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da "IL MANIFESTO" del 9 aprile 2005

KAROL WOJTYLA: Tutte le guerre dell'ultimo papa

di TOMMASO DI FRANCESCO

Appena è terminata la lunga, teatrale liturgia del saluto per l'ultima
volta in terra, in piazza S. Pietro, al papa globale Giovanni Paolo
II, un'altra «liturgia» non smetteva di lavorare, recitando la sua
parte. Migliaia e migliaia di militari hanno continuato a vigilare
sulla cerimonia e in una città blindata che ha visto all'opera agenti
dei servizi segreti di tutto il mondo, tiratori scelti, navi da guerra
allertate nei porti, spazio aereo chiuso pattugliato da bombardieri.
Non era certo l'eco di un temuto attentato al papa, visto che il
seggio è, ancora per pochi giorni, vacante. E' stato invece il segno,
tutto terreno, della reale rappresentazione del mondo nel quale ci è
dato vivere. Era l'ombra imperante della guerra. Così come
inverosimile invece era il recinto che faceva tutti eguali i potenti e
i governi della terra. Mentre le contrapposizioni del mondo, mal
sopite davanti all'essenziale bara in cipresso del papa, erano solo
nascoste dalla scelta del rituale: elencare il potere terreno sulla
base dell'alfabeto.

Quando tra alcuni giorni il conclave annuncerà il «gaudio» del nome di
un altro papa, allora si capirà che Karol Wojtyla è stato davvero
l'ultimo papa. Non certo nel senso della progressione numerica e
temporale. In quello profondo della inimitabilità e irriproducibilità
insieme della sua esperienza e della sua autorità.

Si è detto che questo papa ha fatto crollare il comunismo, i regimi
dell'Est, quello che insomma più correttamente abbiamo chiamato
«socialismo reale». Poco si è riflettuto sul principio d'autorità
derivato al papa proprio dal crollo di quel sistema che, è bene
ribadirlo, è precipitato nel baratro delle sue contraddizioni. Basta
ricordare che nel 1972 gli operai in rivolta in Polonia contro il
«loro» potere socialista a Danzica e Stettino sventolavano ancora
bandiere rosse e cantavano l'Internazionale, poco prima che la polizia
di regime sparasse sulla folla. Il sindacato Solidarnosc e il ruolo
politico della Chiesa nascono da questa sconfitta precedente. E un
pontefice non a caso venuto dall'Est, non poteva non esserne il primo
interlocutore ed essere quindi investito di questa eredità che, con la
caduta del Muro di Berlino prima e la fine dell'Unione sovietica poi,
di fatto cambiava la faccia della terra.

La conquista dell'est. E dei Balcani

Ma l'interrogativo profondo è chiedersi ora come Wojtyla ha speso
subito il bene prezioso dell'autorità derivatagli dalla fine di quel
mondo, proprio interagendo con quel processo. Se vogliamo rispondere
onestamente non possiamo non riconoscere che il papa globale è stato,
nell'occasione, parziale, nazionalista, ossequiente al «Cesare» di
turno, revisionista storico e co-responsabile di secessioni che hanno
alimento guerre sanguinose. E' stato un papa con le mani sporche di
sangue. Come potremmo definire altrimenti il ruolo del Vaticano
all'inizio del disastro dei Balcani nel 1991?

I governi europei uniti avevano deciso alla fine di quell'infausto
anno, di comune accordo, che di fronte alle pericolose secessioni che
si annunciavano in tutto l'est, si sarebbero dovute riconoscere solo
quelle che avvenivano «democraticamente, non in modo unilaterale,
senza il ricorso alla violenza e nel rispetto delle minoranze
interne». Solo dopo pochi giorni la Germania e il Vaticano riconobbero
l'indipendenza dalla Jugoslavia della Slovenia e della Croazia,
nonostante che si fossero autoproclamate indipendenti con la violenza,
nel disprezzo delle minoranze e sulla base dei princìpi etnici della
slovenicità e della croaticità, ben fissati nei primi articoli delle
rispettive costituzioni. Che fine avrebbero fatto in non sloveni -
mentre la Slovenia stato indipendente tagliava la Jugoslavia dal resto
dell'Europa - e in non croati nella cattolicissima Croazia, Wojtyla
non se lo chiese o se se lo chiese pensò ad un nodo facilmente
districabile. Quel nodo intanto veniva «sciolto» con lo scatenarsi di
una guerra nazionalistica da tempo preparata e da tutti, serbi, croati
e musulmani. Mentre ancora esisteva una Federazione jugoslava, con le
sue istituzioni, il suo esercito, il suo governo con tanto di sede
all'Onu. Fu l'innesco della guerra in Bosnia-Erzegovina, lì dove tutte
le etnie erano rappresentate quasi in una piccola Jugoslavia, con il
massacro dell'assedio di Sarajevo, ma anche con la strage di Mostar.
Era tornata la guerra in Europa, per la prima volta dopo la Seconda
guerra mondiale. Certo per responsabilità dei nazionalismi (alimentati
anche dall'esterno) e dei limiti della costituzione jugoslava, ma è
bene sottolineare che non sarebbe stato possibile senza la
deflagrazione dei riconoscimenti internazionali delle indipendenze
autoproclamate sulla base di identità etniche, grazie al ruolo della
Germania forte allora della riunificazione, e al suggello del
rappresentante in terra del dio cattolico, al secolo il polacco Karol
Wojtila. Era così tanto amato dai croati quel papa, quanto era odiato
dai serbi e dai musulmani. Apostolicamente il papa andò a Sarajevo nel
1997 alla fine della guerra ed accadde che, insieme alla curiosità di
una città sostanzialmente laica e moderna che aveva sopportato un
feroce assedio, e alla presenza mal sopportata di tanti cattolici
arrivati per l'occasione, ci fu un tentativo di uccidere il papa - una
potente carica di esplosivo sotto un ponte, qualcosa di più deleterio
degli spari di Ali Agca. Sventato all'ultimo momento grazie alla
scoperta di un complotto, così misterioso che nei mesi successivi
furono uccisi capi dei servizi, vice-ministri, e pezzi del governo di
Sarajevo vennero defenestrati dagli americani e dalla Nato. Eppure -
ecco il punto - il papa, accettando il nuovo principio dell'«ingerenza
umanitaria» aveva dato il suo benestare al bombardamento della Nato
delle postazioni serbe che circondavano Sarajevo ad agosto-settembre
1995. Fu l'ingresso della Nato nei Balcani, la prima trasformazione da
patto militare difensivo ad azione armata offensiva. E invece lo
stesso papa aveva taciuto su Mostar, sui massacri che le
cattolicissime milizie croate compivano a danno dei serbi e dei musulmani.

Fu proprio nell'occasione del viaggio a Sarajevo, alla fine di quella
guerra - ma può mai finire una stagione che riporta la guerra in
Europa - che il papa si domandò se era stato fatto tutto il possibile
per evitare quella guerra. Non poteva rispondersi pubblicamente,
riconoscendo di avere avuto le mani insanguinate. Da quel che
sappiamo, pronunciò solo un enfatico ma significativo: «Che abbiamo
fatto..!».

Una Via Crucis tra i conflitti

Si parla tanto di Via Crucis. E' proprio da allora che Giovanni Paolo
II ha cominciato, solo cominciato, sulla guerra una sorta di road-map
dolorosa, un viatico insieme autocritico da inverare, volta a volta
però, o con il rifiuto secco e netto o con il silenzio assenso - come
era del resto accaduto per la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e
poi, più ambiguamente, per la sanguinosa avventura militare in Somalia
nel 1993-1994. Una Via Crucis, ma restando fedele allo spirito di
conquista delle sue prime iniziative verso l'Est negli anni Novanta. A
partire dalla nomina in Russia di 11 vescovi in regioni dove il
cattolicesimo era a dir poco improbabile, appena venne ammainata sul
Cremino la bandiera rossa, così compromettendo per sempre il rapporto
con la chiesa ortodossa; oppure con il suggello dato al revisionismo
storico, quando beatificò nel 1998 la figura del cardinale Alojs
Stepinac che aveva benedetto il regime nazi-fascista di Ante Pavelic
in Croazia; o ancora, più recentemente nel 2000, quando beatificò
sacerdoti in Slovacchia demonizzando il comunismo, ma semplicemente
tacendo sulle responsabilità della Chiesa che aveva visto il vescovo
Josef Tiso, la massima autorità ecclesiale slovacca negli anni
Quaranta, governare il paese ed allearsi con Hitler - e dei 90mila
ebrei slovacchi non si salvò nessuno.

Una Via Crucis che, da allora in poi, ha portato questo papa ad essere
strenuamente contrario ad ogni guerra o presunta ingerenza umanitaria,
e limpidamente facitore del messaggio della «pace attraverso la pace».
E' accaduto nel 1999 con la guerra «buona», «umanitaria», quella che
ha visto protagonista il centrosinistra mondiale al governo in Europa
e negli Stati uniti con Bill Clinton, scatenare una guerra impari
contro la piccola Jugoslavia. Allora il papa non si limitò a ricordare
che c'era ancora la possibilità di trattare e a insistere che nulla
sarebbe stato risolto ma anzi aggravato. Lanciò una campagna mediatica
per denunciare il sangue degli innocenti ch si stava versando. Non
possiamo dimenticare le prime pagine dell'Osservatore romano
dell'aprile 1999 che denunciavano i sanguinosi «effetti collaterali»
sui civili in Serbia e in Kosovo prodotti dai raid aerei della Nato e
vantati da ineffabili premier occidentali che si sono ben guardati dal
riflettere poi sui risultati drammatici di quella guerra.

Così all'annuncio del conclave capiremo che è morto l'ultimo papa.
L'ultimo capace di passare dalla dimensione trionfale a quella
agonale. Il papa sconfitto che voleva portare l'est e il resto del
mondo nell'ecumene e lo ha invece portato nel mercato. Che lascia un
pianeta più diseguale e misero, più senza speranze di come l'aveva
incontrato. Che si esalta nel suo testamento per la guerra nucleare
evitata con la fine della guerra fredda, mentre ogni stato costruisce
ora la sua atomica. L'ultimo però ad essersi opposto alla guerra di
civiltà contro il mondo arabo scatenata dai neocon americani e
post-moderni con l'avventura della guerra all'Iraq nel 2003 che non è
apparsa al mondo musulmano come guerra di religione solo grazie al no
del papa. Bush ieri l'ha pianto e preventivamente seppellito.