Questo è il fondo che compare sulla prima pagina de "La Stampa" di
oggi, a firma di Enzo Bettiza.
Nell'overdose mediatica oltre ogni limite di questi giorni sul Papa,
questo articolo merita di essere citato in quanto spicca per
faziosità e cinismo politico a livelli che forse il solo Bruno Vespa
può sperare di raggiungere. Ma è comunque un articolo utile a mettere
in luce la vera visione che l'ultra-destra cattolica integralista ha
dell'Europa: un'Europa (o meglio un'Eurasia) delle piccole patrie
stile Sacro Romano Impero, con l'unico collante ideologico (oltre
all'ideologia del denaro) costituito dalla religione del Dio
vendicativo, dei Santi guerrieri e della Militia Christi.


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Il Santo Guerriero

Enzo Bettiza

Il ritratto di Karol Wojtyla, che si ricava da tutto ciò che è stato
scritto e detto in questi giorni, merita forse qualche puntino
sulle «i». A me è sembrato nell'insieme un ritratto piuttosto
convenzionale, incompleto, spesso ritoccato, talora adulterato per un
eccesso di calcolate e prudenti simmetrie ideologiche. L'impressione
è che si sia voluta ridimensionare la scomoda grandezza della sua
figura di pontefice politico, ruvido, dirompente, all'occorrenza
guerriero, facendola più simile all'evanescente Spirito Santo che al
Cristo fustigatore del tempio. Dipingendo Giovanni Paolo II di volta
in volta come un mistico lontano dalle competizioni mondane, un
pacifista assoluto, un equanime censore del comunismo e del
capitalismo, perfino come un angelico trasvolatore «no global» fra
più continenti, si è finito per edulcorare il robusto contorno e
significato storico del suo pontificato.

Che è stato un pontificato di rottura e restaurazione postconciliare,
di tensione antitotalitaria, di ardita diplomazia fra le confessioni
monoteiste, di spregiudicato dinamismo ecumenico all'interno della
cristianità e, in particolare, di difesa a oltranza dell'identità
delle piccole nazioni slave dell'altra Europa ove egli stesso era
nato. Appena eletto pontefice, lo slavo Wojtyla ha riorganizzato le
gerarchie della Santa Sede con un senso del comando che lo ha portato
a depotenziare quasi subito la tradizionale e diffidente Curia
italiana. Poi, col piglio di un antico re polacco, si è circondato di
prelati polacchi e mitteleuropei che hanno saputo assisterlo nella
sua iniziale e maggiore operazione storica: la spallata al comunismo
russo nel punto nevralgico in cui esso, cioè nella nativa Polonia,
era più vulnerabile. Egli avviò i ventisette anni di pontificato con
una dichiarazione di guerra. Invitò i connazionali a «spalancare le
porte a Cristo» soggiungendo che «il comunismo è la menzogna
sull'uomo raccontata all'uomo». Quando le porte furono spalancate da
Lech Walesa e da Solidarnosc, a Mosca qualcuno, probabilmente
Andropov, capo del Kgb, capì che quell'ignoto prete dell'Est europeo,
figlio di una ucraina e di un militare polacco, aveva messo alfine in
piedi le «divisioni del Papa» che il beffardo Stalin asseriva di non
vedere da nessuna parte. Non sbagliavano: avevano fiutato il Nemico
emerso dai loro territori imperiali.

Oggi molti sottolineano con calore partecipe il no del Papa, che
trattava i presidenti americani e russi da pari a pari,
all'intervento armato in Iraq. Ma poco, quasi niente, ho potuto
leggere sulla continuazione della lotta di Wojtyla al comunismo nella
sua versione nazificata dagli eredi serbi di Tito. Il Vaticano allora
si distinse, insieme con la Germania e con l'Austria, nel cogliere
l'insostenibilità delle coattive «federazioni» comuniste, nel
riconoscere quindi per primo le nuove sovranità della Slovenia e
della Croazia cattoliche e nell'identificare con chiarezza gli
aggressori e gli aggrediti. Egli fece intendere al mondo che la
politica di pace non va confusa col pacifismo generico e che in casi
di orrida infamia, come Vukovar o Srebrenica, tale politica può e
deve essere perseguita anche con le armi. Le visite in Croazia, in
Slovenia, nella martoriata Sarajevo, gli incontri con i nuovi
governanti croati e la beatificazione del cardinale Stepinac,
sigillarono vistosamente la strategia di protezione data dal Vaticano
wojtyliano alle piccole e rinascenti nazioni danubiane. Non si
dimentichi che quel Papa aveva alle spalle non una Polonia qualunque.
Aveva nei ricordi di famiglia la Polonia di Cracovia, la rispettabile
Polonia austroungarica, dove Lenin si rifugiava dalle persecuzioni
zariste in atto a Pietroburgo e a Varsavia, dove l'ebreo Joseph Roth
era di casa, dove fiorivano i circoli risorgimentali polacchi e anche
serbi e croati. La copertura morale e diplomatica che nei giorni dei
genocidi balcanici egli aveva dato ai cattolici di Lubiana e di
Zagabria, nonché ai musulmani della Bosnia, non proveniva dal nulla:
veniva da una conoscenza per così dire consanguinea del problema.
Altro che Mitterrand o Bush padre.

E' questo l'uomo di Stato e il santo guerriero, parzialmente ignorato
con astute omissioni dagli epitaffi d'occasione, che l'Europa e la
Prima Roma hanno perduto e a cui milioni di europei devono oggi la
libertà e la vita.