Verso la III Guerra Mondiale

1. Gli Stati Uniti contro la Cina. Strategie, pericoli e alleanze
nello scontro dei giganti del XXI secolo (R.D. Kaplan)

2. A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché:
ESCALATION - Anatomia della guerra infinita


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Corriere della Sera, 19/11/2005

Storia della III guerra mondiale

di Robert D. Kaplan *

Gli Stati Uniti contro la Cina. Strategie, pericoli e alleanze nello
scontro dei giganti del XXI secolo

Geopolitica Bush in missione in Asia. Il Vietnam chiede intese
militari a Washington. Lo stato maggiore cinese studia la «guerra
senza limiti». La competizione economica tra Pechino e gli Usa è già
in corso. L'attrito militare è oggi pressione, domani possibile
conflitto nucleare


Fino a oggi non v'è stato esercito di mare o di terra che costituisse
una minaccia per gli Stati Uniti. La situazione è destinata a cambiare
rapidamente. Nei decenni a venire la Cina giocherà un'estenuante
partita con gli Usa nel Pacifico, favorita non solo dalle sue coste
sterminate ma anche da un sistema di basi che si estende fin dentro
l'Asia centrale.Come possono gli Stati Uniti prepararsi ad affrontare
la sfida?Il sistema di alleanze della seconda metà del XX secolo è
finito. La guerra del Kosovo del 1999 ha messo in luce drammatiche
spaccature all'interno della Nato. L'Alleanza è definitivamente
crollata con l'invasione americana dell'Afghanistan, in seguito alla
quale gli eserciti europei hanno fatto poco più che pattugliare zone
già pacificate da soldati e marines statunitensi. Oggi la Nato è uno
strumento per espandere le missioni di addestramento bilaterali tra
Stati Uniti ed ex repubbliche comuniste: con i marines in Bulgaria e
Romania, la marina in Albania, l'esercito in Polonia e Repubblica
Ceca, le Forze Speciali in Georgia. Un suo equivalente nell'Oceano
Pacifico esiste già: è il Comando Usa per il Pacifico, noto come Pacom.

I suoi capi si rendono conto di ciò che sfugge a molti politici e
professionisti dell'informazione: il centro di gravità delle
preoccupazioni strategiche americane è già il Pacifico, non il Medio
Oriente. Il raggio di influenza del Pacom include metà della
superficie e più di metà delle economie mondiali. I sei maggiori
eserciti del mondo, due dei quali (quello americano e quello cinese)
si stanno modernizzando più rapidamente di tutti gli altri, operano
all'interno della sua sfera di controllo. «Imbarcarsi in una guerra
con la Cina è semplice —dice Michael Vickers, del Center for Strategic
and Budgetari Assessments di Washington —.

Il dilemma è: come uscirne?». Un analista interno al Pentagono mi ha
risposto: «Per porre termine a un conflitto con i cinesi dovremo
ridurre in maniera radicale la loro capacità militare, minacciando le
loro fonti di energia e la presa sul potere del Partito Comunista.
Dopo, il mondo non sarà più lo stesso. È una strada molto pericolosa».
Nei prossimi decenni la Cina destinerà all'esercito risorse sempre
maggiori. L'unico realistico obiettivo degli Stati Uniti potrebbe
essere incoraggiarla a investire in misure difensive e non offensive.
Impegno che richiederà particolare cura perché, a differenza della
vecchia Unione Sovietica, la Cina detiene tanto il potere morbido
quanto quello duro. Il mix cinese di autoritarismo tradizionale ed
economia di mercato esercita un esteso fascino culturale in tutta
l'Asia e non solo. La democrazia risulta attraente laddove la tirannia
sia stata un'esperienza odiosa e fallimentare, come in Ucraina e
Zimbabwe. Il mondo, però, è pieno di aree grigie, come la Giordania e
la Malaysia, dove la tirannia ha garantito stabilità e crescita.
Prendiamo Singapore.

La mescolanza di democrazia e autoritarismo l'hanno resa invisa agli
idealisti di Washington ma nel Pacifico Singapore offre la sola base
non americana dove i mezzi nucleari Usa possano essere revisionati; il
suo contributo alla caccia ai terroristi islamici nell'arcipelago
indonesiano è stato pari se non superiore a quello offerto altrove dai
maggiori alleati occidentali dell'America. Anche la politica richiede
un riposizionamento in favore del Pacifico: le attuali tensioni tra
Stati Uniti ed Europa impediscono l'integrazione militare, mentre gli
alleati del Pacifico, notoriamente Giappone e Australia, auspicano un
maggiore coinvolgimento militare al fianco degli Usa, per contrastare
l'avanzata della marina cinese. Al momento le sfide poste
dall'emergere della Cina possono apparire esigue. Gli Stati Uniti
dispiegano 24 delle 34 portaerei di tutto il mondo; i cinesi non ne
hanno neanche una.

Eppure, all'inizio della guerra del Peloponneso, che durò ventisette
anni, Atene disponeva di un notevole vantaggio rispetto a Sparta, che
non aveva una flotta. Alla fine fu Sparta a vincere. La Cina si è
lanciata in ingenti spese militari ma ancora per qualche decennio la
sua marina e la sua aviazione non raggiungeranno i livelli
statunitensi. Ecco perché i cinesi non hanno intenzione di fare agli
americani il favore di impegnarsi in battaglie convenzionali, come
quelle combattute nell'Oceano Pacifico durante la Seconda Guerra
Mondiale. I cinesi useranno piuttosto un approccio asimmetrico, come
fanno oggi i terroristi. Con un avanzato sistema missilistico i cinesi
potrebbero lanciare centinaia di missili su Taiwan prima che gli
americani riescano a raggiungere l'isola per difenderla. Una tale
capacità, unita a una nuova flotta di sottomarini (destinata a
superare presto quella Usa, se non in qualità, almeno in dimensioni),
potrebbe bastare ai cinesi per costringere altri Paesi a negare alle
navi americane l'accesso ai propri porti. C'è poi la coercizione
ambigua: pensiamo a una serie di ciber-attacchi anonimi alla rete
elettrica di Taiwan finalizzati a ridurre gradualmente la popolazione
allo stremo. Non è fantascienza; i cinesi hanno investito molto
nell'addestramento e nelle tecnologie da guerra cibernetica. Il fatto
che la Cina non sia una democrazia non significa che i cinesi non
siano padroni nella manipolazione psicologica di elettorati
democratici.Quale dovrebbe essere la risposta militare degli Stati
Uniti a sviluppi di questo tipo?

La «non convenzionalità».La Base aerea Andersen, sulla punta
settentrionale di Guam, rappresenta il futuro della strategia Usa nel
Pacifico. È la piattaforma di lancio più potente del mondo. Guam, che
ospita anche una divisione sottomarina e una base navale in
espansione, è importante per la posizione che occupa. Dall'isola è
possibile coprire quasi tutta l'area di responsabilità del Pacom.
Volare in Corea del Nord dalla costa occidentale degli Stati Uniti
richiede tredici ore; da Guam ne occorrono quattro. «Non è come
Okinawa — spiega il Generale Tennis Larsen —. Questo è suolo americano
in mezzo al Pacifico. Guam è territorio Usa». Durante la Guerra Fredda
la marina aveva una specifica infrastruttura pensata per contrastare
una specifica minaccia: la guerra con l'Unione Sovietica. Oggi la
minaccia è multipla e incerta: dobbiamo essere in qualsiasi momento
pronti a combattere una guerra convenzionale contro la Corea del Nord
o una controguerriglia non convenzionale contro un'isola-Stato
canaglia spalleggiata dalla Cina.

Secondo l'esperto di Asia Mark Helprin, mentre gli Usa si impegnano a
democratizzare il Medio Oriente, sostenendo solo gli Stati i cui
sistemi interni siano simili al loro, la Cina si prepara a mietere i
frutti di una politica che bada, amoralmente, ai propri interessi —
come fecero gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Dobbiamo anche
renderci conto che nei prossimi anni e decenni la distanza morale tra
Europa e Cina è destinata a ridursi in maniera considerevole,
soprattutto nel caso in cui l'autoritarismo cinese accetti delle
limitazioni e l'Unione Europea in continua espansione diventi un
superstato «imperfettamente democratico», governato dai funzionari di
Bruxelles. Anche la Russia sta procedendo in una direzione decisamente
non democratica: il presidente Vladimir Putin ha risposto al sostegno
Usa alla democrazia in Ucraina, con l'assenso a «massicce»
esercitazioni aeree e navali congiunte con i cinesi senza precedenti.
La situazione potrebbe portare a una Nato sostanzialmente nuova, con
un'«armada » globale schierata sui Sette Mari. A un'Europa che tenta
di evitare i conflitti e ridurre la geopolitica a una serie di
negoziati e appianamenti, ben si adatterebbe questa rivalutazione del
potere sul mare. Un potere costitutivamente meno minaccioso di quello
terrestre, da sempre strumento privilegiato della Realpolitik. Man
mano che l'influenza economica dell'Ue si espanderà nel globo,
l'Europa comprenderà, al pari degli Usa nel XIX secolo e della Cina
oggi, di dover andare per mare per proteggere i propri interessi.

La Nato è debole. Per riconquistare il suo significato politico, dovrà
trasformarsi in un'alleanza militare della cui capacità di attacco
immediato nessuno possa dubitare. Questa era la sua reputazione ai
tempi della Guerra Fredda, così rinomata che i sovietici non vollero
mai testarla. La sfida posta dall'esercito cinese è già una realtà per
ufficiali e marinai Usa. La guerra sui mari è cerebrale. La minaccia,
all'orizzonte; il nemico è invisibile e tutto si riduce a un calcolo
matematico. L'obiettivo diventa ingannare più che attaccare, lasciare
la prima mossa all'avversario. Il Pacifico nasconde minacce di ogni
tipo. Benvenuti nel futuro. Parlando del Golfo Persico e dell'Oceano
Pacifico, un alto ufficiale ha detto: «La marina dovrebbe dedicarsi
meno a quella piccola pozzanghera di fango salato e pensare di più al
mare».


=== 2 ===

http://www.deriveapprodi.org/estesa.php?id=145&stato=novita

A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché
Escalation
Anatomia della guerra infinita
pagg. 288
€ 13.5
ISBN 88-88738-65-7

Il libro

Dagli anni Novanta la guerra è ricomparsa nelle nostre vite. Gli anni
che avrebbero dovuto celebrare il trionfo della pace sotto le insegne
della democrazia e del libero mercato hanno visto i bombardieri in
azione anche in Europa. Oggi siamo a una tremenda accelerazione:
Afghanistan 2001, Iraq 2003. E domani? Iran, Siria, Corea del Nord?
Quali sono i motivi di questa escalation? E quali le conseguenze?
Questo libro cerca di dire come stanno realmente le cose, fornendo un
quadro dei presupposti geopolitici ed economici della «guerra
infinita» e mettendo in risalto le sue devastanti ricadute sui sistemi
democratici degli stessi paesi che la propagano, a cominciare dagli
Stati Uniti d'America. Ne viene fuori un quadro molto distante dalle
«verità» dell'informazione ufficiale. Come più volte accadde nel
secolo scorso, anche in questo la crisi del capitalismo riporta la
guerra all'ordine del giorno. Sempre, in tempo di guerra, i margini
della critica si assottigliano. Il dominio delle armi porta con sé
quello sulle menti e sui discorsi. In un clima in cui è difficile
discostarsi dal coro, questo libro vuole essere un atto di resistenza
contro le mistificazioni.

A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché

Alberto Burgio insegna Storia della filosofia a Bologna. Con
DeriveApprodi ha pubblicato Modernità del conflitto. Saggio sulla
critica marxiana del socialismo (1999) e Guerra. Scenari della nuova
«grande trasformazione» (2004).
Manlio Dinucci, giornalista e geografo, è autore de Il sistema globale
(2004), Geostoria dell'Africa (2000) e altri testi editi dalla
Zanichelli. Tra i suoi ultimi libri Il potere nucleare (Fazi, 2003). È
stato direttore esecutivo per l'Italia della International Physicians
for the Prevention of Nuclear War, che ha vinto nel 1985 il premio
Nobel per la pace.
Vladimiro Giacché si è laureato e perfezionato in Filosofia alla
Scuola Normale di Pisa. È autore di opere e saggi di argomento
filosofico ed economico. Fa parte della redazione de «la
Contraddizione» e del comitato editoriale e di programmazione
scientifica di «Proteo».

un assaggio...

«L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la
comunicazione, mi precipita addosso. A me che ho rischiato tutto,
sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti
potessero raggiungere l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il
nostro lavoro testimoni che cosa è diventato quel paese davvero con la
guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni». Così ha scritto
l'inviata del «manifesto» Giuliana Sgrena dopo la sua drammatica
esperienza in Iraq. Questo è l'Iraq «restituito alla democrazia». Un
inferno: decine di migliaia di civili trucidati, bambini mutilati,
donne stuprate. Un paese distrutto. Stragi quotidiane, soldati
terrorizzati che esorcizzano la paura sparando all'impazzata tra la
folla nei mercati e per strada. Soldati incaricati di search and
destroy, che irrompono armati nelle scuole e negli ospedali a caccia
di «terroristi» e massacrano chi càpita, anziani, donne, bambini. È
l'«esportazione della democrazia», nel nome della quale Bush e i suoi
consiglieri neo-conservatori hanno messo a ferro e fuoco il Medio
Oriente e fatto strame del diritto internazionale. Rientrano in tale
quadro le «elezioni» irachene, attorno alle quali si è levato, anche
in Italia, un coro di elogi. Pochi hanno mostrato, non diciamo
l'onestà intellettuale, ma almeno la ragionevolezza di rimarcare che
queste «elezioni» si sono tenute in un paese sotto occupazione
militare e secondo le regole dettate da Washington. In Italia si sono
uniti al coro non soltanto (com'è naturale) gli esponenti della
destra, ma anche autorevoli esponenti della sinistra, dichiarandosi
addirittura «affascinati» dall'ideologia neoconservatrice. Di questa
guerra tutto il mondo parla, da quando Baghdad fu sommersa da una
pioggia di bombe, il 19 marzo del 2003. Parla, ma per dire che cosa?
Le persone di buona volontà chiedono pace. Altri giustificano, nel
nome della propria civiltà superiore. Altri ancora sospendono il
giudizio, distribuendo ragioni e torti con una equidistanza degna di
miglior causa. Questo libro non è equidistante. Parte da una premessa
ben chiara, che a noi pare fondamentale. Questa guerra l'ha voluta
l'amministrazione Bush, senza alcuna giustificazione. La menzogna
delle «armi di distruzione di massa» è stata una messinscena a
beneficio dei creduloni. La storia del «terrorismo internazionale» e
dello «scontro di civiltà» è una diceria che strumentalizza misteri
(chi volle l'11 settembre?) per legittimare nuove crociate. Questa è
una guerra statunitense, combattuta nell'epicentro della crisi
mondiale (il «grande Medio Oriente»), ma scatenata per la posta più
alta, la leadership nei confronti degli altri poli di potenza: l'oggi
«alleata» Unione europea, quindi i nemici di sempre, a cominciare da
Cina e Russia. Quando la si dice «infinita», non si impiegano
iperboli: si dà conto di un preciso programma.

---
Ancora una recensione del libro di Burgio, Dinucci, Giacchè.
NB. Una recensione è apparsa anche sull'ultimo numero de L'Ernesto.
---

Guantanamo e industria bellica. Escalation, un libro sulla politica di
potenza Usa


Dalla recessione all'intervento militare in Afghanistan e in Iraq c'è
un filo rosso che unisce politica economica interna e politica estera
degli Usa. La guerra diventa così lo strumento per uscire dalla crisi
economica e per affermare l'egemonia mondiale di Washington. E' questa
la tesi che attraversa i tre saggi che compongono il volume

ENZO MODUGNO

Il manifesto, 7/6/2005

Piers Brendon (Gli Anni Trenta, Carocci, euro 18,60), storico a
Cambridge e responsabile dei Churchill Archives, interpreta come
conseguenza diretta della crisi del `29 i principali avvenimenti del
decennio che si concluse con la seconda guerra mondiale, e mostra cosa
avvenne quando le difficoltà materiali della crisi capitalistica si
combinarono con il "fanatismo ideologico di leader disposti a tutto".
Se usassimo lo stesso criterio oggi, dovremmo considerare gli
avvenimenti recenti come la conseguenza diretta della crisi economica
Usa del 2000-01, la più grave dopo il `29, che torna a combinarsi con
nuovi fanatismi ideologici di leader - così sembra - disposti a tutto.
Quali siano queste leggi del capitalismo che spingono alla guerra, e
perché si combinino con questi leader, è appunto l'argomento del libro
di Piers Brendon. In un paio di capitoli si ricostruisce la trama
della micidiale politica economica che permise alla Germania nazista
di superare per prima la grande depressione seguita al `29. Nel 1934
il ministro delle Finanze Schacht diede impulso al rilancio
dell'economia finanziando il riarmo con le cambiali ?Mefo?, note di
credito accettate dalle banche e dai fornitori del governo, che
garantivano un interesse del 4% ed erano rimborsabili nel 1939. Ma nel
1938 Hitler diede il via alla seconda guerra mondiale evitando i
rimborsi che avrebbero fatto crollare l'economia tedesca. La guerra di
rapina avrebbe pareggiato i conti.

Dalla vicenda esposta da Brendon emergono due temi da riconsiderare.

Il nesso tra debito e guerra, perché la guerra ancora oggi costituisce
un mezzo per rimandare il pagamento del debito che gli Usa non hanno
intenzione di pagare. E, soprattutto, il nesso tra militarismo e
ripresa economica. L'economia della Germania nazista infatti si era
ripresa col riarmo, cioè prima che la guerra di rapina assicurasse le
risorse, i mercati e i campi di investimento.

Lo stimolo militare

Dopo sessant'anni questo uso della leva militare è ormai pratica
costante delle amministrazioni Usa. Non più semplicemente a sostegno
delle dinamiche economiche dell'espansione imperialistica, ma in
sostituzione di esse: è questo il tema rilevante del saggio
"L'economia della guerra infinita" di Vladimiro Giacché, nel volume
collettivo Escalation (DeriveApprodi, pp. 288, ?13,50), che contiene
anche i contributi di Manlio Dinucci e Alberto Burgio.

Il saggio di Giacché può essere accostato al libro di Brendon perché
anche in questo testo si interpreta la guerra come conseguenza diretta
di una grave crisi economica, quella manifestatasi negli Stati uniti
con lo scoppio della bolla speculativa del marzo 2000 e con la
recessione iniziata nel marzo 2001, dunque ben prima dell'11
settembre. La guerra - si sostiene - è stata usata consapevolmente
come la "continuazione dell'economia con altri mezzi". Clamoroso
a questo proposito il report caricato sul sito di Morgan Stanley alle
8 dell'11 settembre dall'ufficio delle Twin Towers: "Solo un atto di
guerra può salvare l'economia degli Stati uniti e il dollaro". Appena
un'ora prima che "l'atto di guerra" si verificasse realmente.

Giacché ritiene che si stia compiendo una "delicata transizione" verso
un sempre più esplicito uso economico del militarismo. Superando
dunque le diffuse interpretazioni della guerra o solo politica o solo
come "guerra di rapina", l'autore recupera la complessità dell'analisi
elaborata nei momenti alti dal movimento operaio. La "formula" della
sopravvivenza del capitalismo individuava due momenti: 1) il riarmo
continuo, giustificato da apocalittiche minacce di nemici esterni, per
attutire la tendenza permanente alla crisi economica col sostegno al
settore privato mediante la spesa pubblica militare e 2) con le armi
così prodotte, la guerra di rapina e il dominio su risorse, mercati,
campi d'investimento.

Ogni semplificazione di questa micidiale sinergia ha sempre prodotto
fraintendimenti. La guerra dunque non solo per aprire mercati, per il
controllo delle materie prime, per l'egemonia del dollaro, per imporre
il non pagamento del proprio deficit, ma anche e ormai soprattutto
come strumento per rimettere in moto l'economia: l'escalation militare
Usa ha questa impronta inconfondibile di "stimolo della congiuntura".
"La guerra fa bene al Pil", ha titolato "il Sole 24 Ore" (20 febbraio
2002).

Il saggio contiene un'accurata documentazione della stretta relazione
tra interventi militari e ripresa dell'economia Usa a partire dalla
seconda guerra mondiale. Ai dati forniti da Giuseppe Guarino (I soldi
della guerra) e da Mario Pianta su questo giornale, che ha annunciato
l'edizione italiana di War Inc di Seymour Melman, si aggiungono ora i
dati di questo volume: 750 miliardi di dollari calcolando tutte le
voci della spesa militare Usa. Più i recentissimi 82 miliardi votati
all'unanimità dal Congresso. Quindi col moltiplicatore al 2,5 la spesa
militare assicurerebbe un quinto del Pil degli Stati uniti. Livelli da
guerra fredda: ma l'Unione Sovietica non c'è più e gli Stati uniti
stanno ora cercando, provocando, costruendo nuovi nemici per
giustificare l'ininterrotto riarmo. E siccome anche Giacché ritiene,
con Augusto Graziani, che "i conflitti prolungati esercitano un
influsso sull'attività economica di tutti i paesi che, direttamente o
indirettamente, vi sono coinvolti", ritiene anche che il prolungamento
del conflitto in Iraq vada interpretato "non soltanto come un
infortunio, ma come una scelta strategica precisa" delle classi
dirigenti Usa. Anzi, hanno già deciso che la "guerra al terrorismo"
durerà trent'anni e questo è solo il suo inizio: sostituirà la guerra
fredda proprio per assicurare un altrettanto prolungato,
provvidenziale "influsso sull'attività economica" statunitense. Si
spiegherebbero così il "millenarismo" dei neoconservatori e le
dichiarazioni di Rumsfeld: "Non abbiamo un metro per stabilire se
stiamo vincendo o perdendo la guerra al terrorismo". E di Bush:
"Questa guerra non può essere vinta". Secondo Giacché la "verità" di
queste affermazioni sta nello slogan con cui il presidente Usa ha
vinto le elezioni: "Difenderò il nostro tenore di vita ad ogni costo".

Nel saggio di apertura dello stesso volume, intitolato "Geopolitica di
una `guerra globale'", Manlio Dinucci ripercorre l'escalation militare
Usa dopo il biennio 1989-91, rintracciando le strategie
espansionistiche degli Stati uniti tanto nei documenti di
pianificazione strategica resi pubblici, quanto nella ricostruzione
delle guerre Usa e nella crescita delle spese militari, con la
documentazione probabilmente più completa disponibile in Italia su
questo argomento. Così come è puntuale il resoconto di quanto avvenne
l'11 settembre, delle incongruenze nel comportamento del governo Usa e
nella ricostruzione ufficiale degli eventi.

Nel terzo saggio, "La guerra contro i diritti", Alberto Burgio
individua un altro aspetto dell'escalation nella sempre più sfuggente
distinzione tra "dentro" e "fuori": il ripudio del diritto
internazionale ha il suo inevitabile doppio nella soppressione dei
diritti civili all'interno.

Burgio ravvisa nell'uso della tortura, da Mazar i Sharif a Guantanamo
e ad Abu Ghraib, non soltanto lo smascheramento della retorica della
"guerra per la democrazia e per i diritti", ma una pratica che gli Usa
sperimentano da tempo anche nei propri istituti penitenziari.

Più in generale, in parallelo alla transizione - indicata da Giacché -
da "impero informale" attuato mediante il dominio economico, ad
"impero formale" fondato sul dominio militare, c'è nel saggio di
Burgio la descrizione dei principali mutamenti giuridici che hanno
determinato il passaggio da "stato sociale" a "stato penale".
Militarismo ed economia di guerra si riflettono quindi, sul piano
interno, in regressione costituzionale e accentramento patologico del
comando. Insomma un volume che, nelle sue tre parti, affronta la
complessità dell'"impero formale".

Ritorno agli albori

E' da segnalare quanto importante sia l'analisi della funzione
economica del militarismo, così spesso trascurata, per interpretare le
dinamiche profonde del capitalismo Usa e della politica estera al
servizio della sua sopravvivenza. Dopo oltre mezzo secolo di
sospensione dello scontro armato tra imperialismi ormai sappiamo che i
profitti esterni, indispensabili per superare le crisi economiche, non
vengono soltanto dalle guerre di rapina - non è rimasto molto - ma
sempre più spesso "artificialmente" dall'indebitamento dello stato
verso il settore privato con la spesa pubblica, che col neoliberismo è
diventata sempre più militare.

D'altra parte già agli albori del capitalismo le combattive
città-stato italiane del Rinascimento riuscirono a trasformare le
spese militari in entrate sperimentando la possibilità di
commercializzare la guerra. Se i cittadini si tassavano per pagare i
mercenari, questi spendendo le paghe incrementavano gli scambi di
mercato e quindi gli introiti fiscali che permettevano nuova spesa
militare in un sistema che, secondo Giovanni Arrighi, almeno in parte
si autoalimentava.

Il militarismo dunque è servito alla sopravvivenza del capitalismo fin
dagli inizi e lo accompagnerà "fino alla sua morte beata" in una
spirale di crisi economiche, debito - spese militari e guerra -
maggior debito. La storia continua a mostrarci le tragedie che si
producono in questi casi.