(francais / italiano)

L'eroica resistenza del popolo iracheno (2)

1. Gli italiani (brava gente) hanno sparato sull'ambulanza?
(M. Forti, 20/8/2004)
2. La rivolta dei senza scarpe
(S. Chiarini, 21/8/2004)
3. Dietro le torture di Abu Ghraib c'è anche la mano dei medici
statunitensi. Il rapporto della rivista inglese Lancet
(L'Unita' 20/8/2004; Il manifesto 21/8/2004)

4. Une vidéo empoisonnée: L'affaire Nicholas Berg
(Reseau Voltaire, 18 mai 2004)


=== 1 ===

il manifesto - 20 Agosto 2004

Hanno sparato sull'ambulanza?

Micah Garen ha filmato i militari italiani a Nassiriya. Ma la notizia è
scomparsa, come lui
MARINA FORTI

I militari italiani hanno sparato contro un'ambulanza, a Nassiriya il 6
agosto, durante una battaglia contro le milizie di Moqtada al Sadr? No,
secondo la versione ufficiale delle autorità militari italiane: quel
giorno hanno sparato contro un veicolo che non si era fermato all'alt e
sventato così l'attacco di un'auto-bomba lanciata contro di loro. E
invece sì, secondo le immagini e le testimonianze raccolte di un
giornalista americano là presente: le truppe italiane hanno centrato
proprio un'ambulanza, uccidendo 4 persone tra cui una donna incinta.
L'autore di quelle immagini è il giornalista Micah Garen, la cui sorte
è ora appena a un filo: scomparso a Nassiriya la sera di venerdì 13
agosto, rapito insieme al suo interprete Amir Doushi forse da persone
legate al traffico di oggetti antichi trafugate (è su questo che stava
lavorando da mesi a Nassiriya), forse passato da un gruppo di rapitori
a un altro: mercoledì sera il rapimento è stato rivendicato da una
sedicente «brigata dei martiri», che in un filmato messo in onda dalla
tv araba Al Jazeera minaccia di ucciderlo entro 48 ore (cioè entro
questa sera) se le truppe americane non si ritireranno da Najaf.

La situazione è doppiamente complicata, e per questo separiamo, almeno
per ora, i due fatti: il rapimento del giornalista e gli avvenimenti di
quel 6 agosto. E soffermiamoci sulla seconda parte della storia,
quell'ambulanza.

Le immagini girate da Micah Garen sono andate in onda al Tg3 e poi al
Tg2, la sera del 7 agosto, in un servizio firmato da Agostino
Mauriello: si vedeva un'ambulanza bruciata e un uomo (l'autista,
sopravvissuto) racconta che gli hanno sparato contro. Ci sono anche
altre testimonianze. Nel servizio parla anche un portavoce dei militari
italiani: smentiscono, dicono che loro hanno sparato a un veicolo che
non si è fermato all'alt, il veicolo è esploso e questo prova che era
un'auto- bomba.

La cosa meriterebbe un'indagine: invece è caduta nel silenzio quasi
generale, e sembra sepolta anche ora che Micah Garen rischia la vita.

Eppure un seguito c'è stato, e ne parla proprio Garen in un messaggio
e-mail inviato l'11 agosto al Comitato per la protezione del
giornalisti (Cpj, organizzazione con sede a New York: vedi la nostra
ricostruzione del rapimento sul manifesto di ieri): «Dopo la messa in
onda siamo stati chiamati dalla polizia militare italiana per essere
interrogati. Io sono stato trattenuto fino alle 5 del mattina», scrive
Garen: «Volevano i miei filmati ma io gli ho dato un Cd con le
interviste». Il giorno dopo è preso e interrogato di nuovo, come anche
il suo interprete. «A quel punto ho lasciato il campo. Anche se sono
fuori dalla loro zona di responsabilità e sono un cittadino americano,
ho paura che continuino a perseguitarmi in qualche modo, visto che
hanno aperto un'inchiesta militare». Ci hanno interrogati come
criminali, me e quelli della Rai, precisa lo stesso giorno Garen in un
messaggio a un amico (riportato dall'Unità il 18 agosto).

I movimenti di Garen sono segnati: l'11 agosto lascia il campo italiano
di cui era ospite non più gradito (il portavoce del comando italiano
Ettore Sarli ha precisato ieri all'agenzia Ansa che il giornalista se
n'è andato di sua volontà), e va a Baghdad. Il 12 agosto è a Baghdad,
visita l'ufficio del New York Times (stava lavorando a un articolo per
loro) e quel pomeriggio torna a Nassiriya; il 13 si fa vivo con sua
madre ma quella sera è rapito. La notizia del rapimento circola lunedì,
il 16.

Nel frattempo, la notizia dell'ambulanza è scomparsa. La Rai non ne
parla più: dopo la messa in onda di quel servizio il ministero della
difesa telefona per congratularsi e la Rai decide di tacere: dire che
ha ricevuto pressioni è il minimo. L'Associazione Articolo 21 ieri ha
parlato di «censura» e Stefano Corradino commenta che questa è una
conseguenza del giornalismo embedded. Quanto allo stato maggiore della
difesa italiana, la ricerca di commenti o precisazioni è stata finora
inutile: dopo un lungo inseguimento telefonico siano stati indirizzati
a un numero cellulare disperatamente irraggiungibile.


=== 2 ===

il manifesto - 21 Agosto 2004

La rivolta dei senza scarpe

Al Sadr beffa gli Usa lascia la moschea di Ali e scompare nei
sotterranei di Najaf. Un suo sermone è stato letto ieri nella vicina
Kufa ma di lui non c'è traccia
STEFANO CHIARINI

La consegna delle chiavi del mausoleo di Ali agli uomini dell'anziano
capo spirituale degli sciiti, l'aytollah Ali al Sistani, e l'uscita
dalla grande moschea con la cupola ricoperta di mattonelle d'oro, 7.777
per l'esattezza, dei seguaci armati del leader sciita radicale Moqtada
al Sadr, potrebbe portare ad una sospensione del conto alla rovescia
proprio sul baratro di un assalto finale alla città e ai luoghi santi
sciiti. Affidando il mausoleo all'ayatollah Ali al Sistani, Moqtada al
Sadr potrebbe così essere riuscito a salvare per il momento la vita sua
e dei suoi uomini e a segnare alcuni importanti punti nella difficile
partita a scacchi della resistenza all'occupazione americana. A questo
punto il rispetto di una eventuale tregua e della clausola sulla base
della quale i luoghi santi dovranno essere protetti non dalla polizia
irachena facente capo al governo collaborazionista Allawi ma dalle
guardie stipendiate dall'Hawza, una sorta di Vaticano degli sciiti
composto dai più importanti ayatollah con tutti i loro seminari,
dipenderà dall'autorità dello stesso Sistani, la massima «fonte di
ispirazione» per tutti gli sciiti. Di fronte all'offerta di al Sadr,
l'ayatollah al Sistani - esponente della tradizione «pietista»
favorevole ad un disinteresse delle gerarchie nei confronti della vita
politica (tutti i poteri sono illegittimi in attesa del ritorno del
Mahdi, basta che non colpiscano la religione) - già oggetto di forti
critiche per aver lasciato Najaf nel momento più drammatico e per non
aver sostenuto apertamente la resistenza all'occupazione, non poteva
che accettare di ritornare in gioco. Anche perché ricuperare il
controllo sul mausoleo di Ali, da aprile nelle mani degli uomini di
Moqtada al Sadr, senza spargimento di sangue non è certo per Sistani
poca cosa sia nei confronti dei suoi seguaci che degli stessi occupanti.

Moqtada al Sadr, da parte sua, per il momento, non solo sembra essere
riuscito a sganciarsi dall'assedio Usa (scomparendo nei pozzi e nei
cunicoli di Najaf come il Mahdi che tornerà alla fine dei tempi a
portare la giustizia al mondo), ma esce dal confronto politicamente
assai più forte di quanto non fosse ai primi di agosto. E' infatti la
seconda volta dallo scorso aprile, che gli Stati uniti tentano di far
fuori lui, le sue milizie, il sostegno di cui gode e più in generale
tutti i movimenti di resistenza all'occupazione, sunniti e sciiti,
senza riuscirci. L'attacco Usa era scattato ai primi di agosto quando,
rompendo una tregua raggiunta con al Sadr a giugno, i marines hanno
tentato con un colpo di mano di arrestarlo e, non riuscendoci, hanno
cominciato ad arrestare suoi collaboratori nel centro sud del paese e
ad attaccare le postazioni delle sue milizie. Parallelamente con
pesanti bombardamenti e una offensiva generalizzata i comandi Usa
cercavano di riprendere il controllo delle città sunnite e sciite dalle
quali erano stati praticamente cacciati e che non riconoscono più il
governo collaborazionista di Allawi. La loro offensiva, al di là della
uccisione di centinaia di resistenti e di cittadini iracheni, per il
momento non sembra abbia in realtà portato alcun risultato positivo per
gli occupanti e per il governo Allawi. Il fatto che i partiti sciiti
presenti nel governo, in particolare «al Dawa» e il Consiglio superiore
della rivoluzione islamica in Iraq (lo Sciri) nella loro dirigenza (e
con il determinante beneplacito di Tehran) avessero dato via libera
all'offensiva americana che avrebbe tolto loro di mezzo un sempre più
popolare concorrente, non è stato sufficiente per chiudere il cappio
attorno ad al Sadr. Non è stato possibile per la popolarità del giovane
leader radicale che da tempo, sull'esempio degli Hezbollah libanesi,
gioca la carta della «resistenza nazionale» contro gli occupanti e
della «unità del paese» contro le tendenze secessioniste delle province
curde e contro la kurdizzazione della città di Kirkuk con la cacciata
delle popolazioni arabe e turcomanne. Non a caso in tutte le iniziative
di al Sadr c'è sempre la vecchia bandiera irachena mentre spesso nella
polemica contro il clero conservatore e pietista di Najaf, l'esponente
sciita ha sostenuto che il loro disinteresse nei confronti della
resistenza deriverebbe dalle origini «straniere», soprattutto iraniane,
dei massimi esponenti religiosi sciiti. Questa carta «nazionale» e gli
attacchi ai partiti presenti nel governo gli hanno provocato la
freddezza e il mancato appoggio del governo iraniano, assai più vicino
allo Sciri, ma un forte consenso all'interno del paese, non solo tra
gli sciiti ma anche tra i sunniti. Anche il gesto di aver affidato le
chiavi alle autorità religiose irachene di Najaf escludendo la polizia
e il governo Allawi (considerati strumenti degli americani) costituisce
agli occhi degli iracheni un' altra soluzione «nazionale» incruenta
contrapposta a quella militare sostenuta dagli Usa. Al Sadr, ancora una
volta, è riuscito a saldare l'elemento «nazionale», quello religioso
della «difesa dei luoghi santi» con quello sociale di un riscatto, oggi
e non un domani con l'arrivo del Mahdi, rivolto «ai senza scarpe» del
paese, alle masse di giovani delle periferie delle città che, non solo
a Sadr city, ma anche in altre sette città del sud del paese sono
affluiti in massa ad infoltire le schiere dei suoi seguaci. Tale
popolarità ha finito per isolare il governo Allawi e per dividere lo
stesso fronte sciita dei partiti che sostengono l'occupazione. Se poi
al Sadr riuscirà ad uscire dall'assedio conservando le sue milizie, i
suoi seguaci, e il controllo delle più importanti città del sud
dell'Iraq, allora il futuro del governo Allawi e della presenza
militare americana in Iraq sarà segnato. Anche se lo stesso al Sadr
dovesse essere ucciso o fatto prigioniero.


=== 3 ===

http://www.uruknet.info/?s1=3&p=4924&s2=21

Denuncia di un settimanale scientifico: «Medici militari Usa coinvolti
nelle torture»

L'Unità

20 agosto 2004 - Un medico inserì un catetere nel cadavere di un uomo
morto sotto tortura per far risultare che era ancora vivo quando arrivò
in ospedale. Un medicò certificò come morte naturale il decesso di un
prigioniero torturato e poi sospeso al soffitto della sua cella dove
morì per strangolamento. Un altro medico, intervenuto perché un
prigioniero aveva perso conoscenza durante le torture, lo rianimò e poi
consentì ai torturatori di continuare. Sono solo alcuni dei casi,
documentati, in cui medici militari americani hanno preso parte ai
maltrattamenti sui prigionieri, in violazione sia delle convezioni
internazionali che delle norme etiche che devono regolare la
professione medica

La complicità dei medici e degli altri operatori sanitari militari
statunitensi nelle torture e negli abusi sui prigionieri in Iraq,
Afganistan e Guantanamo è denunciata da un articolo e dall’editoriale
dell’ultimo numero di The Lancet ( http://www.thelancet.com/home ),
prestigioso settimanale britannico di medicina, una delle più
accreditate riviste scientifiche del mondo.

«Quasi tre anni ci chiedemmo se il mondo occidentale prendesse ancora
sul serio i diritti umani... La risposta alla domanda che ci siamo
posti tre anni fa è chiaramente un “no”» sostiene l’editoriale (
http://www.thelancet.com/journal/vol364/iss9435/full/
llan.364.9435.analysis_and_interpretation.30569 ) attribuibile al
direttore Richard Horton «I diritti umani sono una vittima del
disperato tentativo di ottenere dei risultati nella guerra contro il
terrorismo. La questione che dobbiamo ora porci è: quanta parte hanno
avuto i medici in questi abusi?».

La domanda di Horton non è soltanto retorica, come meticolosamente
spiega Steven H. Miles in Abu Ghraib: its legacy for military medicine,
Abu Ghraib, la sua eredità per la medicina militare (
http://www.thelancet.com/journal/vol364/iss9435/full/
llan.364.9435.review_and_opinion.30574.1 ). Il racconto di Miles è
basato esclusivamente su documenti ufficiali, che documenta con
puntiglio in ben 59 note a pie’ di pagina nelle quali vengono citate
relazioni, testimonianze, dichiarazioni ufficiali. Nessuno scandalismo,
dunque, ma solo verità documentali.

Il quadro che ne esce è ugualmente terrificante, a cominciare dalla
partecipazione di alcuni medici alla definizione e alla messa in
pratica di «interrogatori coercitivi dal punto psicologico e fisico».
Miles, citando la testimonianza del colonnello dell’Us Army Thomas M.
Pappas, riferisce in particolare che «un medico ed uno psichiatra hanno
contribuito a mettere a punto, approvare e monitorare gli interrogatori
ad Abu Ghraib». Comportamenti contrari all’etica medica e alle regole
internazionali che regolano la professione.

Oltre agli episodi citati all’inizio, nell’articolo di The Lancet sono
enumerati moltissimi altri episodi raccapriccianti che hanno visto
coinvolti medici o personale paramedico. Come nel caso due medici che
consentirono alle guardie di suturare direttamente lesioni provocate a
dei prigionieri dai pestaggi in carcere. Miles riferisce anche di
certificati di morte falsi che attestavano cause di morte naturale
quando invece erano evidenti segni di violenza sui cadaveri.

«Abu Ghraib lascia una pesante eredità» conclude l’autore. «La
reputazione della medicina militare, delle forze armate americane e
degli Stati Uniti è stata danneggiata. Dopo Abu Ghraib, la
compromissione della legalità internazionale ha aumentato i rischi per
i prigionieri di guerra perché ha diminuito la credibilità degli
appelli internazionali in loro favore».


(Per leggere il testo integrale degli articoli di The Lancet è
necessaria una registrazione gratuita al sito del settimanale)

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC
_TIPO=&TOPIC_ID=37016

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il manifesto - 21 Agosto 2004

NUOVE TESTIMONIANZE

I piccoli dottor Mengele dell'esercito americano all'opera a Abu Ghraib

Un ruolo attivo

I referti degli iracheni morti sotto interrogatorio falsificati per far
sparire ogni prova di violenza. Il rapporto della rivista inglese Lancet
CARLO MARIA MIELE

Dietro le torture di Abu Ghraib c'è anche la mano dei medici
statunitensi. I dottori dell'esercito americano impiegati nel campo di
prigionia alle porte di Baghdad avrebbero lasciato mano libera ai
militari, coprendo i casi di abuso, creando falsi referti, ma talvolta
assumendo anche un ruolo attivo. Ad affermarlo è l'autorevole rivista
scientifica britannica Lancet, che in un lungo articolo, corredato da
fonti e testimonianze, ricostruisce l'operato dei nuovi Mengele. Il
rapporto parla di malati abbandonati a se stessi, di abusi sui
prigionieri con handicap e di infezioni lasciate imputridire.
All'interno della prigione dell'esercito, ai detenuti non sarebbe stato
garantito nessuno dei diritti previsti dalla convenzione di Ginevra.
Entrare ad Abu Ghraib significava essere dimenticati per sempre. Le
autorità del carcere non effettuavano i controlli medici regolari, non
denunciavano i casi di malattia o i decessi, né comunicavano alle
famiglie eventuali trasferimenti dei malati in altre strutture. Gli
iracheni morti durante le torture venivano classificati come deceduti
per infarto, colpo apoplettico, o «cause naturali». Un medico - si
legge nel rapporto - inserì un catetere intravenoso nel corpo di un
prigioniero morto durante gli interrogatori per far credere che fosse
stato trasferito ancora vivo in ospedale.

Partendo dagli atti del congresso degli Stati uniti e dalle
testimonianze giurate di prigionieri e soldati, l'autore dell'indagine,
il professore dell'università del Minnesota Steven Miles, arriva ad
affermare che «il sistema medico dell'esercito americano non ha
protetto i diritti umani dei detenuti, talvolta collaborando negli
interrogatori delle guardie carcerarie, senza denunciare i ferimenti e
i decessi causati da maltrattamenti». Nel lungo elenco degli abusi
rilevati vi sono casi di pestaggio, bruciature, asfissìa, minacce,
umiliazioni sessuali e isolamento. In questo scenario dell'orrore, la
colpa dei medici non sarebbero stata semplicemente quella di essere
rimasti spettatori passivi. I racconti dei detenuti, inclusi nel
rapporto, superano ogni immaginazione. Gli interrogatori ad Abu Ghraib
avvenivano in presenza di un medico e di uno psichiatra: quando il
prigioniero, vittima dei pestaggi, perdeva i sensi, loro intervenivano
per rimetterlo in sesto, permettendo agli aguzzini di continuare il
proprio lavoro. Altre testimonianze parlano di ferite sui prigionieri
causate e suturate personalmente dalle guardie del carcere, per
esplicita concessione dei medici. «Le giustificazioni legali - scrive
Miles - come chiedersi se i detenuti fossero prigionieri di guerra,
soldati, combattenti nemici, terroristi, cittadini di stati caduti,
ribelli o criminali, fanno perdere di vista la questione centrale». Le
tante dichiarazioni di principi sottoscritte dagli Stati uniti, e lo
stesso regolamento interno dell'esercito, infatti, «proibiscono ai
militari di fare uso della tortura e dei trattamenti degradanti su
tutti gli esseri umani». Un discorso che dovrebbe valere maggiormente
per i medici. L'esercito statunitense, per bocca di un suo portavoce,
si è affrettato a smentire il rapporto, definendolo «approssimativo»,
mentre alcune organizzazioni mediche americane hanno sostenuto che, se
le accuse venissero confermate, i medici di Abu Ghraib dovrebbero
essere messi sotto giudizio.

In un suo editoriale, il Lancet fa un appello a creare una nuova
commissione di inchiesta sulle torture, che sappia analizzare maggiori
elementi di quanto è stato fatto finora. Le prospettive future però
appaiono tutt'altro che incoraggianti: «Lo stato attuale di crisi del
diritto internazionale - conclude Miles - ha aumentato i rischi per gli
individui che diventano prigionieri di guerra dopo Abu Ghraib, perché è
diminuita la credibilità degli appelli internazionali per loro».


=== 4 ===

http://www.reseauvoltaire.net/article13960.html

Une vidéo empoisonnée

L'affaire Nicholas Berg

L'insoutenable violence de la vidéo de l'assassinat de Nicholas Berg a
suscité des réactions immédiates, passionnelles et contradictoires.
Pourtant, une analyse rigoureuse met en évidence la complexité
réfléchie de la scénarisation et la polysémie délibérée des images.
Loin d'être le témoignage brut d'une mise à mort, cette production a
été conçue pour renforcer les préjugés et les antagonismes de la guerre
des civilisations. Il ne s'agit pas d'un reportage, mais d'un outil
élaboré de propagande.

18 mai 2004

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Une séquence vidéo de l'assassinat de Nicholas Berg a été diffusée par
trois grandes chaînes de télévision anglo-saxonnes, le 12 mai 2004. Le
lendemain, son authenticité a été confirmée par la CIA qui a précisé
avoir identifié le meurtrier en la personne d'Abou Moussab Zarkaoui.
Cependant l'interprétation d'un document suppose une analyse rigoureuse.

Origine de la vidéo

L'existence de ce document a été rapportée par le bureau de Reuters à
Dubaï, le 12 mai. Il aurait été trouvé sur le site arabophone
http://www.al-ansar.biz/. Dans l'heure qui suivit, il était diffusé par
Fox news, CNN et la BBC. Cependant, les chaînes arabes qui souhaitaient
se le procurer ne le trouvaient pas sur le site indiqué. Toutes les
versions actuellement disponibles proviennent des trois grandes chaînes
anglo-saxonnes.
Le site internet de référence était hébergé par une société malaise.
Devant l'afflux de connections, celui-ci l'a retiré de sorte qu'il a
disparu aujourd'hui. Le nom de domaine était la propriété d'Arab Press
House, une respectable société de presse basée à Londres et sans lien
avec des islamistes.

Style littéraire de la vidéo

Le document, d'une durée de 5 minutes 37 secondes, est d'une trop
faible définition pour permettre la lecture de détails. Il est composé
de deux séquences distinctes (la présentation et l'exécution). Il a été
monté pour limiter la scène de la décapitation, mais le montage son est
distinct du montage image. La bande semble avoir été post-sonorisée, de
sorte qu'il est impossible de savoir si la voix que l'on entend lire le
communiqué est celle de l'assassin, ni si les cris sont ceux de sa
victime. Cependant, la désynchronisation peut être une conséquence de
la compression de la vidéo pour la diffuser sur le Web. La caméra est
d'abord posée sur un pied, puis elle est portée à l'épaule pendant les
deux plans du meurtre pour renforcer le stress du spectateur.

La mise en scène est à double lecture selon les publics :

Pour les uns, Nicholas Berg s'identifie en donnant les prénoms de ses
parents, frère et sœur, laissant entendre qu'il est juif. Puis des
islamistes encagoulés dénoncent les États-Unis et le président
pakistanais. Ils le décapitent alors pour venger « les abus sataniques
d'hommes et de femmes musulmans à la prison d'Abu Ghraib ». La violence
difficilement soutenable de la scène induit le spectateur à penser que
la barbarie des meurtriers est sans commune mesure avec les abus des
GI's. Les islamistes paraissent incarner le Mal.

Pour les autres, Nicholas Berg est vêtu d'un pyjama orange identique à
celui des détenus de Guantanamo et porte une barbe comme les
islamistes. Il se présente assis sur une chaise identique à celles
visibles sur les photos de tortures à Abu Grahib. Des personnages
encagoulés, se présentant comme des islamistes, déversent un torrent de
haine. L'un d'entre eux, portant une bague en or ce qui est strictement
prohibé chez les fondamentalistes, sort un couteau et l'égorge. En
reproduisant le sacrifice abrahamique, mais un substituant un homme à
l'agneau, il commet un sacrilège. La violence difficilement soutenable
de la scène induit le spectateur à penser que les États-Unis sont prêts
à n'importe quelle barbarie contre leurs propres ressortissants pour
stigmatiser les musulmans.

Incohérences du document

L'accoutrement des ravisseurs évoque moins des résistants au milieu
d'une guerre sanglante qu'une nécessité d'« uniformes » de terroristes
tous identiques pour les besoins du tournage.
Deux des « terroristes arabes » portent leur main gauche au visage
durant la séquence. C'est un geste qui n'est pas courant, même par
inadvertance, dans la culture arabe où la main gauche, réservée à
l'hygiène, ne doit pas être portée au visage.
La méthode employée, soit un découpage à l'aide d'un couteau-scie
militaire vise à reproduire le rituel abrahamique et est inadapté à la
situation. Les décapitations sont généralement effectuées d'un coup sec
à l'aide d'une lame lourde et bien affûtée, qu'il s'agissent d'une
hache ou d'un sabre.
Le corps de la victime ne bouge pratiquement pas lors de la
décapitation, ou plutôt du découpage de sa tête. Il n'éprouve pas les
convulsions qui sont habituellement observées lorsqu'on décapite un
être humain ou un animal.
La quantité de sang qui s'échappe du corps et de la tête semble très
faible. Cet effet est peut-être dû au montage vidéo, le time code
laissant supposer une coupure vidéo de 9 minutes. Le sang se serait
écoulé lors de la séquence supprimée.

Identification de l'assassin

La CIA n'a pas indiqué à partir de quels éléments elle avait identifié
l'assassin comme étant Abou Moussab Zarkaoui. Depuis plusieurs mois,
l'Agence s'efforce de présenter cet individu comme le successeur
d'Oussama Ben Laden.
On ne comprend pas pourquoi M. Zarkaoui, si c'est lui, cacherait son
visage qui est reproduit sur des milliers de tracts proposant 10
millions de dollars de récompense pour son arrestation.
Dans des rapports précédents, la CIA avait indiqué qu'Abou Moussab
Zarkaoui avait perdu une jambe lors d'un bombardement en Afghanistan.
Il a également été précisé que des points étaient tatoués sur sa main
gauche. Or, l'assassin n'est ni handicapé, ni tatoué.
M. Zarkaoui est réputé avoir un accent jordanien. Ce qui n'est pas le
cas de la voix que l'on entend. Mais si la vidéo est post-sonorisée,
cette voix n'est pas forcément celle de l'assassin.

Identification d'Al Qaïda

La traduction de la bande son diffusée dans les médias états-uniens
fait référence à Al Qaïda. Il s'agit en fait d'une erreur qui a été
rectifiée depuis par le National Virtual Translation Center.

Identification de la victime

Les forces de la Coalition ont découvert avant la diffusion de la vidéo
un corps décapité qu'elles ont identifié comme étant celui de Nicholas
Berg. Il a été rapatrié aux Etats-Unis et inhummé.
La famille du défunt l'a reconnu sur la vidéo.

Profil de la victime

L'entreprise de la famille Berg (père et fils) figurait dans la liste
des « ennemis de l'État » publiée sur le site pro-Bush freerepublic. Le
père s'était engagé dans le mouvement anti-guerre A.N.S.W.E.R., présidé
par Ramsey Clark.

Lors d'un séjour d'études dans l'Oklahoma, Nick Berg aurait prêté son
adresse de messagerie avec son mot de passe à quelqu'un qu'il ne
connaissait pas, qui lui-même l'aurait prêté à un proche de Zacarias
Moussaoui, le Français accusé d'avoir participé à l'organisation des
attentats du 11 septembre. Berg avait par la suite été interrogé par le
FBI qui avait conclu à une coïncidence et donc à son innocence.
Pourtant, Carol Devine-Molin (enterstageright.com) affirme qu'il avait
de nouveau été interrogé bien après le 11 septembre, ainsi que lors de
sa détention précédant sa disparition. Le FBI aurait dans cette
hypothèse de sérieux doutes sur lui.
Nick s'était rendu en Israël auparavant, sans prendre soin de demander
aux douanes israéliennes de ne pas apposer de tampon, comme le font par
prudence beaucoup d'États-uniens voyageant au Moyen-Orient.
Selon le Seattle Post-Intelligencer, « Berg a d'abord travaillé en Irak
en décembre et janvier avant d'y retourner en mars. Il inspectait les
installations de communication, dont certaines étaient détruites par la
guerre ou les pillards. Lors de ces séjours en Irak, il a travaillé sur
une tour d'Abou Ghraib, prison dans laquelle ont été commises des
tortures. » Il l'a fait en compagnie de Aziz Kadoory Aziz, également
connu sous le nom de Aziz al-Taee, avec qui il avait lancé son
entreprise de tours de communications. Or, M. Kaddory Aziz est le
fondateur du Conseil irako-américain. Farouche partisan de l'invasion,
il intervenait parfois sur Fox News et organisait des manifestations de
soutien aux troupes avant la guerre. Il est réputé agent de la CIA.
Selon le Guardian, la société de Berg venait de se voir attribuer un
contrat dans le cadre du consortium Iraqi Media Network (un programme
de la NED/CIA).
Seuls des sociétés de confiance pouvaient soumissionner aux marchés des
télécommunications à Abu Ghraib et pour l'Iraqi Media Network.
Nicholas Berg a été arrêté sans papiers par le commandement de la
Coalition à Mossoul, le 25 mars. Il a été incarcéré prétendument pour
le temps de son identification. La famille Berg a fait appel vainement
au consulat pour le faire libérer. Puis, elle a porté plainte, le 5
avril, contre les autorités US pour détention illégale, mentionnant le
fait que les diplomates n'avaient plus aucun pouvoir pour intervenir
sur son cas. Il a été relâché peu après, le 8 avril. Pendant cette
période, il a été interrogé par trois fois par le FBI. Les autorités
ont déclaré avoir tenté de le persuader de quitter le pays pour sa
propre sécurité, sans pour autant l'avoir rapatrié de force.

Conclusion

L'histoire de la victime donne l'impression qu'elle a d'abord été
proche d'un islamiste et des milieux anti-guerre, puis qu'elle a été
retournée jusqu'à travailler avec un agent de la CIA, sans que les
services états-uniens aient été certains de sa fidélité. Cette dualité
ouvre la possibilité de nombreuses interprétations de l'événement.
Compte tenu de son parcours, de son montage, de sa scénarisation et de
ses incohérences, on ne peut considérer cette vidéo comme un témoignage
au premier degré. Au contraire, sa violence et sa mise en scène
polysémique traduisent une volonté d'égarer le spectateur. Elle
apparaît dès lors comme un outil de propagande de la guerre des
civilisations, suscitant une lecture différente selon les groupes
culturels et renforçant les antagonismes.