http://www.liberazione.it/giornale/030324/default.asp
Da "Liberazione", 24 marzo 2003
Quattro anni fa cominciava la cosiddetta "missione umanitaria" contro
Belgrado
Ieri la Jugoslavia, oggi l'Iraq
Claudio Grassi
24 marzo 1999, l'inizio dei bombardamenti della Nato
Guerra. Necessità di usare la forza per garantire la sicurezza
nazionale degli Stati Uniti. Conseguenze terrificanti per chi si
oppone alla superpotenza a stelle e strisce. George W. Bush non ha
certo peccato di pragmatismo nel suo ultimatum all'Iraq: ha chiamato
l'aggressione militare a un altro paese sovrano con il suo giusto
nome. Guerra, e per di più "preventiva".
Anche la fraseologia dei media si è adeguata. Finiscono in sordina i
termini "missione umanitaria", "operazione di polizia internazionale",
"azione volta a ristabilire l'ordine e la legalità". I servizi dal
fronte abbondano di descrizioni degli "effetti devastanti" delle bombe
sui palazzi iracheni, si parla senza pudore di macerie, feriti, morti,
civili in fuga. Le categorie di "missili intelligenti" e "attacchi
chirurgici" restano, ma fungono più che altro da contorno. In Medio
Oriente è in corso una guerra vera: ne è consapevole la maggioranza
delle forze democratiche e progressiste di tutto il mondo, in piazza
senza se e senza ma contro la violenza di Bush, Blair e un pugno di
alleati, contro una guerra banditesca, in aperto sfregio delle norme
del diritto internazionale. Tutto sembra chiaro, compresi i reali
obiettivi delle armate anglo-americane.
La "sinistra"
con l'elmetto
Non fu così quattro anni fa, quando nel mirino degli Usa vi era un
altro "stato canaglia", la Federazione Jugoslava di Slobodan
Milosevic. Il calendario del 1999 segnava la data del 24 marzo quando
le città serbe di Belgrado, Kragujevac, Novi Sad, Pancevo furono
colpite dal carico esplosivo degli aerei Nato. Americani e inglesi, ma
pure tedeschi, francesi e italiani. Erano i tempi della "terza via",
della "sinistra con l'elmetto" di Clinton, Blair e D'Alema, dei paesi
dell'Unione Europea quasi ovunque governati da partiti di origine
socialista i quali, attraverso la guerra in Jugoslavia, volevano
dimostrare agli Stati Uniti che "la Nato sono anche loro, che possono
avere - scriveva Paolo Palazzi ne "Il rovescio internazionale" - un
ruolo determinante sia politicamente che militarmente per vincere
questa guerra e soprattutto ogni altro futuro intervento.
Anche allora vi fu un'opposizione alla guerra. Nel nostro Paese non
mancarono i cortei, i sit-in, le proteste studentesche. In parlamento,
oltre al secco no di Rifondazione comunista, mugugni arrivarono da
settori del centro-sinistra di governo. Ma - a essere sinceri - nulla
che possa essere paragonato, neppure lontanamente, alle piazze
straripanti di milioni di pacifisti viste in queste settimane. A
chiedere la fine dei bombardamenti, a solidarizzare con la Jugoslavia
in fiamme, c'erano poche migliaia di "anime belle". Definite così non
da un arrogante deputato di Forza Italia, bensì dall'insospettabile
Achille Occhetto nelle vesti di bacchettatore di quella "sinistra
italiana, e non solo italiana, (che) sbaglia quando dice che non ci
deve essere mai l'uso della forza. Un'idea che non fa i conti con un
problema di grande rilevanza: il diritto di ingerenza umanitaria".
Ora i Ds sfilano sotto le bandiere arcobaleno, condannano l'intervento
unilaterale di Bush in Iraq, denunciano il pericolo di esautorazione
dell'Onu, e questo è senza dubbio positivo. Sembra passato un secolo
da quel 24 marzo. Erano i tempi di "Hitlerosevic", dell'accostamento
serbi-nazisti, del diktat di Ramboulliet. Quando Marco Minniti
difendeva a spada tratta la "strategia che prevede l'intervento
militare per fermare il conflitto in Kosovo e costruire attraverso un
uso - in questo caso legittimo e inevitabile - della forza le
condizioni per un'iniziativa diplomatica", e Walter Veltroni tesseva
gli elogi della fedeltà atlantica. Quando Fabio Mussi si diceva
orgoglioso che l'Italia fosse, dopo gli Usa, "tra i paesi più
coinvolti nelle crisi regionali per impegno politico e delle forze
militari", e Sergio Cofferati e la maggioranza della Cgil
consideravano la missione nei Balcani una "contingente necessità". E'
solo un flashback, non è mia volontà alimentare una polemica retroattiva.
Dopo la guerra
peggio di prima
Da allora si potrebbe dire che nulla è più come prima. A partire dalla
Jugoslavia, scomparsa ufficialmente dai libri di geografia. Il 27
gennaio di quest'anno, al termine di un processo che ha cancellato
ogni retaggio di multietnicità e multiculturalità, si è trasformata in
"Unione di Serbia e Montenegro", contenitore che funge da anticamera
della definitiva separazione delle due ex repubbliche federate. Anche
le aspettative democratiche marcano il passo. In cambio della consegna
di Milosevic al Tribunale-fantoccio dell'Aja e della vittoria del Dos,
incoraggiata da settecento milioni di dollari, avevano promesso ai
cittadini jugoslavi un "paese normale", istituzioni moderne e
pluraliste, benessere e investimenti stranieri a pioggia. Alla società
civile occidentale che ha ingoiato il rospo dell'intervento
umanitario, un Kosovo pacificato, liberato dai conflitti etnici e la
violenza. La realtà è ben lontana.
La Serbia del post-Milosevic è sconvolta da una feroce guerra tra
bande, con un Dos divenuto forza di governo ma lacerato al suo
interno. Quello che è in corso non è uno scontro solo politico. Sotto
i colpi di sicari ancora ignoti è caduto nei giorni scorsi il premier
Zoran Djindjic, che di nemici se ne era fatti davvero tanti in questi
anni di potere. Cominciando dall'ex presidente federale Kostunica e
finendo in quella "zona grigia" che sta tra vecchi burocrati venduti
al miglior offerente, settori dei servizi segreti, imprenditori
arricchitisi con l'apertura all'economia di mercato e criminalità
organizzata, risultati determinanti per dare la "spallata" a
Milosevic, ma non sempre dagli interessi convergenti.
La Serbia di oggi è un paese in preda al caos assoluto, senza
presidente - le elezioni sono state annullate per ben due volte per
mancanza del quorum - senza premier, né autorità federali legittimate.
Dopo il "bonapartismo" di Djindjic, un'ulteriore involuzione
autoritaria potrebbe essere dietro l'angolo. Già è stato emanato un
decreto che istituisce la legge marziale e nelle principali città
della repubblica si assiste a centinaia di arresti indiscriminati: c'è
aria di caccia alla streghe, di un nuovo 6 ottobre. L'economia va a
picco: circa il 73% dei serbi adulti non ha più un lavoro stabile e
vive di espedienti, decine di fabbriche sono state chiuse o sottoposte
a ristrutturazione, la Zastava - l'orgoglio dell'industria
automobilistica jugoslava - sembra l'ombra di sé stessa. La qualità
della vita ha toccato livelli vicini a quelli del 1944, in piena
seconda guerra mondiale. Il salario medio si aggira tra i 120 e i 200
euro, che non bastano neanche a pagare la luce e l'affitto,
figuriamoci le spese sanitarie e per l'istruzione dei figli. Oltre
ventimila persone sono morte di tumore negli ultimi quattro anni, di
cui buona parte bambini, per gli effetti dell'uranio impoverito: le
"bombe intelligenti" colpiscono ancora.
Vi ricordate
del Kosovo?
E il Kosovo? Che ne è di questa provincia serba ora che si sono spenti
i riflettori internazionali? Basta leggere i rapporti periodici
stilati dalle stesse truppe d'occupazione occidentali, per farsi
l'idea del mostro creato dai sostenitori dell'"ingerenza umanitaria".
Dicevano di combattere la "pulizia etnica", il terrorismo di Stato
serbo, di voler salvaguardare le popolazioni civili albanesi. "Gli
Stati Uniti d'America e l'Armata di liberazione del Kosovo condividono
gli stessi principi e gli stessi valori umani. Combattere per l'Uck è
lo stesso che combattere per i diritti umani e i valori americani",
affermava il senatore americano Lieberman.
Non so se oggi sarebbe ancora "politicamente corretto" sbilanciarsi in
questo paragone. Tenendo conto che il Kosovo è diventato il regno
incontrastato della mafia albanese, che dal suo territorio passa il
40% dell'eroina diretta dall'Europa agli Usa, gestito prevalentemente
dalle milizie dell'Uck. Le stesse che hanno messo in piedi floridi
affari investendo sulla prostituzione, il traffico di organi e lo
"scafismo". Per non parlare della pulizia etnica - questa senza
virgolette - di cui hanno fatto le spese migliaia di serbi e Rom, ma
anche goraci, ebrei, turchi e perfino kosovari non in linea con il
capo-banda Thaci, delle chiese ortodosse devastate, dei cimiteri
profanati, dei monumenti partigiani in macerie. Altro che pacificazione!
Un'ex Jugoslavia senza Milosevic, ma in mano a bande criminali
concorrenti, in cui hanno trionfato l'odio razziale e il terrorismo
separatista. Accanto a un Afghanistan "liberato" sì dai talebani, ma
in balia di veri e propri signori della guerra feudali, dove la
produzione di droga è tornata a essere il locomotore dell'economia
locale. Con questi due esempi davanti, è facile prevedere come sarà
l'Iraq di domani, quando i "crociati" di Bush e Blair avranno issato
la bandiera americana su Baghdad
Purtroppo è ancora attuale quanto diceva Leopardi: «La forza è
l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non la giustizia».
Da "Liberazione", 24 marzo 2003
Quattro anni fa cominciava la cosiddetta "missione umanitaria" contro
Belgrado
Ieri la Jugoslavia, oggi l'Iraq
Claudio Grassi
24 marzo 1999, l'inizio dei bombardamenti della Nato
Guerra. Necessità di usare la forza per garantire la sicurezza
nazionale degli Stati Uniti. Conseguenze terrificanti per chi si
oppone alla superpotenza a stelle e strisce. George W. Bush non ha
certo peccato di pragmatismo nel suo ultimatum all'Iraq: ha chiamato
l'aggressione militare a un altro paese sovrano con il suo giusto
nome. Guerra, e per di più "preventiva".
Anche la fraseologia dei media si è adeguata. Finiscono in sordina i
termini "missione umanitaria", "operazione di polizia internazionale",
"azione volta a ristabilire l'ordine e la legalità". I servizi dal
fronte abbondano di descrizioni degli "effetti devastanti" delle bombe
sui palazzi iracheni, si parla senza pudore di macerie, feriti, morti,
civili in fuga. Le categorie di "missili intelligenti" e "attacchi
chirurgici" restano, ma fungono più che altro da contorno. In Medio
Oriente è in corso una guerra vera: ne è consapevole la maggioranza
delle forze democratiche e progressiste di tutto il mondo, in piazza
senza se e senza ma contro la violenza di Bush, Blair e un pugno di
alleati, contro una guerra banditesca, in aperto sfregio delle norme
del diritto internazionale. Tutto sembra chiaro, compresi i reali
obiettivi delle armate anglo-americane.
La "sinistra"
con l'elmetto
Non fu così quattro anni fa, quando nel mirino degli Usa vi era un
altro "stato canaglia", la Federazione Jugoslava di Slobodan
Milosevic. Il calendario del 1999 segnava la data del 24 marzo quando
le città serbe di Belgrado, Kragujevac, Novi Sad, Pancevo furono
colpite dal carico esplosivo degli aerei Nato. Americani e inglesi, ma
pure tedeschi, francesi e italiani. Erano i tempi della "terza via",
della "sinistra con l'elmetto" di Clinton, Blair e D'Alema, dei paesi
dell'Unione Europea quasi ovunque governati da partiti di origine
socialista i quali, attraverso la guerra in Jugoslavia, volevano
dimostrare agli Stati Uniti che "la Nato sono anche loro, che possono
avere - scriveva Paolo Palazzi ne "Il rovescio internazionale" - un
ruolo determinante sia politicamente che militarmente per vincere
questa guerra e soprattutto ogni altro futuro intervento.
Anche allora vi fu un'opposizione alla guerra. Nel nostro Paese non
mancarono i cortei, i sit-in, le proteste studentesche. In parlamento,
oltre al secco no di Rifondazione comunista, mugugni arrivarono da
settori del centro-sinistra di governo. Ma - a essere sinceri - nulla
che possa essere paragonato, neppure lontanamente, alle piazze
straripanti di milioni di pacifisti viste in queste settimane. A
chiedere la fine dei bombardamenti, a solidarizzare con la Jugoslavia
in fiamme, c'erano poche migliaia di "anime belle". Definite così non
da un arrogante deputato di Forza Italia, bensì dall'insospettabile
Achille Occhetto nelle vesti di bacchettatore di quella "sinistra
italiana, e non solo italiana, (che) sbaglia quando dice che non ci
deve essere mai l'uso della forza. Un'idea che non fa i conti con un
problema di grande rilevanza: il diritto di ingerenza umanitaria".
Ora i Ds sfilano sotto le bandiere arcobaleno, condannano l'intervento
unilaterale di Bush in Iraq, denunciano il pericolo di esautorazione
dell'Onu, e questo è senza dubbio positivo. Sembra passato un secolo
da quel 24 marzo. Erano i tempi di "Hitlerosevic", dell'accostamento
serbi-nazisti, del diktat di Ramboulliet. Quando Marco Minniti
difendeva a spada tratta la "strategia che prevede l'intervento
militare per fermare il conflitto in Kosovo e costruire attraverso un
uso - in questo caso legittimo e inevitabile - della forza le
condizioni per un'iniziativa diplomatica", e Walter Veltroni tesseva
gli elogi della fedeltà atlantica. Quando Fabio Mussi si diceva
orgoglioso che l'Italia fosse, dopo gli Usa, "tra i paesi più
coinvolti nelle crisi regionali per impegno politico e delle forze
militari", e Sergio Cofferati e la maggioranza della Cgil
consideravano la missione nei Balcani una "contingente necessità". E'
solo un flashback, non è mia volontà alimentare una polemica retroattiva.
Dopo la guerra
peggio di prima
Da allora si potrebbe dire che nulla è più come prima. A partire dalla
Jugoslavia, scomparsa ufficialmente dai libri di geografia. Il 27
gennaio di quest'anno, al termine di un processo che ha cancellato
ogni retaggio di multietnicità e multiculturalità, si è trasformata in
"Unione di Serbia e Montenegro", contenitore che funge da anticamera
della definitiva separazione delle due ex repubbliche federate. Anche
le aspettative democratiche marcano il passo. In cambio della consegna
di Milosevic al Tribunale-fantoccio dell'Aja e della vittoria del Dos,
incoraggiata da settecento milioni di dollari, avevano promesso ai
cittadini jugoslavi un "paese normale", istituzioni moderne e
pluraliste, benessere e investimenti stranieri a pioggia. Alla società
civile occidentale che ha ingoiato il rospo dell'intervento
umanitario, un Kosovo pacificato, liberato dai conflitti etnici e la
violenza. La realtà è ben lontana.
La Serbia del post-Milosevic è sconvolta da una feroce guerra tra
bande, con un Dos divenuto forza di governo ma lacerato al suo
interno. Quello che è in corso non è uno scontro solo politico. Sotto
i colpi di sicari ancora ignoti è caduto nei giorni scorsi il premier
Zoran Djindjic, che di nemici se ne era fatti davvero tanti in questi
anni di potere. Cominciando dall'ex presidente federale Kostunica e
finendo in quella "zona grigia" che sta tra vecchi burocrati venduti
al miglior offerente, settori dei servizi segreti, imprenditori
arricchitisi con l'apertura all'economia di mercato e criminalità
organizzata, risultati determinanti per dare la "spallata" a
Milosevic, ma non sempre dagli interessi convergenti.
La Serbia di oggi è un paese in preda al caos assoluto, senza
presidente - le elezioni sono state annullate per ben due volte per
mancanza del quorum - senza premier, né autorità federali legittimate.
Dopo il "bonapartismo" di Djindjic, un'ulteriore involuzione
autoritaria potrebbe essere dietro l'angolo. Già è stato emanato un
decreto che istituisce la legge marziale e nelle principali città
della repubblica si assiste a centinaia di arresti indiscriminati: c'è
aria di caccia alla streghe, di un nuovo 6 ottobre. L'economia va a
picco: circa il 73% dei serbi adulti non ha più un lavoro stabile e
vive di espedienti, decine di fabbriche sono state chiuse o sottoposte
a ristrutturazione, la Zastava - l'orgoglio dell'industria
automobilistica jugoslava - sembra l'ombra di sé stessa. La qualità
della vita ha toccato livelli vicini a quelli del 1944, in piena
seconda guerra mondiale. Il salario medio si aggira tra i 120 e i 200
euro, che non bastano neanche a pagare la luce e l'affitto,
figuriamoci le spese sanitarie e per l'istruzione dei figli. Oltre
ventimila persone sono morte di tumore negli ultimi quattro anni, di
cui buona parte bambini, per gli effetti dell'uranio impoverito: le
"bombe intelligenti" colpiscono ancora.
Vi ricordate
del Kosovo?
E il Kosovo? Che ne è di questa provincia serba ora che si sono spenti
i riflettori internazionali? Basta leggere i rapporti periodici
stilati dalle stesse truppe d'occupazione occidentali, per farsi
l'idea del mostro creato dai sostenitori dell'"ingerenza umanitaria".
Dicevano di combattere la "pulizia etnica", il terrorismo di Stato
serbo, di voler salvaguardare le popolazioni civili albanesi. "Gli
Stati Uniti d'America e l'Armata di liberazione del Kosovo condividono
gli stessi principi e gli stessi valori umani. Combattere per l'Uck è
lo stesso che combattere per i diritti umani e i valori americani",
affermava il senatore americano Lieberman.
Non so se oggi sarebbe ancora "politicamente corretto" sbilanciarsi in
questo paragone. Tenendo conto che il Kosovo è diventato il regno
incontrastato della mafia albanese, che dal suo territorio passa il
40% dell'eroina diretta dall'Europa agli Usa, gestito prevalentemente
dalle milizie dell'Uck. Le stesse che hanno messo in piedi floridi
affari investendo sulla prostituzione, il traffico di organi e lo
"scafismo". Per non parlare della pulizia etnica - questa senza
virgolette - di cui hanno fatto le spese migliaia di serbi e Rom, ma
anche goraci, ebrei, turchi e perfino kosovari non in linea con il
capo-banda Thaci, delle chiese ortodosse devastate, dei cimiteri
profanati, dei monumenti partigiani in macerie. Altro che pacificazione!
Un'ex Jugoslavia senza Milosevic, ma in mano a bande criminali
concorrenti, in cui hanno trionfato l'odio razziale e il terrorismo
separatista. Accanto a un Afghanistan "liberato" sì dai talebani, ma
in balia di veri e propri signori della guerra feudali, dove la
produzione di droga è tornata a essere il locomotore dell'economia
locale. Con questi due esempi davanti, è facile prevedere come sarà
l'Iraq di domani, quando i "crociati" di Bush e Blair avranno issato
la bandiera americana su Baghdad
Purtroppo è ancora attuale quanto diceva Leopardi: «La forza è
l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non la giustizia».