Risiera, Arbe, "foibe"... I difficili "25 aprile" di Trieste

Riportiamo due articoli che, pur essendo stati scritti qualche anno
fa, conservano intatta la loro importanza ed attualita'. Il primo
riguarda i crimini italiani nel campo di concentramento di Arbe (oggi
Croazia); il secondo le "foibe", ma non solo...


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http://www.deportati.it/trosso/TR98/tr498/arbe.htm

TRIANGOLO ROSSO
Articoli

L'iniziativa della Fondazione Ferramonti

Dopo 55 anni una lapide ricorda i crimini fascisti nel campo di Arbe

Nel Lager di Mussolini sull'isola croata furono
rinchiusi 15.000 internati. Il regime di
detenzione era così duro che vi furono circa
1.500 morti. Una pagina di storia rimossa,
all'insegna del mito "Italiani brava gente".

di Teresa Grande

Il problema della memoria dei crimini che gravano sul passato
di una Nazione implica la questione della scrittura della
storia, ovvero di ciò che del passato fa storia e fonda, in senso
ampio, gli orientamenti sociali e culturali del presente.

La storia ufficiale e le idee dominanti che circolano,
soprattutto attraverso i media, rispetto al passato di una
Nazione ne strutturano una immagine che tende ad essere
omologante e ad eleggere un "oggetto unico" di memoria che
non corrisponde affatto alla somma algebrica delle singole
memorie in questione (i diversi soggetti coinvolti e le tappe
storiche che vi si riferiscono). I discorsi ufficiali sul passato
sono pertanto verità parziali, spesso tentativi di
autoglorificazione in cui è possibile riconoscere le
idiosincrasie e le contraddizioni, i sintomi di verità ben più
grandi e inquietanti, rimosse da una memoria illusoriamente
portata a circoscrivere la barbarie nell'altro e ad evitarne
l'integrazione nella nostra soggettività storica.

La memoria di una Nazione si compone dunque di un
"racconto" costituito da parti "scelte" del passato: alcuni
eventi vengono esaltati, altri rimossi. Queste "parti scelte"
non sono pertanto frutto del caso, ma sono strutturate e
interpretate in modo tale da tracciare le grandi linee di quella
che possiamo chiamare una "singolarità nazionale", la
delimitazione cioè dei confini di significato entro cui è
possibile inscrivere il giudizio sul passato e su quanto ad esso
è legato.

In questa prospettiva, ad esempio, la specificità del fascismo
italiano nella vicenda delle persecuzioni razziali durante la
Seconda guerra mondiale non è stata definita, nel dopoguerra
e negli anni successivi, sulla base della valutazione dei crimini
effettivamente commessi dagli italiani, ma è stata costruita, al
contrario, operando un confronto costante con il fenomeno
della deportazione e dei Lager nazisti. Eleggendo come
"oggetto unico" della memoria della persecuzione razziale il
Lager tedesco, questo confronto (insieme alla diffusione del
mito degli "italiani brava gente"), ha banalizzato e
relativizzato i crimini compiuti dall'Italia fascista ed ha
costruito così una "singolarità nazionale" forgiata sul modello
del "male minore".

Se negli ultimi anni una parte della storiografia italiana sta
criticando e tentando di smontare questo modello del "male
minore" tramite, ad esempio, lo studio delle misure di
internamento adottate dal governo italiano prima dell'8
settembre del 1943, quindi nel periodo precedente
l'occupazione tedesca, prendono forma tuttavia altri modelli
di banalizzazione e tentativi nuovi di cancellazione dei crimini
italiani. Pensiamo a questo proposito al fenomeno recente di
diffusione del "mito delle foibe" operato da una parte del
mondo intellettuale e politico italiano: il giudizio sul passato
non si fonda qui sul confronto con un "male peggiore", ma è
emesso addirittura tacendo sulle proprie colpe e, di
conseguenza, ignorando l'ineludibile concatenazione storica
degli eventi. Si assiste infatti in Italia ad una attitudine
generalizzata a parlare del "caso foibe" (l'uccisione di italiani
da parte dei partigiani di Tito nel periodo a cavallo della
primavera del 1945), decontestualizzando questa vicenda da
quella più generale dell'aggressione nazi-fascista della
Jugoslavia nella primavera del 1941 e dalle successive
politiche di "pulizia etnica" intraprese dal governo di
Mussolini: l'internamento delle popolazioni delle zone
jugoslave annesse all'Italia in campi di concentramento ed
altre misure ad esso collegate come ad esempio il saccheggio e
l'incendio di villaggi e l'uccisione di ostaggi.

Intessuto attorno al silenzio di questi crimini, il "mito delle
foibe" rappresenta un vero e proprio tentativo di costruire un
discorso "restauratore" riguardo alla vicenda del dominio
italiano sul territorio jugoslavo occupato e all'atteggiamento
fascista nei confronti degli "allogeni", un discorso che,
riconoscendo all'Italia solo lo statuto assoluto di "vittima" e
non quello, antecedente, di "aggressore", mira a ristabilire una
presunta integrità e una dignità storica impossibili da provare.

Le polemiche suscitate dalla costruzione del "caso foibe" -
che si trova attualmente ad un crocevia di giudizi storici,
politici e giudiziari - rendono particolarmente importante
ristabilire l'intera verità storica, precisare cioè quali sono state
le responsabilità dell'Italia che pesano sul destino subito dalle
popolazioni slovene e croate prima e durante l'occupazione
della Jugoslavia.

Il caso del campo di concentramento di Arbe (in croato Rab),
una delle isole che costellano il lato orientale dell'Adriatico
(oggi territorio della Repubblica di Croazia), è uno degli
esempi più tragici dei crimini italiani commessi nei territori
occupati della Jugoslavia durante la Seconda guerra
mondiale. La sua vicenda è emblematica del modo in cui
questi crimini siano praticamente assenti dalla topografia
della nostra memoria nazionale e di come il silenzio in Italia
contrasti con la memoria viva dei luoghi e delle popolazioni
coinvolte.

Il campo di Arbe fu aperto nel luglio del 1942 ed ospitò
complessivamente circa 15.000 internati tra sloveni, croati,
anche ebrei. In poco più di un anno di funzionamento (il
campo cessò di esistere 1'11 settembre del 1943), il regime di
vita particolarmente duro causò la morte di circa 1.500
internati.

La memoria delle vittime (in maggioranza slovene) di questo
campo italiano è custodita oggi da un grande cimitero
memoriale sorto su una parte del campo e sul luogo che, già
all'epoca, ne costituiva il cimitero. Al suo interno una cupola
racchiude un mosaico, opera dello scultore Mario Preglj, che
simbolizza la lotta eterna dell'uomo per la conquista della
libertà. Poco lontano dal complesso commemorativo alcune
sporadiche baracche, inglobate nei terreni coltivati di privati
cittadini, sfuggono allo sguardo del visitatore distratto. La
loro presenza è però ancora in grado di rievocare in modo
autentico il progetto inquietante che l'Italia fascista aveva
riservato alle popolazioni della Jugoslavia assoggettate al suo
dominio.

Nel settembre di ogni anno, nella ricorrenza dell'anniversario
della liberazione, questo 'luogo della memoria" ospita una
sentita cerimonia a cui partecipano rappresentanti delle
Repubbliche slovena e croata e nutriti gruppi di ex internati.
A queste cerimonie né la società civile, né il governo italiano
sono mai stati presenti.

Il silenzio da parte italiana è stato finalmente rotto il 12
settembre di quest'anno, in occasione del 55° anniversario
della liberazione del campo: la Fondazione Internazionale
"Ferramonti di Tarsia" ha partecipato alla manifestazione
con una propria delegazione, ed ha apposto all'ingresso del
cimitero una lapide il cui testo, scritto in italiano e in croato,
dichiara per la prima volta da parte italiana, sullo stesso luogo
teatro di questo crimine, le colpe dell'Italia. Il testo della
lapide recita: «In memoria di quanti, negli anni 1942-1943,
qui finirono internati soffrirono e morirono per mano
dell'Italia fascista".

Il significato particolare dell'iniziativa - che si inserisce nel
quadro più ampio delle attività che la Fondazione Ferramonti
ha dispiegato in questi anni per promuovere la ricerca e il
recupero della memoria dell'internamento civile fascista - è
stato precisato dal presidente della Fondazione Carlo
Spartaco Capogreco nel discorso che ha accompagnato lo
scoprimento della lapide.

L'intera cerimonia si è svolta in un clima carico di emozioni e
di ricordi ancora vivi, sottolineati dalla commozione con cui,
come un comune "giorno dei morti", gli ex internati e i
familiari presenti depositavano fiori e corone sulle tombe delle
vittime. A ragione Milan Osredkar, sloveno ed ex internato a
Gonars, ha definito quello di Arbe "il più grande cimitero
sloveno".

La presenza italiana ha suscitato grande soddisfazione tra le
autorità politiche e i rappresentanti delle varie associazioni
presenti alla manifestazione, segno, forse, della speranza che il
lungo silenzio italiano su questo passato tristemente comune
venga finalmente messo in discussione e che anche questa
verità storica entri nel quadro del dibattito attuale sui rapporti
tra l'Italia e la Jugoslavia negli anni della Seconda guerra
mondiale.

Il 55° anniversario della liberazione del campo di Arbe è stato
anche l'occasione per la presentazione di due pubblicazioni
che il croato Ivo Kovacic e l'ex internato, e già ministro
sloveno ai tempi di Tito, Anton Vratusa hanno dedicato alla
vicenda di Arbe. Questi volumi vanno ad arricchire la già
fiorente bibliografia sulla storia di questo campo di
internamento dell'Italia fascista a cui la storiografia italiana
ha, finora, prestato poca attenzione.

Ricordare la tragedia del campo di Arbe e riconoscerne le
responsabilità italiane non e però solo un problema
storiografico o di politica internazionale, ma anche di
sensibilità civile. L'atto pioniere dell'apposizione della lapide
va interpretato in tal senso come un gesto dirompente per il
«risveglio" della coscienza nazionale atrofizzata, come una
denuncia della mancata elaborazione della memoria
(collettiva e storica) degli italiani di questo crimine dell'Italia
fascista.

Teresa Grande


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FOIBE, MA NON SOLO.

Le celebrazioni per il 25 aprile del 2000 nel Friuli Venezia
Giulia resteranno nella storia perchè nel corso di esse è stato
sancito quello che (ben 25 anni fa!) uno storico triestino definì
"accostamento aberrante", ovvero l'equiparazione delle "foibe"
alla Risiera di San Sabba (la quale, ricordiamo, fu l'unico campo
di sterminio nazista nell'attuale territorio italiano). Ma
ricostruiamo un po' di fatti storici.

Subito dopo l'8 settembre 1943 le truppe partigiane
dell'Esercito di Liberazione jugoslavo presero possesso di una
parte del territorio istriano. Il potere popolare durò una
ventina di giorni, un mese in alcune zone: poi i nazifascisti
ripresero il controllo su tutta l'Istria. Dai giornali dell'epoca
leggiamo che l'"ordine" riconquistato costò la vita di 13.000
istriani, nonché la distruzione di interi villaggi. Nel contempo
i servizi segreti nazisti, assieme a quelli della R.S.I.,
iniziarono a creare la mistificazione delle "foibe": ossia i
presunti massacri che sarebbero stati perpetrati dai partigiani.
In realtà dalle "foibe" istriane furono riesumati circa 300
corpi di persone la cui morte potrebbe essere attribuita a
giustizia sommaria fatta dai partigiani (ma per alcune cavità si
sospetta che vi siano stati gettati dentro i corpi dei morti
sotto i bombardamenti nazisti) nei confronti di esponenti del
regime fascista: ciononostante basta dare un'occhiata ai giornali
dell'epoca ed agli opuscoli propagandisti nazifascisti per
rendersi conto di come l'entità delle uccisioni sia stata
artatamente esagerata per suscitare orrore e terrore nella
popolazione in modo da renderla ostile al movimento partigiano.
I contenuti ed i toni di tale mistificazione sono gli stessi
che per più di cinquant'anni abbiamo visto propagandare dalla
destra nazionalista: "migliaia di infoibati solo perché italiani,
vecchi, donne e bambini e persino sacerdoti", "infoibati ancora
vivi" e "dopo atroci torture" (non di rado s'è poi visto che le
sedicenti "vittime" scampate alle "sevizie titine" erano in
realtà criminali di guerra che descrivevano le cose che essi
stessi avevano fatto ad altri), e così via.

In realtà non c'è quasi nulla di vero in tutto questo. Da
stessa fonte fascista (il federale dell'Istria Bilucaglia) appare
che nell'aprile del 1945 erano circa 500 i familiari di
persone uccise dai partigiani dopo l'8 settembre 1943; in
seguito, dopo la fine della guerra, da Trieste scomparvero poco
più di 500 persone, tra prigionieri di guerra morti nei campi di
lavoro, collaborazionisti arrestati dai partigiani, processati e
condannati a morte per crimini di guerra e vittime di vendette
personali. Le donne uccise furono poche (e quasi tutte
pesantemente compromesse con il nazifascismo, così come i
sacerdoti), bambini nessuno. Lo stesso Gianni Bartoli
(democristiano, esule istriano, sindaco di Trieste negli anni
'50), nel suo "Martirologio delle genti adriatiche" fa un totale
di circa 4.000 nomi di morti per tutta la "Venezia Giulia" (cioè
le attuali provincie di Trieste e Gorizia ed il retroterra di
queste provincie che ora si trova in Slovenia), l'Istria, Fiume e
la Dalmazia; per il periodo tra l'8.9.43 e l'estate del '45, e
che comprende anche caduti in battaglia (oltre a diversi errori
di trascrizione, nomi duplicati o persone che non morirono
all'epoca ma rientrarono dalla prigionia).

Dicevamo che da più di cinquant'anni la destra ci bombarda con
la sua propaganda contro i "crimini di Tito" per questo presunto
"genocidio" delle foibe. Tale propaganda logicamente non è fine a
se stessa, viene tirata fuori ciclicamente a seconda del periodo
politico: quando va in discussione la legge di tutela per la
comunità slovena in Italia, ad esempio; oppure all'epoca del
processo per i crimini commessi nella Risiera (allora si disse:
perché non processare pure gli "infoibatori", dimenticando che
per le vendette personali consumatesi all'epoca furono celebrati
alla fine degli anni '40 una settantina di processi), così quando
fu estradato e processato Erich Priebke; ed ancora ogni qual
volta si discute se Slovenia e Croazia possono entrare
nell'Unione Europea.

Da qualche anno le cose però sono cambiate, e non in meglio:
difatti una buona parte della sinistra, invece di dedicarsi a
smascherare le mistificazioni fasciste, ha deciso di fare proprie
quelle tesi menzognere, avallando il discorso che vi furono
"migliaia di infoibati" e che questi vanno "onorati", perché
vittime innocenti di un regime totalitario. Così si sono visti
esponenti del PCI prima e del PDS dopo andare a portare fiori
sulla "foiba" di Basovizza (dalla quale, va detto, non sono stati
esumati più di venti corpi, mentre l'iscrizione ufficiale del
monumento parla di "500 metri cubi di corpi di infoibati"), fare
pubbliche dichiarazioni di "pacificazione" e condanna
dell'operato dei partigiani (o delle "bande titine", come si
sente a volte dire, ricalcando le terminologie nazifasciste).

"Onorare i martiri delle foibe", sentiamo dire ormai troppo
spesso anche a sinistra. Dove si sa che nelle foibe finirono
gerarchi, spie, torturatori, rastrellatori, squadristi e via di
seguito, quindi persone che non ci pare proprio il caso di
onorare. Di questo passo ci vedremo a portare fiori e
commemorazioni pure a piazzale Loreto per il Duce e Claretta
Petacci...

Ma, dicevamo, queste mistificazioni non sono fini a se stesse,
quantomeno non per la destra. (Come mai certi esponenti di
"sinistra" ci caschino in pieno è un problema che sarebbe
interessante approfondire, ma non abbiamo per il momento elementi
per farlo).

Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una escalation
neoirredentista collegata al cosiddetto processo romano "per le
foibe", dove in realtà c'erano tre soli imputati: uno era
accusato della morte di una decina di persone in Istria e gli
altri due di avere ucciso tre uomini a Fiume. Due di questi
imputati sono nel frattempo morti e sono rimaste in piedi solo le
accuse contro il fiumano Oskar Piskulic, imputato dell'omicidio
di tre esponenti "autonomisti" (cioè di un movimento che
rivendicava l'indipendenza della città di Fiume). Attorno a
questo processo, iniziato con le denunce dell'avvocato Augusto
Sinagra (noto alla cronaca per essere stato l'avvocato di Licio
Gelli, nonché membro della P2, nonché difensore del governo turco
per l'estradizione del leader kurdo Ocalan ed un tempo
simpatizzante di Alleanza Nazionale) si muovono tutta una serie
di iniziative (conferenze, comunicati stampa, volantinaggi,
manifestazioni...) organizzate da diverse forze politiche, che
ruotano però più o meno tutte attorno alla figura di questo
eclettico avvocato, che è intervenuto sia a convegni organizzati
da A.N. che da Fascismo e Libertà, sia dalle Associazioni degli
Esuli, che da altri circoli di estrema destra.

Ma in tutte queste conferenze Sinagra ha ribadito sempre più o
meno le stesse cose. Che non gli importa (parole testuali) che
"certi criminali vengano a sporcare le nostre galere", perché
questo processo non deve servire per fare condannare chi avrebbe
ucciso delle persone. Quello che è importante, secondo Sinagra, è
che il processo serve per "ottenere in sede giudiziaria quella
verità che ci è stata negata in sede storica e politica": cioè
che grazie a questo processo si starebbe ricostruendo una
"coscienza nazionale". A quale scopo questa coscienza? Seguiamo
il resto degli interventi di Sinagra, che si scaglia contro lo
Stato italiano (che "ci ha tradito") e tutti i suoi governi,
tranne quello Berlusconi, perché l'allora ministro Martino fu
l'unico "a ribadire i diritti storici dell'Italia sull'Istria,
Fiume e Dalmazia". Terre che Sinagra insiste nel ripetere che
"piaccia o non piaccia a qualcuno, in futuro torneranno alla
madre patria italiana".

Questo diritto di riconquista, dunque, nascerebbe dal
riconoscimento in sede giudiziaria del "genocidio" (Sinagra
arriva al punto di parlare di 22.000 "infoibati"!) perpetrato
dagli "slavocomunisti"? E come credono l'avvocato ed i suoi
simpatizzanti di ottenere tale "ritorno alla madre patria
italiana"? Con o senza una guerra d'aggressione?

E che vi siano dei motivi in più per preoccuparsi, lo vediamo
quando Sinagra dice che il senatore (D.S.) Pellegrino, presidente
della Commissione Stragi, gli avrebbe chiesto una richiesta
formale per occuparsi, all'interno della Commissione, anche della
"strage" delle foibe. Tale richiesta assume un significato
particolare se si ricordano le dichiarazioni dello stesso
senatore Pellegrino tre anni fa in un'intervista al periodico di
estrema destra "Area": "una volta chiarite le foibe si riuscirà a
capire la storia interna del Paese: perché uomini della destra
radicale e partigiani bianchi si sono uniti in gruppi clandestini
anticomunisti". Cioè usare le foibe per "giustificare" la Gladio?

Come si vede, la questione delle foibe non è solo una
questione di storia, di problemi di più di cinquant'anni fa; qui
si tratta di destabilizzazione, qui ci giochiamo il futuro del
nostro Paese e dei Paesi a noi confinanti.

("La Nuova Alabarda", Trieste - maggio 2000)