione ed al militarismo crescente e ad arginare e criminalizzare qualsiasi opposizione. 

Perfino la modifica del processo decisionale e del modo come vengono discusse in Parlamento le missioni militari è coerente con questa esigenza di compattamento sciovinistico e militare. 

Nel silenzio tombale dei media, lo scorso 14 luglio, è stata approvata in via definitiva la nuova “legge quadro sulle missioni internazionali”, la quale disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese. 

In pratica il Parlamento italiano (che certo non si è distinto nell’opposizione alle missioni militari passate e presenti) è stato esautorato (o meglio, votando questa legge, si è autoesautorato) da qualsivoglia potere decisionale in merito alle iniziative militari, delegando totalmente ogni decisione sulla guerra al potere esecutivo, che può agire senza, in alcuni casi, che il Parlamento venga neppure messo al corrente di tali iniziative. 

A questa accelerazione nella svolta autoritaria si accompagna la crescente repressione di quanti lottano contro la guerra e la militarizzazione del territorio. Solo poche settimane fa, proprio mentre il governo Renzi imponeva il dissequestro del MUOS, decine e decine di attivisti NO MUOS sono stati denunciati per la loro strenua opposizione a questo micidiale strumento di guerra.

Contro la messa in funzione del MUOS, contro l’uso delle basi militari presenti in Sicilia, contro le politiche razziste, gli hotspot e i CIE, il movimento NO MUOS ha indetto la manifestazione del 2 ottobre

Come “Rete campana contro la guerra ed il militarismo” siamo schierati al loro fianco. Facciamo appello a tutti gli antimilitaristi, ai comitati, alle associazioni, ai compagni tutti a sostenere e rafforzare questa mobilitazione anche con iniziative sui propri territori per rilanciare sul piano nazionale un movimento contro la guerraOpporsi al governo Renzi, contrastare questo stato di cose significa, oggi più che mai, lottare contro la guerra e la militarizzazione. 

Non possiamo, infatti, illuderci di difendere i nostri diritti e di contrastare gli attacchi alle nostre condizioni di vita rimanendo indifferenti o dimostrandoci concilianti con l’oppressione e la violenza del “nostro” Paese su altri Paesi. Le aggressioni economiche e militari verso altri popoli e la politica dei continui sacrifici per “uscire dalla crisi economica” che ci impoverisce quotidianamente, sono due facce della stessa medaglia e hanno identici responsabili.

Diciamo NO all’intervento militare in Libia e chiediamo il rientro delle truppe italiane impegnate nelle missioni all’estero.

Diciamo NO alle spese militari  che continuano a crescere  mentre si continuano a tagliare  le spese sociali.

Schieriamoci dalla parte dei dannati della terra rivendicando il diritto all’accoglienza per tutti gli immigrati. 

 

Rete campana contro la guerra ed il militarismo

Napoli, 16/09/2016


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I miliziani di Misurata che l’Italia va a curare sono criminali di guerra

di Marinella Correggia

Chissà cosa pensano dell’«operazione Ippocrate» i libici di Tawergha. Cinque anni fa, i 40mila cittadini di pelle nera che popolavano questa città furono oggetto di pulizia etnica: parecchi uccisi e imprigionati, tutti gli altri deportati in massa proprio dalle milizie dichiaratamente razziste di Misurata che l’Italia va a soccorrere. In effetti dei molti gruppi armati libici ai quali l’operazione Nato «Unified Protector» nel 2011 fece da forza aerea, le Misrata Brigates – decine di migliaia di combattenti, già parte essenziale della compagine islamista Fajr sostenuta dal Qatar – sono forse il peggio. Altro che gli «eroi in ciabatte», prima protagonisti della «rivoluzione» libica nel 2011, poi della «lotta contro Daesh a Sirte» nel 2016.

Dall’agosto 2011 Tawergha, in fondo un simbolo della «nuova Libia», è una città fantasma e semidistrutta. Gli abitanti fuggirono in massa mentre i «ribelli» vittoriosi uccidevano molti di loro, ne imprigionavano altri – accusandoli di stupri senza prove e chiamandoli mercenari – e davano fuoco alle case, con il pubblico consenso dell’appena insediato primo ministro libico Mahmoud Jibril, capo del Consiglio nazionale di transizione (Cnt). I fuggiaschi si rifugiarono nel sud della Libia e in campi profughi sparsi in diverse città oppure si spostarono in Tunisia ed Egitto. Da allora hanno condotto una vita grama.


Il 31 agosto scorso il rappresentante dell’Onu per la Libia Martin Kobler ha propiziato a Tunisi un accordo di riconciliazione fra Misurata e Tawergha che prevede fra l’altro il ritorno in condizioni di sicurezza degli sfollati, il ripristino a cura del governo libico di un minimo di servizi sociali – compresa la rimozione delle mine-, risarcimenti per gli uccisi e le proprietà danneggiate.

Non sarà facile rendere operativo ed equo un patto che risulta leonino fin dall’esordio: richiama infatti la dichiarazione del 23 febbraio 2012 con la quale «i leader delle tribù di Tawergha porgevano le scuse a Misurata per qualunque azione compiuta da qualunque residente di Tawergha». Nessuna scusa, invece, da parte degli autori della pulizia etnica.

Nel mirino dei misuratini, autori anche della cacciata di molte famiglie dall’area di Tamina, sono finiti poi un numero importante di cittadini non libici, africani subsahariani linciati o imprigionati senza processo né prove. La caccia al nero non è storia solo del 2011. L’inviato del New Statesman pochi mesi fa si è sentito rispondere dal guardiano dell’obitorio di Misurata che i corpi nella stanza erano di africani uccisi, magari per un telefonino.

Gli armati di Misurata hanno compiuto stragi di civili e attacchi indiscriminati anche durante l’assedio, nel 2012, alla città di Bani Walid accusata di ospitare sostenitori del passato regime. E al tempo dell’assedio di Sirte, con Misurata sempre in prima linea, fu impedito l’accesso alla Croce rossa nella città. Nell’agosto 2014 fioccarono invano altre accuse di crimini: le milizie Fajr guidate da Misurata, nel prendere il controllo di Tripoli e delle aree circostanti avevano costretto alla fuga migliaia di civili distruggendone le proprietà.

Impunità assoluta per i «ribelli» di Misurata anche rispetto ai crimini compiuti nelle loro carceri autogestite, con maltrattamenti e torture all’ordine del giorno e nessuna garanzia di equo processo a carico di detenuti qualificabili come politici. E mentre l’Ue chiudeva gli occhi per anni al traffico di armi verso le coalizioni jihadiste di Fajhr Libia, la città di Misurata rimane un hot spot, con ovvie complicità, in un altro traffico: quello di esseri umani.

Marinella Correggia – Il Manifesto del 16 settembre 2016


=== 3 ===

L’arte della guerra 

Esplosive mail della Clinton 

Manlio Dinucci 


Ogni tanto, per fare un po’ di «pulizia morale» a scopo politico-mediatico, l’Occidente tira fuori qualche scheletro dall’armadio. Una commissione del parlamento britannico ha criticato David Cameron per l’intervento militare in Libia quando era premier nel 2011: non lo ha però criticato per la guerra di aggressione che ha demolito uno stato sovrano, ma perché è stata lanciata senza una adeguata «intelligence» né un piano per la «ricostruzione». 

Lo stesso ha fatto il presidente Obama quando, lo scorso aprile, ha dichiarato di aver commesso sulla Libia il «peggiore errore», non per averla demolita con le forze Nato sotto comando Usa, ma per non aver pianificato «the day after». 

Obama ha ribadito contemporaneamente il suo appoggio a Hillary Clinton, oggi candidata alla presidenza: la stessa che, in veste di segretaria di stato, convinse Obama ad 
autorizzare una operazione coperta in Libia (compreso l’invio di forze speciali e l’armamento di gruppi terroristi) in preparazione dell’attacco aeronavale Usa/Nato. 

Le mail della Clinton, venute successivamente alla luce, provano quale fosse il vero scopo della guerra:  bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana e una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco Cfa. 

Subito dopo aver demolito lo stato libico, gli Usa e la Nato hanno iniziato, insieme alle monarchie del Golfo, l’operazione coperta per demolire lo stato siriano, infiltrando al suo interno forze speciali e gruppi terroristi che hanno dato vita all’Isis. Una mail della Clinton, una delle tante che il Dipartimento di stato ha dovuto declassificare dopo il clamore suscitato dalle rivelazioni di Wikileaks, dimostra qual è uno degli scopi fondamentali dell’operazione ancora in corso. 

Nella mail, declassificata come 
«case number F-2014-20439, Doc No. C05794498», la segretaria di stato Hillary Clinton scrive il 31 dicembre 2012: «È la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar Assad che permette all’Iran di minare la sicurezza di Israele, non attraverso un attacco diretto ma attraverso i suoi alleati in Libano, come gli Hezbollah». Sottolinea quindi che «il miglior modo di aiutare Israele è aiutare la ribellione in Siria che ormai dura da oltre un anno», ossia dal 2011, sostenendo che per piegare Bashar Assad, occorre «l’uso della forza» così da «mettere a rischio la sua vita e quella della sua famiglia».

Conclude la Clinton: «Il rovesciamento di Assad costituirebbe non solo un immenso beneficio per la sicurezza di Israele, ma farebbe anche diminuire il comprensibile timore israeliano di perdere il monopolio nucleare». La allora segretaria di stato ammette quindi ciò che ufficialmente viene taciuto: il fatto che Israele è l’unico paese in Medio Oriente a possedere armi nucleari. 

Il sostegno dell’amministrazione Obama a Israele, al di là di alcuni dissensi più formali che sostanziali, è confermato dall’accordo, firmato il 14 settembre a Washington, con cui gli Stati uniti si impegnano a fornire a Israele i più moderni armamenti per un valore di 38 miliardi di dollari in dieci anni, tramite un finanziamento annuo di 3,3 miliardi di dollari più mezzo milione per la «difesa missilistica». 

Intanto, dopo che l’intervento russo ha bloccato il piano di demolire la Siria dall’interno con la guerra, gli Usa ottengono una «tregua» (da loro subito violata), lanciando allo stesso tempo una nuova offensiva in Libia, camuffata da operazione umanitaria a cui l’Italia partecipa con i suoi «parà-medici». Mentre Israele, nell’ombra, rafforza il suo monopolio nucleare tanto caro a Hillary Clinton.
 
(il manifesto, 20 settembre 2016)




(deutsch / english / italiano)


Panturchìa / 4
Auxiliary Troops Against Moscow

1) Jamala ha “vinto” cantando le lodi delle SS Naziste Tartare (F.W. Engdahl, 28.5.2016)
2) Hilfstruppen gegen Moskau / III (GFP 20.05.2016)
3) Washington accusa la Russa di perseguitare i Tartari (23.4.2016)


See also: Auxiliary Troops Against Moscow / I (GFP 2016/05/17)
One of Berlin's government advisors is calling for Russia's expulsion from the Council of Europe. The Russian government's actions against the Crimean Tatars and its banning their Mejlis - a political organization - along with other measures, make it "no longer possible to justify continuing Russian membership in the Council of Europe," ... In 1942, "every tenth Tatar on the Crimean Peninsula was in the military" - on the side of Nazi Germany. Crimean Tatars fought on the side of the German Wehrmacht against the Soviet Union, excelling in the notorious "efforts to crush the partisan movement" and turned their Jewish neighbors over to the Nazis' henchmen. Already in the 1920s, leading Tatar functionaries had complained of a "Jewification" of their communities, in their protests against Moscow's resettlement measures of Jewish families. Later, exiled Crimean Tatars volunteered their services for the West's cold war efforts to destabilize Moscow. The Mejlis, which today is quite controversial among the Crimean Tatars, stands in this tradition...

Per la stessa serie si vedano:
Panturchìa / 1: Poverini i Tartari di Crimea! (english / italiano, 17.5.2016)
Panturchìa / 2: Krimtataren als Hilfstruppen gegen Moskau (deutsch, 17.5.2016)
Panturchìa / 3: Aspirazioni neo-ottomane (italiano, 20.5.2016)
ed anche:
Towards A New War Of Crimea (english / deutsch / italiano, 30.11.2016)


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Jamala ha “vinto” cantando le lodi delle SS Naziste Tartare

Scritto da F. William Engdahl

Non voglio discutere dei meriti musicali di chi avrebbe dovuto vincere il recente festival musicale per dilettanti di Stoccolma. E’ assolutamente evidente che Jamala, di etnia Tartaro-Ucraina, è stata fatta vincere in una gara truccata per farne un caso politico. Come lei stessa ha ammesso successivamente, si è voluto accomunare le azioni di Stalin durante la Seconda Guerra Mondiale contro i Tartari di Crimea con quelle di Mosca in Crimea nel 2014. La canzone di Jamala era palesemente politica e, secondo le regole dell’Eurovisione, bisognerebbe privarla del titolo, a prescindere dal suo talento canoro (dalla mancanza di esso). Quello che manca in maniera così evidente nella copertura mediatica occidentale, in quella che da molti viene considerata una palese politicizzazione di un festival musicale, è chi veramente fossero quelli contro cui, nel lamento di Jamala, combattevano i Tartari di Crimea nel 1944. La risposta potrebbe essere per molti una sorpresa.

La canzone di Jamala “1944” commemora le sofferenze patite dai Tartari mussulmani di Crimea che erano stati deportati a migliaia da Stalin nell’Asia Centrale. L’immagine lasciata da Jamala è quella di una barbara crudeltà da parte del dittatore sovietico nei confronti degli innocenti Tartari. Volendo però fornire un’immagine storicamente corretta, i Tartari di Crimea, in quella guerra, tutto sono stati meno che innocenti civili. Decine di migliaia di loro erano stati organizzati, per ordine di Hitler, nelle brigate delle SS tartare-crimeane.

Il problema qui non è se Stalin abbia reagito con brutalità alla situazione dei Tartari nel 1944. Questo è stato riconosciuto dalla stessa Unione Sovietica già dopo la morte di Stalin. Quello che i media di oggi ignorano profondamente è la realtà storica del 1944, che la canzone della trentaduenne tartara crimeana Jamala lascia fuori.

La Crimea occupata dai Nazisti

Dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941, la Crimea era caduta sotto l’occupazione nazista. La sua popolazione di allora era etnicamente costituita da Tartari e da Russi.

Secondo un resoconto d’archivio del quotidiano russo “Pravda Report”, alle origini della deportazione di decine di migliaia di Tartari crimeani nel 1944 c’era il fatto che la Wehrmacht e le forze naziste di occupazione avevano arruolato migliaia di tartari crimeani per opporsi alla liberazione della Crimea da parte dell’Armata Rossa:“Nell’aprile-maggio del 1944 il Battaglione Tartaro di Crimea prese parte alle battaglie contro l’Armata Rossa in Crimea. Le unità che erano state evacuate dalla Crimea nel giugno del 1944 vennero reinquadrate nei tre battaglioni del Reggimento SS Truppe da Montagna Tartare. Un mese dopo, il gruppo divenne la prima Brigata SS Truppe da Montagna Tartare (2.500 uomini) al comando del SS Standartenfuhrer Fortenbaf. Il 31 dicembre 1944 l’unità fu smantellata, inglobata nel distaccamento SS Turchia Orientale ed inserita nel gruppo da battaglia della Crimea: due battaglioni di fanteria ed un centinaio di cavalli”.

Nella sua testimonianza al Tribunale di Norimberga il Feldmaresciallo tedesco Erich von Manstein aveva testimoniato sull’utilità per i Nazisti dei feroci battaglioni tartari: “La maggior parte della popolazione tartara della Crimea era molto amichevole nei nostri confronti. Eravamo anche in grado di allestire compagnie di auto-difesa formate da Tartari, il cui compito era quello di proteggere i villaggi dai partigiani che si nascondevano sulle montagne. Una forte mobilitazione partigiana (favorevole all’Unione Sovietica) si era venuta a formare in Crimea fin dagli inizi, e la cosa ci causava parecchi fastidi. La ragione di questa forte mobilitazione era dovuta al fatto che nella popolazione della Crimea vi erano molti Russi”.

Von Manstein aveva continuato: “I Tartari si erano subito schierati dalla nostra parte. Nel dicembre del 1941 erano stati istituiti in Crimea i Comitati Mussulmani Tartari per aiutare l’amministrazione degli occupanti tedeschi. Il Comitato Centrale dei Mussulmani di Crimea aveva cominciato ad operare a Simferopoli. La loro organizzazione e le loro attività erano sotto la diretta supervisione delle SS”.

I Tartari crimeani delle brigate SS mussulmane combatterono contro i Russi dal 1941 fino alla riconquista della Crimea da parte dell’Armata Rossa nel 1944, dopodiché Stalin ordinò la deportazione di 240.000 Tartari mussulmani. (Fonte Bundesarchiv)

I terroristi mussulmani radicali delle SS

Nel mio ultimo libro: “L’Egemone perduto: chi sarà distrutto dagli dei”, descrivo i retroscena poco conosciuti, ma assai importanti, delle relazioni fra il Terzo Reich ed alcuni gruppi mussulmani. All’inizio della guerra, nel 1941, la figura di spicco della fratellanza Mussulmana, Amin al-Husseini, allora Gran Mufti di Gerusalemme era stato ricevuta a Berlino da Hitler e da Himmler. Non se ne era allontanato per tutta la durata della guerra, organizzando la propaganda anti-ebraica e formando brigate filo-naziste, composte da fanatici mussulmani, nelle zone orientali dell’Unione Sovietica, in Egitto, in Palestina ed altrove, affinché combattessero a favore del Terzo Reich.

A Berlino, la Fratellanza Mussulmana del Gran Mufti ebbe uno dei ruoli meno conosciuti e più macabri nello sterminio nazista di milioni di Ebrei. Divenne intimo amico di Heinrich Himmler, il Reichsfuhrer degli appartenenti al temuto culto della morte nazista, conosciuto come Schultzstaffel (SS). Himmler è stato forse il più diretto responsabile della messa in pratica dell’Olocauto da parte del Terzo Reich.

Il Gran Mufti stringe la mano ad Himmler nel 1943

Nella sua testimonianza al Processo di Norimberga dopo la guerra, Dieter Wisliceny, il vice di Adolf Eichmann, aveva testimoniato, prima di essere condannato all’impiccagione per crimini contro l’umanità: “Il Mufti è stato uno degli iniziatori dello sterminio sistematico degli Ebrei europei e un collaboratore e un consigliere di Eichmann e Himmler nell’esecuzione di questo piano… Era uno dei migliori amici di Eichmann e lo spronava costantemente ad accelerare il processo di sterminio”.

Al Gran Mufti era stato ordinato da Himmler di organizzare le brigate SS mussulmane, come quelle dei Tartari di Crimea. Le aveva costituite in Bosnia e in tutte le zone dell’Est europeo occupate dai Nazisti, compresa la Crimea. E’ significativo, e lo ribadisco nel libro, come i fanatici di al-Qaeda, dell’ISIS e degli altri gruppi radicali terroristici mussulmani odierni si possano far risalire direttamente all’organizzazione delle SS naziste mussulmane di quella guerra, compreso il terrorismo turco, bosniaco e dei Tartari di Crimea.

In guerra non ci sono vincitori. Comunque, nell’interesse della verità storica e dell’onestà, il Ministro degli Esteri svedese e tutti quelli in Occidente che hanno intessuto lodi a Jamala e alla sua canzone “1944” farebbero meglio a completare il quadro. Ma allora, il desiderato effetto politico, voluto dalla divisione propaganda della NATO per demonizzare ulteriormente Putin e la Russia, colpevoli di aver acconsentito nel 2014 all’annessione della Crimea, dopo la schiacciante approvazione da parte del 93% della popolazione crimeana, perderebbe tutta la sua efficacia. Non sarebbe triste? La Hedda Hopper odierna, la guerrafondaia del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, o il Segretario alla Difesa Ash Carter, o il Capo degli Stati Maggiori Riuniti “Fighting Joe” Dunford e tutto il complesso militare industriale americano sarebbero molto infelici se ciò dovesse accadere.

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Articolo di F. William Engdahl, pubblicato da New Eastern Outlook il 28 Maggio 2016
Tradotto in Italiano da Mario per SakerItalia.it



=== 2 ===


Hilfstruppen gegen Moskau (III)
 
20.05.2016
BERLIN/KIEW
 
(Eigener Bericht) - Berlin baut seine Zusammenarbeit mit dem Medschlis der Krimtataren trotz dessen Verwicklung in Gewaltaktionen aus. Erst kürzlich ist der Vorsitzende des Medschlis, Refat Tschubarow, zu politischen Gesprächen im Auswärtigen Amt gewesen. Dem Treffen stand nicht entgegen, dass Tschubarow im September eine eigenmächtige Blockade des ukrainischen Handels mit der Krim angekündigt hatte - und auch nicht, dass Tschubarow im Oktober die für die Krim-Bevölkerung schädlichen Folgen der Tataren-Blockade, nämlich Mangel und empfindliche Preiserhöhungen bei Grundnahrungsmitteln, ausdrücklich gepriesen hatte. Sogar die Sprengung von Strommasten durch Aktivisten aus dem Umfeld des Medschlis, die die Krim in hohem Maß von der Stromversorgung abgeschnitten hat, lässt das deutsche Außenministerium nicht auf Distanz zu der Vereinigung gehen. Deutsche Ethno-Organisationen haben schon vor Jahren gute Beziehungen zu Tschubarow und zu seinem Amtsvorgänger Mustafa Dschemiljew aufgebaut, die von 2010 an intensiviert wurden, um nach dem Regierungswechsel in Kiew antirussische Kreise in der Ukraine zu stärken. Die Kooperation mit dem Medschlis-Milieu, das unter den Tataren auf der Krim durchaus umstritten ist, erfolgt in enger Abstimmung mit den USA, der Türkei unter Erdoğan und anderen NATO-Staaten. Die Parallelität von Kooperation mit den Krimtataren und deren teils gewalttätigen Protesten erinnert an die Entwicklung im Frühjahr 2013 in der Ukraine.
Für den Friedensnobelpreis nominiert
Die deutschen Beziehungen zum Medschlis der Krimtataren können auf ein bereits seit Jahren gewachsenes Fundament im Milieu völkischer Organisationen aufbauen. So steht zum Beispiel die Gesellschaft für bedrohte Völker (GfbV), die sich für Sonderrechte ethnisch definierter Minderheiten in aller Welt einsetzt, schon lange in Kontakt zum Medschlis. Im Jahr 2005 hat sie dessen damaligem Vorsitzenden Mustafa Dschemiljew ihren "Victor-Gollancz-Preis" verliehen; die Laudatio hielt Erika Steinbach (CDU), damals Präsidentin des Bundes der Vertriebenen (BdV). Die GfbV betreibt nicht nur Öffentlichkeitsarbeit für die Krimtataren; sie hat dem Medschlis auch geholfen, Kontakte ins Auswärtige Amt zu knüpfen: Im Sommer 2009 beteiligte sie sich an Gesprächen, die eine Delegation in Deutschland lebender Krimtataren im Auswärtigen Amt führte; im Ergebnis sagten zuständige Stellen im Außenministerium zu, "Beratung bei der Suche nach politisch-diplomatischen Partnern in Deutschland" zu leisten.[1] Zudem hat die von Flensburg aus gesteuerte und mit dem Bundesinnenministerium kooperierende Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen (FUEV), der Ethno-Organisationen aus Europa, dem Kaukasus und Zentralasien angehören [2], den Medschlis unter ihre Mitglieder aufgenommen und promotet seine Interessen. 2011 unterstützte sie die Nominierung des damaligen Medschlis-Vorsitzenden Mustafa Dschemiljew, der mehrmals an ihren Kongressen teilgenommen hatte, für den Friedensnobelpreis.
Im Strategiezentrum
Nach der Abwahl des prowestlichen ukrainischen Staatspräsidenten Wiktor Juschtschenko im Jahr 2010 hat es Versuche gegeben, die deutsch-krimtatarischen Kontakte auch auf staatlicher Ebene auszubauen. Hintergrund waren Bemühungen, auf allen Ebenen Kräfte zu stärken, die sich für die Anbindung der Ukraine an die EU einsetzten; es war die Zeit, als die Konrad-Adenauer-Stiftung (CDU) daran ging, die Partei UDAR des späteren Majdan-Anführers Witali Klitschko zu fördern [3], und als Berlin und Brüssel auf die Unterzeichnung des Assoziierungsabkommens der EU mit der Ukraine drangen. Am 28./29. Juni 2011 kam, mitorganisiert von der GfbV, der erste "deutsch-krimtatarische Dialog" in Berlin zusammen; es gehe bei der Kooperation nicht zuletzt darum, "die Frage der Krimtataren als Teil ... der Annäherung an EU-Strukturen diskutieren", hieß es anschließend in einem Bericht.[4] Am Rande des "Dialogs" trafen der damalige Medschlis-Chef Dschemiljew, sein ab 2013 amtierender Nachfolger, Refat Tschubarow, und der Medschlis-Beauftragte für Außenbeziehungen, Ali Khamsin, auf Bundestagsabgeordnete und Vertreter des Auswärtigen Amts sowie des Bundesinnenministeriums. Im Rahmen des dritten "deutsch-krimtatarischen Dialogs", den auch krimtatarische Politiker besuchten, stellte die Bundesakademie für Sicherheitspolitik am 19. September 2013 ihre Räume für eine Diskussionsveranstaltung zur Verfügung, auf der nicht zuletzt krimtatarische Themen debattiert wurden. Die Bundesakademie dient als außen- und militärpolitisches Strategiezentrum Berlins.[5]
Exklusive Gespräche
Seit der Übernahme der Krim durch Russland haben die deutsch-krimtatarischen Beziehungen sich auf offizieller Ebene rasant intensiviert. Dabei halten deutsche Politiker und staatliche Stellen lediglich Kontakt zum Medschlis und zu ihm nahestehenden Kreisen; diejenigen Kräfte unter den Krimtataren, die die prowestlich-antirussische Politik des Medschlis ablehnen (german-foreign-policy.com berichtete [6]), werden von Berlin ebenso wie von Brüssel und Washington weitgehend ignoriert. Bereits am 10. April 2014 empfing Erika Steinbach,Vorsitzende der Arbeitsgruppe Menschenrechte der CDU/CSU-Bundestagsfraktion, den Medschlis-Außenbeauftragten Ali Khamsin zu Gesprächen in Berlin. Anfang Juli 2014 traf der CSU-Bundestagsabgeordnete Bernd Fabritius, der wenig später Steinbach im Amt des BdV-Vorsitzenden folgte [7], in Straßburg mit dem früheren Medschlis-Chef Dschemiljew zusammen. Bei einer Kurzvisite in der Ukraine am 23./24. Juli 2014 besprach sich auch eine Delegation der Europäischen Volkspartei (EVP), in der CDU und CSU eine starke Stellung innehaben, mit Vertretern der Krimtataren. Für den 17. März 2015 kündigte die Konrad-Adenauer-Stiftung in Brüssel ein exklusives "Adenauerforum" mit dem einstigen Medschlis-Vorsitzenden Dschemiljew an - "Teilnahme nur auf persönliche Einladung". Am 21. Oktober letzten Jahres folgte eine Podiumsdiskussion mit dem Medschlis-Vorsitzenden Tschubarow in der Berliner Zentrale der Adenauer-Stiftung, bei der diverse Personen aus dem außenpolitischen Establishment der deutschen Hauptstadt zugegen waren.
Antirussische Interessen
Gleichzeitig intensivieren die Krimtataren ihre Beziehungen zu weiteren EU- und NATO-Staaten. Der ehemalige Medschlis-Vorsitzende Dschemiljew reiste im April 2014, unmittelbar nach der Übernahme der Krim durch Russland, zu politischen Gesprächen nach Washington, wo er am 4. April unter anderem mit Wendy Sherman, Unterstaatssekretärin für Politische Angelegenheiten im US-Außenministerium, zusammentraf.[8] Ende September 2015 flog der Medschlis-Vorsitzende Tschubarow ebenfalls zu politischen Gesprächen in die US-Hauptstadt. Im Dezember 2015 trafen Dschemiljew und Tschubarow in Ankara mit Staatspräsident Recep Tayyip Erdoğan und mit Ministerpräsident Ahmet Davutoğlu zusammen; dem Termin kam besondere Bedeutung zu, da die Türkei sich als "Schutzmacht" der turksprachigen Krimtataren versteht und wegen der Eskalation ihres Konflikts mit Russland erhebliches Interesse daran hat, antirussische Kräfte um sich zu scharen. Dschemiljew hat in der Türkei nicht nur einige Ehrendoktorwürden, sondern am 15. April 2014 auch den höchsten staatlichen Verdienstorden erhalten. Am 3. Juni 2014 wurde ihm darüber hinaus in Polen der erste "Lech Wałęsa-Solidaritätspreis" verliehen.
Gewalt: kein Hinderungsgrund
Dabei steht dem Ausbau der gegen Moskau gerichteten Zusammenarbeit mit dem Medschlis der Krimtataren nicht entgegen, dass dessen Aktivisten Gewaltaktionen organisieren. So kündigte der Medschlis-Vorsitzende Tschubarow am 16. September 2015 an, ab dem 20. September würden Krimtataren den Warenhandel zwischen der Ukraine und der Krim blockieren. Die Blockade kam tatsächlich zustande - und beeinträchtigte die gesamte Bevölkerung der Krim erheblich. Am 8. Oktober lobte Tschubarow die illegale Maßnahme, da sie spürbaren Mangel sowie empfindliche Preiserhöhungen bei Grundnahrungsmitteln auf der Krim verursache - und auf diese Weise die Halbinsel wieder ins Zentrum der internationalen Aufmerksamkeit rücke.[9] Nur vier Tage später traf er bei den "Kiewer Gesprächen", die die Konrad-Adenauer-, die Friedrich-Naumann- (FDP) und die Heinrich-Böll-Stiftung (Bündnis 90/Die Grünen) "mit freundlicher Unterstützung des Auswärtigen Amts" organisierten, mit der Grünen-Fraktionsvorsitzenden im Europaparlament, Rebecca Harms, dem Leiter des "Arbeitsstabes Ukraine" im Auswärtigen Amt, Johannes Regenbrecht, und dem Leiter des OSZE-Menschenrechtsbüros (ODIHR), dem Deutschen Michael Link, zusammen. Die Blockade zu Lasten der Krim-Zivilbevölkerung, die die Tataren gemeinsam mit ukrainischen Faschisten vom "Rechten Sektor" durchführten, wurde fortgesetzt; nur wenige Tage nachdem Tschubarow und Dschemiljew am 9. November mit der EU-Außenbeauftragten Federica Mogherini über die "De-Okkupation der Krim" konferiert hatten, sprengten Aktivisten Strommasten im Süden der Ukraine und schnitten die Krim damit weitgehend von der Stromversorgung ab.
Wie 2013 in Kiew
Die Parallelität von gewalttätigen Protesten auf der einen, Verhandlungen mit deutschen und EU-Politikern auf der anderen Seite erinnert fatal an die Entwicklung in der Ukraine, als von Dezember 2012 bis Mai 2013 - ein Jahr vor den Majdan-Unruhen - Parlaments- und Straßenproteste mit Gesprächen der Opposition mit Diplomaten aus Deutschland und der EU einhergingen (german-foreign-policy.com berichtete [10]). Die weitere Entwicklung in der Ukraine ist bekannt.
Ein erstes Echo
Dabei intensiviert Berlin die Kontakte weiter. Wie die Botschaft der Ukraine in der deutschen Hauptstadt Ende April mitteilte, hatte Tschubarow soeben an einer Diskussionsveranstaltung der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) teilgenommen und sich vor allem mit Politikern und Diplomaten im Auswärtigen Amt ausgetauscht.[11] Nach dem Treffen gab die Menschenrechtsbeauftragte der Bundesregierung, Bärbel Kofler, einen Appell zugunsten der Krimtataren an die Medien. Laut der ukrainischen Botschaft handelte es sich dabei um ein erstes unmittelbares "Echo" auf die Gespräche der deutschen Diplomaten mit Tschubarow. Was darüber hinaus besprochen wurde, ist nicht bekannt.
[1] Verständnis und Unterstützung. Vertreter tatarischer Vereine waren eingeladen ins Auswärtige Amt. www.gfbv.de 17.09.2009.
[2] S. dazu Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen.
[3] S. dazu Unser Mann in Kiew.
[4] Mieste Hotopp-Riecke: Der lange Schatten Stalins über den Stiefkindern Eurasiens. www.eurasischesmagazin.de.
[5] S. dazu Alle für Deutschland.
[6] S. dazu Hilfstruppen gegen Moskau (II).
[7] S. dazu Kurs auf Osteuropa.
[8] S. dazu Die Belagerung der Krim (II).
[9] Crimean blockade getting Moscow's attention. euromaidanpress.com 08.10.2015.
[10] S. dazu Termin beim Botschafter.
[11] Parlamentsabgeordneter Chubarov spricht in Berlin über die Menschenrechtslage auf der Krim. germany.mfa.gov.ua 29.04.2016.


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Washington accusa la Russa di perseguitare i Tartari



RETE VOLTAIRE | 23 APRILE 2016 
Il 13 aprile 2016, la giustizia russa ha vietato le attività del “Parlamento tartaro”, un’organizzazione separatista di Crimea, sostenuta da Turchia e Ucraina. Secondo l’atto di accusa, trattasi dell’associazione che – come già da noi pubblicato – ha organizzato il blocco dei camion provenienti dall’Ucraina e ha fatto saltare le linee elettriche ad alta tensione, piombando la penisola nell’oscurità e nel freddo.
Viste le sue attività terroristiche, la giustizia russa ha ritenuto di dover revocare al “Parlamento tartaro” il diritto d’associazione.
Contrariamente a quanto potrebbe far pensare il nome, il “Parlamento tartaro” non è un organo rappresentativo, ma un consiglio direttivo composto di 33 membri eletti dai 220 aderenti all’associazione politica del Qurultay.
Il presidente del “Parlamento tartaro” è Refat Choubarov (Çubarov in turco), suo animatore il deputato ucraino e agente Cia Moustafa Djemilev (Cemiloğlu in turco), fondatori entrambi della “Brigata islamica internazionale” e del “Governo di Crimea in esilio”, basate entrambe a Kershon e dedite al sabotaggio della base militare di Crimea [1].
La maggior parte dei membri di queste organizzazioni aderisce peraltro a Hizb ut-Tahrir, una costola dei Fratelli mussulmani, attiva soprattutto a Londra e in Asia Centrale. L’Organizzazione di Cooperazione di Shangai è nata inizialmente proprio per lottare contro questa confraternita terroristica.
Lo scorso 21 aprile, il portaparola del Dipartimento di Stato Usa, John Kirby, ha accusato la Russia di agire senza basi legali e di attentare alla libertà di espressione dei tartari.
Dopo la riunificazione della Crimea alla Russia, Mosca ha riconosciuto la lingua tartara, ha riabilitato i 180.000 tartari che Stalin aveva deportato in massa e ha destinato alla Penisola 10 miliardi di rubli. La maggioranza dei tartari di Crimea – circa 250.000 – ha accolto con favore la riunificazione, mentre una minoranza – circa 20.000 (ossia l’8%) – ha ripreso la lotta contro Mosca, iniziata durante la Seconda guerra mondiale e proseguita con la Guerra fredda.
L’Ucraina si appresta a suo modo a mediatizzare la questione tartara, presentando al concorso di Eurovisione del prossimo 14 maggio la cantante crimeana Jamala, con una canzone dedicata alla deportazione di massa del 1944 dei Tartari, che però non ricorda il collaborazionismo dei loro capi con i nazisti, i cui successori sono oggi al potere a Kiev.

Traduzione 
Rachele Marmetti
Il Cronista 

[1] « L’Ukraine et la Turquie créent une Brigade internationale islamique contre la Russie » (L’Ucraina e la Turchia creano una Brigata internazionale islamica contro la Russia), Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 12 août 2015.




ORIG.: Milosevic e a actualidade (Jorge Cadima, "Avante" N.º 2231, 1.Setembro.2016)
Slobodan Milosevic morreu há dez anos nos calabouços do «tribunal» especial criado pelos carrascos da Jugoslávia, o ICTY. Seguindo o guião usual, o presidente (repetidamente eleito) Milosevic fora pessoalmente demonizado e caluniado como prelúdio à destruição do seu país. Pela calada, o ICTY acaba agora de reconhecer a falsidade das calúnias (ilibando os mortos para condenar os vivosi)...
http://www.avante.pt/pt/2231/temas/141842/

Una traduzione alternativa su Marx21: http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/27179-milosevic-e-lattualita


http://www.resistenze.org/sito/os/dg/osdggi13-018295.htm
www.resistenze.org - osservatorio - della guerra - 13-09-16 - n. 601

La via della guerra è un enorme pericolo: Milosevic e l'attualità.

Jorge Cadima | odiario.info 
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

08/09/2016

Secondo l'usuale copione, il presidente (rieletto più volte) Milosevic è stato personalmente demonizzato e calunniato come preludio alla distruzione del suo Paese. Dopo la sua morte, il Tribunale Internazionale per i crimini nell'ex Jugoslavia (ICTY) ha riconosciuto la falsità di quelle calunnie (assolvendo i morti per condannare quelli ancora vivi).

E' importante rompere le barriere del vergognoso silenzio complice dei media di regime su  questo riconoscimento di innocenza - il quale contrasta palesemente con l'urlato unanimismo con cui vennero sostenute le accuse due decenni fa. Ed è importante trarne lezioni su come tutto questo è finito. Lezioni che sono di tremenda attualità. Nuove campagne guerrafondaie dalle conseguenze potenzialmente molto più drammatiche sono oggi in corso.

L'asserito "genocidio" e la "pulizia etnica" di cui la Jugoslavia e Milosevic sono stati accusati sono come le "armi di distruzione di massa di Saddam Hussein": una finzione mostruosa. Un falso impianto accusatorio preparato per sferrare poi l'offensiva militare propriamente detta. Nel suo libro "La crociata dei ciechi" (Caminho, 2002) la giornalista nordamericana Diana Johnstone ha fornito i numerosi dettagli di questa truffa colossale.

La "necessità" per i guerrafondai di una "pulizia etnica" era stata "confessata un anno prima dell'inizio del conflitto dalla rivista Time (23.3.1998). Parlando dei conflitti a bassa intensità allora già in corso nel Kosovo, e della resistenza contro le operazioni militari condotte dalla NATO contro la Jugoslavia, Time aveva modo di affermare: "Gli USA e la Gran Bretagna dovrebbero agire unilateralmente o convincere altri ad unirsi a loro. Nessuno di questi scenari è probabile a meno che Milosevic non lanci una campagna di genocidio o di pulizia etnica". E dopo aver riconosciuto che non vi era nulla che andasse in questa direzione e che "appena dieci rifugiati avevano riparato in Albania" proseguiva la rivista americana: "Questa può sembrare una buona notizia […], ma c'è un problema. Se non c'è una vera e propria pulizia etnica od una vera ondata di profughi che attraversino i confini internazionali con Albania o Macedonia ci sono poche possibilità per un intervento internazionale".

Un anno dopo, le potenze imperialiste invertirono la questione: sono stati i bombardamenti NATO iniziati il 24 marzo 1999 che hanno provocato l'esodo di massa degli abitanti di origine albanese dal Kosovo, come confesserà in un secondo momento l'ex segretario generale della Nato Lord Carrington (Diario de Noticias, 27.8.1999). La propaganda guerrafondaia dei media occidentali e dei grandi capitali si incaricò del resto.

Per oltre un decennio si è riconosciuto che non vi era nessuna base plausibile per condannare Milosevic. Fox News titolava il 28.2.2004: "Milosevic sarà probabilmente assolto dalle accuse di genocidio" e scriveva che dopo due anni di processo alla Corte Internazionale per i Crimini nell'ex Jugoslavia era "convinzione comune" che i pubblici ministeri "non erano riusciti" a sostenere le accuse.

La coraggiosa difesa di Milosevic davanti alla Corte Internazionale è stata un ostacolo tremendo per i piani della NATO. L'avvocato canadese di diritto penale internazionale, capo della Commissione Giuridica del Comitato Internazionale per la difesa di Milosevic, Christopher Black, ha sintetizzato la situazione: "il processo [a Milosevic] era necessario alla NATO per giustificare l'aggressione contro la Jugoslavia ed il golpe supportato dalla NATO [che destituì Milosevic nell'Ottobre del 2000] […] e non poteva che finire in uno dei due modi: o con la condanna o con la morte del Presidente Milosevic […] Ma una condanna del Presidente Milosevic era diventata chiaramente impossibile dopo la presentazione degli elementi di prova […] la sua morte è diventata l'unica via di uscita possibile per le potenze della NATO"

L'8 marzo 2006 Milosevic scriveva una lettera ufficiale al Ministero degli Esteri della Russia, dichiarando il sospetto che, invece di esser curato per i suoi problemi cardiaci, fosse stato avvelenato. Tre giorni dopo Milosevic moriva nella sua cella dentro le prigioni della NATO e della Corte Internazionale. I legittimi sospetti di omicidio si rafforzano se pensiamo al destino che hanno subito altri obiettivi delle potenze imperialiste come Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi.

La legge del più forte

La propaganda di guerra doveva essere terroristica ed implacabile perché la dimensione del crimine che si stava perpetrando era enorme. La guerra di aggressione contro la Jugoslavia è stata la prima guerra in Europa dal 1945. E' stata la prima guerra scatenata dalla NATO in violazione aperta del Diritto Internazionale. Ma fu soprattutto l'affermazione da parte delle potenze imperialiste di un nuovo legame tra le forze risultanti dalla disintegrazione dell'URSS e le vittorie controrivoluzionarie nell'Est Europa le quali han permesso loro di liberarsi dalle catene che la sconfitta del nazifascismo aveva loro imposto nel 1945.

La Carta dell'ONU era cosa del passato. A partire da oggi era in vigore la legge del più forte. Ed il più forte era l'imperialismo nordamericano. Questa era l'essenza della nuova concezione strategica della NATO, approvata nel pieno corso dell'aggressione alla Jugoslavia (vertice di Washington del 23-24 aprile 1999) nel quale si gettò via la maschera di organizzazione di sola difesa proclamando il "diritto" di intervenire in qualunque parte del globo. Questo era il significato della distruzione con bombardamento dell'Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Belgrado, asseritamente avvenuta "per sbaglio", ma che fu "l'unico obiettivo prescelto dalla CIA nelle 11 settimane di bombardamento sulla Jugoslavia" (Reuters, 23.7.1999).

Ebbri delle vittorie dell'imperialismo nell'inizio del decennio, i cronisti di regime confessavano che "durante la Guerra Fredda sarebbe bastato un unico avviso del Cremlino per tenere le mani della NATO fuori dai Balcani" (Financial Times, 26.3.1999). Un altro commentatore affermava che "nei giorni in cui l'URSS era nel pieno del suo potere, essa avrebbe impedito agli USA di interferire, oggi siamo lì perché siamo liberi con i nostri missili Cruise di sostenere i nostri ideali e le nostre simpatie". E' questo quello che intendono quando parlano di "libertà".

Sarebbe stato difficile per la NATO sdoganare i bombardamenti su Belgrado senza la scandalosa legittimazione di questi ultimi da parte delle forze politiche che si autoproclamavano "di sinistra" o "progressiste". Nel marzo del 1998 il presidente USA era Clinton. In Germania c'era un governo di coalizione tra socialdemocratici e verdi. In Inghilterra, i laburisti - con Tony Blair - erano al potere. In Francia era Presidente il socialista Jospin, a capo di un governo di "sinistra pluralista".

L'Italia aveva avuto per la prima volta un capo di governo proveniente dall'ex Partito Comunista Italiano (1). In Portogallo Antonio Guterres era a capo di un governo retto dal Partito Socialista. Era allora segretario generale della NATO il socialista spagnolo Javier Solana, che all'inizio della sua carriera politica si opponeva all'adesione della Spagna alla NATO. La promozione delle fandonie sulle "guerre umanitarie" da parte di questi "progressisti" è stata criminale - anche perché ha generato alcune lucrose carriere politico-affaristiche - ed ha contribuito a confondere ed indebolire il movimento contro la guerra. Questa patente di legittimazione "progressista" delle guerre dell'imperialismo ha avuto un seguito in Libia, Siria, Ucraina e nelle operazioni in corso contro la Russia, la Cina, la Repubblica Popolare Democratica di Corea, l'Iraq, l'Angola ed altri paesi.

Parliamo del presente

Come è avvenuto altrove, l'aggressione imperialista ha distrutto la Jugoslavia. I bombardamenti della NATO cessarono dopo 78 giorni, con un accordo di cessate il fuoco che riconosceva la sovranità della Jugoslavia sul Kosovo e prevedeva la smilitarizzazione dei terroristi dell'UCK.

Ma i patti firmati dall'imperialismo nordamericano non valgono nemmeno il prezzo della risma di carta su cui sono stampati. L'anno successivo all'accordo, la CIA organizzava a Belgrado la prima delle sue "rivoluzioni arancioni" che destituiva il Presidente eletto Milosevic che veniva consegnato nel 2001 alla Corte Internazionale per i crimini in Jugoslavia. Nel 2008 il Kosovo dichiarava la sua indipendenza, immediatamente riconosciuta dalle maggiori potenze della NATO.

Gli uomini dell'UCK, lungi dal disarmarsi, si trasformarono nelle forze di "sicurezza" del territorio ed occuparono le posizioni ai vertici del potere del neonato paese. Il giornale inglese Guardian descriveva la situazione in Kosovo a meno di un anno dopo l'occupazione da parte della NATO (13.3.2000): "Le agenzie internazionali che combattono il traffico di stupefacenti avvertono che il Kosovo si è trasformato in un "paradiso di trafficanti", in grado di fornire fino al 40% dell'eroina venduta in Europa e Nord America. Dal momento che le forze della NATO […] non hanno mandato per combattere i trafficanti di droga né per avversare l'espulsione della polizia serba dal Kosovo, ciò consente ai trafficanti di gestire la 'rotta balcanica' in assoluta libertà".

La "libertà" della NATO si estende ad altre sordide attività. Nel 2011 il Consiglio d'Europa approva la relazione del senatore svizzero Marty che accusa "esponenti di spicco dell'UCK di assassinare prigionieri serbi ed albanesi-kossovari nonché di traffico con i loro organi. Il primo ministro del Kosovo Hashim Thaci figura tra gli accusati"
(swissinfo.ch, 25.1.11).

E' importante ricordare questi fatti. Non stiamo parlando del passato. Stiamo parlando del presente. Stiamo parlando delle campagne di demonizzazione di Assad, Putin o Kim Jong Un. La crisi del sistema capitalista si presta a conoscere una nuova esplosione. Non ci sono palliativi che possano nascondere il completo crollo del sistema finanziario. La tentazione del sistema di rispondere con la guerra è un enorme pericolo. E' questa la natura dell'imperialismo. Scambiare in modo opportunista la vera essenza dell'imperialismo con semplici menzogne od illusioni mediatiche significa disarmare i popoli e fare il gioco dei veri signori della guerra e del genocidio.

Note

1) Massimo D'Alema, a capo di un governo di centrosinistra che, contrariamente a quanto voluto dalla Costituzione, approvò la guerra di aggressione ad uno Stato indipendente Europeo senza portare la questione in Parlamento ed autorizzò l'uso dello spazio aereo. Dalle basi NATO localizzate in Italia, Aviano ed altre, partirono i massicci raid aerei di bombardamento. (N.d.t.)

Altre fonti: 
Avante!, 18.8.16
Death of President Slobodan Milosevic in NATO prison remains a central question in International Justice, 14.3.13

Questo articolo è stato pubblicato dal giornale Avante! il 1 settembre 2016.



(english / deutsch.

Di seguito, in due lingue diverse, il primo articolo di una serie che l'ottimo portale di controinformazione tedesco German Foreign Policy dedica alle guerre fatte dalla Germania nell'ultimo ventennio. Si comincia con quella mirata a strappare la provincia del Kosovo alla Serbia e a cancellare la Federazione jugoslava dalle cartine geografiche: scatenata nella primavera del 1999 assieme ad altri paesi NATO, il suo bilancio può dirsi catastrofico viste le condizioni misere in cui quella provincia versa tutt'oggi, tra corruzione, povertà, criminalità internazionale, fondamentalismo islamico, disoccupazione, sciovinismo pan-albanese, desertificazione delle attività produttive, tensioni immutate con tutti i popoli confinanti, regime di apartheid interno, eccetera. La situazione è tale che decine di migliaia di persone ogni anno cercano di emigrare: si calcola che solo tra il 2014 e il 2015 ben il 2,56% dei residenti abbia chiesto asilo politico in Germania – in grande prevalenza albanofoni – dove però non può ottenerlo perché ufficialmente con la guerra del 1999 la NATO ha "liberato" e "democratizzato" la provincia. Vero e proprio "buco nero" che risucchia miliardi di euro di "aiuti" internazionali, il Kosovo è da 17 anni sotto il controllo militare delle truppe NATO comandate da generali italiani e tedeschi che si alternano, di nuovo come sotto il nazifascismo.)


--- DEUTSCH ---

http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59435

Deutschlands Kriegsbilanz (I)
 
07.09.2016
BERLIN/PRISTINA
 
(Eigener Bericht) - Rund 17 Jahre nach dem NATO-Krieg gegen Jugoslawien und dem Beginn der Besetzung des Kosovo auch durch Deutschland bescheinigen Beobachter dem De-facto-Protektorat desolate politische, ökonomische und soziale Verhältnisse. Die Folgen des ersten Kriegs, in dem die Bundesrepublik eine wirklich bedeutende Rolle spielte, sind katastrophal: Unter faktischer Kontrolle der EU herrscht in Priština eine Elite, die enger Verflechtungen mit der Organisierten Kriminalität und schwerster Kriegsverbrechen bezichtigt wird und deren ausufernde Korruption in der Bevölkerung zunehmend frustrierte Resignation bewirkt. 34 Prozent der Bevölkerung leben in absoluter, zwölf Prozent in extremer Armut; die Gesundheitsversorgung ist miserabel, die Lebenserwartung liegt um fünf Jahre unter derjenigen der angrenzenden Staaten und um zehn Jahre unter dem Durchschnitt der EU. Blutige Racheaktionen mit Schusswaffen würden "beharrlich betrieben", heißt es darüber hinaus in einem Bericht, der vom Bundesamt für Migration und Flüchtlinge in Auftrag gegeben wurde und der auf die auch sonst erschütternde Lage in puncto Menschenrechte verweist. - (Teil 1 einer Serie, in der german-foreign-policy.com - aus Anlass der Ankündigung Berlins, in Zukunft stärker "global" intervenieren zu wollen, auch militärisch - die Folgen der deutschen Kriege aus den vergangenen zwei Jahrzehnten bilanziert.)
De-facto-Protektorat
Rund 17 Jahre nach dem NATO-Krieg gegen Jugoslawien und der anschließenden Besetzung der südserbischen Provinz Kosovo auch durch die Bundeswehr wird das Kosovo von den Mächten der EU auch weiterhin faktisch als Protektorat geführt. Die EU ist in der Hauptstadt Priština mit einem Sonderbeauftragten präsent, der schon deswegen über massiven Einfluss verfügt, weil die EU die kosovarische Regierung mit hohen Zuschüssen funktionsfähig hält. Seit 1999 sollen zwischen fünf und sechs Milliarden Euro nach Priština geflossen sein, wenngleich ein mutmaßlich hoher Anteil daran in die Taschen korrupter Politiker oder Staatsangestellter geflossen ist. Die EU übt darüber hinaus mit ihrer "Rechtsstaatsmission" EULEX ("European Rule of Law in Kosovo") erheblichen Einfluss im Sezessionsgebiet aus, wobei ihr immer wieder vorgeworfen wird, selbst zutiefst in die kosovarische Korruption verstrickt zu sein.[1] Auch die NATO-Truppe KFOR (Kosovo Force) ist bis heute im Kosovo stationiert, um größere Aufstände oder auch soziale Konflikte bei Bedarf niederschlagen zu können. Sie wird seit Jahren abwechselnd von deutschen und italienischenen Generälen kommandiert. Der Anspruch der südserbischen Provinz auf Eigenstaatlichkeit wird bis heute nur von 109 der insgesamt 193 UN-Mitgliedstaaten anerkannt; sogar die EU ist gespalten, fünf EU-Staaten (Griechenland, Rumänien, Slowakei, Spanien, Zypern) verweigern ihr trotz massiven deutschen Drucks die Anerkennung - bis heute.
Kriegsverbrechen, Organisierte Kriminalität
Gegen die kosovarischen Eliten, die sich unter der Aufsicht insbesondere der EU in Priština an der Macht halten, werden ungebrochen schwere, ja schwerste Vorwürfe wegen Korruption und wegen Kriegsverbrechen erhoben. EULEX ist es, wie Beobachter kritisieren, seit dem Beginn ihrer Arbeit im Jahr 2008 nicht gelungen, auch nur einen einzigen führenden kosovarischen Politiker einer Verurteilung wegen Korruption zuzuführen. Als starker Mann des Sezessionsgebietes gilt seit 1999 Hashim Thaçi, der gegenwärtig als Präsident in Priština amtiert. Thaçi wird seit je als Anführer der kosovarischen Mafia eingestuft; gegen ihn sind mehrfach Vorwürfe erhoben worden, selbst oder über enge Mitarbeiter in den Mord an Serben, die Entnahme ihrer Organe und den Handel damit involviert gewesen zu sein (german-foreign-policy.com berichtete [2]). Ähnliches wird einer Reihe weiterer kosovarischer Spitzenpolitiker vorgeworfen, etwa Ramush Haradinaj.[3] Trotz massiver Obstruktion des kosovarischen Parlaments wird in Kürze ein Sondergericht erste Anklagen wegen kosovarischer Kriegsverbrechen erheben; sie könnten auch kosovarische Spitzenpolitiker treffen. Die Chance, dass es - 17 Jahre nach den Taten - zu Verurteilungen kommt, muss als nicht allzu günstig eingeschätzt werden: Zu dem langen zeitlichen Abstand kommt die Erfahrung hinzu, dass bereits bei den - wenigen - früheren Verfahren Zeugen entweder überraschend ums Leben kamen oder angesichts der sich häufenden Zahl derartiger Todesfälle ihre Bereitschaft zur Aussage gegen die neuen Machthaber in Priština zurückzogen. Die mutmaßlichen Täter kamen bislang straffrei davon.
Beschäftigungsquote: 28 Prozent
Die von der EU im Amt gehaltene korrupt-mafiöse Führung in Priština verantwortet nicht nur eine weitreichende politische Frustration in der Bevölkerung; die Wahlbeteilung sank im Jahr 2014 trotz der Wählermobilisierung interessierter Clans auf 42 Prozent. Auch Proteste drohen; im Januar 2015 etwa kam es kurz nach der Regierungsbildung zu den heftigsten Unruhen seit der Proklamation der Eigenstaatlichkeit im Jahr 2008. Die politische Kultur in Priština, die spürbar zur Resignation auf Seiten der kosovarischen Bevölkerung beiträgt, lässt sich nicht umfassend, aber doch in Ansätzen durch den Hinweis darauf beschreiben, dass Parlamentsdebatten in der Hauptstadt zuweilen mit Tränengas geführt werden, zuletzt am 9. August.[4] Zudem verantworten die kosovarischen Eliten die desolate wirtschaftliche und soziale Lage in dem Gebiet. Das Kosovo verzeichnet ein Pro-Kopf-Einkommen von durchschnittlich weniger als 2.800 Euro im Jahr und ist vollständig von Hilfen der EU und Rücküberweisungen im Ausland lebender Kosovo-Albaner abhängig. Echter ökonomischer Aufschwung ist nicht in Sicht. Die Arbeitslosigkeit ist exzessiv hoch; die Beschäftigungsquote liegt bei gerade einmal 28 Prozent.[5] 34 Prozent der Bevölkerung leben laut einem Bericht, der im Auftrag des Bundesamts für Migration und Flüchtlinge (BAMF) erstellt wurde, mit einem täglichen Durchschnittseinkommen von weniger als 1,55 Euro in absoluter Armut, zwölf Prozent mit einem Durchschnittseinkommen von weniger als 1,02 Euro sogar in extremer Armut, wobei Minderheiten wie Roma dem Bericht zufolge "überproportional stark betroffen" sind. Das Sozialsystem ist laut dem BAMF-Bericht "nur rudimentär ausgebaut und bietet keine angemessene Versorgung"; das Gesundheitssystem stagniert ebenfalls "auf einfachem Niveau". "Der Gesundheitszustand der Bevölkerung ist entsprechend unbefriedigend", heißt es weiter in dem Dokument: "So liegt die Lebenserwartung um fünf Jahre niedriger als in den Nachbarstaaten und um zehn Jahre niedriger als in der EU." Die Kindersterblichkeit sei "die höchste in Europa".
Blutrache
Miserabel ist nicht zuletzt die menschenrechtliche Situation. So konstatiert der im Auftrag des BAMF erstellte Bericht, dass - 17 Jahre nach dem Einmarsch der NATO, die den Krieg gegen Jugoslawien 1999 im Namen der Menschenrechte vom Zaun brach - die kosovarischen Clans ganz ungehindert archaischen Normen huldigen. "Gerade bei der ländlichen Bevölkerung", heißt es höflich in dem Bericht, "sind althergebrachte Sitten, Tradition und Kultur noch sehr lebendig".[6] Unter "althergebrachten Sitten" ist demnach zum Beispiel zu verstehen, dass "nicht die staatlichen Institutionen und deren Sanktionsmöglichkeiten im Zentrum stehen, sondern die Familien oder Familienverbände (Clans)". Diese wiederum wendeten, heißt es, "ein Relikt aus dem albanischen Gewohnheitsrecht" an, nämlich "die Tradition der kosovo-albanischen Blutrache". Zwar sei "die reine Tradition der Blutrache" heute "nur noch vereinzelt anzutreffen"; davon zu unterscheiden seien allerdings allgemeine "Racheakte", bei denen "die Hemmschwelle, eine Schusswaffe zu benutzen, oft sehr niedrig" sei und die "beharrlich betrieben" würden.
Schüsse und Molotowcocktails
Entsprechend gestaltet sich die allgemeine Menschenrechtslage, die sich unter Protektoratsaufsicht der EU entwickelt hat. Ein Bericht der Vereinten Nationen verzeichnet für den Zeitraum vom 16. April bis zum 15. Juli insgesamt 86 gewalttätige "Zwischenfälle" - meist Angriffe auf Angehörige der serbischsprachigen Minderheit. Dazu zählten das Abfeuern von Schüssen auf das Haus eines serbischsprachigen Politikers und ein Molotowcocktailangriff auf eine von der Polizei geschützte Gruppe, die einen serbisch-orthodoxen Feiertag beging; nur aufgrund glücklicher Umstände kam niemand zu Schaden.[7] Wie Amnesty International berichtet, wurden im Jahr 2015 noch 1.650 Menschen vermisst, die während der bewaffneten Auseinandersetzungen der Jahre 1998 und 1999 verschwanden; die EU-Mission EULEX zog es vor, in Fällen, die serbischsprachige Bewohner des Kosovo betrafen, nicht angemessen zu ermitteln.[8] Minderheiten wie Roma oder Aschkali leiden laut Amnesty "weiterhin unter institutionalisierter Diskriminierung"; "tätliche Angriffe auf Lesben, Schwule, Bisexuelle, Transgeschlechtliche und Intersexuelle sowie andere Hassverbrechen", heißt es weiter, seien von den Behörden gar nicht erst untersucht worden. Dass zahlreiche Journalisten beklagen, ihrer Arbeit wegen Bedrohungen oder tätlicher Angriffe nicht angemessen nachgehen zu können, entspricht dem allgemeinen Befund.
Kein Grund zur Flucht
Die Verhältnisse im deutsch-europäischen Protektorat Kosovo haben die Einwohner der Provinz zuletzt in Scharen auf die Flucht getrieben. Allein von November 2014 bis März 2015 verließen mehr als 50.000 Kosovo-Albaner ihr Land; bei einer Einwohnerzahl von insgesamt 1,8 Millionen entspricht dies einem Anteil an der Gesamtbevölkerung von 2,78 Prozent. Einen Asylantrag in Deutschland stellten laut Auskunft des Bundesinnenministeriums im Jahr 2014 insgesamt 8.923 Einwohner des Kosovo, im Jahr 2015 37.095; zusammengenommen sind das gut 2,56 Prozent der Gesamtbevölkerung. Chancen auf Asyl haben sie faktisch nicht: Schließlich wurde ihr Land 1999 von Deutschland und der NATO "befreit"; Fluchtgründe, die aus Sicht der deutschen Behörden nachvollziehbar und zulässig sind, liegen also nicht vor.

[1] Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Hg.): Kosovo. Länderreport Band 3. Aktuelle Lage, Rechtsstaatlichkeit, Menschenrechtslage. Mai 2015.
[2] S. dazu Teil des Westens geworden und Ein privilegierter Partner.
[3] S. dazu Politische Freundschaften und Heldenfigur.
[4] Adelheid Wölfl: Wieder Tränengaseinsatz im kosovarischen Parlament. derstandard.at 11.08.2016.
[5], [6] Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Hg.): Kosovo. Länderreport Band 3. Aktuelle Lage, Rechtsstaatlichkeit, Menschenrechtslage. Mai 2015.
[7] Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo. UNSC S/2016/666, 29.07.2016.
[8] Amnesty Report 2016: Serbien (einschliesslich Kosovo). www.amnesty.de.


--- ENGLISH ---


Germany's War Record (I)
 
2016/09/07
BERLIN/PRIŠTINA
 
(Own report) - Around 17 years after NATO's war against Yugoslavia and the beginning of the occupation of Kosovo with German participation, observers note that the de-facto protectorate is in a desolate political, economic and social condition. The first war in which the Federal Republic of Germany played an important role has had catastrophic consequences. De facto under EU control, Priština's ruling elite is accused of having close ties to organized crime and having committed the most serious war crimes. Its rampant corruption is spreading frustrated resignation within the population. Thirty-four percent of the population is living in absolute - and twelve percent in extreme - poverty, healthcare is deplorable, life expectancy is five years less than that of its neighboring countries and ten years below the EU's average. A report commissioned by the Federal Office for Migration and Refugees (BAMF), describes the horrifying human rights situation, which includes vendettas "constantly carried out" with firearms. (This is part 1 of a german-foreign-policy.com series, reporting on consequences of German military interventions over the past two decades, in light of the German government's announcement of plans to increase its "global" - including military - interventions.)
De-facto Protectorate
Around 17 years after NATO's war against Yugoslavia, and its subsequent occupation of the south Serbian Kosovo Province - with the participation of the German Bundeswehr - the EU is still treating Kosovo like a de-facto protectorate. The EU maintains a presence in the capital, Priština, with a special envoy, who has enormous influence simply because large EU subsidies guarantee the functioning of Kosovo's government. Since 1999, the EU is said to have transferred five to six billion Euros to Priština, although a large portion has allegedly filled the pockets of corrupt politicians and government employees. The EU, with its "European Rule of Law Mission in Kosovo" (EULEX Kosovo), has massive influence in the secessionist province. EULEX, itself, has repeatedly been accused of being deeply involved in corruption.[1] NATO's Kosovo Force (KFOR) remains deployed in Kosovo to suppress, if necessary, larger rebellions or social upheavals. German and Italian generals alternately command KFOR. Until now, 109 of the UN's 193 member countries have recognized the southern Serbian province's claim to independent statehood. Even the EU is divided on the question: Despite massive German pressure, five EU members (Greece, Romania, Slovakia, Spain and Cyprus) refuse to recognize Kosovo's independence - still today.
War Crimes, Organized Crime
Serious allegations, and even grave accusations of corruption and war crimes have repeatedly been raised against Kosovo's elites, who can remain in power in Priština, particularly under the EU's supervision. Observers criticize the fact that since starting its engagement in 2008, EULEX has failed to obtain even a single conviction of a Kosovo politician for corruption. Since 1999, Hashim Thaçi, Priština's current president, has been considered the strongman in the secessionist province and the head of Kosovo's mafia. He has repeatedly been accused of having been involved - either personally or through close associates - in murdering Serbs, and removing and trafficking their organs. (german-foreign-policy.com reported.[2]) Similar accusations have been leveled at other top politicians in Kosovo, such as Ramush Haradinaj.[3] Despite the Kosovo parliament's massive obstruction, a special court will soon hand down the first indictments for Kosovo war crimes, possibly also against leading politicians of Kosovo. The chances - 17 years after the crimes - of obtaining convictions are slim, not only because of the time lapse, but also because of experience. In earlier trials, witnesses died suddenly or became intimidated by the growing numbers of these deaths, and lost their will to testify against those in power in Priština. The alleged perpetrators got away with impunity.
Employment Rate: 28 Percent
The corrupt, mafia-like administration, maintained in office in Priština by the EU, is not only responsible for the widespread political frustration in the population - in 2014 electoral participation dropped to 42 percent - in spite of voter mobilization by certain clans. Protests are simmering. Since the 2008 proclamation of independence, the most virulent protests erupted shortly following the formation of the government in January 2015. Priština's political culture clearly contributes to increasing sense of resignation within Kosovo's population. The fact, for example, that teargas has repeatedly been used during parliamentary debates - most recently, on August 9 - can at least partially explain this resignation.[4] However, Kosovo's elite is also responsible for the region's desolate economic and social situation. Kosovo has an annual average per capita income of less than 2,800 Euros and is totally dependant upon EU aid and money transfers from relatives living abroad. A real economic upswing is nowhere in sight. Unemployment is excessively high. The employment rate is no more than 28 percent.[5] According to a report commissioned by the Federal Office for Migration and Refugees (BAMF), 34 percent of the population, with a daily average income of less than €1.55, is languishing in absolute poverty. Twelve percent, with a daily average income of less than €1.02, is suffering extreme poverty. Minorities such as the Roma are being "disproportionately affected." The social system is "only rudimentary, and does not provide adequate service," the BAMF reports. The health system is stagnating "at a low level," therefore, "the public health situation is inadequate." "Life expectancy is five years less than that of its neighboring countries and ten years below the EU's average." The child mortality rate is "the highest in Europe."
Vendetta
Moreover, the human rights situation is deplorable. The BAMF-commissioned report notes that - 17 years after the NATO invasion, which set off the 1999 war against Yugoslavia in the name of human rights - Kosovo clans have a free hand in continuing to honor archaic standards. "Particularly among the rural population," the report politely notes, "archaic customs, traditions and culture are still very much alive."[6] "Archaic customs" refers, for example, to the fact that "the focus is not on official institutions and their means of penalization, but rather on families or extended families (clans)." They use "a relic of the Albanian customary law," namely "the tradition of the Kosovo Albanian vendetta." "The pure vendetta tradition, is only occasionally practiced" today. A differentiation must be made between a vendetta and general "acts of vengeance," which are "constantly carried out." "The threshold for use of a firearm is often very low."
Shots and Molotov Cocktails
An overall human rights situation has correspondingly developed under the EU's protectorate supervision. A United Nations report listed 86 violent "incidents" - mostly aimed at members of the Serb-speaking minority, between April 16 and July 15. These attacks included shots being fired at the house of a Serbian politician and a Molotov cocktail attack on a police-escorted convoy of persons celebrating a Serbian Orthodox holiday. There were luckily no injuries.[7] As Amnesty International reported, in 2015, 1,650 people, who had disappeared during armed conflicts in 1998 and 1999, were still missing. The EU's EULEX mission preferred not to properly investigate cases involving Serb-speaking inhabitants of Kosovo.[8] Amnesty reports that, minorities such as Roma or Ashkali are "still suffering under institutional discrimination," while "physical attacks against lesbians, homosexuals, bisexuals, transgender and intersexes as well as other hate crimes" are not even investigated by the authorities. The fact that numerous journalists complain of being hampered in their work through threats or physical attacks, concords with the overall findings.
No Need to Flee
The conditions in the German-EU protectorate of Kosovo have driven large numbers of its inhabitants to flee. Between November 2014 and March 2015 alone, more than 50,000 Kosovo Albanians left the country - 2,78 percent of a population of 1.8 million. In 2014, according to the German Interior Ministry, 8,923 refugees from Kosovo have requested asylum in Germany and 37.095 in 2015 - altogether 2.56 percent of the Kosovo population. De-facto, they will have no chance of obtaining asylum in Germany. After all, Germany and NATO "liberated" their country in 1999. From the German administration's perspective, they have no acceptable reason to flee.

[1] Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Hg.): Kosovo. Länderreport Band 3. Aktuelle Lage, Rechtsstaatlichkeit, Menschenrechtslage. Mai 2015.
[2] See Became Part of the West and Ein privilegierter Partner.
[3] See Political Friendships and Heldenfigur.
[4] Adelheid Wölfl: Wieder Tränengaseinsatz im kosovarischen Parlament. derstandard.at 11.08.2016.
[5], [6] Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Hg.): Kosovo. Länderreport Band 3. Aktuelle Lage, Rechtsstaatlichkeit, Menschenrechtslage. Mai 2015.
[7] Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo. UNSC S/2016/666, 29.07.2016.
[8] Amnesty Report 2016: Serbien (einschliesslich Kosovo). www.amnesty.de.





Auf Deutsch: Die Regelung der Reparationsfrage (Griechenland fordert Reparationen für die NS-Aggression – GFP 19.08.2016)
ATHEN/BERLIN (Eigener Bericht) - Der griechische Ministerpräsident Alexis Tsipras stellt eine neue Initiative zur Erzwingung deutscher Reparations- und Entschädigungszahlungen an Griechenland in Aussicht. Wie Tsipras am Dienstag während der Gedenkfeier für die Opfer eines Wehrmachts-Massakers in dem westgriechischen Dorf Kommeno ankündigte, wird Athen "auf diplomatischer und falls nötig auf gerichtlicher Ebene" gegen Berlin vorgehen, sollte die Bundesregierung sich weiterhin weigern, in Reparationsverhandlungen einzutreten. Anfang September soll das griechische Parlament über einen kürzlich fertiggestellten Bericht diskutieren, der die deutsche Reparationsschuld auf 269 Milliarden Euro beziffert. Behauptungen der Bundesregierung, die Reparationsfrage sei "erledigt", treffen nicht zu: Tatsächlich ist die Zahlung einer 1946 verbindlich anerkannten Reparationssumme mit dem Londoner Schuldenabkommen vom Februar 1953 zwar gestundet, aber nicht aufgehoben worden; nur ein Bruchteil von ihr wurde beglichen. Wie Horst Teltschik, ein ehemaliger Berater von Bundeskanzler Helmut Kohl, bestätigt, hat Bonn sich der Reparationspflicht zu entziehen versucht, indem es den Zwei-plus-Vier-Vertrag explizit nicht als "Friedensvertrag" einstufte. Man habe befürchtet, mit einem Friedensvertrag plötzlich "Reparationsforderungen von über 50 Staaten auf dem Tisch" zu haben, erklärt Teltschik...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59422



Resolution of the Reparations Issue
 
2016/08/19

ATHENS/BERLIN
 
(Own report) - The Prime Minister of Greece, Alexis Tsipras has announced a new initiative to force Germany to pay reparations and compensations to Greece. During a memorial service for the victims of a massacre committed by the German Wehrmacht in the western Greek village of Kommeno, on Tuesday, Tsipras declared that, should the Germany government persist in refusing to pay reparations, Athens will seek "through diplomatic channels - and if necessary at the judicial level - " to take action against Berlin. In early September, the Greek parliament is scheduled to discuss a recently completed report quantifying the German reparations debt at 269 billion Euros. German government assertions that the reparations issue has been "closed" are unfounded. In fact, payment of the binding 1946 reparations sum, recognized by the London Debt Agreement of February 1953, had been deferred, but not annulled. Only a fraction of it has been paid. As confirmed by Horst Teltschik, former advisor to Chancellor Helmut Kohl, Bonn had sought to evade its reparations obligations by explicitly not qualifying the 2 + 4 Treaty a "Peace Treaty." It had been feared that, with a peace treaty, suddenly "reparations demands from over 50 countries would land on the table," Teltschik explained.
If Necessary, at the Judicial Level
The Greek Prime Minister, Alexis Tsipras, has announced a new initiative to force German reparations and compensations payments to Greece for crimes committed during the World War II German occupation of that country. Tsipras reiterated that his government would do "everything necessary" to impose reparations - "at the diplomatic, and, if necessary, at the judicial level."[1] He made this announcement in the course of a memorial service for the victims of a massacre committed by the German Wehrmacht on August 16, 1943 in the western Greek village of Kommeno. Within a few hours, 317 defenseless civilians aged from one year old to 90, where abruptly awakened and murdered by the German occupiers. Referring to the Greek parliamentary committee's final report, completed in late July, the Prime Minister explained that this represents the first time that a "national strategy" for dealing with the issue of reparations and compensation payments exists, and is scheduled to be debated officially in parliament at the beginning of September.
269 Billion Euros
The committee's final report has listed the reparations and compensation claims still pending. According to the list, Athens can raise claims for "reparations for material war damages and confiscated property," along with the restitution of the forced loan, the German occupiers extorted from Greece. In addition, reparations are demanded for the victims and their families of German war crimes, and not least of all, the demand for the return of hundreds of stolen archeological artifacts.[2] It is reported that private individuals' claims for reparations is already calculated "at more than 107 billion Euros - before interests." Germany also still owes Greece 9.2 billion Euros in World War I reparations. The forced loan to the Nazi government is usually valued in today's currency at more than 10.3 billion Euros. Altogether, the parliamentary committee arrives at a total of 269 billion Euros in reparations and compensation payments.
To The Hague and the UN
The final report also proposes measures the Greek government could take. According to the authors, a Greek parliamentary delegation should inform parliamentarians of the German Bundestag and the parliaments of other nations of the claims. In a note verbale, the government in Athens should call on Berlin to enter negotiations, they write, and the European Parliament should be called upon to intervene. The conflict could be taken to the United Nations.[3] Should the German government remain intransigent, the case must then be taken before the International Court of Justice in The Hague. Athens must also consider the possibility of executing the rulings already handed down by Greek courts and confiscate German property in Greece. Greek courts, in principle, have awarded surviving victims of German war crimes in Distomo, Egio and Rethymno reparations, however, cannot impose the execution of the ruling. The only possibility would be to nationalize the Goethe Institute's Athens' subsidiary and compensate the victims from those proceeds. Under massive German political pressure, the Greek government, so far, has not taken this step.
Berlin's Double Strategy
Since some time, Berlin has been responding to Athens' demands for reparations with a sort of double strategy. On the one hand, Germany claims that there is no legal basis for reparations. The case is "closed." On the other, Berlin offers cheap concessions, from its cultural policies abroad reserves, destined to strangle any further reparations demands. Thus for example, the German government is officially promoting the German-Greek Future Fund - which began functioning September 12, 2014, during a visit of Greek President Karolos Papoulias - as "serving reconciliation and historical analysis between Germany and Greece."[4] This project does not cost 269 billion Euros, but rather annually a million, only the smallest fraction of which actually reaches the victims and their descendents. However, selected historical projects are supposed to give the impression that finally Germany's historical crimes will be comprehensively dealt with. Projects, such as these, are usually administered in the context of cultural policy abroad, not only for the purpose of promoting the image of an alleged "reflective" Germany, but primarily to stave off reparations demands - at the expense of the victims of the Nazis.
Confirmed, then Postponed
Berlin is particularly interested in subduing reparations demands because, contrary to the official German standpoints, these demands remain applicable under international law. The fundamental necessity of reparations payments was confirmed in February 1945 at the Yalta Conference. The first general guidelines were laid down in the Potsdam Agreement on August 2, 1945. November 9, 1945, negotiations began in Paris on their concretization, during which, Greek reparations claims valued at US $7.1 billion - based on the 1938 buying power - were confirmed. Today, this is worth a multiple of that value, even without interests. Experts estimate the value - in 2010 currency - at around US $106.5 billion.[5] In the January 14, 1946 Reparations Agreement of Paris, Greece had been allocated a certain percentage of Germany's available reparations reserves. In fact, Athens received non-cash benefits with an estimated value of only US $25 million.[6] Since signing the London Debt Agreement on February 27, 1953, Bonn has refused to pay any reparations at all. That agreement made an indefinite deferment of reparations for the Federal Republic of Germany. However, it explicitly also provided for a future "final ... settlement of the reparations issue."
Demands from 50 Countries
Throughout the cold war period, the Federal Republic of Germany had turned down demands for the payment of reparations, using the London Debt Agreement as reference, and declaring that reparations claims can only be negotiated after the "reunification" with the German Democratic Republic and the ensuing finalization of a peace treaty. However, Bonn has deliberately qualified the 2 + 4 Treaty, signed September 12, 1990, not as a peace treaty, "not least of all, because of the risk of reparation demands," as former Chancellor Helmut Kohl's advisor Horst Teltschik explained in March 2015. "Not only Greece" could be demanding reparations. "As is known, the Nazi regime was at war with over 50 countries around the world. ... Just imagine, in the context of a peace treaty, we would have had reparations demands from over 50 countries on the table."[7] That is what had to be avoided. However thereby, the "final ... settlement of the reparations issue," stipulated in the London Debt Agreement, which for decades the Federal German government made conditional on a formal peace treaty, was simply postponed further into the future. Should the Greek government carry out Prime Minister Tsipras' announcement, it would now be placed on the agenda.

More on this topic see: Legacy without a Future.
[1] Tsipras zu Reparationen: Werden "alles Notwendige" tun. www.neues-deutschland.de 17.08.2016.
[2], [3] Giorgos Christides: Wie Griechenland von Deutschland 269 Milliarden Euro einklagen könnte. www.spiegel.de 10.08.2016.
[4] "Deutsch-Griechischer Zukunftsfonds" nimmt Arbeit auf. www.auswaertiges-amt.de 12.09.2016.
[5] Karl Heinz Roth: Griechenland am Abgrund. Die deutsche Reparationsschuld. Zweite Auflage. Hamburg 2015.
[6] Hagen Fleischer, Despina Konstantinakou: Ad calendas graecas? Griechenland und die deutsche Wiedergutmachung. In: Hans Günter Hockerts, Claudia Moisel, Tobias Winstel: Grenzen der Wiedergutmachung. Die Entschädigung für NS-Verfolgte in West- und Osteuropa 1945-2000. Göttingen 2006. S. 375-457.
[7] "Alle Forderungen erledigt". www.deutschlandfunk.de 14.03.2015.





What the Karadzic Trial Didn’t Prove


The Karadzic trial does not purport to show that the Serbian war effort in Bosnia-Herzegovina was unjustified, or that Bosnian-Muslims and Croats were innocent of crimes committed against Serbs during the 1992-95 war.

www.slobodan-milosevic.org - September 1, 2016
Written by: Andy Wilcoxson

Last week, ICTY chief prosecutor Serge Brammertz wrote an article for Al-Jazeeraattempting to downplay the fact that that the Radovan Karadzic trial chamber had exonerated Slobodan Milosevic for crimes committed during the 1992-95 Bosnia War.

Brammertz argued that:

Some government officials throughout the region regularly misrepresent and disregard the judicial and historical record. [...]

Last week marked a new low. To widespread surprise, a thin pretext was seized in an attempt to publicly absolve former President of Serbia Slobodan Milosevic, of responsibility for the atrocities committed in Bosnia and Herzegovina.

Some, including the Serbian Foreign Minister Ivica Dacic, contend that earlier this year the United Nations International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) exonerated Milosevic in its trial verdict convicting former Bosnian Serb leader Radovan Karadzic.

The arguments are not only misguided, but wrong. The only person on trial in Karadzic’s case was Karadzic himself. 

Mr. Brammertz’s assertion that “The only person on trial in Karadzic’s case was Karadzic himself” is somewhat disingenuous. The charges against Milosevic and Karadzic are inexorably linked. Because of the way Mr. Brammertz and his prosecutors structured their indictments one can’t separate the two, and being the ICTY chief prosecutor, Mr. Brammertz ought to know that. 

Milosevic’s culpability was an issue before the Karadzic trial chamber because Mr. Brammertz and his staff made it an issue. The Karadzic indictment accuses Slobodan Milosevic of co-perpetrating a “joint criminal enterprise” together with Radovan Karadzic. That’s why the Karadzic chamber made findings regarding Milosevic’s participation in the alleged “joint criminal enterprise” in first place. If Milosevic’s culpability wasn’t a relevant issue before the Karadzic trial chamber, then the judges wouldn’t have made any findings about him at all.

Mr. Brammertz and the prosecutors working under him charged Milosevic and Karadzic with undertaking the same conspiracy or “joint criminal enterprise” to permanently remove Bosnian Muslim and Bosnian Croat inhabitants from Bosnian Serb territory through the commission of various crimes. Radovan Karadzic’s indictment lists Slobodan Milosevic as his co-conspirator, and Slobodan Milosevic’s indictment lists Radovan Karadzic as his co-conspirator. Milosevic and Karadzic were accused of co-perpetrating exactly the same joint criminal enterprise in Bosnia together.

Paragraph 9 of the indictment against Karadzic says: “Radovan KARADZIC participated in an overarching joint criminal enterprise to permanently remove Bosnian Muslim and Bosnian Croat inhabitants from the territories of BiH claimed as Bosnian Serb territory by means which included the commission of [crimes].” And in Paragraph 11 the indictment asserts that “Radovan KARADZIC acted in concert with other members of this criminal enterprise including [...] Slobodan MILOSEVIC”.

Conversely, paragraph 6 of the indictment against Milosevic says: “Slobodan MILOSEVIC participated in the joint criminal enterprise [...] The purpose of this joint criminal enterprise was the forcible and permanent removal of the majority of non-Serbs, principally Bosnian Muslims and Bosnian Croats, from large areas of the Republic of Bosnia and Herzegovina, through the commission of crimes.” And in Paragraph 7, “The individuals participating in this joint criminal enterprise included Slobodan MILOSEVIC, Radovan KARADZIC, [...]”.

The Karadzic chamber’s determination that the evidence against Milosevic was not only “insufficient” to show that he was part of the joint criminal enterprise, but also that there was exculpatory evidence showing that he had limited influence over the Bosnian Serbs, opposed ethnic cleansing, and wanted to find a peace settlement that was fair to the Muslims and the Croats undermines the allegations against him in a very direct and obvious way. 

The presiding judge in the Karadzic case (O-Gon Kwon of South Korea) was one of the three judges who sat on the bench throughout the Milosevic trial. He was certainly aware of the evidence, or more accurately, the lack of evidence against Milosevic. 

Ms. Hildegard Uertz-Retzlaff was one of the senior prosecutors in both the Milosevic case and in the Karadzic case. She too would have been aware of evidence against Milosevic, and she had ample opportunity to advise her colleagues or present whatever evidence she had to the chamber during the nearly 8 years that Radovan Karadzic was on trial. 

Moreover, the Karadzic chamber had access to recently disclosed documents that the Milosevic chamber did not. Specifically, they had access to Ratko Mladic’s diaries and they had access to the transcripts of the Supreme Defence Council, both of which they made reference to in their findings pertaining to Milosevic.

It should also be noted that the chamber based its findings mainly on the evidence tendered by prosecutors working for Mr. Brammertz himself. Karadzic had no obligation to defend Milosevic, but the prosecution was certainly obliged to present its evidence against Milosevic because they made allegations against him in the Karadzic indictment -- allegations that the judges rejected. 

The ICTY’s Findings Can Be Questioned

If a senior ICTY official like chief prosecutor Brammertz, and outspoken ICTY apologists like RFE/RL Balkan Service Director Gordana Knezevic, can dispute the Karadzic chamber’s findings regarding Slobodan Milosevic, then others are free to question findings made by ICTY trial chambers. By denying, disputing, or trying to downplay the significance of these findings they have forfeited their right to accuse the Tribunal’s critics of “genocide denial” and “revisionism” for questioning other findings made by the Tribunal. 

If the only findings that the Karadzic chamber was competent to make were the findings related to his acts and conduct alone, and not the acts and conduct of other people (e.g. Slobodan Milosevic), then we can disregard the vast majority of their findings. We can disregard all of the trial chamber’s findings related to the scheduled incidents listed in the indictment because Radovan Karadzic is not alleged to have personally killed or mistreated anyone.

The argument that Brammertz and Knezevic are advancing is a double-edged sword. If the Karadzic chamber is not competent to determine whether Slobodan Milosevic and Radovan Karadzic participated in a joint criminal enterprise in Bosnia together because Slobodan Milosevic wasn’t officially charged in the Karadzic case, then they’re certainly not competent to determine what Bosnian-Serb military and police personnel, who also weren’t officially charged with crimes in the Karadzic case, did at Srebrenica or in prison camps where Radovan Karadzic was not present. Nor can they credibly determine whether a shell or a bullet came from the Serbian or the Muslim side of the confrontation line in Sarajevo where the alleged shooters were not officially charged in the Karadzic proceedings.

Of course the ICTY’s findings have always been questionable, and that certainly includes some very questionable findings contained in the Karadzic judgment itself. Slobodan Milosevic isn’t innocent because of anything in the Karadzic judgment, and the tribunal doesn’t deserve a gold medal for exonerating him ten years after they killed him in their jail. Slobodan Milosevic is innocent because that’s what the evidence has always shown.  

Mr. Brammertz made one excellent suggestion in his article. He said that “while Milosevic did not face final judgment in the courtroom, the facts and evidence remain. Today, any member of the public - and any government official - can access the ICTY’s judicial records and read the evidence. Vital information can also be found in Serbia’s state archives.”

Anyone who takes Mr. Brammertz suggestion on board and goes through that evidence will very likely come to the conclusion that Mr. Brammertz is wrong when he claims that “Milosevic played a central role in fostering ethnic cleansing campaigns throughout the former Yugoslavia.” That wasn’t the determination of the Karadzic trial chamber when they looked at the evidence, and if our so-called “experts” and “journalists” ever bothered to take a detailed look at the evidence for themselves, they’d find that there wasn’t any substance to the allegations against Milosevic either.

What the Karadzic Verdict Does Not Prove

As long as we’re on the subject of what the Karadzic trial proceedings prove or don’t prove, there are a couple of noteworthy issues that the trial process specifically did not purport to prove: (1) that the Bosnian-Serb war effort was unjustified, and (2) that Bosnian-Muslim and Bosnian-Croat forces were innocent of crimes against Bosnian-Serb civilians.

There are two important principles in international law, one of which concerns the Karadzic trial and one of which does not: jus in bello and jus ad bellum.

Jus ad bellum (Latin for “right to war”) is the branch of international law that determines whether entering into an armed conflict is permissible or justified. Jus in bello (Latin for “right in war”), regulates the conduct of the belligerents engaged in an armed conflict regardless of whether they’re fighting an offensive war or a defensive war.

The Karadzic trial process openly disregarded jus ad bellum, and was only concerned with jus in bello. During the trial process Alan Tieger, the lead prosecutor in the Karadzic case, explained that “As this Trial Chamber has repeatedly pointed out to Dr. Karadzic, this case is not about who started the war, jus ad bellum.”[1]

The government of Germany made the same observation when it refused to hand over documents related to weapons shipments destined for Bosnian-Muslim soldiers based in the Srebrenica “safe area”. They noted that “The indictment specifically does not charge the Accused with violating the rules of jus ad bellum, but rather with disregarding jus in bello.”[2]

In its written submissions the prosecution argued that “International humanitarian law (IHL) applies to all parties in an armed conflict irrespective of the lawfulness of the other party’s resort to force, a violation of IHL can never be excused as a valid reprisal to an alleged violation of jus ad bellum.”[3]

Mr. Tieger made the same observation in court citing a U.S. military manual to argue that “the side that is acting in self-defence against illegal aggression does not because of that fact gain any right to violate the law of armed conflict.”[4]

When the Trial chamber refused to subpoena documents sought by the Karadzic defense from the United States government they did so on the basis that “the issue of who was responsible for starting the war is not relevant to the Accused’s defence case.”[5]

In court, Judge Kwon admonished Karadzic for spending too much time on the issue of whether Bosnian-Serb combat activities were offensive or defensive. He said, “Who started the attack is not relevant for the purpose of this case at all. So I was concerned very much about delving into whether the nature of certain combat activities was defensive or offensive. It’s all related jus ad bellum as I indicated yesterday. In the future, the Chamber will keep a closer look as to the relevance of the Defence witnesses’ evidence and, if necessary, it may consider not allowing the evidence at all.”[6]

Crimes against Serbs

Evidence of crimes committed against Bosnian-Serb civilians by Bosnian-Muslim and Croatian forces was also deemed “irrelevant” and suppressed by the prosecutors working for Mr. Brammertz, and by the trial chamber itself.

When a protected Bosnian-Muslim witness, under questioning from Dr. Karadzic, began testifying about Serbs who had been beheaded by Nasir Oric’s fighters in Srebrenica, prosecutor Melissa Pack intervened to stop the testimony. She said, “I can see that we are going down the road of this witness testifying about crimes allegedly committed by the ABiH against Serbs. This is the second answer which purports to describe those sorts of events, and I just want to at this point caution Dr. Karadzic and raise this as a potential issue. In my submission, evidence of crimes against Serbs is not relevant.”[7]

On many occasions prosecutors objected to the admission of documents on the grounds that “they consist of detailed evidence of crimes against Serbs and don’t satisfy the standard of relevance”.[8]

The judges openly sided with the prosecutors and forced the witnesses testifying in the trial to redact their statements in order to prevent evidence of crimes against Serbs from going on the record.

Witness Goran Sikiras had his statement redacted by the chamber on the grounds that “about half of Sikiras’s statement is concerned with crimes committed against Bosnian Serbs in Vogosca and as such are not relevant to the charges in the indictment. I refer here to page 4, parts of page 5, as well as pages 6 and 7. The Chamber reminds the accused once again that it will not admit detailed tu quoque evidence under the guise of relevance to this trial.”[9]

Witness Branislav Dukic’s statement was rejected in its entirety on the grounds that “Dukic’s proposed 92 ter statement is concerned, almost entirely, with detailed descriptions of crimes committed against the Serbs and against Dukic in particular. It also contains some references to previous meetings between Dukic and the Prosecution. As such, the Chamber considers that Dukic’s evidence is not relevant to the charges in the indictment. While his statement does contain some remote references to the positions and military activity of the ABiH and the Bosnian Croat forces in and around Sarajevo, these are not only minimal but also general in nature and thus are not sufficient in and of themselves to warrant admitting parts of his statement. Accordingly, the Chamber decides, proprio motu, to exclude the evidence of Branislav Dukic in its entirety.”[10]

The statement of witness Vidomir Banduka was redacted because “the Chamber finds paragraphs 59, 60, 62, 63, 72 to 75, 77, and 78 are not relevant in that they either refer to the detention facilities established by Bosnian Muslim authorities or to crimes committed against Bosnian Serbs. So these paragraphs should be redacted and will not admit associated exhibits referred to therein.”[11]

The statement of witness Nenad Kecmanovic was redacted because, “paragraphs 45 and 46 of Mr. Kecmanovic’s statement contain a detailed information about mistreatment of Bosnian Serbs, including the existence of detention centres. The Chamber is of the view that this level of detail is not relevant to the charges against the accused, and accordingly orders the redaction of these paragraphs.”[12]

When they ordered the redaction of witness Milovan Bjelica’s witness statement the judges explained that “the Chamber had an opportunity to skim through the statement. Para 44, the Chamber -- we will keep the first and last sentence, but the other part should be redacted, as well as paragraph 45, 47, and paragraph 49 to 51. They do contain too much detailed evidence, including names, ages of victims on crimes against Bosnian Serbs that are not relevant or necessary.”[13]

The judges were so keen to suppress evidence of crimes against Serbs that they would redact even a single sentence if the witness dared to mention that crimes had been committed against Serbs. When they ordered the redaction of Tomislav Savkic’s witness statement the judge explained that “the Chamber finds that the last sentence of paragraph 62 and the document referred to therein and the last sentence of paragraph 81 contain excessive detail about specific crimes committed against Bosnian Serbs which is not relevant to the charges against the accused in the indictment and orders that they be redacted.”[14]

When the trial chamber ordered redactions to Srdjan Sehovac’s witness statement they did so on the basis that “the statement, which the Prosecution seeks to exclude, falls within the category of detailed evidence pertaining to crimes committed against Bosnian Serbs which the Chamber has consistently excluded on the grounds that it is irrelevant tu quoque evidence.”[15]

When Radojka Pandurevic, a Serbian woman who was imprisoned in a camp run by the Bosnian-Muslims where she and other Serbian prisoners were subjected to beatings and sexual violence, took the witness stand the judges demanded that large swaths of her witness statement be redacted because “her statement is comprised of tu quoque or otherwise irrelevant evidence and will therefore not be admitted.”[16]

When she took the witness stand she objected to the redactions saying, “I read the statement, but it doesn’t reflect accurately everything I said, as I can see that some portions are marked which were unacceptable and redacted. Those paragraphs have to do with my stay in the Silos camp, which in turn would mean that I cannot convey the suffering I had undergone in the Silos camp.”[17]

The judges made no secret of what they were doing during the trial. They said it clearly, they said it openly, and they said it literally: “We didn’t allow the accused to expand on the issue of crimes committed against the Serbs.”[18]

In his editorial for Al-Jazeera, Mr. Brammertz argues that, “Progress and reconciliation require acceptance of clear, historical facts, no matter how uncomfortable those facts may be.” Unfortunately, the Karadzic trial purported to establish no such historical facts.

The Radovan Karadzic trial was not an objective exercise in truth seeking, nor did it purport to be one. The judges clearly told Radovan Karadzic that “It is you, not the Serbian army or Serb people or anybody else, that was indicted in this case.”[19]They said, “We are not trying to publish a white book on the history of the BiH. This is a criminal trial which deals with the charges against you.”[20] The judges were explicit. They said, “The purpose of this trial is to judge whether you are guilty of charges as alleged in the indictment. And this is not an opportunity for you to produce a white book of all the events that took place at the time.”[21] They were very clear about the fact that “We are not pursuing to produce a white book in history or to correct the history.”[22]

The Karadzic trial did nothing to promote progress and reconciliation in the Balkans, in fact it served exactly the opposite purpose. Publicizing crimes committed by Serbs, while shamelessly suppressing evidence of crimes committed against them, and suppressing evidence that they were defending themselves from illegal aggression can only serve to engender resentment and hard feelings. The Serbian people will never accept the Tribunal’s condemnation of Radovan Karadzic under these circumstances, nor should they. 

Suppressing evidence of crimes against Serbs, and suppressing evidence of whether the Serbs were fighting an offensive or a defensive war, directly undermines the Karadzic trial chamber's conviction of Radovan Karadzic. It's entirely possible that Serbian forces who did perpetrate crimes were motivated to do so in retaliation for crimes and aggression against Serbs by Muslims and Croats, and not because Radovan Karadzic was the evil mastermind of a “joint criminal enterprise”. The way in which this trial was conducted leaves ample room for resonable doubt.

Serge Brammertz does not speak from a position of credibility either. Thanks to Wikileaks, we know how he got his job as ICTY chief prosecutor, and it’s an interesting story.

According to a classified U.S. State Dept. cable dating from 2007, “France is backing Serge Brammertz to succeed Carla Del Ponte as ICTY Chief Prosecutor from a belief that Brammertz will otherwise refuse to extend his mandate at the UN International Investigative Commission (UNIIIC), an outcome the French characterize as disastrous.”[23]

According to the cable, a more qualified prosecutor was passed over in favor of Brammertz despite doubts about his competence. The cable says, “With Del Ponte set to retire in September, current Deputy Prosecutor Tolbert would manage the transition until Brammertz’s arrival.  [MFA UN/Middle East Action Officer Salina Grenet] acknowledged that the outcome was not positive for Tolbert, an [American citizen], whom she called an excellent candidate in his own right to succeed Del Ponte. She volunteered moreover that the UK had raised doubts about whether Brammertz possessed the right profile and competence for the ICTY position.”[24]

Brammertz got the job of ICTY chief prosecutor, despite the fact that the ICC wouldn’t even give him his old job back. The cable says, “Grenet conceded that Brammertz, on leave as Deputy Prosecutor of the International Criminal Court (ICC), should technically be able to resume his prior function; however, she claimed that ICC Prosecutor Ocampo, whose personal relationship with Brammertz has continued to deteriorate, has effectively shut the door on that possibility.”[25]

Why should anyone take the ICTY seriously when its chief prosecutor got his job for blatantly political reasons in spite of doubts about his competence?


[1] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 47592-47593

[2] Answer to the request for motion for a binding order to be issued to the Government of the Federal Republic of Germany for the production of documents pursuant to Rule 54bis

[3] Prosecution’s Submission Re. Notice of Special Defence as to Count 11: Reprisals

[4] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 47690

[5] ICTY Case No. IT-95-5/18-T, Decision on Accused’s Fifth Motion for Binding Order (United States of America), 22 August 2012

[6] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 30365

[7] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 12743

[8] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 8347

[9] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 30687-30688

[10] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 30518-30519

[11] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 33424-33425

[12] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 7083-7084

[13] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 4386-4387

[14] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 1716

[15] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 32652-32653

[16] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 30519

[17] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 30649

[18] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 46536

[19] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 30365

[20] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 4867

[21] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 764

[22] Radovan Karadzic trial transcript, pg. 6130

[23] Classified U.S. State Dept. Cable #07PARIS1882_a; Para 1

[24] Ibid., Para 3

[25] Ibid., Para 4



(srpskohrvatski / italiano)

La Jugoslavia alle Olimpiadi 2016

1) Il medagliere olimpico
2) Due immagini significative
3) Illegittima partecipazione del "Kosovo" e provocazioni pan-albanesi / Evo kako su Albanci provocirali...
4) Hrvatska atletičarka Sandra Perković: Žao mi je što se Juga raspala, bili bismo najveća sila ["Mi dispiace che la Jugoslavia sia smembrata, saremmo stati i più forti"]


Come ogni quattro anni, cioè per ciascuna Olimpiade svoltasi dallo smembramento della Jugoslavia in poi, riportiamo qui il medagliere delle Repubbliche ex-federate a confronto con il passato. 
In totale gli atleti jugoslavi hanno raccolto 9 ori, 9 argenti e 5 bronzi, classificandosi complessivamente all'ottavo posto e battendo, per un oro, anche l'Italia. Croazia e Serbia in particolare hanno conseguito ottimi risultati. Nella pallanuoto addirittura su 4 semifinaliste, 3 erano nazionali di paesi sorti dalla dissoluzione jugoslava. 


Sullo stesso argomento segnaliamo anche:

Le repubbliche jugoslave nel medagliere olimpico

Ex-Ju: passato e presente olimpico (di Natalia Kawana – OBC 04/08/2016)
La Jugoslavia partecipò a molte Olimpiadi, vincendo un record di 18 medaglie nel 1984. Ora gli stati successori hanno tutti speranze di medaglie, nonostante la loro giovane storia di partecipazione all'evento come stati indipendenti... [N.B. Nell'articolo i risultati conseguiti dalla Jugoslavia nei 70 anni di unità vengono saltati a pié pari]
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Ex-Ju-passato-e-presente-olimpico-173401/

Il basket e la sfida infinita. Croazia-Serbia, ci risiamo (di Gianni Riotta, 17.8.2016)
Dalla guerra allo sport, stanotte nei quarti un match mai banale [N.B. Un articolo grondante imprecisioni e luoghi comuni: Mate Boban, coinvolto nella rissa al fianco dei suoi hooligans nazionalisti e violenti, viene rappresentato come una vittima, mentre Vlade Divac che calpesta la bandiera del nazismo ustascia (nel 1990 la bandiera della Repubblica Socialista di Croazia era con la stella rossa e la parte inferiore di colore blu!) fa la parte del cattivone]


=== 1: Il medagliere ===

paese classifica oro argento bronzo totale

SLOVENIA (45) 1 2 1 4
CROAZIA (17) 5 3 2 10
BOSNIA-ERZEGOVINA (--) 0 0 0 0
FYROM (--) 0 0 0 0
SERBIA (32) 2 4 2 8
MONTENEGRO (--) 0 0 0 0
KOSOVO (54) 1 0 0 1


=== 2: Due immagini significative ===


NAJLJEPŠA SCENA FINALA U VATERPOLU: Zagrljaj srpskog i hrvatskog selektora za istoriju!

Piše: Buka / Objavljeno: 21.08.2016.
Lekcija iz viteštva srpskog i hrvatskog selektora – Prizor zagrljaja Dejana Savića, trenera Srbije i hrvatskog selektora Ivice Tucka je možda i najdirljivija scena finala i najveća pobjeda sporta. Tako treba. Uvijek i u svakoj prilici, na svim sportskim borilištima kada se sastanu Hrvati i Srbi ili bilo koja druga kombinacija sa naših nesretnih vremena


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SLIKA KOJA POKAZUJE BESMISAO RATA I MRŽNJE NA BALKANU

Piše: 24sata.rs / Objavljeno: 18.08.2016. u 13:04h
Rano jutros na terenu u Riju našla su se dva Bogdanovića, ali na suprotnim stranama - i obojica su bili najbolji u svojim timovima. Slika ove dvojice košarkaša odmah je počela da se širi društvenim mrežama kao najbolji podsetnik na besmisao ratova i mržnje na Balkanu.

Reprezentacije Srbije i Hrvatske nadmetale su se za prolazak u polufinale olimpijskog turnira i Srbija je izašla kao pobednika sa rezultatom 86:83. Lepa pobeda, velika i jako značajna - ali ipak obojena nacionalističkim
Ubrzo su krenuli da se vode pravi mini-ratovi u sekcijama komentara na portalima i društvenim mrežama. Puni "municije" u vidu mržnje, uvreda, psovki i ostalih primitivizama, najgori predstavnici obe stranem postarali su se da se njihov glas čuje. I delovalo je kao da je najglasniji. komentarima sa obe strane. U očima mnogih Srba ova pobeda je dvostruko veća jer je baš protiv naših suseda, dok se po hrvatskim društvenim mrežama i medijima šire komentari da poraz boli mnogo više jer je baš od Srbije.
Kakva glupost!
Koliko su tačno ovakvi statovi besmisleni možda je najbolje objasnio australijski komentator sinoć.
"Svi imaju ista imena... Ali nemojte to ni slučajno da im kažete", rekao je on kroz šalu, misleći baš na Bogdanovića i Bogdanovića. I nije bio jedini koji je bio zbunjen.
Dva bratska naroda, sa istim prezimenima, istim bojama, gotovo identičnim jezikom, geografski susedi - nikome ko nije upućen u komlikovanu istoriju Jugoslavije nije jasno zašto bi tu postojala mržnja. Zapravo, ni onima koji ne samo da su upućeni, nego su bili svedoci ratova, nije jasno kakve veze politika ima sa sportom i zašto bismo mrzeli narod zbog šačice političara.
Bogdan Bogdanović je juče bio najbolji u reprezentaciji Srbije i doneo nam je 18 poena. Bojan Bogdanović je bio najbolji u reprezentaciji Hrvatske i doneo im je 28 poena. A zajedno su ova dva Bogdanovića donela najlepšu poruku nakon utakmice.
Slika je već osvojila društvene mreže, pa šalje jasnu poruku da onaj glas mržnje o kom smo pričali možda ipak nije najglasniji. Sve dok mu mi to ne dozvolimo.



=== 3 ===


Serbia ai suoi atleti: “Se c’è il Kosovo non salite sul podio”

Pubblicato il 8 agosto 2016 

di Silvio De Santis

La Serbia ai suoi olimpionici: “Non salite sul podio se ci sono atleti del Kosovo”. “Abbandonare le cerimonie di premiazione nel caso ci siano sul podio anche atleti del Kosovo”: è questo l’invito che il governo della Serbia ha voluto dare ai propri atleti nel caso si trovassero a condividere il podio delle olimpiadi di Rio 2016 con atleti provenienti dal Kosovo.
Il ministro dello sport, Vanja Udovicic (un ex campione di pallanuoto, ha solo 34 anni), ha chiarito che la decisione finale spetta solo ai singoli componenti del Team, mentre il governo ha sottolineato come non ci sia un obbligo “ma solo una raccomandazione”, perché la vicenda è “complessa”.
Il Kosovo è stato ufficialmente riconosciuto dal comitato olimpico internazionale nel 2014, e a Rio sono presenti otto atleti, alcuni dei quali avevano partecipato a Londra 2012 con l’Albania. “Non vogliamo certo minacciare i nostri atleti – ha aggiunto il ministro Udovicic – ma non possiamo ascoltare l’inno del Kosovo né vedere la loro bandiera“.
Qualcuno penserà che con 8 atleti la probabilità che il Kosovo vada sul podio è molto scarsa, e che quindi la Serbia stia solo cogliendo l’occasione per ribadire la propria ostilità al Kosovo anche in sede olimpica. Ma il Kosovo ha già vinto una medaglia, per di più d’oro, e contro l’Italia.
È stata la due volte iridata Majlinda Kelmendi, portabandiera del Kosovo alle olimpiadi di Rio, a vincere la medaglia d’oro di judo. Nella cerimonia organizzata a Pristina, prima della partenza per Rio, la Kelmendi aveva detto: “Voglio mostrare al mondo che il Kosovo non è solo un piccolo Paese con una storia di guerra. Voglio mostrare nostro lato buono del nostro Paese, dove i giovani fanno sport, spettacolo e possono anche vincere”.

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Odio incredibile: Ecco come gli albanesi hanno provocavano il campione olimpico Davor Stefanek

http://www.kurir.rs/sport/rio-2016/nevidena-mrznja-evo-kako-su-albanci-provocirali-olimpijskog-sampiona-stefaneka-clanak-2401351

NEVIĐENA MRŽNJA: Evo kako su Albanci provocirali olimpijskog šampiona Štefaneka

16.08.2016. – Grupa navijača provocirala je albanskom zastavom olimpijskog šampiona Davora Štefaneka tokom intoniranja himni u Rio de Žaneiru.
Srpski rvač Davor Štefanek osvojio je zlatnu medalju u Riju pošto je u finalu u kategoriji do 66 kilograma grčko-rimskim stilom pobedio Migrana Artjunjana iz Jermenije.
Prilikom podizanja zastave i intoniranja himne Srbije grupa albanskih navijača koja je provocirala olimpijskog šampiona. Međutim, Štefanek na to uopšte nije reagovao.


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Hrvatska atletičarka Sandra Perković: Žao mi je što se Juga raspala, bili bismo najveća sila

Navijaću za Ivanu Španović kao i uvek, ne vidim nikakav razlog zašto ne bih. Moje je srce veliko kad ona pobeđuje kao što je i njeno kada to činim ja, poručila je Perkovićeva
Datum: 15/08/2016

Olimpijska pobednica u bacanju diska iz Londona Hrvatica Sandra Perković u obranu titiule krenuće u utorak u 1.30 časova, ali to ipak nije najbitnija vest u Hrvatskoj. Njeno drugarstvo sa Ivanom Španović i jugonostalgija netipična za hrvatske sportiste, koji čak i ako veruju u Jugu, to drže za sebe, zapalila je društvene mreže.

Osim što se sprema za lov na novu medalju, Sandra Perković za Novosti je poručila da će pružiti i podršku ostalim sportistima iz bivše Jugoslavije, i da bi volela da isto učine i svi navijači bez obzira na to iz koje države dolaze.

"Mi se tu svi držimo zajedno. Već smo ranije komentirali kako Bosanci dolaze kod nas na terapije, ja odem kod Slovenaca, a ti Slovenci kod Srba. Bitno je da se držimo zajedno, tako smo puno jači i sve ima jedan pozitivan duh. Puno je lepše biti u društvu našeg čoveka. Žao mi je što smo se raspali jer mislim da bismo bili najjača sila, jači od Nemaca, Rusa i Amerikanaca", rekla je Perkovićeva za Novosti.

Ona je kratko prokomentarisala i svoj odnos sa najboljom srpskom atletičarkom Ivanom Španović.

"Baš smo se čule pre nego što je stigla ovde. Srećemo se na većim mitinzima i jedva čekam da ju ponovno vidim. Navijaću za nju kao i uvek, ne vidim nikakav razlog zašto ne bih. Moje je srce veliko kad ona pobeđuje kao što je i njeno kada to činim ja", poručila je hrvatska atletičarka.