IRAQ = JUGOSLAVIJA / 11:

Sull'Onu e le ragioni della resistenza

Dai compagni di RED LINK riceviamo e giriamo:
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Lo scopo principale dell’Onu è sancito dall’art. 1 della sua Carta:
“mantenere la pace e la sicurezza internazionale e a tal fine
adottare efficaci misure collettive per la prevenzione e la
rimozione delle minacce alla pace.”

 “Il tenore di vita degli americani non si negozia” :
Ronald Reagan

 
L’ONU DAL MITO ALLA SURREALTA’

 
ROSSANA ROSSANDA: “come era verde la mia vallata!”

Sul Manifesto del 15.4 Rossana Rossanda, pur in un articolo che voleva
essere di opposizione all’occupazione dell’Iraq, assumeva lo scontro
che ivi (e in situazioni simili) si sta svolgendo come una regressione
complessiva dei rapporti umani. Regressione da parte delle potenze
occidentali rispetto ai progressi compiuti con la nascita dell’Onu e
del relativo diritto internazionale: “I rapporti internazionali stanno
arretrando a quattro secoli fa, a prima del trattato di Westfalia che
segnava la fine dell’Impero e metteva qualche regola ai rapporti tra
gli stati.” Regressione da parte degli oppressi: “ l’inatteso
risollevarsi contro di essa (la superpotenza Usa) –in mancanza di
quella idea civilizzatrice del conflitto che era stata il socialismo-
di resistenze arcaiche, nazionaliste, etniche, furenti e disastrose.”

Come al solito, le parole sono calibrate con accorata misura. Al di là
della loro specifica suggestione, ripetono però un leit motiv che, sia
pure con i diversi arredi di ciascuna scuola, attraversa gran parte
della sinistra, anche di quella che è o si auto-rappresenta la più
antagonista. Non è più un mistero infatti che quanto maggiore è la
nobiltà dell’internazionalismo comunista di alcuni compagni tanto
maggiore è l’esecrazione per i popoli che si ribellano alle aggressioni
imperialiste: sarebbero reazionari per i loro obiettivi, sarebbero
barbari per i loro metodi di lotta, per il loro disprezzo della vita
umana a cominciare dalla propria, nel migliore dei casi non avrebbero
programmi.

Siamo comunisti e, ovviamente, avremmo preferito che in campo ci fosse
una bella e grande internazionale, anche migliore dell’abborracciata
“terza” prodottasi per distacco da una socialdemocrazia che le lasciò
alcuni dei suoi virus. Tuttavia, non condividiamo il “solito”
pessimismo della Rossanda sull’ora presente; né condividiamo il suo
ottimismo sul passato con l’ormai immancabile sospiro sulla sua
gioventù.

MA L’ONU FU UN PROGRESSO?

Cominciamo dall’Onu “originario” e dal diritto internazionale contenuto
nella sua Carta o che direttamente e indirettamente si è venuto a
formare intorno a questo organismo. Cominciamo dall’Onu, perché i bei
tempi di una volta, per Rossanda, non sono soltanto quelli westfaliani,
ma quelli del secondo dopoguerra. Si dice e si ripete: i fondatori
dell’Onu, sotto la spinta di un’umanità progredita, hanno finalmente
sancito il ripudio della guerra, recepito anche dalla Costituzione
italiana con il famoso art. 11. In buona sostanza –e anche formalmente
con una serie di successive norme e dichiarazioni- il diritto
internazionale onusiano ha azzerato, dopo i primi tentativi della
Società delle Nazioni, lo ius ad bellum, il diritto di fare la guerra,
 riconosciuto a seguito della pace di Westfalia del 1648.

Al tempo, però: il diritto alla guerra non era negato prima di
Westfalia, ma, come mettono in evidenza numerosi studiosi, era solo
negato a chiunque non fosse titolare dell’Impero. Per essere più
precisi, non solo l’Impero era l’unico soggetto legittimato alla
guerra, ma questa guerra assumeva i connotati religiosi dello iustum
bellum. La guerra santa o sacra, per di più, si giustificava non per le
sue ragioni, ma per il titolare che l’attivava, mentre chi vi resisteva
era trattato alla stregua non di un normale nemico: questi era abietto,
un fuorilegge, un bandito, un peccatore irredimibile, un infedele. Con
il trasferimento invece ad ogni Stato del diritto alla guerra,
qualunque potesse esserne il motivo (che se indagato unilateralmente o
dal vincitore portava alle aberrazioni della guerra santa), tutti gli
eventuali belligeranti venivano, per così dire, umanizzati, con una
conseguenza molto importante: le parti in guerra, i nemici, diventavano
reciprocamente iusti hostes, nemici “giusti”, con l’obbligo di
osservanza di alcune regole di correttezza, nella conduzione delle
ostilità, compendiate nello ius in bello. La più importante di queste
regole era il divieto di coinvolgere le popolazioni civili, che invece,
in base alla filosofia della guerra santa, che comportava il totale
disprezzo del nemico fino a concepirlo disumano, venivano
tranquillamente massacrate, anzi erano oggetto di doveroso massacro in
nome di dio.

Non ci sfugge che il nazionalismo rivoluzionario (perché
anti-assolutista) sul finire dell’ottocento e soprattutto con la prima
metà del novecento cambia di segno nel nuovo contesto della
competizione capitalistica e imperialistica. Utilizzato sempre di più
in chiave sciovinistica all’esterno e anti-proletaria all’interno,
diventa lo strumento ideologico per scontri bellici, che, dotati ormai
di armi terrificanti capaci di estinguere la specie umana, sono sempre
più programmaticamente iper-distruttivi. Il marxismo ha ben messo in
evidenza e denunciato il carattere reazionario delle guerre prodotte
dalla competizione inter-capitalistica. Non a caso, già a seguito della
guerra franco-prussiana del 1871, la consegna è quella di contrastare
qualsiasi guerra tra gli stati capitalistici e di fare disfattismo
all’interno del proprio paese. Diverso continuò ad essere invece il
discorso sulla guerra di liberazione nazionale. In ogni caso, la ferma
opposizione alla guerra tra paesi capitalistici nulla ha a che vedere
con il pacifismo assoluto o giuridico, che continua disinvoltamente a
sorvolare sulle cause della guerra e anzi, sulle orme di Kant, si
ostina a indicare come rimedio della stessa quello sviluppo del
commercio mondiale che è invece a tutta evidenza un acceleratore di
contese. Come pure nulla ha a che vedere con la pretesa di voler
superare l’anarchia mondiale, dovuta alla esclusiva potestà degli
stati, con il governo mondiale, cioè con una prospettiva in parte
utopica e in parte apologetica della super-potenza di turno. Agli stati
come unici soggetti del diritto internazionale, il marxismo oppose la
soggettività del movimento proletario internazionale.

Ciò precisato, una prima considerazione sul presunto progresso del
diritto onusiano si impone a partire dalle sue fonti e dal contesto. E’
noto che l’Onu –per quanto fosse ispirato alla filosofia germanica,
idealista e pacifista, di Kant e di Kelsen- fu fortemente voluta da
quella che Gordon Poole ha definito “la nazione guerriera”, in
particolare dai molto pragmatici pacifisti dello stampo di Roosevelt e
Truman. Ebbero come collaboratori anche Churchill e Stalin, ma siffatta
collaborazione, sia per la qualità dei soggetti sia per gli interessi
da loro rappresentati, non apportò variazioni al tema suonato dagli
usamericani. L’unica modifica che i “padri fondatori” accettarono –e
non certo per l’insistenza inglese- fu quella relativa
all’ammissibilità della guerra per legittima difesa (art. 51): al
riguardo bisognerebbe chiedersi perché il sodalizio che andò a formare
il Consiglio di Sicurezza era così intransigentemente pacifista da non
aver previsto in un primo momento neppure il diritto alla legittima
difesa, per non parlare del diritto alla resistenza o della legittimità
della guerra di liberazione anticoloniale (quest’ultima decisamente
negata dagli inglesi).

Certo, la scuola di Rossanda, non potendo rinnegare del tutto il
proprio passato ed in particolare l’alleanza “comunista” con la Casa
Bianca per battere il nazifascismo, non concorderà mai con il nostro
sprezzante giudizio sull’imperialismo finanziario –quello democratico-
che prende le mosse da Wilson. Tuttavia, ci concederà la legittima
suspicione sul pacifismo e l’umanitarismo (superiore addirittura a
quello dei westfaliani) di siffatte fonti soggettive; tanto più ce lo
deve concedere, se –nell’ottica dell’etica della responsabilità- vorrà
realisticamente valutare le conseguenze reali venutesi a determinare,
con notevole regolarità, nonostante le belle intenzioni. Rossanda non è
una banale stalinista che crede ancora che il superimperialismo
statunitense (e il regime democristiano in Italia) siano il frutto di
una deviazione storica, di un accidente o di un tradimento, che si
sarebbero sovrapposti all’etica delle convinzioni.

Andiamo poi oltre il sospetto, se teniamo bene in mente le gesta dei
pacifisti cosmopoliti made in Usa a ridosso della nascita dell’Onu.
Hiroshisma – ribatte ostinatamente Bertinotti - non è commensurabile ad
Auschwiz: la prima sarebbe stata teatro di un’ordinaria strage
criminale con limiti di tempo e di spazio, quindi senza finalità di
genocidio; la seconda avrebbe visto proprio un genocidio programmato
che preludeva, ove non contrastato, allo sterminio anche dei popoli
inferiori dell’Est e di qualsiasi razza impura nel cuore dell’Impero.
Si tralascia però, nel voler enfatizzare troppo la singolarità del male
nazista, che la ripetizione della strage a Nagasaki, unitamente alla
prima “prova” atomica, andava ben oltre i limiti di tempo del 6 e del
9 agosto 1945 e ben oltre lo spazio delle due annientate città. O
dobbiamo ancora una volta ricordare cosa significano le radiazioni
atomiche?

Arriviamo infine alla certezza, se non ci dimentichiamo che la White
supremacy del Nord America ha sterminato 50 milioni di nativi (per
potersi espandere ad Ovest) e ha deliziato, in piena modernità, tutti i
reazionari del mondo con una “eccezionalità”, questa sì davvero
incomparabile, esplicitamente invidiata dai nazisti: la schiavitù.
L’hanno abolita con la guerra civile, mentre continuavano a sterminare
i pochi “indiani” rimasti vivi, per sostituirla con l’apartheid.
Sostituita quest’ultima con i ghetti e quell’universo carcerario che
oggi include (per la gioia pure degli imprenditori affamati di lavoro
“nero”) circa di 7 milioni di persone. Per non parlare di
Guantanamo.Tutto ciò ovviamente ancora non appare orrendo e
incomparabile a Bertinotti, perché la gestione dei mass media sta tutta
nelle mani dei carnefici; ma proviamo a immaginare come apparirebbero
le cose, se gli Usa venissero sconfitti da qualche loro concorrente.
Sull’argomento saremmo tentati di richiamare le documentate denunce di
Losurdo, se non fossero inficiate dal tentativo di proporre un’altra
union sacrée contro il nuovo Male Assoluto.

In tali presupposti, non ci sembra azzardato dire che il grande
vincitore (il plurale non cambia molto la sostanza) della II guerra
mondiale, superando le indecisioni –di fatto e di diritto- della
Società delle Nazioni, ancora determinate dal diritto westfaliano,
amasse proclamarsi pacifista universale a tutti i costi, per difendere
i suoi fini particolari. Avendo stabilito il suo dominio (unilaterale,
sicuramente a livello finanziario ed economico), aveva tutto
l’interesse alla pace, cioè a quella che qualcuno ha chiamato la
“stabilità gerarchica”. D’ora in avanti chiunque farà la guerra non
sarà un semplice nemico, ma un nemico dell’umanità, un criminale.
Seguendo l’etica delle convinzioni, è bello a leggersi…e a credere che
il principio sarebbe valso anche contro “i potenti”. Magari si dubiterà
della buona fede di taluni guardiani della pace; ma si spiegherà a se
stessi che questi guardiani sono stati costretti dall’umanità o dalla
lotta di classe a recepire questo pacifismo assoluto: si tratta dunque
solo di vigilare sulle trasgressioni…magari anche di quelle commesse
dai più forti.

Questo ottimismo non ha tentennato neppure di fronte all’ovvia
considerazione che le fonti di produzione del diritto internazionale
hanno un rapporto alquanto diverso con quella pressione popolare, che
le dovrebbe in qualche modo influenzare, dal rapporto che si stabilisce
nei momenti delle rivoluzioni nazionali o demo-borghesi. Viceversa, per
darsi forza persuasiva, si è impegnato ad elaborare concetti quali “la
società civile mondiale”, “l’opinione pubblica mondiale”, per assumerli
per di più come analoghi a quello già equivoco della “società civile”
nazionale. Si sa anche quanto sia controverso il giudizio sulla misura
e sugli effetti che la pressione popolare o la lotta di classe può
avere sulla domestic juridiction (Costituzione, leggi ordinarie,
diritto del lavoro). Non siamo anarchici e ammettiamo anche noi con
Marx che alcune lotte e più in generale i rapporti di forza tra le
classi possono temporaneamente cristallizzarsi in leggi ufficiali
(esemplare quella sulla riduzione della giornata lavorativa); non
trascuriamo, però, neanche la capacità del capitalismo di fagocitare
leggi strappate dalla lotta proletaria nei suoi meccanismi e nei suoi
disegni antiproletari.

In ogni caso, le leggi e le Costituzioni borghesi “avanzate” si sono
date in contesti, in base a presupposti e con finalità assolutamente
assenti nel caso del diritto internazionale. Le nazioni che nacquero
nel sette/ottocento, detto con estrema concisione, avevano due
connotati rivoluzionari: lo scopo di liberarsi dall’assolutismo e la
grande mobilitazione popolare, in alcuni casi veemente e molto corposa
(livellatori in Inghilterra, sanculotti in Francia).
Significativamente, in tali contesti i rivoluzionari borghesi
arrivarono a riconoscere anche normativamente la legittimità di
resistenze e insurrezioni, che invece era negata da quei settori
liberali moderati e già preoccupati dagli eccessi plebei: tra questi
ultimi c’è proprio e molto significativamente il “pacifista assoluto”
Kant. Anche le successive democratizzazioni (eliminazione del voto
censitario, riconoscimento dei sindacati, voto alle donne, legislazione
lavorista) si sono date con la spinta di massa, sebbene –bisogna
aggiungere- queste democratizzazioni siano state neutralizzate dalla
sovrapposizione di istituzioni sempre più centralizzate ed autoritarie,
per così dire, fuori controllo.

Nel caso, invece, del diritto internazionale abbiamo come unici
protagonisti gli Stati o, per essere più precisi, solo i membri dei
loro esecutivi o comunque della diplomazia non eletta. Quanto poi al
diritto onusiano (che supera quello westfaliano), non si può sfuggire
al fatto che gli unici protagonisti non furono nemmeno tutti gli Stati
che si riunirono nell’aprile del 1945 a San Francisco. Ogni virgola,
anche statutaria, fu decisa e scritta dai vincitori della seconda
guerra mondiale ed, in particolare dagli Usa, non solo per il loro
strapotere economico/finanziario (non scalfito in patria neppure da una
bomba a mano), ma anche perché erano gli unici detentori dell’atomica.
Anche il semplice supporre che all’assemblea di San Francisco sia
arrivata, magari tramite i rappresentanti dei piccoli paesi poveri,
l’eco della pressione popolare mondiale, di novelli livellatori o di
sanculotti, magari anche adulterata nelle norme universali scritte dai
potenti, è privo di qualsiasi plausibilità sotto il profilo logico,
storico e sistematico: c’est du cinema!

Ma, il ripudio della guerra non si era sedimentato anche nella
coscienza di massa mondiale a fronte delle mega-distruzioni già
verificatesi e di armi ormai capaci di desertificare l’intero globo
terracqueo? Sicuramente, ma questa coscienza o, se vogliamo, questa
pressione fa solo da sfondo generico e “debole” agli enunciati delle
classi dominanti. Se avesse avuto una rilevanza “forte” e diretta sulla
nuova normativa onusiana del ripudio della guerra, avrebbe dovuto
quanto meno impedire lo sganciamento delle due bombe atomiche. Si
faccia invece di nuovo attenzione alla successione temporale: i “padri
fondatori”, preoccupati –secondo certi pacifisti- per se stessi e per
la pressione della nuova umanità, delle enorme potere distruttivo delle
armi, propongono il 25 aprile 1945 il ripudio della guerra; ad agosto
dello stesso anno (…forse per confermare che le armi erano veramente
distruttive e quindi avevano avuto ragione a proporre il rifiuto della
guerra?) annientano due grandi città proprio con quelle armi capaci di
distruggere l’umanità intera. Non solo, ma negli anni successivi,
mentre cresceva la paura dell’umanità per la guerra, si sono impegnati
freneticamente ad aumentare i loro potenziali atomici.

Se ce la vogliamo dire tutta, nonostante Stalin all’Onu, il senso
comune del popolo di sinistra si rifaceva ancora alla liquidazione
leninista del consesso mondiale: “è un covo di briganti!”

D’altra parte, l’Onu ha dato le prime prove di sé immediatamente,
avallando la nascita dello Stato di Israele nel 1947 e dopo qualche
anno la guerra usamericana di Corea. Ma furono trasgressioni, direbbe
l’idealista normativo o il pacifista giuridico che si ispira a Kant e
Kelsen. Sia pure. Ma non furono percepiti come una trasgressione i
Tribunali di Norimberga e di Tokyo per condannare i criminali di
guerra, a parte qualche critica per salvare la faccia….e salvo stupirsi
oggi del Tribunale speciale per l’ex Jugoslavia, nonostante la sua
straordinaria somiglianza con quei primi due.

Al riguardo, diciamo subito che non mettiamo in dubbio la legittimità
di eliminare un nemico in una guerra o nel corso di una rivoluzione. La
logica che presiedeva quei Tribunali andava però molto oltre. Tanto per
cominciare non erano Tribunali neanche nel peggior senso borghese del
termine. Un Tribunale –come è noto soprattutto agli ultra retorici
democratici- è un organo terzo tra gli accusatori e gli imputati;
ammette il diritto di difesa; non è speciale, se deve giudicare della
violazione di diritti fondamentali ed universali. Quelli di Norimberga
e di Tokyo furono invece costituiti dai soli vincitori; violarono
–anche secondo Kelsen- gravemente il diritto di difesa; erano speciali.
Inoltre, partirono dall’assunto che gli imputati erano criminali (di
guerra), non che erano accusati di crimini di guerra.

Partiamo da quest’ultima circostanza. Se si riteneva che i gerarchi
nazisti e nipponici erano già colpevoli ed erano colpevoli di quei
crimini, bisognava fucilarli subito, a botta calda, senza processo. Ma
perché si ha bisogno di un lungo e spettacolare rito processuale, e per
la prima volta, secondo il nuovo diritto internazionale ispirato dai
principi onusiani, perché si sente il bisogno, a seguito di una guerra,
di condannare delle persone fisiche? Le spiegazioni sono molteplici: il
rito vittimario del capro espiatorio, la vendetta, la necessità di
mettere in scena il trionfo dei vincitori, il contentino alle vittime
del nazifascismo. Sono tutte valide, anche se noi riteniamo che il
motivo più importante –oggettivo e sistemico- sia stato quello di
processare solo le persone fisiche per assolvere il capitalismo:
insomma la guerra sarebbe stata voluta dai pazzi e dai criminali.

Sia quello che sia, pochi capirono all’epoca che quei processi,
giustificandosi con imputati particolarmente odiosi, erano il segnale
di una regressione le cui matrici stavano inscritte proprio nel nuovo
diritto internazionale ultrapacifista a senso unico. Tanto più
avrebbero dovuto capirlo, quando fu rifiutata all’Etiopia la richiesta
di poter organizzare un Tribunale ad hoc per processare Graziani e
Badoglio per i crimini commessi nel Corno d’Africa, nell’ingenua
convinzione che le nuove norme avessero davvero carattere universale.

Successivamente, una serie di avvenimenti limitarono la portata
dell’Onu, facendo ancora valere le regole westfaliane. Come è noto,
infatti, il “glorioso trentennio” del boom economico e del
superimperialismo, fu anche il periodo di incessanti movimenti
antimperialisti nella cornice della guerra fredda. Ma, tutto ciò
avvenne nonostante e contro l’Onu.

Difficile farlo capire ad un antifascista di maniera o a chi
dell’antifascismo ha fatto un affare, ma la colta e pacata Rossanda
dovrebbe cominciare a rifletterci, a tutto voler concedere ai suoi
legami emotivi con il togliattismo.

LA PRIMA AGGRESSIONE ALL’IRAQ E’ FIGLIA DELLA VERA ONU

Soprattutto, questa riflessione sarebbe stata doverosa in occasione
della prima guerra del Golfo nel 1991. Avevano ragione allora i
filosofi e giuristi (Habermas, Bobbio, Cassese), sostenitori
entusiasti della grande coalizione contro Saddam: per la prima volta
l’Onu era se stesso, stava applicando alla grande i suoi principi,
stava manifestando la sua vocazione originaria. Patetici, goffi e
impacciati erano invece quelli, che richiamandosi alla vera Onu,
denunciavano la violazione del diritto internazionale.

Cosa successe allora sul piano formale? Saddam aggredì e invase il
Kuwait. Prima dell’Onu, Saddam avrebbe dovuto aspettarsi che qualcun
altro o anche una coalizione reagisse e lo scacciasse dal Kuwait.
Avrebbe potuto aspettarsi anche l’invasione. Fu invece definito
criminale, fu disumanizzato, aggettivato come nemico dell’umanità,
paragonato a Hitler, contro il quale era giusto mettere su una grande
crociata.

I pacifisti “veri” possono obiettarci che si sono opposti alla
crociata, tuttavia –e pur sapendo che i motivi reali della stessa erano
imperialistici- hanno accettato le regole, il linguaggio e i valori
della guerra santa. Proprio perché riteniamo che molti di loro erano
coraggiosi e disposti a grandi sacrifici, quella accettazione si poteva
spiegare solo con la condivisione della filosofia e della dottrina che
sorreggevano la “grande coalizione” contro Saddam. Da qui ne derivava
coerentemente che la loro opposizione si compendiava nel concetto
“contro la guerra, contro il sanguinario Saddam”. Saddam non veniva mai
additato –neppure dai pacifisti- solo con il suo nome, ma sempre con un
epiteto molto infamante, che in un modo o nell’altro lo mettesse fuori
dall’umanità. Saddam doveva essere e veniva indicato come repellente,
odioso, infernale. Non ci si avvedeva o non ci si voleva avvedere che i
suoi nemici avrebbero meritato mille volte di più simili appellativi.
Neppure quando qualcuno di noi “cinici” faceva notare che la “zoommata”
sui crimini di Saddam serviva solo a far diventare irrilevanti i
crimini commessi con metodi industriali commessi dall’Occidente.
L’unica giustificazione che i pacifisti sapevano dare, affettando
grande indignazione morale, era la qualità del crimine, con le sue
pulsioni barbariche: quindi, non aveva alcuna importanza che Saddam, a
confronto, avesse ucciso mille volte meno di quanto gli venisse
attribuito e comunque mille volte meno dei presidenti statunitensi.

D’altra parte, che i pacifisti avessero introiettato la filosofia
regressiva del diritto internazionale del secondo dopoguerra veniva ben
chiarito da un altro ben noto loro teorema: “la guerra non è uno
strumento efficace per sconfiggere le dittature (poi si aggiunse: e il
terrorismo)”. E’ il caso di spiegare il significato di questo teorema,
non perché sia oscuro, ma perché circolano ancora alcuni imbecilli (non
stiamo parlando di D’Alema) che lo sbandierano come il non plus ultra
dell’opposizione alla guerra.

Punto numero uno: la guerra non viene aggettivata in modo infamante, è
solo una guerra. Punto numero due: i nemici sono le dittature o i
terroristi o i fanatici…per lo più dislocati fuori dal primo mondo;
quindi, quelli che fanno la guerra, dalla cui parte noi stiamo sia pure
criticamente, sbagliano soltanto. Naturalmente, qualche volta e
qualcuno dei pacifisti osava aggettivare anche la coalizione, ma era
chiaro a chiunque che il concetto ordinatore del tutto era: qui ci sono
gli occidentali che sbagliano, dall’altra parte ci sono i criminali, le
belve.

Ma la campagna mediatica ottenne un altro grande risultato e l’ottenne,
non già solo per la possanza delle nuove tecniche, ma proprio perché vi
era condivisione sulla disumanizzazione dell’efferato dittatore che
aveva osato aggredire l’innocente regime del Kuwait: in base al
principio informatore dell’Onu, secondo cui chi inizia una guerra è
nemico dell’umanità. E questa convinzione, al di là di chi pensa di
gestirla a suo modo, produce le conseguenze che abbiamo visto: nel
mondo reale, cioè nel mondo in cui gli unici a poter fare rispettare le
regole sono le grandi potenze ed in particolare una. Il risultato fu la
più ampia discrezionalità e la più completa impunibilità nella
conduzione della guerra: ristabilito il bellum iustum, viene
“giustamente” abolito lo ius in bello. Solo contro Saddam e la sua
cerchia? Neanche per idea. Come nelle crociate, vanno colpiti tutti gli
iracheni. Si cominciò con le popolazioni civili, sul modello Dresda
1945, giacché erano colpevoli di non rovesciare Saddam. Si finì sui
soldati in ritirata nel deserto, che furono perfino sepolti vivi dai
carri armati. E come corollario di questa filosofia si ritenne normale
disquisire in massa e nelle trasmissioni tv sul tiro a segno, di cui fu
fatto oggetto l’Iraq praticamente impotente contro gli eroici piloti
della coalizione. Ci si vantò perfino della guerra immacolata…per noi.
E a rimarcare l’asimmetria dei valori umani si entrò in angoscia per le
sorti di (un solo) Coccolone.

Pare che quei bombardamenti causarono circa 200 mila morti iracheni,
molti dei quali vecchi, donne e bambini. Immaginiamo l’effetto
commovente che avrebbero fatto le interviste a tutti i loro parenti e
amici, facendo soffermare gli schermi sulle lacrime e su ogni piega dei
loro sentimenti. Furono –è vero- più volte denunciati dai pacifisti, ma
sempre con la doverosa premessa di essere nemici del sanguinario
Saddam. Perfino quando si dovettero condannare i successivi scempi
dell’Onu in Somalia, qualcuno non mancava –proprio come un disco
stonato- di condannare prima l’orribile Saddam. L’Onu benedì poi anche
l’intervento francese in Ruanda nell’indifferenza generale per una
“roba” di normale amministrazione, anzi quasi inesistente perché non
inquadrata dalle tv.

QUINDI, LA BOSNIA

E veniamo alla Bosnia/Erzegovina ancora parte della federazione
jugoslava, di cui la Rossanda dovrebbe avere viva memoria. Qui fa
ingresso un altro grande nemico dell’umanità. Per carità, non si tratta
del Fondo Usuraio Internazionale, che “strozza” e impone aggiustamenti
strutturali con le ben note conseguenze: questi è solo censurabile,
diamine è anonimo e asettico, non è l’uomo del banco dei pegni con le
mani sudate. Non si tratta neppure della Germania e del Vaticano che
aizzarono Slovenia e Croazia a staccarsi dalla Jugoslavia: questi
avevano solo commesso un errore. Si tratta invece dei serbi
specializzati, per il loro oscuro passato, in stupro e pulizia etnica:
come al solito e molto en passant, talvolta, ci si ricordava che del
vizietto erano affetti anche i croati e i musulmani bosniaci.

Ora – e con monotona ripetizione - ci accorgiamo tutti che l’ingerenza
occidentale in quella regione non aveva affatto lo scopo di mettere
fine alla pulizia etnica e ci siamo anche resi conto che questo crimine
è stato molto gonfiato. Qualcuno ha constatato pure che a 9 anni dalla
fine degli scontri in Bosnia/Erzegovina c’è ancora il protettorato
occidentale che protegge i suoi affari dati in gestione alla mafia.
Allora però erano in molti ad essere angosciati, fino allo strazio, per
i diritti fondamentali umani calpestati dalle milizie serbe
soprattutto. Quindi come cittadini del mondo dovevamo, in ossequio alla
dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, intervenire per
aiutare altri cittadini del mondo. A ciò non poteva fare più da
ostacolo la desueta e pretestuosa sovranità di un stato. Naturalmente
non mancavano dotte analisi ed allusioni sui veri motivi della smania
occidentale ad intervenire. Ma la circostanza diventava irrilevante,
poiché veniva a coincidere con uno scopo umanitario. Si arrivò perfino
a dire: meglio il rischio di una gestione affaristica che assistere
passivi allo scempio umano (sempre accreditato per vero quello
propinato dai mass-media) che si consumava nella regione balcanica.

Decise di intervenire la Nato, su delega dell’Onu. Mio dio, che orrore
-si blaterò per qualche giorno. Poi anche Rossana Rossanda accettò, con
una stretta nel cuore (se ben ricordiamo, scrisse proprio così),
l’intervento della ben nota organizzazione umanitaria. E ancora una
volta è evidente che ha ragione lei –e noi torto- se si accetta come un
progresso il nuovo diritto internazionale, anzi il nuovo diritto
cosmopolita. Rossanda ci spiegherà, sempre accoratamente, che è certo
vero che viene strumentalizzato, ma bisogna tenerlo per fermo come
valore fondamentale: in altri termini, meglio applicato male che non
applicato affatto.

La sua tesi idealistica –che dopo tante e dure repliche della storia ci
verrebbe da definire come l’idealismo dello gnorri- non vuole
sospettare neppure minimamente che l’ingerenza umanitaria

a)- non sfonderà mai i confini di uno Stato forte neppure se vengono
perpetrati le efferatezze di un Gengis Khan;

b)- viene invece utilizzata proprio dagli Stati forti, per i loro fini
nient’affatto umanitari, con la possibilità di manipolare, attraverso
il monopolio di possenti media, anche i popoli di sinistra se sono già
ben “lavorati” dai suoi ideologi del buonismo;

c)- sfonda quindi, con rigorosa selezione a senso unico, proprio le
barriere degli gli Stati deboli i cui territori devono essere asserviti
alle esigenze della rapina imperialista;

d)- che il pacifismo cosmopolita, anche di sinistra, con il suo codazzo
di ong, è la protesi filantropica delle aggressioni imperialiste.

Queste non sono supposizioni o, come diceva quel “genio” di Habermas,
illazioni suggerite dalla “esegesi del sospetto”. Secondo questo
signore evidentemente la realtà è proprio quella selezionata e messa a
fuoco della rappresentazione mediatica o quella delle dichiarazioni o
delle leggi. Essendo il noumeno (economico-finanziario) davvero
inesistente, i marxisti o le persone serie, che cercano di capire le
cause e i motivi di una guerra o di un’aggressione, sono semplicemente
persone sospettose…forse all’unico scopo di discreditare le brave
persone. Habermas, con le sue elucubrazioni filosofiche di
“superficie”, ci ha riportato alle scuole elementari, ove i mediocri
maestrini democristiani ci spiegavano che la prima guerra mondiale
scoppiò a causa dell’attentato all’arciduca d’Austria. Prima della
nostra generazione, spiegavano –contro i sospettosi di allora- che
Mussolini aveva inviato nel Corno d’Africa si suoi gloriosi soldati per
liberare le faccette nere dalla schiavitù in cui li teneva il Negus.

Queste sono a tutta evidenza descrizioni di quanto è successo che solo
un intronato come Bush (che però ha l’attenuante di non essere un
filosofo) si affanna a coprire con una retorica da osteria.

ORA PERO’ L’ONU VIENE EMARGINATO E IL SUO DIRITTO TRASGREDITO

Naturalmente, le risorse della sinistra irretita nella “democrazia
diffusa”, come le vie del signore, sono infinite. Dalla guerra del
Kossovo in poi il diritto internazionale è stato sempre più violato
dagli Usa e soci; nel contempo l’Onu è stato emarginato e di esso si
chiede una controriforma. Dunque, piatto ricco mi ci ficco. Togliatti
docet: dobbiamo raccogliere le bandiere che la borghesia ha gettato nel
fango. E la giustezza della tesi aveva una certa auto-evidenza. Solo
che, mentre Togliatti poteva giocare destramente (anche nel senso di
“con destrezza”) contro l’involuzione autoritaria della borghesia,
opponendo qualcosa che era stato borghesemente rivoluzionario, quelli
che oggi vogliono sollevare dal fango le bandiere dell’Onu non hanno la
stessa possibilità di destreggiamento. Non esiste infatti un’Onu
originaria progressiva: sia per le sue fonti di produzione, sia per le
sue strutture, sia per il suo effettivo funzionamento, l’Onu –quando ha
funzionato- è stato uno strumento delle potenze imperialiste (in
particolare degli Usa) per aggredire i paesi deboli che accennavano ad
un minimo di ribellione.

Non c’è allora che richiedere la riforma dell’Onu, incalza la sinistra
“di mezzo”. Ma questo argomento lo tratteremo a parte, perché qui ci
interessava dimostrare che l’Onu, con il suo corredo normativo e i suoi
presupposti filosofici, non è stato un progresso rispetto alle
relazioni internazionali stabilite ai tempi eroici della borghesia: è
anzi –come ha detto Ian Clark- è il compimento del percorso iniziato
dalla Santa Alleanza. Ne consegue che la violazione del diritto
internazionale onusiano non ci sprofonda nel medioevo, giacché
l’involuzione era già avvenuta con l’Onu, ma una necessità
dell’imperialismo egemone di venire allo scoperto per fronteggiare le
grandi turbolenze che lo mettono in discussione. 

Non stiamo qui a riportare le tesi – cui aderiamo - sul declino degli
Usa. Ora, si può opinare sulla irreversibilità di siffatto declino, ma
non si può disconoscere che gli Usa, con il suo sodalizio variabile,
sono costretti a venire allo scoperto e per farlo hanno bisogno di
infrangere le regole precedenti del gioco. Così facendo devono mettere
da parte la loro ipocrisia portando sul fronte anche tutti i filosofi,
ideologi e giuristi che l’avevano sorretto. A tal riguardo, non è di
poco conto che i Bobbio, gli Habermas, i Cassese hanno dovuto
giustificare – proprio loro che avevano ispirato il pacifismo
cosmopolita e indirettamente anche il pacifismo militante di base - la
svolta, buttando a mare la loro fiducia illimitata nel diritto
internazionale quale strumento di riduzione o di regolazione della
violenza. Quando infatti è stata aggredita la Serbia, dovendo convenire
che con tale atto si violava la Carta dell’Onu, hanno così sintetizzato
il loro improvviso realismo: la guerra è sì illegittima ma è però
giusta dal punto di vista sostanziale, spiegando che la giustizia non
può essere fermata dalle leggi. Come dire: la legge segue la forza... e
perché no? – come dicevano i nostri pratici antenati - “ex iniuria
oritur ius”, le leggi sorgono dalle violazioni delle leggi.

Cosa ha prodotto questo nuovo comportamento con il suo neo-realismo
giuridico? Sempre più gente è scesa in piazza disincantata e sempre
meno gente è rimasta a casa a invocare le virtù salvifiche del diritto.
Con un imperatore così nudo diventa perfino patetico un ministro come
Frattini che a “Porta a Porta” deve suggerire a destra e a manca ai
giornalisti le parole che devono dire e le parole che devono evitare.
Non usate la parola occupazione, evitate la parola resistenza, tutt’al
più parlate di guerriglia, ma è meglio continuare a dire terrorismo,
meglio ancora orribile terrorismo; fate sapere che i civili italiani
non sono mercenari, spiegate che si tratta di lavoratori, gente che
vuol fare un po’ di soldi per sposarsi.

Ora possiamo capire che la situazione sta diventando pericolosa, che
questa situazione ci chiama alla necessità di uno scontro sempre più
duro. Ma dire che tutto ciò è un regresso, o, più precisamente, dire
che è un regresso lo sbriciolarsi della mistificazione dell’Onu e della
sua bolsa retorica, francamente, non riusciamo a capirlo da un punto di
vista comunista o anche semplicemente dal punto di vista di chi
vorrebbe migliorare realmente il mondo.

E’ UN REGRESSO L’ATTUALE RIVOLTA?

Ma è anche difficile considerare un regresso la rivolta attuale di
alcuni popoli. Qui non stiamo a discutere sui limiti ideologici di
queste rivolte e della possibilità/necessità che i comunisti le
appoggino direttamente. Ci limitiamo al confronto con il passato.

Orbene, noi sappiamo che è facile screditare queste rivolte valutando i
loro (non)programmi e i loro valori, confrontando il loro
particolarismo con l’universalismo astratto delle rivoluzioni
demo-borghesi, in primis quella francese. Anche su questo aspetto –in
particolare sull’ostilità alla democrazia occidentale- ci sarebbe molto
da discutere, tuttavia, se non vogliamo essere ipocriti, dobbiamo
ammettere che il vero orrore è provocato dalle forme di lotta
utilizzate in queste rivolte, forme sempre opportunamente selezionate
ed enfatizzate dagli eserciti mass-mediatici, che non si limitano ai
giornalisti embedded, ma abbracciano anche a quelli che una
superficiale e auto-illusionista opinione di sinistra accredita come
critici: al riguardo, è il caso di citare la “rossa” (di capelli) Lilli
Gruber che in un primo collegamento a “Porta a Porta” si lascia
scappare un paio di volte la parola resistenza; rimproverata
dall’impettito Frattini che l’invitava a usare la parola “terrorismo”,
nel secondo collegamento adotta senza alcun ritegno, con servile
accondiscendenza, il vocabolario suggeritole.

E dobbiamo anche ammettere che la sostanza della vertenza, che vede
come protagonisti da una parte gli invasori e dall’altra i popoli
arabi-musulmani, viene ampiamente trascurata quando si tratta di
valutare se la “resistenza” abbia natura regressiva o progressiva.

   Cominciamo allora – per valutare la fondatezza del pessimismo di
Rossanda - dall’oggetto del contendere, che certamente si avvale anche
della forma religiosa ma che tuttavia è l’elemento prevalente. D’altra
parte, è ben singolare – nelle discussioni vere - che per gli
aggressori valga la sostanza e per gli aggrediti (forse perché
stupidi?) debba valere la forma. Ve la spieghiamo prima con
un’esperienza fatta in Tunisia due anni fa.

Con chiunque parlavamo i valori islamici erano al primo posto, tant’è
che ci si doleva del fatto che il governo filo-occidentale faceva di
tutto per scoraggiare perfino la frequentazione delle moschee: anche
con pedinamenti, perquisizioni e fermi, se qualche musulmano si
azzardava ad una frequentazione assidua. Veniva anche fuori che i due
personaggi più amati erano “tranquillamente” Bin Laden e Saddam
Hussein. A quel punto, ritenendo di beccare in fallo i nostri
interlocutori, facevamo presente che il loro islamismo era alquanto
strano se veniva affidato ad un profeta come Saddam, notoriamente laico
o comunque non musulmano. Per niente turbati, però, ci rispondevano che
essi erano realisti in politica quanto noi: Saddam era –per loro- il
simbolo del petrolio arabo, quindi della possibilità del loro
miglioramento economico/sociale, perciò era anche il loro profeta.

Tornando a noi, la vexata quaestio è ben messa in evidenza da articolo
di Eugenio Scalari datato 11 aprile: “In Iraq, in Iran, in Arabia,
negli Emirati, giacciono nel sottosuolo gli otto decimi (do you
understand, guagliò: 8/10?) delle riserve petrolifere mondiali. La
maggioranza povera, l’esercito dei dannati, ha individuato un capro
espiatorio e un tesoro inestimabile che in qualche modo gli appartiene.
Ma è pur vero che lasciarlo in quelle mani equivarrebbe a una
rivoluzione planetaria dei rapporti di forza. La trappola irachena è
questa: non ci si può restare impigliati né uscirne. Non è il Vietnam,
è molto peggio del Vietnam.”

Gli usamericani si trovano in una situazione più difficile di quella in
cui si trovarono in Vietnam, dove andando via persero solo la faccia e
il prestigio. In Iraq (e dintorni) non si tratta più del solo prestigio
o di perdere un territorio; essi – come del resto anche noi europei -
non possono assolutamente lasciare nelle mani degli iracheni il
petrolio. Non solo per l’importanza dei suoi pozzi, ma perché una
ritirata in Iraq darebbe la stura ad un movimento alluvionale in tutti
i paesi dell’Opec. In estrema sintesi, l’Occidente dipende dalle fonti
di energia dei paesi poveri, quindi devono essere – in un modo o
nell’altro - presenti – come padroni - in questi paesi. Nulla di nuovo,
ovviamente, anche se ogni tanto anche a sinistra si parla d’altro o si
pensa che del nocciolo della questione gli arabi siano ignari,
essendosi scatenati solo per fanatismo religioso o per pruriti
etnico-tribali.

Noi vogliamo sottolineare che di tanto è consapevole anche il più
analfabeta degli iracheni. La preziosa materia liquida, o gassosa che
sia, informa anche il loro spiritualismo come informa il
fondamentalismo religioso nordamericano.

Stabilito questo, va fatta un’altra piccola precisazione: la contesa
non vede due concorrenti alla pari che cercano di ripartirsi la torta,
ma un imperialismo, che ha sempre rapinato il petrolio del medio
oriente (e non solo), e gli arabi che non vogliono farselo più
rapinare, tanto più se si considera (altra questione sostanziale) che
la rapina passa attraverso l’occupazione militare e un umiliante
protettorato. Il rifiuto di non farselo rapinare non è una questione di
dettaglio, perché il petrolio per loro è vitale: senza il petrolio si
muore di fame, con il petrolio si può aspirare ad una vita dignitosa.
Detto questo, farebbero meglio a seguire un partito comunista, perché
oggi ogni borghesia, diversamente da quando era impegnata
prevalentemente contro l’assolutismo, è “reazionaria” contro il proprio
proletariato. Non lo fanno e probabilmente ciò non dipende solo dai
pessimi “comunisti” che si aggirano per quei luoghi…ma anche dagli
evanescenti e indifferenti comunisti che vivacchiano nel primo mondo.
Ad ogni modo, va ripetuto che essi non stanno lottando per imporre la
loro rapina, stanno lottando per non subirla; e va ripetuto, perché ci
sono comunisti chez nous che ancora si servono del perfido alibi,
secondo cui quella sul petrolio è una contesa inter-borghese, con il
sottinteso messaggio subliminale che, se vince la borghesia araba, essa
diventerà a sua volta rapinatrice a danno dell’Occidente.

In altri termini, non vediamo da un punto di vista “programmatico”
(ancorché per un comunista insufficiente ai fini del medesimo appoggio
che si dava nelle rivoluzioni contro il semi-feudalesimo) cosa ci sia
di regressivo nella rivolta degli arabi. Tanto più non ci sembra
regressiva la rivolta, sotto questo profilo, se si considera il termine
di paragone della scuola di Rossanda, cioè la resistenza italiana.
Questa è vero che vide protagonisti numerosi comunisti di diverse
correnti e sfumature, possiamo sostenere che essi furono anche
l’elemento prevalente e più attivo, ma ci pare di ricordare che
finirono per accettare un programma niente affatto esaltante o più
avanzato di una pretesa borghese sia pure democratica…in un paese in
cui –si diceva- c’erano tutte le condizioni oggettive per il
socialismo. Come ripete Gabriele Polo sul Manifesto del 22 aprile, “La
resistenza da noi ha un significato preciso, si accompagna ai valori
costitutivi di una democrazia rappresentativa che ha affondato le
proprie radici nell’onda lunga del 1789 francese. In Iraq sappiamo
contro cosa si resiste ma non per cosa”.

In altri termini, il risultato della lotta resistenziale fu la cacciata
di un esercito nazista e di un regime fascista, comunque già agli
sgoccioli per i colpi subiti dagli Alleati; la sostituzione del
fascismo con il regime democristiano che impose una feroce
ricostruzione cui si subordinò il movimento operaio; la presenza di
basi militari statunitensi. Certo, non siamo ancora alla logica della
Castellina sulla sua dichiarazione di voto per Kerry contro Bush che “è
meglio zero che niente”.

Ad ogni modo, anche a voler accettare un’interpretazione più
ottimistica della resistenza italiana , è innegabile che non fu neppure
una resistenza anti-imperialista, per due evidenti motivi: primo,
l’Italia era esso stesso un paese imperialista; secondo, finì per
sostenere (da alleato o da valletto, poco importa) l’imperialismo
americano, poi riconosciuto il peggiore di tutti. Almeno gli iracheni
–bisogna riconoscerlo- si stanno non solo battendo come leoni contro un
imperialismo possente e senza neppure ricevere l’aiuto di qualche altro
imperialista…a meno che non si voglia farneticare teoria e considerare
già imperialista un signore con 2 miliardi di dollari (ammesso che li
abbia ancora e ammesso che sia bene accetto dall’attuale resistenza)
alla guida di un migliaia di soldati di dio.

Veniamo infine al punto più delicato: le forme di lotta, il terrorismo,
i kamikaze. Marco D’Eramo qualche mese fa spiegava in modo magistrale,
in un articolo sul Manifesto (e quindi la Rossanda l’avrà sicuramente
letto) che il terrorismo moderno non è una malattia dell’anima che si
contrae in certe terre per ataviche predisposizioni; dipende invece
dall’assoluta asimmetria dei mezzi militari venuta ad accentuarsi
proprio negli ultimi decenni. Con ciò non vogliamo dire che si possa
vincere l’iper-potenza degli eserciti imperialisti solo con il
terrorismo o prevalentemente con il terrorismo; anzi, già oggi, con
buona pace di Ingrao/Revelli/Bertinotti, l’insurrezione irachena di
aprile, per quanto ancora disorganizzata, sta dimostrando di poter
mettere in seria difficoltà l’armata imperiale. Intendiamo solo dire
che certe forme di lotta, per quanto siano sbagliate quando diventano
sistematiche, indiscriminate e assorbenti, non sono regressive, né si
diffondono per l’assenza di una forza comunista umanizzante. Per essere
più chiari, anche un partito comunista forte e organizzato non potrebbe
facilmente schivare, in Palestina o in Iraq, certe forme di lotta. In
Algeria se ne fece uso; in Vietnam (che Rossanda non vorrà mettere
minimamente in discussione) se ne fece uso.

Sicuramente, poi, non sono regressive, sempre se il termine di
paragone, sotto il profilo delle forme di lotta, è la resistenza
italiana. E ci sentiamo di affermarlo anche di fronte al massimo
dell’orrore provocato dallo scempio dei cadaveri dei quattro mercenari
americani a Falluja. E’ vero: un comunista non fa e non può lasciar
fare di queste cose. Però, ad un gruppo di pacifisti inglesi è venuto
subito in mente il paragone con piazzale Loreto ed ha mandato su
Internet le foto accostate dei 4 americani deturpati appesi ai fili
della corrente elettrica e del duce a testa in giù.

A noi è venuta in mente qualche considerazione in più. Se parlate in
termini di valori umani, entrambi gli scempi non dovrebbero avere
giustificazioni del tipo: Mussolini si era reso colpevole di centinaia
di migliaia di assassinati dai bombardamenti americani, i mercenari
erano l’emblema dei nord-americani colpevoli dell’assassinio di un
milione e mezzo di esseri umani solo in Iraq con in più la beffa di
voler democratizzare a tutti i costi e rapinare a più non posso.
Nessuna giustificazione, dunque! Però c’è una differenza tra i due
scempi, visto che Rossanda insiste sulla diversa e più umana violenza
laddove sono presenti i comunisti o i valori universali.

Lo scempio di Falluja si verifica a botta calda ad opera di una folla
adirata, che peraltro continua a subire la violenta e devastatrice
intromissione in casa propria da parte di ladri armati che non sono
disposti a scappare di fronte alla reazione del padrone di casa: anche
la scienza giuridica moderna e razionale considera questo crimine meno
grave di quello commesso a freddo e con premeditazione. Mussolini,
invece, fu prima ucciso alla frontiera da partigiani che avevano
lucidamente e giustamente deciso di ucciderlo; poi con ragionato
calcolo politico, dopo qualche giorno, il suo cadavere fu portato a
Milano e con tutta calma…inglese… fu esposto al disprezzo della folla
che, naturalmente, non gli risparmiò l’arabo trattamento. O no?

 
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