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il manifesto - 19 Ottobre 2002 - pagina 17

Izet, quella voce amara e disincantata di Sarajevo

Un reading internazionale in ricordo di Sarajlic, poeta di lingua
serbo-croata più tradotto al
mondo
TOMMASO DI FRANCESCO

SARAJEVO - «Noi che abbiamo vissuto l'assedio di Sarajevo,/ di tutto
ciò certamente non avremo nulla da guadagnare.../». Lo scrittore e poeta
sarajevese Marko Vesovic legge con aria disincantata e amara i suoi
versi. Siamo nel Kamerni Teatar della Federazione croato-musulmana. È
il secondo giorno degli «Incontri internazionali di poesia» curato da
Multimedia edizioni/ Casa della poesia e della mostra fotografica
«...Che ci perdoni l'erba» di Mario Boccia, per ricordare la «voce di
Sarajevo», il poeta Izet Sarajlic, scomparso il 2 maggio di quest'anno
che mai aveva voluto lasciare la città, nemmeno durante l'assedio, e che
negli ultimi anni dopo la guerra aveva ripreso quel suo straordinario
lavoro cosmopolita di raccordo tra poeti del mondo, ritessendo i
rapporti con l'Italia, con Salerno e Baronissi in particolare, sede
della Casa della poesia. Izet Sarajlic - che nel 2001 ha ricevuto in
Italia il premio Moravia per Qualcuno ha suonato, Multimedia - è il
poeta di lingua serbo-croata più tradotto al mondo, soprattutto da
altri poeti come Brodskij, Evtushenko, Enzesberger, Retamar e Charles
Simic negli Stati uniti; oltre ad essere stato amico fraterno di
Alfonso Gatto del quale la sorella di Izet, Raza - morta nell'assedio -
ha tradotto le opere in serbo croato.
E sempre mono-tonico Marko Vesovic legge: «Quell'esperienza non ci
servirà a nulla/ come
se avessimo perso il violino e guadagnato le mani...». Anche stavolta
per stare vicino ad Izet, incontrare la figlia Tamara - il comune di
Salerno le darà la cittadinanza onoraria - sono venuti tanti poeti a
leggere versi in sua memoria: Alberto Masala dall'Italia, Carmen Yanez
dal Cile, dalla
Spagna Juan Vicente Piqueras e Eloy José Santos, Judi Benson e Ken
Smith dalla Gran Bretagna, Louis-Philippe Dalembert da Haiti, il
performer Serge Pey dalla Francia e, tra tutti, un pezzo di storia
della letteratura americana degli anni beat, Jack Hirschman che leggerà
per la prima volta la splendida fonìa del suo nuovo poema sull'11
settembre.
Mancava Erri De Luca, lo scrittore italiano che con lui ha intessuto un
lungo epistolario e
che ha conosciuto, nei suoi «trasporti» balcanici, a Sarajevo sotto le
bombe. Mancava forse perché...non si torna volentieri in una città che
si è vista dilaniata. Tanti anche i poeti di Sarajevo che sono venuti a
ricordare Izet e l'assedio, come Farida Durakovic, Josip Osti e il
solipsista Velimir Milosevic.
Anche la parte più ufficiale dell'iniziativa è stata decisiva. La
lettura internazionale di poesia
e la mostra, sono state inaugurate dal sindaco di Sarajevo, Muhidin
Hamamdzic, dall'ambasciatore italiano, dall'assessore alla cultura del
comune di Salerno - tutti organismi che hanno promosso l'iniziativa - e
dal fotografo Mario Boccia, sotto lo sguardo spiritato e sorridente,
beffardo e
amoroso delle grandi gigantografie di Izet Sarajlic.
Una mostra quella di Boccia - si è conclusa ieri e «Che ci perdoni
l'erba» è proprio un verso
di Izet - che, pure composta per la maggior parte da una intimità di
ritratti del poeta, ha voluto offrire in una «parete buia» l'intero
spettro della tragedia della guerra balcanica, con immagini che vanno
infatti dalle uccisioni in Slovenia nel 1991, fino alle milizie dell'Uck
in Macedonia nel
febbraio di quest'anno, e con una sequenza di pulizie etniche che
vedono albanesi cacciati dai serbi, serbi e rom dagli albanesi,
musulmani dai croati, croati dai serbi e serbi dai musulmani e... E Izet
Sarajilic a questa verità si è sempre adoperato, lui che era un
musulmano di Doboj, sposato con una cattolica e con un genero di
religione ortodossa, ha militato nel «Circolo 99» di Sarajevo, sempre
contrario alle mafie che hanno voluto la guerra, e ha lottato fino alla
fine dei suoi giorni per il mantenimento di quella cultura
bosniaco-jugoslava laica della pluralità e della convivenza della quale,
prima della guerra, Sarajevo era un simbolo per tutto il mondo.
Intanto Marko Vesovic non smette la sua lamentazione critica:«...
Bisogna dimenticare tutto/
e poi dimenticare il dimenticato. Ma d'ora in poi, spero,/ che noi
avremo un po' più di rispetto verso noi stessi,/ come un pugile che
riceve un milione di pugni/ e rimane in piedi/ e la sua faccia
massacrata nello specchio gli dice nello specchio/ chi è lui in verità/
(...) Abbiamo conosciuto i nostri limiti. / Perché sapere chi sei è
sempre stato/ il privilegio della vittima.../». Legge mentre la
traduzione appare stampigliata grande sul telo di fondo. L'hanno fatta
Raffalella Marzano e il poeta Sinan Guzdevic, l'unico che ha avuto il
coraggio di denunciare che la guerra nell'ex Jugoslavia è stata anche
contro una lingua unitaria e bellissima, il serbo-croato, per arrivare
a pseudo invenzioni linguistiche come il «croato» ufficiale o la
«parlata» bosniaca.
Legge Marko Vesovic e fuori Sarajevo aspetta. È arrivato il primo
freddo, piove in continuazione da giorni, da settimane, la Miljacka, che
d'estate è quasi un rigagnolo inesistente, è gonfia d'acqua terragna:
nessuno da tempo ha più curato a monte e a valle opere di bonifica.
Livida la città rimane appesa, come l'odio rimasto che vede la città e
la Bosnia Erzegovina divisa in cantoni e «stati», quello della
Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba.
Tutti i poeti poi sono andati al Cimitero del Leone, a trovare Izet. Il
monumento del Leone
era ancora lì mezzo devastato dalle bombe. Lì Izet li ha accolti con
una pioggerellina fastidiosa, appena il tempo di mettere un carillon di
uccellini di lacca cinguettanti sulla tomba bruna. Intorno, guardavamo
che alla fine serbi e musulmani - ma anche le stelle rosse degli
jugoslavi - stavano insieme, finalmente: da morti.
«Poi che dirti/ nessuna guerra ha fatto mai/ ridere una madre», ci
saluta Marko Vesovic dai
microfoni del Camerni Teatar. Per strada, arde ancora il monumento
della «fiaccola», splende e fa luce e fuoco. È sempre rimasta accesa
anche durante l'assedio: ricorda la liberazione della città il 6 aprile
del 1945 da parte dell'armata popolare jugoslava. Perché arde ancora?