Telekomica con personaggi

1. Telecomica con personaggi.
I dettagli della piu' fallimentare impresa del colonialismo economico
italiano nei Balcani. Da "Il Manifesto" del 2/9/2003.
2. Telekom, gli Usa dissero no.
La voce del padrone, incarnata dall'ex inviato Gelbard, chiarisce una
volta per tutte: guai ai sudditi che cercano di fare affari con i
nostri nemici. Da "Panorama" del 4/9/2003.


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il manifesto - 2 Settembre 2003

Telecomica con personaggi

Le verità sotto il cielo sono sempre più numerose di quante alcuni ne
sappiano contare. Il caso di Telekom Serbia è esemplare da questo punto
di vista. Forse gli italiani sono andati in Serbia per sfruttarla.
D'altro canto quale può essere il fine di un investimento all'estero se
non guadagnare il più possibile?
GUGLIELMO RAGOZZINO


Nel giugno del 1997 la società olandese Stet International Netherlands
N. V. (per gli amici, Sin) acquistò per un miliardo e 517 milioni di
marchi tedeschi dall'ente delle poste locale il 49% della Telekom
serba. Il 20% venne girato contestualmente per 624 milioni di marchi
alla società telefonica greca Ote. Il pagamento della Sin era previsto
in tre rate: 702 milioni di marchi subito, 117 entro sei mesi e il
resto «all'atto della licenza per la telefonia mobile (versati nel
marzo del 1998)». Il virgolettato è tratto dalla famosa inchiesta di
Repubblica del febbraio 2001 (Carlo Bonini e Giuseppe d'Avanzo) che ha
dato la stura alla tenebrosa vicenda. L'acquisto balcanico di Sin era
fatto per conto della casa madre di allora, di nome Stet, poi mutato in
Telecom Italia. E per questo la vicenda ha suscitato e suscita grandi
passioni in Italia pur essendo allora allora e rimanendo ancor oggi per
molti aspetti oscura, nonostante la bravura di Bonini&D'Avanzo,
nonostante la causa aperta al tribunale di Torino, nonostante
l'inchiesta del parlamento italiano tuttora aperta. Per non dire della
copertura generosamente offerta (la prima pagina tutti i giorni, per
mesi e mesi) da parte del Giornale, un quotidiano autorevole essendo in
parte del fratello di Silvio Berlusconi e in parte di una società dello
stesso presidente del consiglio.

L'oscura vicenda interessa ancora molto, anche se il proprietario di
Sin, dopo molte giravolte e cambi di gruppi dirigenti e proprietari -
dall'Iri al Tesoro, al mercato, a Colaninno, a Tronchetti
Provera/Pirelli - ha rivenduto la propria partecipazione, ridotta al
29%, in Telekom Serbia, nel febbraio del 2003 per 193 milioni di euro.
Anzi lo scarto tra il prezzo di vendita e quello d'acquisto ha
aumentato ancora di più i sospetti sull'operazione di allora. Perché
comprare in Serbia? Perché pagare una cifra così elevata? Perché
vendere a prezzo tanto vile?

Va detto subito che delle due l'una: o era maledettamente alto il
prezzo d'aquisto, o era stracciato quello di vendita. Ma era davvero
così elevata la cifra d'acquisto? I serbi dell'opposizione a Milosevic
si sono lamentati per la svendita subìta, e hanno pubblicato cifre
almeno doppie, sui 3 miliardi di marchi, attribuendole a banche
internazionali come l'Ubc svizzera o la Nat West inglese. Anche
trascurando la visione patriottica dell'opposizione di Belgrado, è
certo che in quel tempo le telecom europee occidentali e le compagnie
telefoniche del resto del mondo ricco stavano svolgendo campagne
d'acquisto nei paesi minori in tutto il globo; in particolare c'era una
corsa nei Balcani e dintorni dove erano attivi tedeschi e francesi. I
prezzi erano in grande tensione. La new economy trascinava le borse al
rialzo, quindi ogni nuova attività era promettente; le telecom dei
paesi forti avevano poi in corso programmi di privatizzazione che
liberavano decine di miliardi di dollari mettendoli a disposizione dei
dirigenti più dinamici. Per citare soltanto la nostrana Stet-Telecom,
la vendita di un terzo del capitale in mani pubbliche aveva fruttato al
Tesoro una cifra nell'ordine dei 30 mila miliardi delle vecchie lire.
Ma Telecom Italia, così ricca e piena di sé ha serie difficoltà per
affermarsi. Tenta di aprirsi una strada in Russia, me è respinta;
intanto francesi e tedeschi fanno altri affari. Per le avanguardie di
Telecom si apre uno spiraglio in Serbia, offerto proprio dalle
difficoltà politiche di Milosevic che rischia di perdere le elezioni
nell'autunno del 1997. Anni dopo, rispondendo in parlamento dopo le
rivelazioni di Repubblica, il ministro degli esteri Dini accennerà a
Siemens e Alcatel, due giganti della telefonia che hanno contratti per
300 milioni di marchi con Telekom Serbia. E' evidente che faranno da
tramite per la vittoria in Serbia delle loro compagnie telefoniche
nazionali. E allora si potrà dire addio al corridoio otto e a tutte le
speranze italiane di inserimento nei Balcani, infine pacificati. Così
c'è il blitz degli italiani, una volta tanto.

Gli Usa approvano, anzi, secondo Dini, gli chiedono di intercedere
presso Telecom per avere certi collegamenti telefonici all'ambasciata,
giù a Belgrado.

L'avventura serba dei telefonisti italiani resta sepolta dalla onde
successive di amministratori e gruppi dirigenti che si susseguono,
scalata dopo scalata, alla Telecom. E a ragione, probabilmente: nessuno
se ne vuole occupare, molti se ne vergognano come delle sregolatezze di
un antenato finito male. Occorre dire che la gestione italiana della
Telekom serba è vergognosa. Ci sono le clausole segrete dell'accordo,
quelle che consentono agli italiani comportamenti da occupanti. Gli
italiani impongono (secondo le informazioni dell'opposizione serba)
tecnologia propria e se la fanno pagare, ma installano centrali
arretrate, probabilmente dismesse, che portano indietro, invece che
avanti, il livello dei telefoni di Serbia. Circola una lettera di
protesta da parte di centinaia di ingegneri dell'impresa che non ne
possono più. Contro la gestione, avara e contro le commesse italiane,
scadenti, si arriva perfino a uno sciopero a oltranza.

Finisce il bel tempo; a Belgrado c'è guerra umanitaria per il Kosovo e
l'Italia bombarda le «sue» centrali telefoniche. La distruzione del
capitale non è estranea all'aumento dei tassi di profitto. Bisognerà
ricostruire e se nel frattempo Belgrado vorrà telefonare, dovrà
triangolare, a pagamento, con l'Italia.

Finisce il bel tempo anche per le grandi Telecom; l'ultimo acquisto è
nel 2000. I francesi prendono il controllo della Telecom polacca per 4
miliardi di dollari (oltre 8 miliardi di marchi). Gli italiani hanno
comprato grosso in Austria, pagando, nel novembre 1998, 1,9 miliardi di
euro per il 25% di quella Telekom. Quanto a dire 7,6 milioni di euro
per ogni 1%. Quando nel 2003, Telecom Italia rivende un 15% della
società comprata meno di 5 anni prima, il prezzo che ne ricava è di 559
milioni di euro, pari a 3,7 milioni per ogni 1%. Anche nella felix
Austria, senza bombardamenti, il prezzo si è più che dimezzato.

Dunque, tutto finito. Ora ci interessa il corridoio cinque e sono
altre e più modeste le nostre manie di grandezza. Resta dell'avventura
una traccia nelle tabelle dell'Onu. Nel World Investment Report del
2001, dal titolo evocativo Promoting Linkages cioè un invito a
promuovere legami, c'è un elenco di paesi che, tra il 1996 e il 2000,
hanno effettuato investimenti in Jugoslavia (Serbia-Montenegro). E' un
elenco breve, in milioni di dollari, su dati della banca centrale di
Jugoslavia. Al primo posto i Paesi bassi con 560, poi la Grecia con
481, poi il Lussemburgo con 102. Più sotto Cipro con 82 milioni,
Bahamas 14, Bulgaria 10, Italia 10, Stati uniti 8, austria 8 e Ungheria
4. Sappiamo già chi è nascosto dietro i Paesi bassi e del resto una
nota lo esplicita: sono gli italiani della Sin-Telecom, un po'
travestiti, ma non troppo. Poi, dopo i greci, Lussemburgo e Cipro
coprono evidentemente altri personaggi che non vogliono farsi
riconoscere. Un'altra tabella mostra i flussi di investimenti esteri
nel corso del decennio. Gli investimenti esteri oscillano tra i 250
milioni e i 90 fino al 1996. Si può immaginare che vi sia interesse a
investire dall'estero e resistenza, all'interno. Poi l'esplosione del
1997, con un dato che supera i 1.100 milioni di dollari. Poi, negli
anni seguenti, una repentina ricaduta ai livelli di prima del boom. Del
resto se gli investimenti esteri sono come certi italiani, è meglio
perderli che trovarli.


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http://www.panorama.it/italia/politica/articolo/ix1-A020001020620

Telekom, gli Usa dissero no

di  Marco De Martino

4/9/2003  

Era l'inviato di Clinton nei Balcani all'epoca dell'acquisto della
società serba da parte della Telecom Italia. E smentisce con forza le
dichiarazioni di Dini e Fassino: «Eravamo contrari all'operazione ed è
falso che l'America incoraggiasse investimenti a favore di Milosevic"


Telekom Serbia: quella storia Robert Gelbard se la ricorda bene. Nel
1997 era l'uomo di punta della diplomazia americana nei Balcani. Il suo
titolo ufficiale era quello di inviato speciale del presidente Bill
Clinton per l'attuazione degli accordi di Dayton: durante la crisi del
Kosovo fu lui il rappresentante più alto del dipartimento di Stato Usa
nella regione, lavorando per lunghi periodi a stretto contatto con
Richard Holbrooke, l'artefice della pace nei Balcani. Gelbard oggi è un
consulente d'affari a Washington.
Di quella storia, di quell'operazione che portò la Stet ad acquistare
il 29 per cento della compagnia serba per 878 miliardi di lire, non ha
mai parlato. Ma basta riferirgli una frase che lui non conosce. Si
tratta dell'ultima dichiarazione di Piero Fassino, attuale segretario
italiano dei Ds e all'epoca sottosegretario alla Farnesina, sul
discusso affaire: "Dopo la pace di Dayton, la scelta di Usa e Ue fu di
tentare di favorire un'evoluzione democratica nei Balcani. Via le
sanzioni, via l'embargo. Le imprese europee e statunitensi furono
incoraggiate a investire".
Gelbard, evidentemente sorpreso, fa una pausa. E comincia le sue
rivelazioni a Panorama con un moto di rabbia: "Dire che noi americani
incoraggiavamo altre nazioni a investire in Serbia è ridicolo:
completamente falso. La notizia dell'investimento italiano fu anzi
accolta con grande preoccupazione dal governo americano: avevamo
ragione di ritenere che l'accordo contenesse elementi di illegalità".

Si ricorda quando veniste a conoscenza della trattativa?

No. Ma ricordo bene che ne fummo informati a cose fatte: non venimmo
mai consultati. E la cosa non ci rese certo felici.

Che reazione provocò la notizia?

Parlammo di quella vicenda in varie riunioni, ad altissimo livello.
Quei soldi italiani diedero una boccata di ossigeno a Milosevic, gli
permisero di comprare nuove fedeltà, di continuare a pagare gli
stipendi dei militari. Ma avevamo anche la preoccupazione che l'accordo
fosse stato condotto secondo modalità che poco hanno a che fare con
l'onestà.

A che cosa si riferisce?

Mi lasci solo dire che qualsiasi accordo stretto con la Serbia
all'epoca doveva essere fatto passando attraverso Milosevic e i suoi
compari.

Avevate informazioni dalla vostra intelligence che motivavano i
sospetti?

Su questo non posso rispondere.

Quali organismi del governo americano erano a conoscenza del problema?

Soprattutto il dipartimento di Stato.

E quindi anche l'allora segretario di Stato Madeleine Albright...

Lo ha detto lei. Quello che posso dirle è che si trattava di una
preoccupazione largamente condivisa.

Tentaste di capire dove finirono tutti quei miliardi?

Sì, e giungemmo alla convinzione che la maggior parte del denaro fosse
stato rubato. Si ricordi che a questo punto, nel 1997, Milosevic era
nei guai: la Serbia era al collasso economico, lui aveva bisogno di
nuovi investimenti sia per ragioni politiche sia per ragioni
economiche. Noi non volevamo che si rafforzasse politicamente e, per
questa ragione, mantenevamo le sanzioni.

È vero. Però l'Onu aveva tolto le sanzioni e quindi l'accordo non era
formalmente illegale.

Ma noi americani, ripeto, mantenevamo quello che chiamavamo "il muro
esterno delle sanzioni". Ci opponevamo cioè ai prestiti del Fondo
monetario e della Banca mondiale. E non esistevano relazioni con le
repubbliche della ex Jugoslavia, che non avevano ancora alcuna
rappresentanza alle Nazioni Unite.

Quindi non è esatto che dopo gli accordi di Dayton gli americani
guardavano con favore a investimenti che favorissero il processo di
pace (come ha dichiarato Fassino)?

È completamente falso. Completamente falso. Non avevamo alcuna ragione
al mondo per incoraggiare le aziende a dare soldi a Milosevic: volevamo
investimenti in Bosnia, non certo in Serbia. Ma il governo italiano
dell'epoca aveva una posizione diversa e la divergenza di opinioni era
profonda. In particolare con il ministro degli Esteri Lamberto Dini,
che era la persona con cui avevamo più contatti. L'accordo della
Telekom Serbia non aiutò certo le nostre relazioni con il vostro Paese.
Come risultato dell'affare pensammo anzi che gli italiani volessero
mantenere un rapporto di amicizia con Milosevic. Il problema turbò le
relazioni tra Stati Uniti e Italia per un certo periodo: ovviamente il
rapporto è talmente solido che una questione del genere non lo avrebbe
mai potuto incrinare.

Dini ha di recente dichiarato: "Nessuno ha avvertito che era
un'operazione a rischio".

È un'affermazione a cui è difficile credere.

Gli esponenti del governo italiano dell'epoca dicono di avere saputo
dell'accordo dopo che era stato siglato: a questo crede?

Non ho informazioni specifiche, ma anche questa è un'affermazione a cui
è difficile credere.

Di nuovo Dini: "A quell'epoca, dopo il trattato di Dayton che divideva
in tre l'ex Jugoslavia, c'era l'orientamento, in Europa e negli Usa, di
cercare di rendere più democratico e responsabile il regime di
Belgrado. Nel 1997 non c'erano preclusioni politiche". È vero?

Non esattamente. Il governo statunitense era contro ogni tipo di
accordo che portasse soldi nelle tasche di Milosevic. È vero che
appoggiavamo il processo democratico, è falso che appoggiavamo
Milosevic. Noi anzi appoggiavamo gruppi di opposizione come Zajedno,
che alle elezioni municipali vinsero molte poltrone di sindaco. Ma
pensavamo che l'investimento in Telekom Serbia avrebbe aiutato
Milosevic, che era il contrario di quello che volevamo.

Questa posizione americana era valida anche nel 1996, quando venne
architettato l'investimento in Telekom Serbia?

Ho assunto il mio ruolo solo l'anno dopo. Ma le posso dire che anche
prima di quella data non ha mai fatto parte della nostra politica
rinforzare Milosevic. Guardi, mi permetta di essere chiaro. L'accordo
di Dayton fu siglato nel novembre del 1995: nel gennaio del 1996 vidi
Milosevic, prima di assumere il mio ruolo, e già allora la sua non
collaborazione all'accordo di Dayton era chiara. Nel corso di
quell'anno anzi Milosevic fece molto poco per ridurre il potere di
Radovan Karadzic e Ratko Mladic (criminali di guerra serbi ancora
ricercati, ndr). E all'inizio del 1997 la nostra insoddisfazione nei
suoi confronti era ai massimi livelli. Albright fece allora la sua
unica visita a Belgrado per vedere Milosevic: fu un incontro di estrema
difficoltà a cui io fui presente.

Torniamo al punto che più ci interessa: l'accordo della Telekom Serbia.
Che cosa attirò la vostra attenzione?

Era una totale anomalia. Assieme agli italiani, erano i francesi i più
attivi nella regione. Ma questo contratto venne subito notato,
soprattutto per la quantità di soldi versati nelle casse della Serbia.

Prendeste provvedimenti?

Non avevamo alcuno strumento per farlo, l'Italia è un Paese sovrano.

Vi lamentaste con gli italiani?

Sì.

Chi lo fece, Madeleine Albright?

Di questo non voglio parlare.

Ripeterebbe le sue dichiarazioni davanti alla commissione parlamentare
d'inchiesta italiana?

A Roma vado sempre volentieri...


RISPOSTE E SILENZI DEI PROTAGONISTI
Come si sono difesi i responsabili del governo Prodi dalle accuse di
aver sottovalutato l'affaire

I "misteri" sono stati svelati la scorsa settimana. Allora, nel giro di
pochi giorni, Romano Prodi, Lamberto Dini e Piero Fassino hanno
raccontato la loro verità sulla Telekom Serbia. Nel 1997, all'epoca
della vicenda, erano rispettivamente presidente del Consiglio, ministro
degli Esteri e sottosegretario alla Farnesina. Panorama ha riassunto
l'affaire in sei domande chiave. Eccole, seguite dalle risposte date
dai tre politici a quotidiani e settimanali.

Avete saputo della trattativa per l'acquisto della Telekom Serbia da
parte della Stet prima del 9 giugno 1997, giorno della conclusione
dell'affare?

Prodi: "Mai, da nessuno e in alcuna forma, l'acquisto di una quota di
Telekom Serbia da parte di Stet fu sottoposto alla mia attenzione, né
come privato cittadino, né come presidente del Consiglio".

Dini: "Non mi sono mai occupato, né nessuno mi ha mai parlato di questo
affare Telekom. Seppi dell'acquisizione dai giornali, a contratto
firmato. E me ne rallegrai. La considerai una scelta di Belgrado
favorevole all'Italia".

Fassino: "La trattativa era nota".

È possibile che la Stet, un'azienda statale, potesse concludere un
affare da 878 miliardi di lire con il regime serbo senza l'assenso del
governo italiano?

Prodi: "Non vi era alcuna ragione né formale né sostanziale perché ciò
dovesse avvenire".

Dini: "Il governo dell'Ulivo è estraneo alla vicenda. Non ha
partecipato in alcun modo alla vicenda perché Stet non ha chiesto
aiuto. E ha condotto la trattativa da sola. Il ministero degli Esteri
interviene solo se è interpellato".

Fassino: "Il governo non ha avuto alcun ruolo perché non doveva averlo.
Se a livello internazionale la strategia fosse stata quella di isolare
Milosevic, allora si sarebbe dovuto intervenire. Ma poiché non era
così, il governo non lo fece".

Dopo l'accordo di Dayton del 1995, l'atteggiamento politico di Europa e
Usa nei confronti di Milosevic poteva giustificare un investimento di
questa entità in Serbia?

Prodi: Nessuna dichiarazione.

Dini: "Dopo il trattato c'era l'orientamento, in Europa e negli Usa, di
cercare di rendere più responsabile e democratico il regime di
Belgrado. Nel 1997 non c'erano preclusioni politiche. Nessuno poteva
immaginare quello che sarebbe accaduto dopo, Kosovo compreso".

Fassino: "Nel 1995, dopo la pace di Dayton, la scelta di Usa e Ue fu di
tentare di favorire un'evoluzione democratica nei Balcani. Via le
sanzioni, via l'embargo. Le imprese europee e statunitensi furono
incoraggiate a investire".

Francesco Bascone, ai tempi dell'affare ambasciatore italiano in
Jugoslavia, mandò al ministero degli Esteri 14 dispacci in cui veniva
denunciata la pericolosità dell'operazione e il fatto che non vi fosse
"nessuna assicurazione sulla destinazione dei soldi dell'affare". Come
mai nessuno tenne conto dei suoi avvertimenti?

Prodi: Nessuna dichiarazione.

Dini: "Bascone riferiva soltanto quello che la stampa locale diceva e
quanto emergeva con i leader dell'opposizione. Le lettere di Bascone,
come era normale, furono prese in considerazione dai direttori
generali".

Fassino: "Le parole dell'ambasciatore alla commissione dimostrano la
mia assoluta correttezza e la mia totale estraneità alla vicenda". Il 9
ottobre del 2002, il diplomatico aveva raccontato alla commissione
parlamentare d'inchiesta che l'attuale segretario dei Ds "durante una
sua visita a Belgrado, aveva manifestato un forte disagio per questa
trattativa, che si svolgeva in modo quasi segreto, senza informare
l'ambasciata e il ministero".

La Telekom Serbia fu pagata dalla Stet 878 miliardi e rivenduta a meno
della metà cinque anni dopo: fu un cattivo affare?

Prodi: Nessuna dichiarazione.

Dini: "Lo vedremo. Se hanno agito così, avevano tutte le ragioni per
pensarlo".

Fassino: "Sono decisioni aziendali, non dell'autorità politica. È
un'azienda a decidere il prezzo di un acquisto o di una cessione".

Accetterà di essere ascoltato dalla commissione d'inchiesta?

Prodi: "Sono disposto a essere ascoltato per fornire ogni utile
chiarimento agli organi legittimamente deputati ad accertare la verità".

Dini: "Ho già dichiarato anche in passato la mia disponibilità a essere
ascoltato dalla commissione quando essa lo ritenga opportuno".

Fassino: "Se la commissione vuole, sa dove trovarmi. Certamente, se mi
convocano andrò, come chiunque è tenuto a fare".