Ancora in merito al dibattito interno al PRC

da Liberazione, domenica 8 febbraio 2004:


Contrastare l'offensiva revisionista e anticomunista

di CLAUDIO GRASSI


Una domanda sorge spontanea pensando a questo dibattito sulla violenza
e la non-violenza. Una domanda che potrebbe apparire retorica o
provocatoria. Non lo è. Davvero si stenta ad afferrare il filo di una
discussione che ha coinvolto i temi più disparati, sviluppandosi lungo
linee polemiche che ben di rado ormai si incontrano in punti condivisi
e comprensibili. C'è di tutto: la non-violenza come filosofia e pratica
politica; il pacifismo come teoria e come forma della prassi; il
giudizio sulla Resistenza e sulle guerre imperialistiche di ieri e di
oggi; la critica dei poteri; l'analisi della repressione del dissenso e
del conflitto sociale: forse sarebbe il caso di semplificare e di
cercare di mettere un po' d'ordine.

Di che cosa discutiamo parlando di non-violenza?
Secondo alcuni, di un concetto e di una forma dell'agire politico
adeguati sempre e dovunque. Posto così, è un tema impraticabile in una
prospettiva politica. Se non si vogliono produrre discorsi fini a se
stessi, occorre contestualizzare, riferirsi a situazioni determinate.
Ma anche la posizione di chi ritiene che «oggi nel mondo globale in cui
siamo precipitati, la forma più estrema dell'antagonismo, quella
davvero irriducibile e non mediabile, è l'azione "non-violenta"» (Marco
Revelli su "Carta") appare a dir poco discutibile. Si argomenta, a suo
sostegno, che l'assunzione della non-violenza è necessaria perché vi è
la «guerra permanente» e «preventiva» e perché la superiorità militare
degli Stati Uniti non consentirebbe altre strade. Ma in questa materia
è opportuno evitare toni dogmatici e assumere l'onere
dell'argomentazione razionale. C'è una sola via per mantenersi su
questo terreno: spiegare come si pensa di fermare i bombardamenti, i
cingolati, i missili e la disseminazione dell'uranio impoverito.

Si ripete da più parti che oggi tutto è nuovo, che il mondo è cambiato
di sana pianta e impone concezioni nuove. È davvero così, o è la nostra
memoria che si accorcia e che si indebolisce? Se tornassimo con il
pensiero agli ultimi atti della Seconda guerra mondiale e all'immediato
dopoguerra, avremmo materia per riflettere su queste presunte cesure
radicali. Allora davvero la storia cambiò. Illuminato dai sinistri
bagliori di Hiroshima e Nagasaki, il mondo fu costretto a guardare in
faccia una novità assoluta e atroce. Per la prima volta nella storia la
distruzione del genere umano era divenuta concretamente possibile. Pian
piano la consapevolezza di questo salto di qualità si diffuse e vi fu
anche tra i comunisti italiani chi valutò attentamente le sue
conseguenze. A Bergamo, nel '53, Togliatti tenne un memorabile discorso
incentrato su questi temi: la bomba atomica, l'enorme divario di
potenza che essa istituiva nei rapporti internazionali, la impellente
necessità di una lotta dei popoli per il disarmo e la pace. Ma in quel
discorso non si commetteva l'errore di generalizzare. Nemmeno la bomba
riduceva a un minimo comune denominatore i diversi conflitti: né sul
piano della logica che li determinava, né in relazione al loro
dispiegarsi. Imponeva l'accumulazione di coscienza critica, non
consentiva il ricorso a rigidi schemi, a parole d'ordine unilaterali.

Ma forse c'è dell'altro, in questo dibattito. Si suggerisce, da parte
di qualcuno, che il tema è la forma della lotta politica adeguata qui e
ora: nel nostro paese, in Europa, nell'Occidente capitalistico. Se
davvero le cose stessero in questi termini, verrebbe da dire che ci si
sarebbe potuti risparmiare tanta fatica e tanta carta, talmente ovvio è
- almeno per noi - che oggi, in questa parte del mondo, la lotta
sociale e politica deve ricorrere esclusivamente agli strumenti
pacifici del confronto, pur aspro, delle idee; della libera
manifestazione delle proprie istanze; della mobilitazione di massa;
dello sciopero; della protesta e della disobbedienza civile. E talmente
ovvio è - per noi - che se il conflitto sociale e politico non è sempre
scevro da violenza, la responsabilità di ciò incombe in primo luogo a
chi controlla gli apparati coercitivi dello Stato. Proprio questa
evidenza legittima tuttavia una riflessione: che tutto questo dibattere
di non-violenza serva in realtà a parlar d'altro: che la non-violenza
sia soltanto una parte di un ragionamento più complesso. La sensazione
è che siamo - di nuovo - alle prese con la discussione sulla nostra
storia e sulla nostra identità di comunisti. Se è così, è bene essere
chiari, almeno tra di noi. Riflettere sulla nostra esperienza,
indagarne i limiti, cercare di comprendere le cause delle nostre
sconfitte: questo non è solo utile, è anche indispensabile. Purché si
abbia la consapevolezza che l'errore più grave che potremmo commettere
oggi - nella giusta ricerca di una rifondazione del pensiero e della
prassi comunista all'altezza dei tempi - sarebbe accodarci alla voga
liquidazionista oggi imperante. C'è un grande patrimonio alle nostre
spalle: di esperienze, di idee, di valore, di passioni. Un grande
patrimonio storico che dev'essere in primo luogo rivendicato e
riconosciuto per la straordinaria influenza che ha esercitato nel corso
degli ultimi 150 anni ai fini del riscatto di miliardi di essere umani.
Anche questa smania di trascinare «il Novecento» sul banco degli
imputati è pericolosa, oltre che poco comprensibile. Come si può
ridurre un secolo a un unico motivo? «Un'immane violenza», si dice. E
si getta tutto in un calderone che allontana la possibilità di capire.
Ma il Novecento è stato anche il secolo delle grandi rivoluzioni
operaie e contadine, queste sì «inizio» di una nuova storia! Oggi è di
moda la critica dell'«assalto al cielo», cioè dell'idea che una società
possa essere trasformata anche attraverso il comando politico.
Discuterne, naturalmente, non fa male. Ma certo non giovano le
semplificazioni caricaturali. Un nome dovrebbe bastare a sgombrare il
campo da ogni equivoco: non è stato Gramsci - il bolscevico, il
leninista - a insegnarci che la società è un campo di poteri diffusi e
che la distinzione tra società e Stato (quella che oggi agitano, come
fosse un dogma, i nuovi critici anarchici dell'idea comunista) è uno
strumento teorico - un modello - e non una realtà di fatto? Con ciò
non si tratta, naturalmente, di chiudere il discorso: semmai di aprirlo
in modo serio, una volta per tutte. Certo la storia nostra ha
conosciuto sconfitte e gravi errori. Che vanno analizzati, di cui
occorre cercare le cause, dai quali dobbiamo trarre insegnamento. Ma
anche in questo caso c'è una questione ineludibile che deve essere
posta: bisogna chiedersi se, senza quell'«assalto» di cui oggi tanti
compagni sembrano voler chiedere scusa, il mondo sarebbe stato migliore
o peggiore: sarebbero stati possibili - per fare solo pochi esempi - le
lotte anticoloniali, la rivoluzione cinese, lo stesso sistema di
welfare in Europa? Cercare ancora: certo. Altrimenti nessuna
rifondazione sarà mai possibile. Ma altro è una ricerca seria, severa,
rigorosa, tutt'altra cosa una sommaria liquidazione della nostra
storia. A questa ci siamo sempre opposti e sempre ci opporremo con
tutta la forza delle nostre convizioni e passioni, che sappiamo
radicate in questo partito e in tanti compagni che al nostro partito
guardano con rispetto e fiducia. Basta con le autocritiche a senso
unico, basta con i mea culpa! Perché piuttosto non chiediamo agli altri
di fare i conti con il loro passato? Di chi furono figli il fascismo,
il nazismo, la Shoah? A chi debbono la morte i milioni di vittime della
Corea, del Vietnam, dell'Algeria, dell'America Latina? E che dire
dell'indulgenza vaticana verso i fascismi? Mi chiedo come pensiamo di
attrarre verso le nostre idee i giovani se non facciamo altro che
denigrarle, cospargendoci il capo di cenere per ogni nostro atto, per
il fatto stesso di dirci ancora comunisti. E mi chiedo anche come
pensiamo di rispondere a Berlusconi che attacca a testa bassa persino
il comunismo «meno palese» di chi «rinnega il proprio passato, si lava
pilatescamente le mani per tutti gli orrori e i delitti di cui si è
macchiato, ma ancor oggi vuole l'eliminazione dell'avversario»: cosa
gli diremo, che è troppo severo, che siamo cambiati, che abbiamo
compreso quanto pessimi fossero i nostri padri e fratelli maggiori?
Qui nessuno intende «angelizzare» alcunché. Si tratta solo di
contrastare un'offensiva revisionista e anticomunista che punta a
demolire le ragioni stesse della nostra esistenza e delle nostre
battaglie. O ci siamo scordati del «chi sa parli» e delle «ragioni dei
ragazzi di Salò»? Abbiamo già dimenticato i continui attacchi alla
Resistenza, mossi da chi cercava una legittimazione a buon prezzo?
L'opportunismo servile di chi, pur di accedere al governo, ha preso
distanza da una storia di cui avrebbe dovuto andar fiero, perché è la
storia della liberazione di questo paese e della costruzione della sua
democrazia? Non c'è futuro per chi non serba memoria del proprio
passato, che non è «piombo», bensì radice e consistenza. Non è libertà
quella di chi si sbarazza della propria storia, bensì disorientamento
immemore. Questa smania di gettar via il peso della storia accecò
molti quindici anni fa. La fine della Guerra fredda e la scomparsa del
«campo socialista» furono scambiate per una «grande opportunità»: fu
invece l'inizio di una fase di grave arretramento del movimento di
classe in tutto il mondo, e della ripresa in grande stile del
colonialismo e delle guerre imperialistiche: ci sarà bene un nesso tra
quella fretta di disfarsi dell'eredità storica del «secolo breve» e la
sconvolgente incapacità di leggere le tendenze in atto che accomunò un
intero gruppo dirigente. E anche noi oggi, stiamo attenti, perché non
è affatto scontato che siamo in grado di interpretare correttamente
quanto sta avvenendo. Che cosa ci suggerisce, per esempio, la
discussione tra noi sul «terrorismo» e la resistenza irachena? Che ci
sono - se non altro - stili di analisi diversi, che si riflettono in
differenti idee delle cause e degli effetti. Chi dice che è sbagliato
parlare di una «spirale guerra-terrorismo» non ha esitazioni nel
condannare le azioni terroristiche dei kamikaze e gli attentati
dinamitardi che mietono vittime tra la popolazione civile. Ma il punto
è un altro. Sta nel collocare tutto questo discorso sullo sfondo di una
guerra coloniale e imperialistica, che ha a sua volta cause ben
precise: il profilarsi, dinanzi alla superpotenza Usa, di altri
avversari sulla scena del mondo; la necessità «preventiva» di
controllare le maggiori riserve energetiche del pianeta; l'enorme
influenza politica del «militare-industriale»; il disastroso deficit
del bilancio Usa; il peso di una cerchia politico-intellettuale vicina
al Likud e determinata nel sostenere ad ogni costo le mire colonialiste
della destra israeliana. Ma se questo è il quadro, occorre allora dire
con chiarezza che quella delle popolazioni occupate, saccheggiate,
schiacciate dal tallone militare è innanzi tutto resistenza contro
l'occupazione, sacrosanta lotta per la liberazione. E non solo. Quanto
sta avvenendo in Iraq oggi è importante per tutto il mondo, a
cominciare dal Sud del pianeta. La resistenza irachena parla ai popoli
che sono nel mirino degli Stati Uniti: dice loro che la superpotenza
non è invincibile, che non è così ovvio che dopo un Iraq venga una
Siria o un Iran, quasi si trattasse di passeggiate al sole. In questo
senso, proprio la resistenza contro le forze di occupazione è un aiuto
alla pace. Lo hanno capito bene, non per caso, i rappresentanti dei
popoli riunitisi a Bombay. Nel documento conclusivo del Forum sociale
mondiale la denuncia della guerra e del colonialismo è netta, senza
tentennamenti, così come è forte e univoca la solidarietà verso le
popolazioni oppresse, il loro anelito all'indipendenza, le loro lotte
di liberazione. Al di là di qualsiasi sottigliezza, l'esperienza
materiale della sopraffazione produce consapevolezza. E permette di non
scambiare le lucciole del nuovo imperialismo per le lanterne di un
presunto impero che non dovrebbe più incantare nessuno, fuorché -
ovviamente - Bush e chi condivide i suoi paranoici sogni di gloria.