Il seguente articolo e' apparso sul quotidiano giuridico online
"Diritto e giustizia" del 2.2.2002. Ringraziamo l'Avv. Ricci Bitti
per la segnalazione
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Tipologia: Commenti - Data pubblicazione
su Diritto e Giustizia: 2/2/2002

Non sempre la guerra «offre» giurisdizione
extraterritoriale: l'occasione mancata del caso Bankovic



La sentenza di inammissibilità della causa «Bankovic ed altri
contro Belgio ed altri sedici Stati parte dell'Organizzazione
dell'Atlantico del Nord», emessa dalla Gran Camera della Corte
dei diritti dell'uomo il 12 dicembre scorso rappresenta un
passaggio importante nella giurisprudenza della Corte e della
sua evoluzione. Anche per questo, la pronuncia è stata ampiamente
citata dal presidente della Corte, Luzius Wildhaber, nel suo
discorso in occasione dell'inaugurazione dell'Anno giudiziario
2002, svoltasi il 31 gennaio scorso. Presentiamo qui un ampio
commento della sentenza - a firma Guiiampiero Buonomo - che ne
illustra il contesto e le principali motivazioni.

di Giampiero Buonomo




La possibilità di ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti
umani, quando coinvolge scelte di politica estera o militare degli
Stati, ha sempre sollevato delicatissimi profili di interferenza
col diritto internazionale generale (e con la giurisdizione della
Corte internazionale di giustizia), dinanzi ai quali i giudici di
Strasburgo hanno di norma scelto di agire con la massima cautela.
Non si sottrae a tale prassi la sentenza di inammissibilità nel
caso Bankovic ed altri contro Belgio ed altri sedici Stati parte
dell'Organizzazione dell'Atlantico del Nord, emessa dalla Gran
Camera il 12 dicembre scorso: in essa alcuni cittadini della
repubblica di Jugoslavia hanno accampato l'assassinio dei loro
cari (in violazione degli articoli 2, 10 e 13 della Convenzione
europea dei diritti umani) - ed il sesto ricorrente ha addotto
il proprio ferimento - in occasione della distruzione della stazione
radiofonica di Belgrado nel quadro della campagna di bombardamenti
aerei avvenuta nella primavera del 1999 sulla Yugoslavia.
Invero, non si tratta dell'unica sentenza di un'assise internazionale
che prende le mosse da quegli eventi: già il 29 aprile 1999,
a bombardamenti ancora in corso, la Repubblica federale di Yugoslavia
aveva presentato un ricorso alla Corte internazionale di
Giustizia contro i membri della NATO partecipanti alle operazioni
militari, accusandoli di aver violato il diritto internazionale
coll'impiego illegittimo della forza e chiedendo, come misura
provvisoria, la cessazione immediata dei bombardamenti. I giudici
dell'Aja furono in grado di cavarsela assai elegantemente sul rito,
visto che la Yugoslavia aveva sì riconosciuto la giurisdizione
obbligatoria della Corte appena tre giorni prima del ricorso (il 26
aprile 1999) ma oramai quando i fatti contro cui si reagiva
erano già iniziati da un mese (i raid sul Kosovo e la Yugoslavia
ebbero origine il 24 marzo e cessarono l'8 giugno, mentre
l'ultimatum della Nato risaliva addirittura al 30 gennaio 1999).
Nell'ordinanza del 2 giugno 1999, quindi, la Corte, dopo aver
stabilito la mancanza di competenza prima facie sull'affare,
non entrò nel merito, e non ordinò alcuna misura provvisoria.
Tuttavia la Corte non si sottrasse da alcune considerazioni
di merito: essa si dichiarò «deeply concerned with the human
tragedy, the loss of life, and the enormous suffering in Kosovo...
and with the continuing loss of life and human suffering in all
parts of Yugoslavia». Aggiunse che era «profoundly concerned
with the use of force in Yugoslavia» e affermò che «all parties
appearing before it must act in conformity with their
obligations under the United Nations Charter and other rules of
international law, including humanitarian law». Avendo affermato
di essere «deeply concerned » sia per la tragedia del Kosovo
sia per l'uso della forza in Yugoslavia, la Corte osservò, con
un trasparente riferimento all'azione Nato, che «under present
circumstances such use [cioè l'uso della forza] raises very
serious issues of international law».
L'Aja era indubbiamente la sede più propria per affrontare la
scabrosa questione dell'uso della forza esercitato da un gruppo di
Stati (parte di un'alleanza che si definisce organizzazione
regionale delle Nazioni Unite, ma che era nata come ente di
autodifesa collettiva ai sensi dell'articolo 51 della Carta) nei
confronti di un altro Stato membro delle Nazioni Unite, al di fuori
della decisione del Consiglio di sicurezza di disporre misure
coercitive ai sensi del capo VII. Infatti il Consiglio, pur avendo
definito una "minaccia alla pace" la situazione nel Kosovo
(risoluzioni 1.199 e 1.203 del 1998), non aveva indicato l'esistenza
di un aggressione né aveva autorizzato alcuno a reagire contro di
essa: in dottrina (risoluzione del 1989 dell'Istituto di diritto
internazionale a Santiago di Compostela) non si esclude che la
violazione dei diritti umani possa giustificare una serie di
iniziative ("passi" diplomatici, distribuzione di aiuti senza passare
per il sovrano territoriale, ritorsioni e contromisure che non
comportino l'uso della forza) che in linea di principio rientrerebbero
nella nozione di "intervento" (vietato dall'articolo 2
paragrafo 7 della Carta delle Nazioni Unite); ma la giurisprudenza
della Corte internazionale di Giustizia, nel caso del minamento
statunitense dei porti del Nicaragua del 1986, escluse espressamente
che la minaccia o l'uso della forza (minamento di porti,
distruzione di installazioni petrolifere, addestramento, armamento
ed equipaggiamento di guerriglieri contro il sovrano
territoriale) rientrassero tra le possibilità degli Stati, singoli o
associati, essendovi nella Carta delle Nazioni Unite un sistema
centralizzato di uso della forza (capo VII) che ne vieta
l'esercizio autonomo non di autodifesa.
Se quindi le risoluzioni del 1998 legittimavano la comunità
internazionale (ed i suoi componenti, singoli od associati) ad
interessarsi del Kosovo e ad "intervenire" nella concreta gestione
della faccenda da parte di Belgrado senza che questa
potesse opporre la domestic jurisdiction, esse non impedivano
però di considerare i bombardamenti della Nato come una
violazione dell'articolo 2 paragrafo 4 della Carta: tanto più che,
sin dal precedente ultimatum lanciato dal Consiglio atlantico,
l'azione condotta era chiaramente rivolta (a dispetto di quanto
sostenuto dal Belgio nella memoria difensiva all'Aja) ad alterare
l'indipendenza politica - se non l'integrità territoriale,
formalmente mantenuta - della Yugoslavia, la cui scelta di mantenere i
kosovari in situazione di inferiorità politica (pur essendo, più che
discutibile, moralmente ignobile) era stata legittimamente
assunta oltre ad essere coperta dal principio di sovranità (che
difende da situazioni analoghe i decisori politici di decine di altri
Stati).
La tutela dell'esercizio centralizzato della forza da parte del
Consiglio di sicurezza è apprestata, nei confronti delle
organizzazioni regionali, dall'articolo 53 della Carta, per il quale
"nessuna azione coercitiva potrà essere intrapresa in base ad
accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza
l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza": questa norma - che in
via di fatto è stata interpretata come legittimante le "lettere di
corsa" che a partire dalla crisi kuwaitita hanno visto le Nazioni
Unite delegare a singoli Stati l'applicazione delle misure del
capo VII, nell'inattuazione pressoché totale dello Stato maggiore
congiunto - non contempla alcuna deroga motivata da "esigenze
umanitarie" o di difesa dei diritti umani, per cui nel caso di
specie c'è chi, come L. Condorelli, ha correttamente concluso
che «la legalità della Carta è stata flagrantemente violata».
Ma una sentenza dell'Aja sarebbe stata interessante, nel merito,
anche per una questione più sottile delle eterne controversie
sul ius ad bellum (liceità o meno dell'uso della forza nelle relazioni
internazionali); se cioè - stante, nell'attuale stadio delle
relazioni internazionali, l'impossibilità di derogare al divieto di
cui all'articolo 2 paragrafo 4 della Carta, neppure sub specie di
"intervento umanitario" - si dia il caso di "sanatoria" ex post
per l'illecito internazionale compiuto. E' questa infatti la
prevalente chiave interpretativa di chi non voglia ammettere che -
per la sola dissociazione in un caso di una componente della
comunità internazionale, quella occidentale, a partire dal 1999 -
si sia già verificata la desuetudine della norma dell'articolo 2
paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite in rapporto agli
(autoproclamati) "interventi umanitari".
Orbene, la tesi che vede nella risoluzione del Consiglio di
sicurezza n. 1244 del 1999 la sanatoria dell'intervento della Nato-
pur fondata sull'incorporazione per relationem che il paragrafo 10
del suo annesso 2 fa degli accordi armistiziali tra Nato e
governo iugoslavo - ha un senso soltanto nella misura in cui si
ritenga la derogabilità della fonte dell'obbligo di cui all'articolo
2 paragrafo 4. Se, come la dottrina e la giurisprudenza ritengono,
quella disposizione pattizia della Carta Onu in realtà
incorpora una norma di diritto internazionale consuetudinario
(e la Corte internazionale di Giustizia l'ha sostenuto sin dal
1949, sul caso dello stretto di Corfù), non basta sostenere che il
Consiglio di sicurezza è arbitro di ratificare a posteriori ciò
che poteva autorizzare a priori. La legittimità della stessa
ratifica del Consiglio di sicurezza (laddove così si interpreti la
risoluzione n. 1244) sarebbe dubbia se si annoverasse il divieto
di uso della forza tra quelle norme di diritto cogente che
istituscono obblighi solidali tra gli Stati, ed in tale caratteristica
si distanziano dalle altre norme di diritto internazionale che
istituiscono solo un fascio di vincoli bilaterali; tale caratteristica
fu proclamata - per alcune norme cogenti, né si ritiene sia
generalizzabile a tutto il ius cogens - dalla sentenza del 1980
della Corte internazionale di giustizia (nel caso degli ostaggi
statunitensi in Iran), secondo cui per tale tipo di vincolo solidale
uno Stato è obbligato verso tutti i membri di una certa alleanza
od organizzazione o della stessa comunità internazionale. Di
conseguenza, essendo il divieto di aggressione (e quello di
annessione territoriale durante la guerra) norma di diritto cogente,
in tal caso l'acquiescenza degli Stati terzi è priva di effetti
giuridici, in deroga al principio di effettività.
Pertanto, se la Corte dell'Aja non si fosse fermata al rito,
avremmo potuto trarre interessantissimi spunti di fatto e di diritto
sullo stato delle seguenti questioni:
- se l'intervento armato della Nato - con tutte le sue premesse,
in termini di riconoscimento della gravità della situazione
kosovara, da parte delle Nazioni Unite - si potesse annoverare
tra gli atti di "aggressione" (che non consistono in un uso
qualsiasi della forza nelle relazioni internazionali in violazione
della Carta, ma sono particolarmente qualificati, secondo la
definizione offerta dalla risoluzione 3314-XXIX dell'Assemblea
generale delle Nazioni Unite);
- se, in tale eventualità, la conseguente violazione di ius cogens
fosse sanabile da un procedimento uguale e contrario a quello
di sua formazione (che, ai sensi dell'articolo 53 della Convenzione di
Vienna sul diritto dei trattati, deriva dall'accettazione e
riconoscimento da parte della comunità degli Stati, come norma alla
quale non può essere apportata nessuna deroga), secondo
la tesi applicata dal Brownlie all'invasione dell'Uganda da parte
della Tanzania nel 1979 (l'effettività ha trionfato sulla
solidarietà dell'obbligazione che comporta il divieto di aggressione,
perché vi fu l'acquiescenza di pressoché tutti gli Stati della
comunità internazionale);
- se la ratifica del Consiglio di sicurezza (proprio in virtù della
massima rappresentatività che in esso hanno tutte le componenti
essenziali della comunità internazionale) debba considerarsi
l'indizio qualificato di tale acquiescenza, nonostante la natura
decentrata della produzione del ius cogens presupponga natura analoga
per l'actus contrarius (in particolare, soltanto il veto di
una delle cinque Potenze potrebbe ostacolare la sanatoria
dell'aggressione, mentre in una deliberazione a maggioranza la
mancata acquiescenza di una componente essenziale della comunità
internazionale non rappresentata tra i cinque Grandi
potrebbe non essere decisiva ad impedire la sanatoria).
Al contrario, a tale funzione ermeneutica si sarebbe potuta prestare
indirettamente la Corte di Strasburgo, per le ricadute che la
definizione di guerra e la normativa del diritto umanitario possono
avere sulla disciplina europea dei diritti umani: ma la Corte
europea ha scelto anch'essa di cavarsi d'impaccio con una pronuncia
di stretto rito.
La premessa, condivisa dai ricorrenti e dai convenuti, è che la
Repubblica federale della Yugoslavia non era parte della
Convenzione europea dei diritti umani. Pertanto, il ricorso invoca
il rispetto della Convenzione "dalla parte dei convenuti": in
altri termini è il loro essersi impegnati con la firma della
Convenzione a venire in rilievo, nella prospettazione accusatoria,
che nella Convenzione vede uno strumento costituzionale dell'«ordine
pubblico europeo per la protezione degli esseri umani». Ma
la Corte - che pure s'era dimostrata incline ad avallare questa
visione, quando (sulle eccezioni preliminari dell'affare Loizidou, §
93) dall'articolo 19 della Convenzione aveva fatto discendere un
proprio ruolo volto ad assicurare il rispetto "degli impegni"
sottoscritti dalle parti contraenti - ha reagito ricordando il
"contesto essenzialmente regionale, e più particolarmente nello
spazio giuridico degli Stati contraenti" in cui opera la Convenzione:
ribadendo la sentenza Soering, la Corte ha accampato l'articolo 1, che
"fissa un limite, segnatamente territoriale, all'operatività della
Convenzione. In particolare, l'impegno degli Stati parte si spinge ad
assicurare alle persone che ricadono nella loro giurisdizione i
diritti e le libertà enumerate. Inoltre, la Convenzione non regola gli
atti di uno Stato terzo, né pretende che gli Stati parte impongano le
sue norme a tale Stato".
In realtà, la giurisprudenza della Corte in più d'un caso ha giudicato
come «atti rientranti nella giurisdizione degli Stati parte» -
e, pertanto, assoggettati al suo controllo - condotte verificatesi al
di fuori del territorio dello Stato parte: "circostanze eccezionali"
legittimano tale estensione, ed esse sono tutte riconducibili
all'esercizio effettivo (da parte dello Stato contraente)
del controllo su una zona situata al di fuori del suo territorio
nazionale. Molteplici titoli giuridici sono stati addotti per
giustificare questo tipo di pronunce: nel caso Xhavara ci fu un
accordo italo-albanese che legittimava il pattugliamento italiano al
di fuori delle acque territoriali e fino a quelle dello Stato
frontista; ma ci sono stati casi in cui il titolo era assai flebile e
la Corte non s'è sottratta a pronunciare almeno l'ammissibilità (casi
Issa, Öcalan ed Ilascu).
Eppure, anche in assenza di titoli giuridici la Corte s'era talvolta
spinta fino ad annettere valore alla stessa mera effettività: il
più rimarchevole precedente deciso in tal senso è quello di Cipro del
Nord, dove per due volte (casi Loizidou e Cipro contro
Turchia) i giudici strasburghesi hanno riconosciuto che le condotte
oggetto di ricorso erano state compiute all'interno della
giurisdizione turca. Il dictum di queste sentenze recita che la
responsabilità dello Stato parte è coinvolta allorché - a seguito di
un'azione militare, legale o meno non importa - esso esercita il suo
controllo direttamente (mediante le proprie forze armate) o
indirettamente (per mezzo di un'amministrazione locale subordinata,
che sopravvive grazie al sostegno dello Stato parte). Il
passo ulteriore che i ricorrenti iugoslavi chiedevano era
effettivamente un po' azzardato, proponendosi il "frazionamento" di
questa responsabilità in corrispondenza di atti di controllo non
globale da parte degli Stati impegnati nella campagna militare
contro la Yugoslavia: la "supremazia aerea" dispiegata durante i
bombardamenti sarebbe stata indizio di una giurisdizione
estesa dagli Stati parte della Nato al territorio da essi assoggettato
a controllo aereo, seppure per la sola durata del bombardamento.
La Corte, nel respingere ora tale prospettazione dei ricorrenti, ha
escluso che la guerra di per sé sola cagioni un'estensione
della giurisdizione dello Stato contraente ai luoghi oggetto del
conflitto: la guerra rientra nel novero degli eventi che in certe
circostanze sono fonte di giurisdizione extraterritoriale, ma ciò non
significa che tutte le guerre lo siano. Il discrimine sta nella
globalità del controllo e non nella natura legittima o meno dell'atto
di guerra, né nella sua riconducibilità alla nozione più lata di
"conflitto armato" (secondo la norma consuetudinaria incorporata nelle
Convenzioni di Ginevra, che applicano il diritto
umanitario di guerra in tutte le circostanze di conflitto armato,
interstatale od interno). Per i giudici strasburghesi il limitato
esercizio della facoltà di deroga ad alcuni obblighi convenzionali (ex
articolo 15 della Convenzione) dimostra semmai che la prassi degli
Stati era univocamente nel senso di considerare vigente, in caso di
azioni militari fuori dello Stato parte, il principio di stretta
territorialità: nessuno degli Stati europei della Nato ha infatti
pensato di notificare la deroga, proprio perché l'opinio unanime era
nel senso che non fosse necessario per atti bellici condotti su
territorio altrui; viceversa, tutti i casi di deroga (irlandese nel
caso Lawless; britannica nel caso Irlanda contro Regno Unito; turca
nel caso del Curdistan) hanno riguardato conflitti condotti sul
territorio dello stesso Stato parte.
Ergere questa prassi degli Stati a criterio ermeneutico dirimente
(ammantandola come esigenza di interpretare la Convenzione
"in armonia con le altre regole di diritto internazionale, delle quali
essa è parte") significa disconoscere le potenzialità derogatorie del
diritto consuetudinario, da parte della normativa pattizia sui diritti
umani. In un'epoca in cui la spinta evolutiva del diritto
internazionale s'è espressa nel caso Pinochet dinanzi alla Camera dei
Lord, è singolare che la Corte europea abbia scelto di attenersi alla
più rigida interpretazione letterale: essa però s'inserisce in un
filone di ritorno alla rigorosa salvaguardia dell'immunità degli
Stati, che proprio recentemente la Gran Camera ha affermato con le tre
decisioni di rigetto del 21 novembre 2001 sui casi McElhinney contro
Irlanda, Al-Adsani contro Regno Unito e Fogarty contro Regno Unito.
Dal rispetto del principio par in parem non habet iurisdictionem (da
parte dello Stato contraente della Convenzione) è stata fatta
discendere, mediante l'obbligo di previo esperimento dei ricorsi
interni, l'impossibilità per la Corte europea di considerare
violate le prescrizioni del giusto processo (nei confronti dei
cittadini incapaci di ottenere ragione nei singoli ordinamenti
nazionali, nei confronti di Stati sovrani): quando poi, come è stato
nel secondo caso, lo Stato contraente s'è dimostrato incapace di
apprestare un rimedio giurisdizionale per un atto (tortura) avvenuto
al di fuori del suo territorio e del suo controllo (cioè in territorio
kuwaitita), la Corte ha confermato la legittimità della posizione
britannica dichiarando inesigibile dall'ordinamento nazionale una
sanzione della violazione avvenuta fuori del territorio nazionale.
Eppure, le potenzialità della giurisdizione della Corte europea erano
insite proprio nell'articolo 15: senza una deroga legittimamente
espressa dallo Stato parte, infatti, la Corte avrebbe potuto
pronunciarsi su atti extraterritoriali se li avesse considerati
rientranti all'interno della giurisdizione dello Stato parte. Il
quesito è lungi dall'essere ozioso, visto che dal 21 dicembre 2001
risulta apposta un'altra deroga ai sensi dell'articolo 15 della
Convenzione: è di fonte britannica e riguarda le procedure di arresto
senza processo a tempo indefinito previste dall'Anti-terrorism, Crime
and security Act a carico degli stranieri sospettati di terrorismo
internazionale (in base ad accuse segrete, valutate da un organo
giudiziario appositamente costituito dalle cui udienze la difesa può
essere esclusa). In un momento in cui la giurisdizione penale
ordinaria statunitense è "scavalcata" con decisione dell'Esecutivo -
di detenzione nella base di Guantanamo di sospetti complici nelle
stragi dell'undici settembre 2001, deferiti a tribunali militari
neocostituiti - un'analoga decisione di fonte britannica non potrebbe
valersi dell'eccezione di extraterritorialità delle azioni belliche o
di intelligence condotte in Afghanistan, proprio perché (almeno fino
all'insediamento del governo Karzai) il determinante appoggio
anglo-americano all'Alleanza del Nord ha rappresentato proprio quel
"controllo" globale (seppure indiretto) che per la sentenza Loizidou
attiva la giurisdizione dello Stato parte e ne rende le condotte
suscettibili di sindacato a Strasburgo.
La deroga apposta dal Governo Blair, quindi, non capita a caso, così
come non capita a caso la "svolta" della Corte in direzione del
maggior ossequio verso le determinazioni degli Stati. Vien quasi da
rimpiangere il periodo in cui l'aborrita "giurisdizione degli
esecutivi" (cioè la Commissione del Consiglio d'Europa, che prima del
1998 esercitava funzioni paragiurisdizionali) portò ad invalidare la
deroga espressa dalla Grecia dei colonnelli, negando che nel 1967 essa
versasse nel "pericolo pubblico che minacci la vita della nazione".
Nell'esprimersi sulla recentissima deroga britannica, è difficile che
la Corte si spinga con altrettanto coraggio a valutare l'esistenza in
concreto di codesto prerequisito, che (con la guerra) rappresenta la
condizione alla quale l'articolo 15 comma 1 ammette la facoltà di
prendere misure derogatorie della Convenzione, "nella stretta
misura in cui la situazione lo richieda ed a condizione che tali
misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti
dal diritto internazionale".
E' questo il vero legame con il sistema dello ius gentium al quale la
Corte dovrebbe tendere: visto che tra l'altro il rinvio al diritto
umanitario di guerra rappresenta tutt'altro che una guarentigia
accordata unilateralmente per aumentare la possibilità che nemici
irriducibili e feroci la facciano franca. Proprio il comma 2
dell'articolo 15 della Convenzione fa salve le deroghe all'articolo 2
(diritto alla vita) che coprano decessi causati da "legittimi atti di
guerra": il timore che induce d'Oltreoceano a guardare con estremo
sospetto al Tribunale penale internazionale è, almeno per quanto
riguarda il sistema europeo di salvaguardia dei diritti umani, già
fugato da questa previsione. Gli è che le diplomazie degli Stati
paiono tornate ad un Ottocento unilateralista che le induce a
rifiutare di assoggettarsi allo scrutinio di un organo giurisdizionale
internazionale per dimostrare la legittimità di un atto di guerra: è
più facile apporre una riserva all'operatività della Convenzione
europea, o frapporre ostacoli all'entrata in funzione del Tribunale
penale internazionale, che rendere conto del motivo per il quale s'è
scelto di non passare per il Consiglio di sicurezza per adottare
misure coercitive che si sarebbero agevolmente potute autorizzare ai
sensi del capo VII della Carta delle Nazioni Unite.