Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari
Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava
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Franco Altimari ha scritto:
 
"REPLICA ALL'ARTICOLO KOSOVO, IL LUOGO DEL SILENZIO.
 Fate bene a intervenire per ridare forza a quanti si battono per
creare un Kosovo veramente multietnico e 'plurale'. Ma, con molta
franchezza, devo dirvi anche che per combattere il nazionalismo
albanese non potete basarvi sulla propaganda del nazionalismo serbo,
che - non dimentichiamolo! - è stato all'origine del dramma del Kosovo
e dei Balcani! Ma neppure gli sciovinisti serbi più radicali si erano
sinora spinti al punto, come fa nel suo articolo Mariella Cataldo da
voi acriticamente ripreso, da dichiarare che nel  Kosovo, a causa delle
pesantissime violenze subite, la presenza serba si è ridotta dal 90%
(sic!) all'1,5%!  Cerchiamo di essere seri e di non trasformarci in
megafoni dei nazionalismi balcanici!
Cordialmente
Franco Altimari - Rende"

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A Franco Altimari
 
    Sulla storia delle guerre jugoslave degli anni 1990 corre da anni
la vulgata che sarebbero state causate dal "nazionalismo serbo". Ma
questa è la storia scritta dai vincitori e dal tribunale dell'Aja. Essa
si fonda sulla demonizzazione dei serbi.
Se vogliamo invece comprenderla e non fare propaganda di guerra per la
NATO, occorre un altro approccio che guardi alle contraddizioni interne
della Jugoslavia, al suo giugulamento economico da parte del FMI sin
dagli anni '80, ai disegni e alle contese tra le grandi potenze per il
controllo di un'area strategicamente importante.
 
    Una precisazione sulle percentuali  nel rapporto tra popolazione
serba e albanese nel Kosmet. Nell'articolo citato è evidentemente
saltato un rigo: quel rapporto, come si può leggere nel libro di Uberto
Tommasi e Mariella Cataldo "Kosovo buco nero d'Europa", si riferisce
alla cittadina di Vitina nel sud del Kosovo, zona controllata dalle
truppe USA, dove ci siamo recati personalmente e abbiamo praticamente
incontrato quasi tutta la minuscola comunità serba rimasta, gli orfani
dei morti ammazzati e dei desaparecidos a partire dall'estate del 1999,
quando, dopo i violenti bombardamenti della NATO, si sono ritirate le
forze della RFJ e sono rientrate, al seguito delle truppe NATO, le
bande dell'UCK, seminando il terrore.
    I rapporti ufficiali dell'ONU, già prima dei pogrom del 17-20 marzo
2004, parlavano di circa 250.000 profughi serbi, rom, gorani e delle
altre minoranze non albanesi e di migliaia di uccisi e desaparecidos.
Quei pochi profughi che hanno provato a rientrare hanno desistito per
il clima insostenibile creato intorno alle minoranze e le continue
vessazioni cui sono sottoposti. I pogrom di marzo hanno reso ancor più
invivibile per le minoranze serbe la terra del Kosovo, in cui abitavano
da generazioni.
    Dopo i pogrom di marzo il parlamento serbo ha avanzato la proposta
di un piano per la soluzione politica del problema del Kosovo", in cui
sostiene che nella situazione attuale l'unica possibilità di garantire
il ritorno delle minoranze è la creazione di zone, prevalentemente ai
confini con la Serbia,  amministrate direttamente dai serbi, poiché
attualmente le istituzioni multietniche sono solo una fictio juris, che
non dà alle minoranze non solo alcun potere, ma nessuna garanzia di
sicurezza. Tutti i partiti albanesi del Kosovo, da quello del
"moderato" Rugova (che non ha sollevato un dito contro i vergognosi
pogrom di marzo 2004) alle filiazioni dirette dell'UCK, hanno respinto
il piano poiché rivendicano immediatamente l'indipendenza. I paesi
della UE, cui il piano è stato presentato, lo hanno anch'essi respinto.
Sicché attualmente non c'è alcuna proposta concreta da parte della
"comunità internazionale"per il rientro degli oltre 250.000 profughi
nelle loro terre. (Allego in calce il capitolo del libro "Kosovo buco
nero d'Europa" in cui si parla del piano).
 
    Le notizie che ci arrivano dal Kosovo in questi ultimi giorni ci
parlano di una situazione ancor più drammatica: lì dove sono le
minoranze serbe non viene erogata la luce; si notano sensibili
movimenti di armi, come se l'UCK, rivestita nei panni rispettabili di
un "primo ministro" Haradinaj, si preparasse al gran botto finale con
l'annunciata proclamazione dell'indipendenza nel 2005. 
    Evocare in questa situazione lo spettro del "nazionalismo grande
serbo" mi sembra qui francamente paradossale. E' una strategia di
diversione per chiudere gli occhi di fronte a questa realtà. La
popolazione serba è oggi trattata come i peggiori paria del mondo; ci
sono circa un milione di persone scacciate dalle Krajne, dalla Bosnia,
dal Kosovo, che vivono in condizioni estremamente precarie e su cui la
"comunità internazionale", così solerte a bombardare la Jugoslavia,
tace.
    Nel sud della Serbia il fuoco del movimento armato separatista
albanese cova sotto la cenere; una situazione non troppo dissimile è
anche nel Sangiaccato (come oggi chiamiamo in occidente la regione di
Novi Pazar tra Montenegro e Serbia dove è presente una consistente
componente di religione musulmana), in cui anche la crisi economica del
settore tessile, che aveva prosperato prima dell'aggressione della NATO
del 1999, viene utilizzata da movimenti separatisti antiserbi.
    Nei Balcani le potenze imperialiste giocano il loro sporco gioco
sulla pelle delle popolazioni. Gli USA sostengono oggi apertamente
l'indipendenza del Kosovo e i movimenti separatisti del Montenegro
contro l'Unione Europea che -  dopo aver regolato i conti con la RFJ,
che con Milosevic si opponeva alla NATO e alle politiche neoliberiste
(a questo proposito si possono leggere utilmente i rapporti degli
istituti strategici e delle banche occidentali degli anni 1997-2000) -
non ha nulla da guadagnare da una nuova esplosione dei Balcani e da una
ridefinizione, certo non pacifica, dei confini e degli stati.
    Tutta l'economia del Kosovo oggi è un'economia drogata (anche nel
senso che si basa sul traffico e raffinazione di droga), di traffici
loschi e in nero. Le statistiche ufficiali parlano di un tasso di
disoccupazione del 70%. I principali proventi non in nero provengono
dalle truppe di occupazione, dalla base americana di Bondsteel (la più
grande in Europa) e dagli aiuti internazionali (che non sono
investimenti in attività produttive). In questa situazione diventa
relativamente facile soffiare sul fuoco dell'indipendenza e farsi
manovrare dalle potenze imperialiste.
 
    Distinti saluti
    Andrea Catone, Bari
 
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Da "Kosovo buco nero d'Europa", di U. Tommasi e M. Cataldo, edizioni
Achab, Verona, 2004, euro 11,00, pp. 93-96.

[il 50% del prezzo di copertinha dei libri distribuiti direttamente
dalla nostra associazione va al progetto di solidarietà con gli orfani
di Vitina vittime della pulizia etnica antiserba]


Un piano di soluzione politica per il Kosovo

           Il 23 luglio 2004 incontriamo Simić. È un uomo gentile e ci
offre il caffè rendendosi disponibile ad una nostra intervista che dura
parecchio. Lui ringrazia il popolo italiano per le manifestazioni
contro la guerra: “purtroppo, la salvezza degli albanesi è stata una
scusa per i bombardamenti della NATO nella primavera del ’99”. Commenta
tristemente che la politica imperialista ha invaso completamente il
mondo e riconosce nel manifesto di una conferenza che la nostra
associazione, Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari,
ha organizzato a marzo, intitolata “Emergenza Kosovo”, la chiesa di San
Nicola a Priština (oggi distrutta dopo i pogrom di marzo) costruita dai
suoi antenati. Ci dice che il governo e il parlamento hanno redatto la
proposta di un “piano per la soluzione politica alla situazione in
Kosovo e Metohija”, che proprio in questi giorni lui e altri esponenti
del governo stanno illustrando ai rappresentanti di alcuni stati
europei. Infatti, Simić è appena rientrato da Parigi.

           Ci spiega che nella situazione attuale, soprattutto dopo i
terribili fatti di marzo, la minoranza serba in Kosovo può sopravvivere
solo se raggruppata in entità di una qualche consistenza. Secondo la
risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, le Nazioni Unite avrebbero dovuto
sviluppare in Kosovo istituzioni di autogoverno democratico provvisorio
per assicurare condizioni di vita pacifica e normale per tutti gli
abitanti del Kosovo, facendo sì che tutti i rifugiati e gli sfollati
potessero ritornare senza ostacoli alle loro case. Ma ciò che è
accaduto a marzo di quest'anno, dopo cinque anni di amministrazione ONU
(UNMIK) e di presenza NATO in Kosovo – un vero e proprio pogrom e
pulizia etnica nei confronti dei serbi e dei non albanesi – ha rivelato
il fallimento del mandato delle N.U., che non sono state in grado di
proteggere né la vita, né la libertà, né la sicurezza, né le case, né i
siti religiosi e l'eredità culturale della comunità serba (secondo il
rapporto di aprile 2004 del segretario generale delle N.U., 36 chiese e
monasteri ortodossi sono stati danneggiati o distrutti; dal giugno 1999
sono 115 in tutto). Qualche decina di migliaia di soldati della NATO e
di altri paesi non sono in grado di offrire un'effettiva protezione
fisica a un centinaio di migliaia di serbi, alle loro proprietà e
chiese, sparse attraverso un territorio piuttosto vasto. L'intolleranza
nazionalista dimostrata dalla maggioranza della popolazione albanese è
così forte che minaccia letteralmente l'esistenza fisica dei serbi su
una terra che essi hanno abitato con continuità per oltre dieci secoli.
Non ha funzionato, non funziona, il quadro istituzionale sinora
adottato per il Kosovo, esso non è stato in grado di preservare la pace
e difendere i diritti umani. Perciò, continua il nostro interlocutore,
occorre ripensarlo per creare le condizioni di una vita pacifica e
normale per tutti i serbi e gli altri non albanesi e per assicurare ai
profughi un ritorno sicuro e senza ostacoli nelle terre da cui sono
stati cacciati con la violenza. Si tratta di dotare i serbi e le altre
etnie non albanesi di autonomia territoriale. Questo cambiamento non
minaccerà l'integrità territoriale del Kosovo, o i diritti legittimi
della comunità etnica albanese. Il principio della “autonomia
nell'autonomia” (cioè l'autonomia delle comunità serbe e non albanesi
all'interno della provincia autonoma del Kosovo) non significa
rinunciare ad una società multietnica e multiculturale. Tutt'altro!
Anzi, questa è la sola via per renderla possibile. Multietnicità e
multiculturalismo sono un tratto distintivo della storia del Kosovo e
della Serbia, posti come sono al centro del Balcani. Col tempo
l'autonomia territoriale creerà le condizioni per la riconciliazione e
la fiducia reciproca.

           Ma – chiediamo - quest’autonomia territoriale, questo
“decentramento” – i nostri media lo definiscono comunemente
“cantonizzazione” - che implica che i serbi amministrino le
municipalità in cui vivono i serbi e gli albanesi quelle in cui vivono
gli albanesi, non mette forse in discussione il principio della
multietnicità? L’attuale organizzazione territoriale – e qui Simić fa
riferimento a un’idea-base esposta nel piano - si fonda su un'idea
astratta e rivelatasi fallimentare di società multietnica, un'idea che
non tiene conto della situazione concreta, reale, del Kosovo, dove
siamo di fronte ad una società multietnica ancora profondamente divisa.
E così si presume astrattamente che l’autonomia del Kosovo, come fu
definita dalla costituzione jugoslava del 1974, fosse la soluzione
giusta e razionale per le relazioni etniche tra le due principali
comunità, albanesi e serbi. Ma gli albanesi non furono affatto
soddisfatti di essa – come ben mostrò la vasta ribellione dell’aprile
1981 – né i serbi la trovarono accettabile, poiché non salvaguardava i
loro diritti. Bisogna tener presente, infatti, che, a parte il periodo
dell'immediato dopoguerra, la più grande ondata migratoria dei serbi fu
registrata precisamente nei primi anni '80. E ora, dopo l'ingresso
della NATO, la pulizia etnica di serbi, quella di più vaste proporzioni
nella storia, è avvenuta ben prima del pogrom del 17 marzo: essi sono
stati brutalmente scacciati dalle loro case nelle settimane successive
al giugno 1999. I serbi, i rom, e le altre comunità non albanesi furono
confinati in piccole enclave sparpagliate sul territorio. (Riserve
indiane o peggio, traduco tra me e me). In queste piccole riserve i
serbi stanno lentamente, ma inesorabilmente, scomparendo.

           Di fronte a questo stato di cose a qualcuno potrebbe venire
in mente che un Kosovo indipendente sia la soluzione logica, ma ciò non
farebbe che destabilizzare ulteriormente l'intera regione balcanica,
con rivendicazioni di cambiamento di confini di tutti gli stati: per
l'Europa sarebbe una catastrofe. La creazione di un Kosovo indipendente
sarebbe dal punto di vista internazionale un precedente terribile per
ulteriori separatismi ottenuti con bombe e violenza. L’indipendenza
sarebbe la cosa peggiore anche per gli stessi albanesi e per l’Europa,
ci sarebbe una reazione a catena.

           È necessario sradicare qualsiasi possibilità che si
verifichino di nuovo pogrom e violenze antiserbe e dare la possibilità
a tutti i profughi di ritornare nella provincia. Differire il loro
ritorno per mancanza di sicurezza e libertà di movimento non è più una
scusa plausibile. Per dare effettivamente sicurezza e protezione alle
popolazioni oggi, bisogna far sì che esse possano vivere nelle loro
proprie comunità etniche. Per far questo occorre riorganizzare la
provincia in modo tale da consentire l'autonomia territoriale per i
serbi come per altre comunità etniche che vogliano accettarla (Rom,
Gorani, Bosniaco/mussulmani, ecc.). L'autonomia territoriale non
richiede una divisione del Kosovo, non porta a un cambiamento dei
confini, né al deperimento della multietnicità. Anzi, con la creazione
di condizioni durevoli per la sopravvivenza e il ritorno di serbi e
altri non albanesi, la multietnicità, come valore della civiltà
contemporanea, potrà essere ripristinata e sviluppata in futuro. Ma il
piano di autonomia territoriale incontra forti resistenze. Gli
americani e gli inglesi non vogliono i “cantoni”, tanto meno gli
albanesi - tutti i partiti politici albanesi, da Rugova a Thaqi - che
vedono in esso la minaccia di frantumare il Kosovo.

Alla domanda se le forze europee sostituirebbero quelle dell’Unmik come
in Bosnia, ci risponde che gli albanesi rispettano solo gli americani,
non hanno paura degli europei. Considerando i dati ufficiali sui
profughi (oltre 200.000), gli chiediamo se c’è una possibilità reale di
un loro ritorno e ci risponde che i profughi serbi, soprattutto dopo i
fatti di marzo, sono terrorizzati dall’idea di ritornare nei villaggi e
nelle città senza protezione. Del resto, quell’esigua minoranza (circa
9.000) che negli anni passati aveva osato ritornare è stata rimpiazzata
dal nuovo esodo (circa 4.000) imposto dal pogrom di marzo.

Il consigliere legale del primo ministro ci promette di farci avere un
filmato sulle violenze di marzo,e la nostra intervista si conclude con
una cordiale stretta di mano da parte di questa persona gentile di
animo e di espressione.