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il manifesto, 28 Ottobre 2005

DUE ANNIVERSARI


Balcani, vuoto a perdere


Dieci anni fa Dayton, sei anni fa Kumanovo dopo i raid Nato. Ora
l'Occidente che obbliga la Bosnia alla multietnicità, vuole per il
Kosovo un'indipendenza monoetnica


MIODRAG LEKIC *


Mentre resta ancora in attesa della risposta degli storici il quesito
se la Jugoslavia sia morta di morte naturale, sia stata assasinata, si
sia suicidata o altri l'abbiano «suicidata», la sua lunga
disintegrazione ed agonia nel 2005 celebra i suoi anniversari. Nella
geopolitica degli anniversari si ricordano infatti questo anno gli
inizi di due «protettorati»: quello ormai decennale in Bosnia
Erzegovina e i sei anni del protettorato sul Kosovo. E' probabilmente
inutile, a questo punto, chiedersi se l'Europa non avrebbe fatto
meglio, nel proprio interesse, a cercare di salvare quell'elemento di
stabilizzazione e integrazione tra i popoli rappresentato dalla
Jugoslavia, invece di trovarsi di fronte una serie di nuovi Stati su
base etnica, a volte pseudo-Stati o protettorati, quale sanguinoso
frutto della «primavera dei popoli ex-jugoslavi».

Nel novembre di dieci anni fa gli accordi di Dayton ponevano fine ai
combattimenti in Bosnia , dopo anni di scontri sanguinosi, che, in una
fase, avevano assunto il carattere di bellum omnium contra omnes.
Caratteristica di un accordo diplomatico, con elementi di un trattato
internazionale e perciò del tutto atipico, fu la pretesa di imporre
anche un modello di sistema costituzionale. E' nata così una complessa
macchina politico-burocratica che conta quattro presidenti, tre primi
ministri, tre parlamenti, più di cento ministri, due eserciti e 14
livelli di governo. Anche se alcuni risultati positivi sono stati
raggiunti, soprattutto per quanto riguarda i profughi (circa il 50% ha
trovato una sistemazione), la macchina statale si presenta come
elefantiaca, costosissima e spesso inefficace. Inoltre, secondo quasi
tutti gli analisti politici, è innegabile che la Bosnia accoglie tre
popolazioni ancor oggi, in gran parte, etnicamente divise tra loro e
la pacificazione è ancor oggi garantita dalla presenza di un
contingente di truppe, attualmente della UE.

Un Alto protettore, non eletto

Nel quadro di sviluppo democratico del paese - institution building -
è stata prevista la figura dell'Alto rappresentante della comunità
internazionale (non eletto), che può licenziare politici locali
(eletti), sospendere o cassare leggi approvate dai Parlamenti (eletti)
e imporre decreti con valore di legge.

Il decennale potrebbe essere un'occasione per fare il punto della
situazione e vedere se non sarebbe forse il caso di proporre nuove
soluzioni equilibrate e che non danneggino nessuno dei gruppi etnici.
Sarebbe forse proficuo rileggere le proposte formulate dalla comunità
internazionale precedentemente a Dayton - piano Cutillero, piano Owen-
Stoltenberg, in entrambi i casi iniziative europee, rifiutate in
circostanze non ancora del tutto chiarite. Secondo Lord Owen, nel suo
libro Odissea balcanica, gli americani avrebbero sabotato il suo piano
per spostare la sede negoziale nella base militare di Dayton, per
attribuirsi - a scopi elettorali - il merito di aver concluso la guerra.

A differenza della Bosnia, che ha istituzioni sui generis che
convivono con forti elementi di protettorato, il Kosovo, a più di sei
anni dalla fine della guerra (giugno 1999) continua a vivere sotto un
classico protettorato internazionale (Unmik/Kfor).

Negli ultimi mesi sono state avanzate varie proposte per una soluzione
definitiva. Dopo anni in cui ci si è trincerati dietro la formula
«prima standard, poi status» che ha garantito un pessimo status quo
della regione, per il Kosovo, che vive in una sorta di «buio
mediatico», si profilano oggi i primi segni di un rinnovato interesse
internazionale. Il 24 ottobre le Nazioni Unite, dopo la discussione al
Consiglio di Sicurezza, hanno deciso di aprire formalmente il
negoziato per definire lo status della provincia.

Prima di entrare nel merito delle possibili soluzioni, a questo punto
vale forse la pena di ricapitolare brevemente come si è giunti
all'attuale situazione.

La guerra, che, alla fine di marzo del 1999, gli strateghi della Nato
avevano previsto di breve durata (3, 4 giorni) si è conclusa dopo 78
giorni di intensi bombardamenti e dopo la sigla a Kumanovo di un
accordo tra forze militari jugoslave e Alleanza atlantica. In Kosovo
il ritiro dell'esercito di Belgrado è stato accompagnato dall'entrata
contemporanea delle forze della Nato e delle milizie dell'Uck.

E' indubbio che, se di «pulizia etnica» degli albanesi non si poteva
parlare prima dell'inizio della guerra, la campagna aerea ha scatenato
rappresaglie dei serbi contro gli albanesi, che naturalmente non
possono essere giustificate con la brutalità dei bombardamenti stessi
(che hanno colpito infrastrutture civili- ospedali, scuole,
acquedotti, ponti, centrali elettriche, ecc., hanno causato la morte
di donne e bambini, facendo uso di armi vietate da molte Convenzioni
internazionali...).

Dopo la «liberazione» del Kosovo, è iniziata una «pulizia etnica» in
senso opposto: il 90% della popolazione non albanese è stata costretta
a lasciare il Kosovo e non ha ancora potuto farvi ritorno, ad onta di
tutte le promesse e le garanzie della «comunità internazionale»;
inoltre i luoghi santi della regione sono stati distrutti (finora 150
chiese e monasteri ortodossi). Si tratta delle testimonianze medievali
del Cristianesimo serbo, culla dell'identità nazionale, oltre che
patrimonio dell'Umanità secondo l'Unesco.

Molti osservatori concordano nel riconoscere che la situazione
economica e dei diritti umani in Kosovo è attualmente per molti versi
peggiore di quanto non fosse sei anni fa. (Su questo tema si veda
l'articolo del generale Fabio Mini, a lungo Comandante Nato in Kosovo,
F.Mini, «Kosovo Roadmap», Limes, 2004/2).

Un trucco gli accordi di Kumanovo?

La definizione dello status finale non potrà non tener conto del
documento che ha concluso la guerra del 1999: la risoluzione 1244 del
Consiglio di Sicurezza dell'Onu del 10 giugno, di cui fanno parte
integranti gli accordi tecnico-militari di Kumanovo. Nei documenti
vengono confermati esplicitamente «sovranità e integrità territoriale
della Repubblica Federale di Jugoslavia» e «una sostanziale autonomia
del Kosovo». Le conclusioni del G8 del 6 maggio 1999, così come
l'accordo stipulato grazie alla mediazione di Ahtisaari e
Chernomyrdin, e accettato dall'Assemblea nazionale serba il 3 giugno,
prevedevano ugualmente l'integrità territoriale della Jugoslavia. La
guerra non avrebbe potuto essere conclusa il 10 giugno senza questo
riconoscimento dell'integrità del paese. Riconoscere ora
l'indipendenza del Kosovo sarebbe come ammettere che si è arrivati
alla «vittoria» della più grande potenza militare della storia contro
un piccolo paese grazie ad un abile trucco diplomatico.

Ma come trovare una soluzione partendo da un documento che attribuisce
de jure la sovranità sul Kosovo alla Jugoslavia (e alla Serbia),
mentre de facto ha trasformato la regione in un protettorato militare
della Nato e sotto amministrazione dell'Unmik-Nato qualsiasi soluzione
credibile, dal punto di vista della legalità internazionale, deve
basarsi sulla risoluzione Onu e può scaturire solo dal dialogo diretto
tra Pristina e Belgrado, sia pur mediato da una presenza
internazionale super partes? Ora che al governo in Serbia sono
politici , considerati filo-occidentali, e che difendono in egual
misura i principi democratici e gli interessi nazionali, si può
sperare che si trovino di fronte leader kosovari che condividano gli
stessi valori. Belgrado ha al contempo la responsabilità di proporre
un modello di reale integrazione democratica per gli albanesi in
Serbia e di porsi come fattore i stabilità regionale. Siccome i
politici serbi si pronunciano per una soluzione che contempli «più
dell'autonomia e meno dell'indipendenza», forse varrebbe la pena di
riprendere gli studi sul modello Alto Adige, che Rugova ha nel
frattempo abbandonato, anche perché forse è sottoposto a forti
pressioni interne. E la «comunità internazionale» potrebbe spiegare
loro che quello con gli altoatesini non sarebbe un paragone offensivo.
Ma conditio sine qua non per la riuscita dei negoziati è il ritorno
dei più di 200.000 nuovi profughi e la ripresa della vita civile,
nelle sue forme più elementari, per tutti i non albanesi. Se la
«comunità internazionale» non è in grado, a dispetto della sua forte
presenza - civile e militare - di garantire una vita «normale» ai
serbi e alle altre etnie, come si può pensare che queste potranno
rientrare in Kosovo e godervi dei diritti umani, una volta che la Kfor
e l'Unmik avranno lasciato la regione? Dovrebbe essere chiaro che se
il Kosovo, per la prima volta nella storia, avrà raggiunto
l'indipendenza, altrettanto per la prima volta quella regione sarà
«etnicamente pulita».

In termini realistici il processo di definizione dello status dovrà
necessariamente tener conto di tre elementi della politica
internazionale: gli interessi nazionali delle parti coinvolte, i
rapporti di forza e le regole. Ma, concretamente, restano molte
incognite: chi, ad esempio, avrà l'iniziativa da un punto di vista
internazionale? Gli Stati Uniti, l'Unione europea o l'Onu? O, per una
volta, ci sarà un vera trattativa diretta tra le parti, senza
soluzioni imposte dall'esterno?

La lobby dell'indipendenza da pulizia etnica

Mentre, contemporaneamente all'avvio del processo, permangono le
ambiguità dei fattori internazionali, è ormai evidente, in questo
2005, un forte impegno di gruppi informali, con forti connotazioni
lobbystico-mediatiche, in favore dell'indipendenza del Kosovo

Il 25 gennaio di quest'anno l'International crisis group, di cui fanno
parte - tra gli altri - Zbigniew Brzezinski, Marti Ahtisaari, il
generale Wesley Clark, George Soros ed Emma Bonino, ha presentato un
documento che prevede l'indipendenza del Kosovo. Un altro gruppo,
l'International commission on the Balkans, presieduto dall'on.
Giuliano Amato, e finanziata da quattro Fondazioni private, è
arrivato, in aprile, ad un'analoga proposta di indipendenza, sia pur
da raggiungere in quattro fasi. Val la pena di sottolineare che, in
occasione della presentazione alla Farnesina del piano Amato (26
aprile 2005), i responsabili del Ministero e lo stesso ministro, l'on.
Gianfranco Fini, hanno mostrato un'estrema prudenza.

Va riconosciuto all'on. Amato il merito di aver fornito un quadro
realistico, ed impietoso, dell'attuale situazione dei Balcani, e
soprattutto in Bosnia e Kosovo. E' inoltre certo convincente la sua
proposta di integrazione dell'intera regione nella Ue in tempi
relativamente brevi. Ma in questo caso si tratta di passare dalla
proposta ai fatti, e per questo è necessario avere una chiara visione
dell'Europa del futuro.

E' certo molto bella l'immagine dell'on Amato, secondo cui il 2014, in
cui si commemorerà il centenario dell'attentato di Sarajevo e
dell'inizio della follia della prima guerra mondiale, dovrebbe vedere
l'entrata di tutti i paesi balcanici, finalmente in pace, nella Ue, ed
aprire una fase di concordia e prosperità, una sorta di belle époque
ritrovata.

Ma, nei Balcani, la storia a volte, nelle sue componenti interne ed
esterne, torna come l'eroe di Dostovjeski, Raskolnikov, sul luogo del
delitto. Tutti gli attori della tragedia sono ancora sul luogo,
speriamo che il delitto non si compia.



* Ex-ambasciatore jugoslavo in Italia, 1996-1999 e 2001-2003,
attualmente professore a contratto presso la LUISS e l' Università di
Roma "La Sapienza"