Da: rifondazione_paris ( info_prc_paris @ yahoogroups.com ) riceviamo e
giriamo:

Da "Liberazione", 25 giugno 2004

http://www.liberazione.it/giornale/040625/archdef.asp

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Quel viaggio dall'ovest all'est

Storie dell'altra Europa

Saint-Avold (Mosella) e Jelez (Polonia)

E' un po' pazzesco ma incoraggiante il viaggio che hanno affrontato la
settimana scorsa i lavoratori della fabbrica Renol di Saint-Avold:
hanno attraversato la Germania in autobus, per andare a incontrarsi,
solo per poche ore, con i lavoratori polacchi che lavorano nello stesso
gruppo, che produce cerchioni per automobili.

I 170 dipendenti della Ronal-France si battono da due mesi contro la
chiusura della loro fabbrica. Mentre la direzione del gruppo accampava
il pretesto di difficoltà economiche per giustificare il blocco della
produzione, hanno scoperto che aveva creato in Polonia, nel 1995 e nel
2001, due fabbriche comprendenti oltre 1.000 operai. Quanto alle
difficoltà economiche, in realtà si trattava semplicemente della voglia
di ricavare sempre maggiori profitti, sfruttando la manodopera polacca.

Invece di entrare nella logica del "ci stanno soffiando il nostro
lavoro", i dipendenti della Ronal-France hanno deciso di invertire
l'andazzo dell'essere messi in concorrenza fra loro, cercando di
delineare un abbozzo di solidarietà al di là dei confini. È stato
l'avvocato del comitato di fabbrica, la dottoressa Blindaüer, a
lanciare l'idea dei viaggi.

Prima di arrivare in Polonia, i lavoratori si sono preliminarmente
spostati in Germania, in due fabbriche del gruppo anch'esse minacciate
di chiusura, a Först e a Landau.


1.000 chilometri di strada

Martedì 15 giugno, alle ore 20, l'autobus parte dalla fabbrica di
Saint-Avold, per affrontare 1.000 chilometri di strada, da un bacino
carbonifero a un altro, dalla Lorena verso la Bassa Slesia. A bordo una
quarantina di operai, tra cui una sola donna, e una manciata di
capisquadra. Quelli che restano sorveglieranno la fabbrica, garantendo
un minimo di produzione.

«Vogliamo spiegare ai dipendenti polacchi la politica del gruppo»,
dicea Stéphane Zerves, delegato della CGT. «Vogliamo dire loro come si
è comportata la Ronal con noi e che c'è il rischio che faccia
altrettanto con loro, perché abbiamo sentito parlare di un progetto di
spostamento dalla Polonia all'Ucraina… Lo scopo del viaggio è quello di
incontrare queste persone che non parlano la nostra stessa lingua e
hanno una cultura diversa dalla nostra, ma hanno gli stessi interessi
che abbiamo noi». Nell'autobus si organizzano partite a carte, girano
birra e barzellette. Un clima da comitiva in vacanza, malgrado le
prospettive pesanti. «Ci si sfoga per allentare la pressione», racconta
un dipendente. «Il tribunale ha respinto il deposito del bilancio e ci
ha concesso un rinvio fino al 29 giugno, ma poi non si sa che cosa
succederà». «Se la fabbrica chiude, nella zona non c'è lavoro per noi»,
conferma Stéphen Zervos. «Il sindaco di Saint-Avold ha dichiarato che,
dopo la chiusura del bacino carbonifero, l'industria in Lorena è
finita, largo ai servizi. Ma servizi per che cosa? L'informatica, la
pulizia, ma di che cosa se non c'è più industria?».

L'indomani, risveglio a Dresda, dopo qualche ora di sonno spezzato.
Zervos distribuisce vitamine. All'alba, l'autobus fa il suo ingresso in
Polonia. Dopo un giro per la fabbrica della Ronal di Walbrzych,
finalmente si arriva a Jelcz. L'obiettivo è incontrare gli operai al
cambio turno, alle ore 14, e di distribuire loro volantini scritti in
polacco. È qui che l'avvocato Blindaüer, che è riuscita a convincere un
rappresentante di Solidarnosc ad associarsi all'iniziativa, deve
incontrarsi con gli operai. Solidarnosc ha posto le sue condizioni: che
la frase "spezzare la macchina delle delocalizzazioni" fosse messa tra
virgolette nel volantino, per non passare per terroristi… Che a quelle
della Cgt fossero abbinate le bandiere della Cftc. Infine, che si
andasse davanti alla fabbrica a gruppetti, perché la legislazione
polacca vieta le manifestazioni di più di 15 persone se non
autorizzate. Prima dell'iniziativa, il sindacalista polacco spiega che
gli operai polacchi della Ronal «non sono favorevoli alla creazione di
un sindacato, per paura del padrone. Probabilmente, non dimostreranno
simpatia per la vostra causa, perché qui il tasso di disoccupazione è
molto alto, intorno al 25%, da quando sono state chiuse le miniere.
Quindi, si accontentano di avere un lavoro, anche se mal pagato».

Sul posto la realtà è un po' diversa. C'è già la polizia, per vigilare
su quel che succede, e una ventina di guardie di una società privata,
schierate a una cinquantina di metri dai cancelli. Alle ore 14, gli
operai non escono in massa: verosimilmente la direzione li ha
trattenuti per non farli incontrare con i loro colleghi francesi. Ma
quello scarso centinaio di operai che escono prendono volentieri il
volantino.


260 euro al mese di salario

Un dipendente racconta a una giornalista di Solidarnosc che le
condizioni di lavoro sono dure, con i rumori, le temperature elevate
della fonderia e le pressioni dei capi, ma almeno si è sicuri di avere
un salario a fine mese, cosa che non succede in molte altre fabbriche.
«Provano a mettere insieme un sindacato, ma il padrone non vuole e fa
pressione», traduce. Guadagnano 1.200 zloty al mese, pari a 260 euro,
cioè 4,5 volte meno dei lavoratori francesi. «È poco, perché i generi
alimentari e la luce elettrica costano cari», commenta la giornalista.
«Con un salario del genere, non si può andare al cinema né acquistare
libri, né permettersi alcun extra per i figli. Qui, però, il salario
minimo è di 820 zloty (180 euro) e il governo ha diminuito i sussidi di
disoccupazione. Si versano se il tasso di disoccupazione in una zona è
elevato, ma si aggirano intorno… ai 600 zloty soltanto (130 euro).
Comunque, sono contenti di vedere i sindacalisti francesi e capiscono
questa iniziativa. Sono sorpresi di trovarseli ai cancelli della loro
fabbrica, perché normalmente è alla televisione che vedono le
manifestazioni in Francia, le bandiere, i lavoratori ben organizzati».
Sulla strada, alcuni abitanti di Jelcz e soprattutto dei lavoratori di
altre fabbriche della zona si fermano per prendere i volantini e dare
un'occhiata. Un operaio di Ronal-France, d'origine polacca e bilingue,
spiega al megafono la situazione della sua fabbrica e lancia messaggi
di solidarietà. I manifestanti gridano allo scandalo quando le guardie
cominciano a strappare di mano i volantini di mano agli operai che
entrano. Dopo più di un'ora, il via vai termina. Il corteo leva le
tende.

Al ritorno, nonostante la brevità dell'iniziativa, gli operai non
appaiono delusi. «È importante avere fatto passare un messaggio, avere
fatto vedere ai polacchi la nostra forza», commenta Tierry Clauss, un
delegato della Cgt. «Si vede che hanno paura. Ma anche da noi si aveva
paura, e anche da noi la Ronal ha sempre cercato di fare fuori la Cgt.
I militanti erano messi da parte, piazzati nei posti di lavoro più duri
e senza mai affiancarli con altri lavoratori. All'inizio della
disoccupazione parziale, un anno fa, la Cgt ha lanciato il segnale
d'allarme chiedendo di conoscere la situazione; ma, dal momento che gli
altri sindacati si sono opposti, non si è potuta otttenere a procedura
della verifica contabile. Altrimenti, si sarebbe saputo molto prima che
cosa stesse tramando la direzione». Michel, 39 anni, operaio d'origine
congolese che lavora alla Ronal da tre anni, ritorna «scandalizzato
dalla povertà della Polonia». «In Africa si è convinti che tutti i
paesi europei siano sviluppati, ma sono rimasto impressionato da quello
che ho visto qui. La gente ci guardava come se fossimo dei ricchi. La
delocalizzazione è una brutta cosa, perché la nostra fabbrica chiuderà
e ci troveremo per strada, con le famiglie da sfamare, con i debiti da
pagare. Ma è positivo per quelli che stanno qui: un salario, anche se
magro, permetterà loro di sfamarsi. Ad ogni modo, le fabbriche si
spostano là dove otterranno maggiore profitto, decidono loro e noi
subiamo». Cédric, 23 anni, nipote di un minatore siciliano trapiantato
in Lorena, spera che «le cose si muoveranno in Polonia, che gli operai
cominceranno a rivendicare salari uguali ai nostri. La direzione ha
strappato loro di mano i volantini come se fossero dei bambini, e loro
hanno lasciato fare perché non c'è lavoro, c'è la miseria. Quelli che
hanno il potere sono davvero dei mascalzoni».


Lavoratori ancora più saldi

Qualche giorno dopo le elezioni europee, molti dichiarano di essersi
astenuti. Uno ha infilato nell'urna un adesivo della Ronal. La maggior
parte identificano l'Europa con la delocalizzazione, anche se la Ronal
si è insediata in Polonia parecchi anni prima dell'allargamento
dell'Unione Europea dello scorso 1° maggio. «Rifiuto tutto quello che è
politica europea, perché mi toglie il posto di lavoro», prorompe André,
anche lui d'origine polacca. «Tutti dicono che è colpa dell'Europa, ma
non ne sono sicuro, perché le delocalizzazioni risalgono a prima
dell'allargamento, e arrivano anche a Taiwan e in altre parti del
mondo», azzarda un altro operaio. «Piuttosto è colpa dei finanziatori,
che giocano con i posti di lavoro per guadagnare sempre più soldi».

Arrivando a Saint-Avold, dopo un'altra notte passata in autobus,
Stéphan Zervos si compiace, perché questo viaggio ha rinsaldato ancora
di più i lavoratori. In attesa della scadenza del 20 giugno, quando il
tribunale deve pronunciarsi sulla liquidazione dell'impresa, i
dipendenti della Ronal proseguiranno con le loro iniziative. Sembra che
abbiano preso gusto ai iviaggi: questa mattina vanno a Bruxelles, per
incontrare il deputato comunista europeo Francis Wurtz.

Fanny Domayrou

L'Humanité, (23-6-2004)
(Traduzione dal francese di Titti Pierini)


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Delocalizzazione, una pratica nota in tutto il mondo ed in costante
aumento

La delocalizzazione delle imprese all'estero non è un fenomeno nuovo né
provinciale. E' un modo di concepire l'impresa diffuso e in costante
espansione. Soprattutto negli ultimi 10 anni e soprattutto nell'area
Europea, delocalizzare la produzione sembra essere diventata una parola
d'ordine. E se gli Stati Uniti hanno sempre avuto specialmente il
Messico come territorio prelibato di caccia, Francia, Italia e Germania
hanno sempre preferito rivolgersi ai Paesi dell'Europa orientale,
Balcani, Romania e Paesi dell'ex Urss in primis, soprattutto dopo la
caduta del muro di Berlino: «Quelle che noi chiamiamo le filiere
internazionali - spiega Luciano Vasapollo, docente di economia
aziendale della facoltà di scienze statistiche de La Sapienza - seguono
questa rotta e non quella africana perché nei Paesi dell'Est la
manodopera non è solamente priva di diritti e tutele, oltre che,
ovviamente, a bassissimo costo, ma è anche molto specializzata».
Seguendo il dogma del maggior profitto a minor costo possibile,
delocalizzare un'impresa ha pochi e chiari metodi: «La parte del ciclo
produttivo ad alto valore aggiunto viene mantenuta in Italia, o dove
sia, mentre il processo produttivo viene portato all'estero». Una
prassi che trova il suo successo al momento della vendita: «Il prodotto
rientra non completamente finito in patria, dove viene definito e
etichettato con il marchio che permette di avere ricavi infinitamente
superiore ai costi». Una procedura che, fra l'altro, permette al
produttore di non pagare neanche le tasse alle frontiere.

Proprio ieri sono stati diffusi i dati Istat sul trend delle
importazioni ed esportazioni italiane: rispetto al mese di aprile, le
prime sono aumentate dell'1,3%, le seconde del 10,5%. Le esportazioni
sono incrementate specialmente verso l'Est: Turchia (+43%), Russia
(+28,8%) e Cina (+22,2%), e hanno riguardato soprattutto il settore dei
prodotti petroliferi raffinati (+72,5%) e dei metalli (+32,2%). Niente
di strano né di «sintomatico della ripresa economica», come ha
commentato il vice ministro delle attività produttive Adolfo Urso, se
rapportato al flusso in uscita degli investimenti diretti che sono
«investimenti con finalità strategiche di controllo o di coordinamento
delle imprese», come per esempio le azioni. Secondo i dati Ice, questi
investimenti sono esponenzialmente aumentati negli ultimi 10 anni,
arrivando (l'ultimo dato è del 2000) a contare 2.573 imprese a
partecipazione italiana, per un totale di 218.866 miliardi di vecchie
lire di fatturato. Il nord-est, soprattutto l'area veneta è il luogo in
cui le rilevazioni hanno uno scatto verso l'alto. I settori produttivi
maggiormente interessari da questo fenomeno sono (o meglio, erano fino
al 2000) nell'ordine, quello degli apparecchi meccanici, alimentari
bevande e tabacco, e proprio i metalli e i prodotti derivati. «E' la
nuova forma di colonialismo, non la morte del fordismo» - conclude il
prof. Vasapollo - «La fabbrica non ha chiuso i cancelli, si è solo
spostata in un altro Paese». Nella tabella degli indici di investimenti
diretti, il settore del petrolio figurava al penultimo posto. Ma le
guerre in Iraq ed in Afghanistan non c'erano ancora.

AM